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  • Tag: Zelda Fitzgerald

    • Cocktail letterari, tra libri e bollicine

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 14, 2015

       

      tequila

      Avvertenza: un numero considerevole di cocktail è stato consumato per scrivere questo post. Quali sacrifici non si fanno in nome della ricerca…

      Image courtesy of http://bit.ly/1LIAEzc

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      Siete tutti in vacanza? Siete tutti al mare, come sembrerebbe dal flusso di foto vacanziere su Instagram? Su, ditemi di no, per favore.

      Da queste parti, purtroppo, le tanto agognate vacanze quest’anno non sembrano altro che un sogno lontano, difficilmente destinato a concretizzarsi. E per me estate è sinonimo di temperature tropicali, sale sulla pelle, capelli spettinati, quella sabbia bianchissima e ostinata che sembra resistere a ogni tentativo di lavaggio, acque verdazzurre, e un Mojito al tramonto.

      In assenza di tutti  – o quasi – gli elementi citati, mi consolo con un paio di cocktail.. letterari. Ma andiamo con ordine.

      La parola “cocktail” sembra aver fatto la sua comparsa per la prima volta nel 1798 nell’edizione del 20 marzo di un giornale satirico, l’ormai defunto The Morning Post and Gazetteer, nell’ambito di una curiosa vicenda: il proprietario della taverna Axe & Gate, tra Downing e Whitehall, vince la lotteria e, estatico, cancella tutti i debiti dei santi bevitori frequentatori della sua bettola. Quattro giorni dopo, il giornale rilascia un elenco di tutti i bevitori i cui debiti erano stati cancellati dalla fortuita vincita alla lotteria, e, sorpresa sorpresa, molti erano noti uomini politici, tra cui William Pitt, il più giovane primo ministro britannico, che avrebbe dovuto pagare due bicchierini di un bibitone chiamato “l’huile de Venus”, uno di “perfeit amour” e tre quarti del (molto meno francese) “cock-tail, volgarmente chiamato ginger”.

      L’origine del “cock-tail” è in effetti molto poco romantica: il termine veniva usato per indicare quei cavalli la cui coda mozzata indicava che non erano purosangue, ma di razza mista. Un rimedio molto comune nei manuali di veterinaria dell’epoca era curare le coliche dei cavalli con un mix di acqua, avena, gin e zenzero; quindi, la prossima volta che la gastrite vi fa piegare in due, o la colite non vi lascia tregua, dimenticatevi Malox, Gaviscon&co: un G&T e passa la paura.

      Il termine “cocktail” viene battezzato con la pubblicazione della prima guida per bartender, nel 1862, ad opera di Jerry Thomas, principal bar tender al Metropolitan Hotel di New York, che nell’introduzione si vanta di fornire chiare indicazioni su come preparare drink mischiando tutte le bevande conosciute negli Stati Uniti, insieme a quelle britanniche, francesi, tedesche, italiane, russe e spagnole, dal punch al julep (giulebbe), creando combinazioni infinite. Ambizioso, il nostro Mr Thomas! Se siete curiosi, trovate la sua guida integrale qui.

      Agli inizi del XX secolo, i cocktail smettono di avere il ruolo di mere comparse e assurgono a protagonisti, anche grazie alla diffusione dei cocktail party negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale: c’è bisogno di dimenticare gli orrori della guerra, di leggerezza, di ricominciare a ridere e a celebrare la vita. Quindi via libera alle spalle scoperte, ai tagli di capelli à la gamine delle flapper, alla musica degli anni ruggenti, all’alcool che scorre a fiumi sfidando il Volstead Act, che introduce il proibizionismo negli States (dal 1919 al 1933).

      Lentamente, ma inesorabilmente, i cocktail fanno la loro comparsa anche sulla scena letteraria, dominata in precedenza dal nettare di Bacco e qualche altro liquore. Negli scrittori russi – Tolstoy e Checkov in testa – i personaggi indulgono spesso e volentieri nei piaceri dell’alcool, bevendo vino – e vodka, da – come se non ci fosse un domani.

      Gli scrittori americani si distinguono nella promozione di bollicine&co.: è difficile non associare Fitzgerald al gin, che sosteneva di preferire agli altri alcolici perché non faceva puzzare l’alito (Zelda avrà ringraziato). A Fitzgerald spetta anche l’invenzione del verbo “to cocktail”, coniugato per la prima volta in una lettera a Blanche Knopf, moglie dell’editore Alfred A. Knopf. E chi altri avrebbe potuto creare un tale neologismo, introducendo nel linguaggio un assaggio degli eccessi dei Roarin’Twenties, se non lo scrittore che ne è la perfetta incarnazione, dandy, playboy, brillante, ammirato e sregolato?

      Present: I cocktail, thou cocktail, we cocktail, you cocktail, they cocktail.

      Imperfect: I was cocktailing.

      Perfect or past definite: I cocktailed.

      Past perfect: I have cocktailed.

      Conditional: I might have cocktailed.

      Pluperfect: I had cocktailed.

      Subjunctive: I would have cocktailed.

      Voluntary subjunctive: I should have cocktailed.

      Preterit: I did cocktail.

      (Fonte: Open Culture)

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      Faulkner, da uomo del Sud tutto d’un pezzo, aveva una marcata preferenza per il mint julep (menta, ghiaccio, zucchero e bourbon).

      Il cocktail preferito di Hemingway era invece il mojito (anche il mio, Ernest, anche il mio. Vedi che sarei stata una perfetta quinta moglie?), un mix di zucchero di canna, rum e menta, che preferiva consumare a La Bodeguita del Medio, ormai iconico ristorante tipico cubano, arrivando da una lunga giornata di pesca al marlin, il bestione protagonista de Il vecchio e il mare. Ernest non disprezzava nemmeno il daiquiri (lime, rum bianco, sciroppo di zucchero, ghiaccio tritato); sulla parete de La Bodeguita campeggia una famosa frase di Hemingway, Mi mojito en la Bodeguita, mi daiquiri en La Floridita (storico ristorante di pesce e cocktail bar dell’Avana vecchia). Pare che il vecchio Ernest si cimentasse anche nella creazione di nuovi bibitoni, come il Papa doble (un daiquiri fatto col rum, succo di lime, maraschino e succo di pompelmo) e Morte nel pomeriggio (nome più che azzeccato per un mix letale di champagne e assenzio). Tuttavia, le abitudini alcoliche di Hemingway sono così leggendarie che è difficile delimitare dove finisca la realtà e inizi la mitologia: altre fonti sostengono che, essendo diabetico, lo scrittore preferisse drink senza zucchero e non disdegnasse un martini dry.

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      Il Martini è uno dei protagonisti assoluti della scena letteraria, dalla sua comparsa in Casino Royale di Ian Fleming nel 1953: James Bond lo preferisce molto forte, e la sua ricetta personale prevede tre unità di Gordon’s, una di vodka, mezza di Kina Lillet, una scorzetta di limone, da consumare in un bicchiere da champagne ampio e profondo a sufficienza.

      Tornando a Hemingway, i protagonisti della sua (alcolica) Fiesta consumano (in grande abbondanza) Martini, vino, grappa, assenzio, birra, brandy, Anis del Mono, Izzarra – un liquore basco – e il Jack Rose (applejack – un brandy invecchiato nel legno – granitina e succo di lime), che Jack Barnes ordina mentre aspetta l’affascinante e crudele Brett, ammiratrice di toreri e indossatrice di titoli nobiliari. Bung-o! (Ndrm: è il prosit utilizzato da Brett nelle sue libagioni).

