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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Di ispirazione, esordi e Jack London

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 24, 2017

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      Da quasi due mesi a questa parte non riesco a scrivere niente.

      Il 2016 è stato un anno lungo e difficile, puntellato di piccoli e grandi eventi – o non eventi – che mi hanno mio malgrado profondamente segnata, rendendomi più chiusa, più restia, più silenziosa. Facendomi diventare diffidente – degli altri, delle mie e delle altrui parole, dei sentimenti altrui, dei miei sentimenti.

      Mi sono detta e ripetuta che, una volta passato questo lungo e freddo inverno, fatto di cambiamenti poco desiderati, valigie e scatoloni, le parole sarebbero tornate. Sono sempre stata tremendamente meteoropatica, e otto anni di cieli nordeuropei hanno acuito ancora di più la mia tendenza alla malinconia quando il cielo è grigio e a smisurati attacchi di allegra irrequietezza al primo, timido raggio di sole.

      L’arrivo della primavera nordeuropea è stato salutato quest’anno da splendide giornate di sole, ma le parole non sono tornate. Mi sembra di avere un tappo sulla bocca dello stomaco che comprime con forza tutti quei sentimenti e quelle emozioni che nell’arco degli ultimi mesi ho archiviato con cura, seguendo il credo del “ci penserò domani, domani è un altro giorno” (Rossella O’Hara, c’est moi). Forse ho paura di tirarlo via, questo tappo, e di scoprire una sorte di vaso di Pandora; forse sono semplicemente stanca, o soffro di bloggo esistenziale, per citare La Cocchi (a proposito, seguite il suo blog? Se non lo fate, vi consiglio di rimediare).

      In compenso, sto leggendo tantissimo, e, nel tentativo di superare il bloggo, ho cercato un paio di articoli su aspiranti scrittori/scrittori alle prime armi/ esordienti sedotti e delusi dal fascino camaleontico delle parole. Su Letters of Note, fonte di costante ispirazione per gli amanti del genere epistolare (avevamo già letto una bellissima lettera di Steinbeck al figlio, sempre tratta da Letters of Note), ho trovato questa missiva molto tranchant indirizzata da Jack London a tale Max Fedder, che ha avuto l’ardire di propinargli una copia del suo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. La trovate di seguito nella mia traduzione, sperando che contribuisca a farmi (e magari a farvi, se ne avete bisogno) ritrovare l’ispirazione.

      jacko.jpg

       

      Oakland, California

      26 ottobre, 1914

      Gentile Max Fedder,

      Rispondo alla sua recente lettera, arrivatami senza data, e restituisco con la presente il suo manoscritto.

      Per iniziare, lasci che le dica che, come psicologo e come qualcuno che c’è passato, ho apprezzato la sua storia per la sua psicologia e per il punto di vista. In tutta franchezza e onestà, non ne ho apprezzato l’attrattiva o il valore letterario. A onor del vero, ha poco valore letterario e praticamente zero fascino. Il fatto che lei abbia qualcosa da dire che potrebbe interessare agli altri non la esime dallo sforzarsi di esprimerla al meglio della forma e del mezzo. Lei ha del tutto trascurato sia mezzo che forma.

      Tornando a quanto stavo dicendo nel paragrafo precedente, cosa ci si può aspettare da un ragazzo di vent’anni, privo di esperienza, in termini di conoscenza del mezzo e della forma? Perdinci, ragazzo, se volesse diventare un abile fabbro avrebbe bisogno di almeno cinque anni di apprendistato. Oserebbe dichiarare di aver dedicato non dico cinque anni, ma almeno cinque mesi al duro, irreprensibile, continuo lavoro di imparare a usare gli strumenti dello scrittore professionale, in grado di vendere le cose che scrive ai giornali e ricevere in cambio un compenso? Ovviamente non può: non l’ha mai fatto.