      All’irrequieta Dorothy Parker sono stati attribuiti questi celeberrimi versi

       I like to have a martini, Two at the very most. After three I’m under the table, After four I’m under my host.

      (Apprezzo un martini/ due al massimo/ al terzo sono sotto il tavolo/ al quarto sotto il mio ospite).

      L’ironica poesiola è quasi certamente spuria, nata a seguito di una sua dichiarazione dopo un cocktail party particolarmente riuscito:

      Enjoyed it? One more drink and I’d have been under the host!

      (Se mi è piaciuto? Un altro drink e sarei finita sotto il mio ospite!)

      Il mito del martini di Miss Parker ha portato addirittura alla creazione di un bicchiere da martini che porta il suo nome; in realtà, si vocifera che Dottie preferisse lo scotch.

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      Parker martini glass

      Il martini fa la sua comparsa anche ne Il giovane Holden: Carl Luce, amico del protagonista, lo consuma molto secco e senza olive, mentre Holden preferisce dissetare le scapigliate nottate newyorkesi con scotch&soda.

      L’indimenticabile Holly Golightly di Colazione da Tiffany ama il martini, i Manhattan, che consuma col suo “Fred baby”, i cocktail di champagne e il White Angel (vodka, gin, vermouth). E come dimenticare le orge alcoliche delle feste decadenti di Jay Gatsby? Tra tanti, il gin rickey, un mix di gin, succo di lime e acqua gassata), mentre la frivola Daisy Buchanan condivide con Faulkner la passione per il mint julep.

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      Vi è venuta sete, di cocktail e di libri? Poco male: Tim Federle, attore, scrittore e giornalista, ha compilato una deliziosa guida alle gozzoviglie letterarie, Tequila Mockingbird: cocktails with a literary twist, in cui gioca con gli ingredienti dei cocktail, adattandoli a romanzi e ribatezzandoli. Tequila Mockingbird contiene anche una guida di base per i bartender in erba, drinking games letterari, abbinamenti drink-gruppi di lettura e una miniguida a spuntini da hangover, ovviamente letterari: ad esempio, Alice’s Adventures in Wonder Bread (pane bianco con formaggio svizzero e patè di funghi) o The Deviled Egg Wears Prada ( una variante un po’ esotica delle uova ripiene, con humus, paprika e limone).

      Vi lascio con un paio di cocktail letterari suggeriti da Federle: consumate con moderazione!

      Cocktail d’autore n.1: Rye and Prejudice (da Pride and Prejudice, Orgoglio e Pregiudizio, Jane Austen)

      • tre once* di succo di pompelmo
      • 1/3 di oncia di rye whiskey (whisky di segale)

      Versate gli ingredienti su un bicchiere riempito a metà di ghiaccio, mescolando come se aveste a che fare con un cuore innamorato, pieno di complicazioni.

      Cocktail d’autore n.2: Love in the time of Kahlua (da Love in the time of Cholera, L’amore ai tempi del colera, Gabriel Garcìa Marquez)

      • 1 oncia di rum
      • ½ oncia di liquore al caffè (tipo il Kalhua)
      • 2 once di panna
      • cannella o noce moscata a piacimento

      Mescolate rum, liquore al caffè e ghiaccio, aggiungendo poi la panna e spezie a volontà, per un drink pieno di passioni non corrisposte ed esplosive.

      Cocktail d’autore n.3: Romeo and Julep (da Romeo e Giulietta, William Shakespeare)

      • 6 rametti di menta fresco
      • un cucchiaino da tè di zucchero di canna
      • ½ oncia di schnapps alla pesca
      • ½ oncia di bourbon
      • una lattina di bevanda gassata al limone o al lime

      Mescolate il tutto on the rocks finché lo zucchero si sarà sciolto, poi aggiungete la bevanda al limone/lime e preparatevi ad innamorarvi, velocemente, inesorabilmente.

      Cocktail d’autore n.4: Huckleberry Sin (da Le avventure di Huckleberry Finn, Mark Twain)

      • 5 mirtilli, lavati
      • 2 once di vodka ai frutti di bosco
      • una lattina di gassosa

      Pestate i mirtilli in un barattolo di vetro. Aggiungete ghiaccio a piacimento, la vodka e la gassosa. Sedetevi sui gradini del portico, e godetevi il tramonto (facendo attenzione alle zattere di banditi scalzi che risalgono il fiume).

      Cocktail d’autore n.5: Infinite zest (da Infinite jest, David Foster Wallace)

      • 2 once di vodka
      • un’oncia di limoncello
      • ½ oncia di succo di limone

      Shakerate per bene gli ingredienti e versateli in un bicchiere da cocktail, aggiungendo ghiaccio a piacimento, per un drink giallo come un pallina da tennis.

      Cocktail d’autore n.6: Gone with the wine (da Gone with the Wind, Via col Vento, Margaret Mitchell)

      Dosi per 6 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • una bottiglia di vino rosso
      • 2 once di brandy alla pesca
      • 2 cucchiai di zucchero
      • una pesca, tagliata a pezzettini
      • un’arancia a spicchi
      • 2 bicchieri e mezzo di ginger ale (soft drink a base di estratto della radice di zenzero, bella fredda

      Versate il vino e il brandy in una caraffa, insieme allo zucchero e ai pezzi di frutta. Lasciate a macerare in frigorifero per almeno un’ora. Quando qualcuno degli ospiti si riferirà ad Ashley come una ragazza (non avendo chiaramente letto il libro né – sacrilegio! – visto il film), togliete la caraffa dal frigo, aggiungete la ginger ale e fate sbollentare gli ardenti spiriti, ché domani è un altro giorno

      Cocktail d’autore n.7: The Rye in the Catcher (da Catcher in the Rye, Il giovane Holden, JD Salinger)

      Dosi per 6 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • ½ bottiglia di rye whiskey (whisky di segale)
      • 4 once di succo d’ananas
      • 2 once di succo di limone
      • un litro di ginger beer (letteralmente birra allo zenzero, una bevanda composta da zenzero, zucchero, acqua, succo di limone e lievito)

      Mescolate whisky e succhi di frutta, aggiungendo ghiaccio in abbondanza. Aggiungete gradualmente la ginger beer, shakerate e chiamate a raccolta i vostri amici: è tempo di scacciare quei fastidiosissimi mean reds, e andare avanti.

      Cocktail d’autore n.8: The Portrait of a pink lady (da The Portrait of a Lady, Ritratto di signora, Henry James)

      Dosi per 12 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • un litro di gin
      • 3 tazze di limonata rosa (per il colore, si posso aggiungere alla limonata tradizionale fragole o succo di mirtillo q.b.)
      • 6 once di granitina (succo di melograno più zucchero granulato)
      • un litro di gassosa

      Mescolate tutti gli ingredienti, tranne la gassosa, in una zuppiera da punch. Aggiungete giaccio a piacimento e la gassosa come tocco finale per un rimedio ideale per le pene d’amore, per il rimorso di aver scelto l’uomo sbagliato, di non aver capito se alla fine l’erba era più verde oltre l’Atlantico, o meno.

      *Un’oncia equivale a circa 2,96 cl

      Ancora assetati di cocktail e di libri? Poco male: The Reading Room offre una lista di quindici abbinamenti drink/romanzi (per citarne uno, Il grande Gatsby e il French 75, un mix di gin, champagne, sciroppo, limone e ghiaccio.) Nunc est bibendum!

      Image courtesy of http://bit.ly/1HCL43y

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      Courtesy of http://bit.ly/1HBKxgr

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      Soundtrack: A little party never killed nobody, Fergie (The Great Gatsby soundtrack)

      Posted in Letteratura e dintorni | 5 Comments | Tagged Carl Luce, Casino Royale, Charlotte Brontë, cocktail, cocktail letterari, Colazione da Tiffany, Daisy Buchanan, David Foster Wallace, DFW, Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Faulkner, Fiesta, Francis Scott Fitzgerald, Gabriel García Márquez, Henry James, Holden Caulfield, Holly Golightly, Huckleberry Finn, Ian Fleming, Il giovane Holden, Il grande Gatsby, Infinite Jest, James Bond, Jane Austen, Jane Eyre, JD Salinger, L'amore ai tempi del colera, Margaret Mitchell, Mark Twain, martini, mint julep, mojito, orgoglio e pregiudizio, pride and prejudice, Ritratto di Signora, Romeo e Giulietta, Shakespeare, The Reading Room, Truman Capote, Via col Vento, Zelda Fitzgerald
    • The Ophelinha Gazette#1 – articoli, segnalazioni, aneddoti e curiosità letterarie

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 23, 2015

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      Non so voi, ma io non riesco mai a leggere tutto quello che vorrei.

      Non solo in termini di libri, ma in termini di post e articoli. A volte mi sento letteralmente annaspare in un oceano di informazioni, e mi metto a salvare link sul telefono, tra i preferiti del PC, sul reader come se non ci fosse un domani.

      Di qui la – brillante, ça va sans dire – idea di raccogliere tutti gli articoli nerd letterari – e non –  su un bel foglio Word – qui siamo molto tecnologici –  e proporveli sotto forma di gazzettino.

      Essendo però allergica alle scadenze – da queste parti ce ne sono fin troppe, a partire dalla sveglia che suona troppo presto – anche questa rubrica avrà un andamento altalenante e capriccioso. Ma tornerà, promesso (e io mantengo sempre le promesse)

      Godetevi la – lunga – lettura, e buon weekend.

      *******************

      1) Vi ricordate il famoso To Zelda, once again di Fitzgerald? Beh, dimenticatevelo. Ecco sette dediche in cui gli autori si vendicano di torti subiti e rifiuti

      7 Book Dedications that Basically Say “Screw You, Mental Floss, Anita Okrent

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      2) Una bellissima definizione di amore del commediografo Tom Stoppard, da quella vera e propria miniera d’oro che è Brain Pickings di Maria Popova

      The Greatest Definition of Love

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      3) Un ritratto di DFW come popolare – sebbene irrequieto -professore aggiunto presso l’Emerson College a Boston, dal blog della celeberrima The Paris Review

      When David Foster Wallace Taught Paul Thomas Anderson, Dan Piepenbring

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      4) L’inaugurazione della mostra Klein/Fontana, curata da Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti, sul sito della Fondazione Fontana

      5) Un post per conoscere meglio Fontana, dal blog Lettere a Theo – L’Arte nelle parole degli artisti

      Fontana: “…è l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao…”

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      6) Il post della sempre ottima Alessandra di Una Lettrice con la segnalazione della mostra

      Klein Fontana, Milano Parigi, 1957-1962 Electa, 2014

      7) Una curiosa galleria di Rai letteratura sulle fobie di alcuni tra I più grandi scrittori

      Le vite segrete dei grandi scrittori

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      8) Un vecchio post dal blog Sweet Mother, che vado a rileggere ogni volta che ho la tentazione di cancellare una buona metà dei post del mio blog o di chiuderlo per sempre. O ogni volta che pubblico qualcosa e poi mi alzo la notte a rileggerla, contemplando la possibilità di cancellarla/riscriverla tutta (si, succede ogno volta, a ogni post)

      Did my post suck today?

      9) Dieci citazioni motivazionali di Murakami, da leggere preferibilmente il lunedi’ mattina o quando si è in preda ai mean reds (sarebbero tipo le giornate no; vi ricordate la scena di Breakfast at Tiffany’s?)

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      Carpe Diem: 10 Haruki Murakami Quotes to Make the Most of Today

      10) Un articolo bello, ma veramente bello sulle difficoltà di Kubrick di adattare Lolita di Nabokov per gli schermi cinematografici (e sul perché ‘il remake del 1997 faccia schifo)

      Nabokov and the Movies, John Colapinto

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      11) Un’infografica interattiva di Open Culture sulla routine quotidiana di famosi geniacci creativi

      The Daily Routines of Famous Creative People, Presented in an Interactive Infographic

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      12) Houllebecq come se piovesse.

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      – Una recensione molto esaustiva, segnalatami dall’ottimo Michele Orti Manara, per gli amici nepente

      Sottomettiti e sarai felice, Vincenzo Latronico, su Rivista studio

      – Un articolo un po’ controverso sul Telegraph

      Michel Houellebecq’s Soumission: ‘More prescient than provocative’

      – E un’apologia su The Paris Review

      Scare Tactics: Michel Houellebecq Defends His Controversial New Book

      Questo è tutto per la prima edizione. Se volete segnalarmi post/articoli/saggi nerd e interessanti, fatelo pure, non potrà che farmi piacere, a mezzo mail, social media, piccioni viaggiatori o Edwige, la mia civetta bianca di Hogwarts.

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      Posted in Uncategorized | 4 Comments | Tagged Brain Pickings, DFW, Francis Scott Fitzgerald, Literature and Beyond, Lolita, Movies, Murakami, Once again to Zelda, Storie dietro la storia, Tom Stoppard, Vladimir Nabokov, Zelda Fitzgerald
    • Farfalle in un lazzaretto

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 18, 2013
      Perchè è così che va: siamo sempre e solo di dove vogliamo essere e il resto è semplice geografia della scusa

                                                                           Camilla Ronzullo


      Cosa succede a uno scrittore che ha perso le parole?
      Precipita in uno stato di frustrazione, di insopportabile prostrazione e, al tempo stesso, di irrefrenabile irrequietezza. Amoris vulnus idem sanat qui facit, la ferita d’amore è sanata da chi la provoca. Non è un caso, dunque, se le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire: sono al tempo stesso causa prima e cura ultima del dolore.
      Marco Robustelli e Agata Lorenzi, i protagonisti del romanzo d’esordio di Camilla Ronzullo, alias l’inarrestabile ed estrosa Zelda was a writer, sono ammalati di parole: o meglio, sono ammalati a causa della loro mancanza.
      I loro destini, intrecciatisi tra i banchi universitari, cementati da un’antipatia reciproca così forte da sconfinare inevitabilmente nell’amore, tornano a incrociarsi nel corso di una sorta di terapia di gruppo, una “riabilitazione” per tutti quegli autori in cerca di personaggi che boccheggiano nell’ansia di ritrovare la propria ispirazione.
      Lo strampalato gruppetto, affidato alle cure del dottor Spiegelmann, vanta un’interessantissima galleria sui generis di personaggi minori, come Cesare Crotti, giovanissimo poeta decadente stanco di essere condannato alla depressione perpetua da contratti editoriali che lo vogliono successore di Novalis; Colette Canavacciuolo, scrittrice di romanzi erotici, sedicente parigina, che ama ritenersi ancora irresistibile nelle sue mise di dubbio gusto; Carlo Lucaretti, castrato da una madre matrona che finirà per uccidere, in un raptus di follia paragonabile a quelli degli esimi personaggi dei suoi romanzi.
      Tra tutti spiccano Marco e Agata, una coppia di ossimori tuttavia indispensabili a se stessi per ritrovare la loro ispirazione, la loro creatività. La loro strada.
      Marco è egocentrico, egoista, vanesio, pieno di sè, incapace di darsi al 100%, innamorato degli specchi e del successo del suo primo libro, – successo che gli sembra impossibile da replicare – del codazzo di fan adoranti, facili prede dello scrittore dongiovanni.
      Agata, delicata e in controluce, piena di talento, dopo un dottorato in letteratura comparata a New York lascia gli USA e il suo compagno francese per fare ritorno in Italia. Crea un personaggio, Stella Hughes, molto Sex&TheCity, che riscuote un enorme successo di pubblico, nonchè il disprezzo della sua autrice, il cui sogno sarebbe parlare di quelle scrittrici italiane che tanto ha studiato, che tanto le stanno a cuore, che tanto ammira e vorrebbe emulare.
      Sia Agata che Marco sono perseguitati da fantasmi: nel caso di Agata, Elsa Morante alias la sua coscienza letteraria, che le rimprovera il fatto di essersi dedicata a Stella, in maniera esclusiva, senza vergogna, tralasciando quei personaggi di cui avrebbe davvero voluto scrivere. Dimenticandoli nel cassetto. Anche Stella Hughes perseguita Agata, col suo profumo cheap e il suo fascino spudorato, senza ritegno, da mangiatrice di uomini incurante dell’incipiente cellulite.
      Le giornate di Marco sono invece infestate dallo spettro del protagonista del suo primo romanzo, Saverio Magnini, che gli rinfaccia quotidianamente di averlo lasciato morire nelle sue pagine e, con un ghigno sardonico, diventa testimone delle sue notti di fallimenti e d’insonnia, dei suoi inutili tentativi di ritrovare l’ispirazione.
      Al di là delle vicende sentimentali e personali di Agata e Marco – e delle persone che li circondano; del loro timido amore giovanile illuminato dai raggi pallidi della luna di una spiaggia greca; dell’ idealismo sognatore di Agata, capace di rincorrere i sogni e le farfalle in un lazzaretto (immagine che ispirerà il secondo romanzo di Marco Robustelli, intitolato, per l’appunto, Farfalle in un lazzaretto), il romanzo di Camilla è una storia d’amore per le parole. Un inno all’amore per la scrittura, a quella dipendenza fisiologica dalla carta stampata, a quel connubio perfetto che scatta tra lo scrittore, i suoi personaggi, le sue storie.

      Vi lascio con alcuni stralci del libro di Camilla (lo trovate qui), in attesa di tutte quelle storie che ancora ci deve raccontare.

      Pensò al piacere del ricciolo della g che si sposa magnificamente con l’ambizione a volare alto della l. Pensò a quanto gli piaceva guardare le parole ancora prima di comprenderne il senso. La scrittura era la graduale scoperta di un corpo sinuoso e pieno d’incognite. Era mattino, quando il risveglio dei sensi è energico e la progettualità ha quel sapore di speranza che sfugge alle leggi ferree dell’intelletto.
      Si, scrivere era provare tutta l’ingenua e folle certezza di fare delle cose mirabolanti per tutto il corso della giornata. Scrivere era essere francese essendo nato a Napoli, era sfogare la rabbia uccidendo i propri personaggi, era amare nelle posizioni più scomode, essere donna quando sei maschio, sedicenne quando ti avvicini ai quaranta.
                                                 
                                                          *************************

      Scrivere era migliorare la vita, plasmarla senza ritegno, renderla probabile anche nelle situazioni più paradossali. Una lotta costante, un delicato meccanismo d’incastri e possibilità. Ecco cos’era. Come aveva potuto dimenticarlo? Come si poteva vivere senza la bellezza di una parola che racchiude un sentimento indefinito, che arriva a chi la comprenderà a modo suo o a chi non la capirà affatto ma se ne chiederà il perchè?
      Apparteneva alle parole, Marco Robustelli, e niente, neanche il suo ego devastante, l’avrebbe allontanato da questa sudditanza voluta e cercata. Era schiavo. Schiavo di un bisogno estremo di tradurre il narrabile in narrato.

                                                       ***************************

      A cosa diavolo servivano i romanzi russi se non a mettere in guardia dagli amori troppo contorti?

                                                       ***************************

      Capita così con i libri. Capita che si passi un’intera esistenza a lagnarsi di non aver vissuto altre tre vite contemporaneamente e che poi ci si ritrovi in mano un rettangolo di carta stampata, capace di descriverci meglio di quanto saremmo mai riusciti a fare noi stessi. Le parole cesellano esistenze multiple e vengono da remoti angoli di un passato condiviso e ancestrale.

                                                     ****************************

      Siamo di dove vogliamo essere, del piccolo spazio vitale a cui fino a ieri non avremmo dato un soldo bucato, siamo di quelle libertà che studiate a tavolino ci erano parse odiose costrizioni. Apparteniamo ai ritmi più fuori sincrono, ai tempi in perenne ritardo, alla dannata fatica dell’esserci, al miracolo di provarci.

      Camilla Ronzulli col suo Farfalle in un lazzaretto (da zeldawasawriter.com)
      Posted in Ophelinha legge | 4 Comments | Tagged Bookworms, Si legge e si racconta di libri, Words, Zelda Fitzgerald
    • Il grande, grandissimo Gatsby

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 15, 2013
      To Zelda, once again

      Se il dottor Pereira di Tabucchi avesse incontrato il Jay Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, probabilmente gli avrebbe detto, citando le parole del dottor Cardoso: la smetta di frequentare il passato, frequenti il futuro.
      Ma Jay Gatsby non crede nei tempi verbali: per lui il presente altro non è che un’appendice posticcia di un passato in cui tutto era possibile, un luogo e un tempo da usare per riappropriarsi di un passato che lo ossessiona e proiettarlo verso il futuro.

      Aleggia intorno a Gatsby un’aria di mistero. Gatsby who? What Gatsby?
      C’è chi dice abbia ucciso un uomo, chi sostiene sia un eroe di guerra, chi ancora lo vede implicato in loschi affari. La chiave del mistero di Gatsby è in realta lei (c’è sempre una lei, no?) la bellissima flapper Daisy Buchanam, la ragazza che gli ha cambiato la vita con un bacio tanti anni prima, stregandolo durante una notte di stelle e rampicanti, quando Jay era ancora un soldato povero in canna e non poteva ambire alla mano della fanciulla (è facile ritrovarvi un’eco autobiografica della vicenda dello stesso Fitzgerald, che, non potendo sposare la bella Zelda Sayre per mancanza di mezzi finanziari, in attesa di quel successo letterario che tanto tardava ad arrivare, lavorava come pubblicitario e scriveva la notte).
      La grandezza di Gatsby non è autoincensazione, non è celebrazione dell’american dream dei roarin’ Twenties: tutto il pacchetto, l’eleganza, la bellissima magione, le feste eccentriche e strepitose sono funzionali a riportare Daisy a lui. Daisy, che vive dall’altra parte della baia, la cui luce verde Gatsby si ferma ad osservare per ore, per sentirla più vicina. Daisy, che ha un ricco marito, Tom, che la tradisce con la moglie del meccanico. Daisy che, dopo aver partorito e aver scoperto di aver dato alla luce una bambina, esclama I hope she’ll be a fool—that’s the best thing a girl can be in this world, a beautiful little fool!
      Per Gatsby, il passato si può ripetere, eccome: per questo convince il suo vicino di casa, Nick Carraway – timido, provinciale, affascinato e repulso al tempo stesso dal mondo dei belli e dannati, che è anche voce narrante del romanzo – a persuadere Daisy, che è sua cugina, ad andare da lui, Gatsby. Per rivedere lui, per ammirare quella casa, quelle feste in cui lui non si diverte, quella vita che lui ha costruito per lei, su misura per lei.
      Il mistero di Gatsby è congelato nel tempo. Il cuore di Jay Gatsby ha smesso di battere nel momento in cui le sue labbra hanno sfiorato quelle di Daisy. La sua vita è una folle corsa su una cabriolet gialla nel tentativo di rimettere a posto i pezzi del suo mosaico personale.
      Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va, sostiene Eraclito.
      Gatsby commette un immenso errore di valutazione: basare tutta la sua esistenza su un attimo. E Daisy, l’eterea, infelice Daisy, lo riaccoglie a braccia aperte nella sua vita, riaffiora in tutta la sua bellezza – e il suo egocentrismo  – grazie all’adorazione spassionata di Gatsby.
      Ma Daisy è tanto decorativa quanto egoista, tanto affascinante quanto superficiale, incapace di comprendere quell’amore che va al di là di ogni ragionevole dubbio. Incapace di amare se stessa, incapace di amare gli altri. Splendida e fredda come una bambolina di porcellana dagli occhi vitrei.
      Gatsby pretende che Daisy semplicemente cancelli la sua vita con Tom, neghi di averlo mai amato e torni ad essere solo sua. La loro folle corsa termina in tragedia: dopo un duello verbale con Tom, Daisy e Gatsby, tornando da New York a West Egg, investono Myrtle, l’amante di Tom. A guidare è Daisy, ma Gatsby si guarda bene dal diffondere quest’informazione, per proteggerla, fino alla fine. Fino a quei proiettili sparati dal marito di Myrtle che mettono fine alla sua vita.
      Fino a quel funerale, sotto la pioggia, a cui partecipano Nick e il padre di Gatsby, ancora incredulo per lo status di nouveau riche del figlio appena deceduto. Una morte solitaria come solitaria era stata la vita di Gatsby, una sorta di Mr Darcy del dopoguerra, che non si mischia alle danze e aspetta, acquattato nell’ombra, e scruta la luce verde di Daisy, sentendo il suo sogno più vicino che mai, non riuscendo a capire di esserselo già lasciato alle spalle.
      Perchè, se in generale è difficile lasciar andare via la persona amata, nel caso di Gatsby è impossibile.

      Questi giorni si parla tanto di Gatsby, complice il nuovo adattamento cinematografico a cura di Baz Luhrmann (che, come tanti, attendo con ansia di vedere). Tuttavia, focalizzandosi tanto sul fascino degli anni ’20, sui vestiti, sul jazz, sulle feste roboanti, sul ritmo incalzante di una generazione che vuole dimenticare la guerra appena trascorsa, si rischia di perdere di vista la vera grandezza di Gatsby. Che non scaturisce dai suoi soldi, dalle sue feste grandiose, dalla sua magione stile torta nuziale, dal suo fascino maledetto, dal suo fosco passato. La grandezza di Gatsby risiede nel suo tentativo di dominare il tempo, nella sua fede cieca e naive in un amore che lo ha permeato e lo ha fatto cambiare, per rendersi degno di una Daisy un po’ ottusa e superficiale  – cosa che Gatsby non vede, con gli occhi del cuore. La grandezza di Gatsby sta nella sua capacità di amare, con coraggio, senza paura, against all odds. La grandezza di Gatsby sta nel mettersi in gioco, nel reinventarsi, nello scommettere tutto su se stesso per rendersi degno di lei.
      Gatsby è un grand’uomo, perchè ama senza ritegno, perchè non riesce a lasciar andare il passato, perchè vive di ricordi e si rifocilla di rimpianti. E non se ne vergogna.

      Il Grande Gatsby è uno dei capolavori della letteratura angloamericana, con una prosa musicale che scivola come le dita su un pianoforte durante l’esecuzione di un pezzo di jazz. Il finale è di una perfezione assoluta:

      And as I sat there, brooding on the old unknown world, I thought of Gatsby’s wonder when he first picked out the green light at the end of Daisy’s dock. He had come a long way to this blue lawn and his dream must have seemed so close that he could hardly fail to grasp it. He did not know that it was already behind him, somewhere back in that vast obscurity beyond the city, where the dark fields of the republic rolled on under the night.

      Gatsby believed in the green light, the orgastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but that’s no matter—tomorrow we will run faster, stretch out our arms farther. . . . And one fine morning——

      So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.

      (E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter sfuggire più. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in questa vasta oscurità dietro la città, dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia … e una bella mattina…

      Così continuiamo ad andare, barche contro la corrente, sospinte incessantemente verso il passato).

      La triste vicenda dell’antieroe Gatsby richiama echi biografici del suo brillante e tormentato autore. L’infelice epilogo della sua vita coniugale è purtroppo fin troppo noto: la bellissima e tormentata Zelda Sayre trascorre i suoi ultimi anni in una casa di cura a causa della sua fragilità e dei suoi problemi mentali (il personaggio di Nicole in Tender is the night è chiaramente un tentativo dell’autore di esorcizzare la malattia mentale della moglie, così come Dick ritrae la stanca rassegnazione di un marito che ha fallito nel compito di proteggere la donna che ama da se stessa).
      Fitzgerald, spesso preso in giro da Hemingway per la sua scarsa resistenza all’alcool, cerca comunque rifugio ai suoi problemi e ai suoi insuccessi nella bottiglia. Muore d’infarto a soli 44 anni, e il suo funerale ricorda molto quello di Jay Gatsby, con una trentina di persone sotto la pioggia e Dorothy Parker che sussurra poor son of a bitch, altra citazione gatsbyana.

      Il romanzo aveva ricevuto un’accoglienza tutt’altro che calorosa, e al momento della morte di Fitzgerald numerose erano le copie polverose che avevano trovato rifugio nella sua soffitta: nel primo anno di pubblicazione, solo 21000 copie erano state vendute, e le recensioni non erano entusiaste.
      Il New York Evening World aveva definito il libro a valiant effort to be ironical…his style is painfully forced: un brillante tentativo di ironia, stroncato da uno stile sofferto e forzato.
      Il Chicago Tribune non era stato più generoso, definendolo indegno di essere riposto su uno scaffale accanto a This side of the paradise (Certainly not to be put on the same shelf with, say, This Side of Paradise).
      Probabilmente è uno di quei capolavori che possono essere appieno compresi ed apprezzati solo con la dovuta distanza storica da un’epoca affascinante e controversa come i roarin’ Twenties.

      Fitzgerald dedica The Great Gatsby

                                                   To Zelda, once again

      ancora una volta alla sua Zelda, che incarna la quintessenza della flapper.
      Essere una flapper non significa semplicemente abbracciare una tendenza, una moda, mettersi i pantaloni, fumare, tagliarsi i capelli à la gamine e ballare il charleston: significa aderire a un vero e proprio movimento storico e sociale che abbraccia i nuovi diritti della donna (come il diritto di voto) e, oltre a deporre gonne lunghe e scomode e crinoline, riconosce il diritto della donna di lottare per l’affermazione di se stessa nella società. La stessa Zelda tenta tutta la vita di emergere come scrittrice fuori dall’ombra possente del marito; nella sua Eulogy of the flapper, scrive

      The Flapper awoke from her lethargy of sub-deb-ism, bobbed her hair, put on her choicest pair of earrings and a great deal of audacity and rouge and went into the battle. She flirted because it was fun to flirt and wore a one-piece bathing suit because she had a good figure, she covered her face with powder and paint because she didn’t need it and she refused to be bored chiefly because she wasn’t boring. She was conscious that the things she did were the things she had always wanted to do. Mothers disapproved of their sons taking the Flapper to dances, to teas, to swim and most of all to heart. She had mostly masculine friends, but youth does not need friends—it needs only crowds.

      La donna diventa quindi consapevole del suo fascino e del suo potere: si trucca e flirta perchè ha voglia di farlo, mette in risalto il suo fisico, usa come armi orecchini vistosi e una buona dose di faccia tosta.

      Zelda e Scott incarnano lo spirito dell’epoca: in America come a Parigi sono la coppia d’oro, i belli e dannati. Entrambi muoiono nell’oblio e nella solitudine più profonda; sulla loro lapide sono incise le ultime righe del grande Gatsby, a ricordare il senso di perenne e irrequieta insoddisfazione di due barche controcorrente, per sempre risospinte verso il passato.

      Per saperne di più:

      http://www.evene.fr/livres/actualite/du-whisky-a-gatsby-la-face-cachee-de-francis-scott-fitzgerald-2019071.php

      http://blogs.smithsonianmag.com/threaded/2013/02/the-history-of-the-flapper-part-1-a-call-for-freedom/

      http://bitchmagazine.org/post/how-the-great-gatsby-fears-the-flapper

      http://www.kuriositas.com/2013/05/if-f-scott-fitzgerald-was-one-of.html

      http://flavorwire.com/topics/the-great-gatsby

      http://youtube.googleapis.com/v/rARN6agiW7o&source=uds
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    • Pause di riflessione

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 21, 2013
      Nobody has ever measured, not even poets, how much the heart can hold.

      Zelda Fitzgerald in Save Me The Waltz

      Alle volte sento la necessità di allontanarmi – dal computer, dal web, da tutto quello che è smart e digitale. Si tratta di momenti in cui solitamente sta succedendo qualcosa nella mia vita, interiore o esteriore. O non sta succedendo niente, o sono in attesa. Tra color che son sospesi.

      Febbraio in questo senso è un mese nefas, segnato da tante pietruzze nere: un mese in cui sono partita piena di impegni, avvolta in una sorta di bulimia di storie e di parole morta di troppo amore in una totale anoressia della scrittura.

      Sono i momenti in cui mi rifugio in riflessioni matte e disperatissime sull’arte della scrittura, su come scrivere bene, leggendo decaloghi di Zadie Smith e Henry Miller, Scott Fitzgerald e Kurt Vonnegut, per arrivare a Bukowski.

      Dopo tante letture del genere, mi sento piccola piccola e mi rifugio nei libri piuttosto che nella carta e nella penna  (non è in fondo la lettura una sorta di refugium peccatorum dello scrittore mancato?) perchè i loro moniti mi spaventano. E mi accontento di appunti sparsi sul mio Moleskine e i miei quaderni, per fermare frammenti di pensieri, cristallizzarli nel tempo. Ricordarmi che ci sono stati, che io c’ero anche quando cercavo di non esserci, di evitarmi.

      Quando ho aperto questa finestrella sul mondo virtuale, volevo in qualche modo riflettere su come la cultura 2.0 avesse influito sul nostro modo di approcciarci al testo scritto e alla scrittura stessa. Perchè le parole sono importanti e scrivere bene, concedersi il lusso di indugiare sulle parole, di coccolarle senza fretta, senza altri stimoli esterni, di sentirle esplodere nell’orecchio è nella mente è catartico: aiuta ad esorcizzare ricordi e dolore così come ad eternare un perfetto moemnto di estasi.

      Una delle cose più belle successe durante questi quindici mesi di blog è che qualcuno di voi mi ha scritto. Email che altro non erano che lettere d’amore.
      Qualcuno mi ha raccontato la sua storia. Qualcuno mi ha chiesto consigli. Qualcuno ha condiviso con me i suoi versi, i suoi racconti.
      E nessuno può mai portarti via le storie, le parole, nemmeno in questi momenti di silenzio, soffocati dall’incertezza, dalla precarietà, da quello che potrebbe essere l’ennesimo trasferimento forzato. Da quella sensazione di essere una tartaruga senza il suo guscio.

      Tuttavia, anche tra le assenze fremono progetti. Uno in particolare, che profuma di primavera, di carta e di inchiostro, e di quell’inconfondibile, inebriante profumo di libri vecchi, usati, letti e riletti.

      Un progetto che vedrà coinvolte alcune delle anime belle conosciute attraverso questa finestrella virtuale. Stay tuned, mentre io oscillo tra Neverland, Dreamland e Greyville, tra possibilità ed improbabilità di una realtà che mi sta stretta come un maglione di lana messo a centrifugare.

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    • LibriInValigia#2: Once again to Zelda , Wagman-Geller

      Posted at 11:50 pm09 by ophelinhap, on September 4, 2012

      Once again to Zelda: The Stories Behind Literature’s Most Intriguing Dedications di Marlene Wagman-Geller

      Questo libro da solo meriterebbe un post a parte, anzi una serie di post. Non credo che esista un’edizione italiana, ma vi consiglio caldamente di leggerlo, perché è davvero un piccolo gioiello, uno scrigno di “storie dietro la storia”, un regalo scovato in una piccola libreria indipendente di Islington, a Londra.
      Si tratta di cinquanta storie “dietro le quinte”, in cui l’autrice ricerca motivazioni e retroscena delle dediche di cinquanta tra i libri più belli e più letti di tutti i tempi, da Pasternak a F.S. Fitzgerald, da Sylvia Plath a Mary Shelley.
      Vi ricordate il dibattito tra le due Lare che si contendono il titolo di musa ipiratrice della bellissima ed immortale eroina di Pasternak, sua moglie Zinaida e la sua amante Olga Ivinskaya?
      Secondo la Gellers, Lara è Olga. Perché questa è la dedica de Il Dottor Zivago: 

      To Olga Ivanskaya
      “You guided my hand and stood behind me,
      and all of it I owe to you”.

      Inoltre, la bella Olga condivide la stessa sorte dell’infelice Lara, come constateremo a breve.
      La Ivinskaya conosce Pasternak mentre lavora come editrice presso il giornale Novy Mir. L’amicizia tra la fervente e appassionata Olga, amante della poesia di Pasternak, e lo stesso Boris nasce sui versi e sulle discussioni incentrate su Il Dottor Zivago, allora in corso di redazione, e presto diventa qualcosa di più. In una lettera del 1947, Pasternak le dichiara amore eterno ed imperituro, definendola my love..my angel. Ciononostante, non è disposto a lasciare la sua famiglia, alla quale si dichiara legato dal dovere e dal senso della responsabilità.  La sua storia con Olga forma parte integrante della trama de Il Dottor Zivago, traducendosi nella relazione tra Jurij e Lara.
      Come Lara, Olga scopre di aspettare un bambino da Boris, ma durante la sua prigionia in un campo di lavoro, durante la quale viene sottoposta a violenze fisiche e psicologiche: ad esempio, le viene mostrata una bara e viene invitata ad aprirla per convincerla che Boris fosse morto e forzarla a svelare quanti più dettagli possibili sull’impegno anticomunista di Pasternak. Ma il prezzo da pagare per Olga non si riduce alla prigionia, non si riduce all’inevitabile destino di “altra donna”, di amante: dopo la morte di Pasternak nel 1960, viene processata e condannata ad otto anni in un gulag, come Lara, uscita un giorno di casa per non farvi più ritorno, prigioniera, morta o sparita da qualche parte, una delle centinaia di desaparecidas rese ancora più invisibili dal fatto di essere donne.
      Le torture, le sofferenze e le privazioni patite da Olga durante questi anni sono state da lei rese pubbliche nelle sue memorie, Prigioniero del tempo. La mia vita con Boris.
      Non soprenderà il fatto che il memoir sia dedicato al suo amato Pasternak:

      La maggior parte della mia vita è stata dedicata a te – e quello che ne resta lo sarà altrettanto.

      Margaret Mitchell dedica il suo celeberrimo Gone With The Wind (Via col vento) ad un certo J.R.M.
      Questa dedica così criptica racchiude la storia della stessa Mitchell e del suo romanzo.
      Margaret, affettuosamente chiamata Peggy, è una vera figlia del Sud. Dopo che sua nonna, l’influente Annie F. Stevens, colonna portante dell’Atlanta bene, la fa ammettere nel prestigioso club della debuttanti, Peggy se ne fa rapidamente espellere, presentandosi ad un ballo come l’antitesi della dama del Sud, vestita in maniera provocante, con calze nere e rossetto carminio, e danzando in maniera così disinibita da scandalizzare gli astanti.
      Nel 1922, la Mitchell incontra il suo Rhett, Berrien Red Upshaw, del quale si innamora follemente, nonostante lui la prenda in giro per le sue gambe corte e sua nonna disapprovi di tutto cuore l’affascinante bad boy  che ha stregato la nipote. Nello stesso periodo, Margaret conosce il suo compagno di stanza, John Robert Marsh, tutt’altro che bello, ma folle di amore per lei.
      Margaret sceglie l’affascinate Red e lo sposa nel corso dello stesso anno, mentre John, che fa loro da testimone, è costretto a nascondere il suo cuore spezzato.
      Il matrimonio della Mitchell ha comunque breve durata, a causa del carattere violento e dell’alcolismo di Red. Quando arriva il momento del divorzio, Peggy si rivolge a John per amicizia, sostegno e affetto. I due si sposano poco tempo dopo il divorzio di Margaret da Red.
      Quando una malattia la costringe a letto per diverso tempo, per farla distrarre John porta alla moglie alcuni libri di storia dalla biblioteca pubblica. Quando l’interesse della moglie per la storia americana diventa sempre più incalzante, John le suggerisce di scrivere un libro. Di qui nasce Via Col Vento, e di qui la dedica della Mitchell al marito, all’amico, a colui che l’ha esortata e spronata a scrivere. A colui che ha creduto in lei.

      Potrei continuare a scrivere per ore su questo libro. Per ora vi lascio con un’ultima storia, un’ultima dedica. Sylvia Plath, la bella poetessa americana sposata con Ted Hughes, sorprendenemente non dedica The Bell Jar all’amatissimo marito, ma ad “Elizabeth e David”.
      Per capire perchè, bisogna fare un salto indietro. Sylvia incontra Ted a Cambridge, durante il suo soggiorno in Gran Bretagna grazie ad una borsa Fulbright. È amore a prima vista: lui si fa avanti tra la folla e si mette a recitarle i suoi versi; lei è talmente attratta da lui e confusa che, mentre bevono e ballano, gli morde l’interno della bocca tanto da farlo sanguinare. Ted le confisca la fascia per capelli per essere sicuro di rivederla. Si sposano quattro mesi dopo, e si trasferiscono a Court Green nel Devon, dove fanno amicizia con i loro nuovi vicini di casa, David ed Elizabeth Sigmund (i David e Elizabeth della dedica).
      Dopo la nascita dei loro due figli, un serpente si introduce nella loro serenità coniugale sotto le mentite spoglie di Assia, la bellissima moglie del poeta londinese che aveva affittato loro il cottage dove abitavano. Ted ne diviene l’amante; Sylvia lo caccia di casa e precipita in una profonda depressione, trovando aiuto e amicizia presso i suoi vicini di casa, ai quali dichiara “Ted lies to me all the time.He has become a little man…I have given my heart away and I can’t take it back – it is like living without a heart”.
      Quando Sylvia decide di andare a vivere a Londra con i suoi due bambini per voltare pagina, Elizabeth e David cercano di farle cambiare idea, preoccupati a causa della sua fragilità e della sua depressione. Le loro previsioni si rivelano, purtroppo, lungimiranti: a soli trent’anni, Sylvia constata con disperazione che il suo appartamento londinese e la sua vita stessa sono diventati una campana di vetro dentro la quale si sente soffocare. Prepara latte e pane sul comodino dei bambini, sigilla la porta della cucina con degli asciugamani, e sceglie di morire, di soffocare velocemente, con la testa dentro il forno, anzichè lasciarsi soffocare lentamente dentro la sua campana di vetro.
      Sei anni dopo la morte di Sylvia, Assia, in una macabra emulazione della morte di quella rivale di cui non si era mai riuscita davvero a liberare, si sarebbe lasciata morire allo stesso modo con la figlioletta Shura, dopo aver inghiottito dei sonniferi.
      Hughes, stravolto dalla triplice tragedia, avrebbe dichiarato ad Elizabeth: “My creativity presented me with a demon. If I get close to people, I destroy them”.
      Nell’ambito di queste tragiche vicende, appare evidente il desiderio di Sylvia di esprimere la sua riconoscenza ai coniugi Sigmund dedicando loro il suo unico romanzo.

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    • Caro Scott, carissima Zelda

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 13, 2012

      Le cose belle e i primi anni…mi accompagneranno per sempre

      Scott a Zelda, 26 aprile 1934

      Caro Scott, carissima Zelda, Tartaruga edizioni

      Il nostro contdown per San Valentino è quasi agli sgoccioli…grazie di essere passati da queste parti e di aver arricchito queste pagine con i vostri spunti, le vostre riflessioni, i vostri bellissimi commenti, e di aver reso questa giornata non solo l’ennesima operazione commerciale, ma un momento di riflessione e di riscoperta di classici della letteratura e del cinema attaverso questo nostro percorso di lettere d’amore.

      Il post di oggi è dedicato a Scott e Zelda Fitzgerald, enfants terribles della letteratura e della società americana degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Scott vede Zelda per la prima volta nel 1918, a Montgomery, Alabama, probabilmente ad un ballo. Lei è la reginetta di bellezza della città, ha appena 18 anni ed è decisa a far durare la sua stagione di popolarità il più a lungo possibile. Scott ne ha quasi 22 e si prepara a Princeton. Entrambi condividono l’idea romantica di essere destinati ad un destino speciale. Montgomery, pur essendo una città provinciale, è circondata da sedi universitarie ed è frequentata dai militari dei campi di addestramento dei dintorni: bisogna dunque intrattenere questa folla di giovani dalle belle speranze feste, balli, attività ludiche, teatro e vaudeville il venerdì sera. Questo è il contesto in cui fiorisce il giovane amore di Scott e Zelda.

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      Quest’ultima ha già riempito la sua scatola da guanti di mostrine offertale da giovani militari in omaggio alla sua bellezza; Scott, per non essere da meno, si vanta del fatto che presto diventerà uno scrittore famoso.
      La guerra finisce; Scott viene congedato e si trasferisce a New York, dove spera di trovare lavoro presso qualche giornale. Zelda gli manca terribilmente, tant’è che si decide a spedirle l’anello di fidanzamento che era appartenuto a sua madre. La ragazza ne è lusingata ed estasiata, ma la vita in Alabama continua pressappoco con lo stesso ritmo: Zelda continua ad essere corteggiata ed ammirata e si bea delle attenzioni ricevute, atteggiandosi a coquette, e nel 1919 il fidanzamento rischia di rompersi. Zelda spedisce per sbaglio a Scott il biglietto destinato ad un altro corteggiatore. Inizia così l’altalena che contrassegnerà tutto il loro rapporto: Scott corre a chiederle di sposarlo subito, Zelda rompe il fidanzamento; il rapporto riprende poco dopo e i due si sposano nell’aprile 1920.

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      Zelda continua tuttavia ad essere legata a Montgomery, ai suoi fiori, alla sua vita sociale: è una ragazza audace, piena di vita, civetta, che non interpreta tuttavia l’uscire con altri uomini come tradimento verso Scott.
      L’ombra delle gelosia incombe lungo tutta la loro relazione: lei lo provoca, lo stuzzica a suo piacimento; secondo il biografo di Fitzgerald, Arthur Mizener, durante i primi tempi della loro frequentazione, lei aveva spinto un ragazzo dentro una cabina telefonica illuminata e aveva iniziato a baciarlo, al fine di farsi trovare così da Scott e provocarlo.
      Zelda, l’eterna Musa di Scott, è stata sublimata dalla memoria letteraria in icona culturale: prima tempestosa, affascinante bellezza dell’Alabama dell’epoca, poi ragazza sofisticata che detta legge in fatto di moda, infine malata di mente ( a torto? a ragione?)
      Dal suo carteggio con Fitgerald emerge invece una ragazza spumeggiante, brillante, originale, meravigliosamente espressiva, piena di cosa da dire al suo Scott.

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      Scott a Zelda (dopo il 22 febbraio 1919)

      Cuore mio ambizione entusiasmo e fiducia tutto splendido lo giuro questo mondo è un gioco e finchè sono certo del tuo amore tutto è possibile mi trovo nella terra dell’ambizione e del successo e la mia sola speranza e fede è che il mio cuore adorato sia presto con te.

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      Zelda a Scott ( febbraio 1919)

      Amore-

      stamattina mi sono trascinata a scuola e ho tenuto un discorso dei più istruttivi su Browning. Naturalmente ero ben preparata, avendo letto all’incirca un paio di poesie. Ad ogni modo in classe si sono dichiarati entusiasti e ne sono uscita con tutti gli onori.. (…) ..mi sentirei così priva di scopo se non fosse per te – e so che anche tu non te la caveresti per niente bene senza di me …
      (..) Amore mio ti prego non preoccuparti per me – io voglio sempre esserti d’aiuto..(..)
      Caro -amor mio – lo sai…
      Zelda

      Zelda a Scott (maggio 1919)

      Caro,oggi sono quasi caduta dalla sedia allo Strand e tutto perchè W.E. Lawrence, l’attore del
      cinema, fisicamente è la tua controfigura. Me l’ha detto una mezza dozzina di ragazze prima che riuscissi a sbattermi in testa un cappello e ad andare a vederlo per conto mio
       – Mi ha fatto provare tanta nostalgia – da principio pensavo che aspettare dovesse diventare più facile col tempo – ma ogni giorno sento la tua mancanza sempre di più –
      Tutte queste dolci, tiepide notti che vanno sprecate mentre dovrei giacere fra le tue braccia sotto la luna – le braccia più care del mondo – amate braccia che tanto mi piace sentire intorno a me –
      Quanto tempo ancora – prima che ci stiano per sempre? Aspetta che torni e stai sicuro che te la vedrai brutta ad allontanarti anche un centimetro da te –
      […] Una vecchia fiamma che risale all’età della pietra mi telefona stasera – probabilmente se ne andrà disgustato perchè io non posso fare a meno di parlare di te – ti amo tanto, e mi sento così sola –
      […[ O amato, amato, tu sei mio – e fra non molto – io verrò da te perchè tu sei il mio caro marito, e io sono
      Tua moglie –

      zelda3

      Scott a Zelda (marzo 1919)

      Cuore mio sono stato tremendamente occupato ma sai che ho pensato a te ogni minuto scriverò a lungo domani ho ricevuto la tua lettera che mi è piaciuta va tutto bene mi sembri sempre sperare e pregare di essere presto insieme buonanotte cara

      Scott a Zelda (22 marzo 1919)

      Cara ti ho mandato un piccolo dono venerdì l’anello è arrivato stasera e lo spedisco lunedì ti amo e ho pensato che ti dirò quanto sabato sera quando dovremmo essere insieme fa’che i tuoi non si turbino per il mio regalo
      Scott

      Un po’ di tempo fa ho visto il film di Woody Allen, Midnight in Paris, che vi raccomando non solo perché molto carino – specie se amate Parigi e vi va di fare un tuffo nel passato – ma anche perchè ritroverete Scott e Zelda nella Parigi degli anni ’20, impersonati rispettivamente da Tom Hiddleston e da Alison Pill.

      Midnight In Paris
      Scott e Zelda Fitzgerald

      Filmografia:

      Last Call – genio ribelle. Un film di Henry Bromell. Con Jeremy Irons, Sissy Spacek, Neve Campbell, Shannon Lawson.

      Midnight in Paris. Un film di Woody Allen, 2011

      zelda2

      Per saperne di più:
      Scott e Zelda, gli archivi di un amore dannato

      Soundtrack:

      Let’s do it (Cole Porter)

      Posted in Letteratura americana | 10 Comments | Tagged Francis Scott Fitzgerald, In the mood for love, Lettere d'amore, Movies, Si legge e si racconta di libri, Zelda Fitzgerald
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