      Tuttavia, dovrebbe già aver capito che il motivo per il quale gli scrittori di successo vengono pagati così bene è che ben pochi aspiranti scrittori raggiungono la fama. Se sono necessari cinque anni per diventare un fabbro provetto, quanti anni di studio intensificato, concentrato in diciannove ore al giorno cosicché un anno di lavoro duro equivalga a cinque, sono necessari per un uomo di talento e con qualcosa da dire per studiare il mezzo e la forma, l’arte e il mestiere? Quanti anni per fargli raggiungere una posizione tale nel mondo delle lettere da permettergli di guadagnare un migliaio di dollari in contanti ogni settimana?

      Avrà capito il succo del discorso. Se qualcuno vuole sfruttare una stella da 1000 dollari a settimana, in proporzione dovrà lavorare molto più duramente di colui che sfrutta una piccola lucciola da 20 dollari a settimana. L’unica ragione per cui ci sono più fabbri di successo che scrittori di successo è che diventare un abile fabbro è più facile e meno faticoso che diventare uno scrittore famoso. Non è possibile che lei, a vent’anni, abbia già fatto il lavoro necessario per raggiungere il successo con la scrittura. Non ha nemmeno iniziato il suo apprendistato. Ne è prova il fatto che abbia avuto l’ardire di scrivere questo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. Se si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, avrebbe scoperto che storie come la sua non vengono pubblicate sui giornali. Se vuole scrivere per la fama e per i soldi, deve proporre al mercato prodotti che possano essere venduti. Il suo scritto non rientra in questa categoria, e se si fosse preso la briga di andare la sera in una sala di lettura e avesse letto tutte le storie pubblicate sugli ultimi giornali, avrebbe già capito che il suo scritto non si può vendere.

      Ragazzo mio, le parlo dal cuore. Si ricordi una cosa molto importante: il suo ennui dei vent’anni è il suo ennui dei vent’anni. Nel corso della sua vita, attraverserà ben altri periodi di ennui, ancora più complicati. Io ho sperimentato l’ennui dei sedici anni e quello dei vent’anni, e la noia, e l’apatia, lo squallore dell’ennui dei venticinque e dei trent’anni. Eppure sono sopravvissuto, e ingrasso, e sono molto felice, e rido per la maggior parte delle mie giornate. Vede, la mia malattia ha raggiunto uno stadio ben più avanzato della sua. Come superstite che esibisce le cicatrici della battaglia, guardo ai suoi sintomi come a quelli dell’adolescenza.

      Lasci che le ripeta che conosco questi sintomi, ne ho sofferto, e, come nel mio caso, anche lei dovrà subire cose ben peggiori. Nel frattempo, se vuole trionfare ed essere ben pagato, si prepari a lavorare duramente.

      C’è un solo modo di iniziare, ed è fatto di duro lavoro, e pazienza, e preparazione per tutte quelle delusioni che Martin Eden ha dovuto sperimentare prima del successo – che io stesso ho dovuto sperimentare prima del successo – dal momento che ho equipaggiato il mio personaggio fittizio, Martin Eden, delle mie stesse esperienze in quel duro gioco che è la scrittura.

      Se dovesse venire in California, mi farebbe piacere che venisse a farmi visita qui al ranch. Posso aiutarla ad arrivare al nocciolo della questione, e martellarla con quelle cose della vita che probabilmente non ha ancora esperito.

      Suo,

      Jack London

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      Soundtrack: Inside of love, Nada Surf

      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged A Journal of One Who Is to Die, Confessions of a Dangerous Mind, jack london, John Steinbeck, Letteratura americana, Lettere, Letters of Note, martin eden, Max Fedder, vita da blogger, Words
    • L’odore acre di alcuni ricordi

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 23, 2014

       

       

       

      Un ristorante di pesce in una piccola località balneare fuori stagione, in una giornata di fine aprile straordinariamente piovosa.
      La vernice gialla sbiadita, il senso generale di abbandono. La sala delle feste chiusa, le tende tirate, l’odore acre di disinfettante dei bagni.
      Il giardino spelacchiato, il Nettuno della fontana senza naso e senza metà braccio, muschio dove un tempo zampillava l’acqua.
      E, a tradimento, dietro l’arco di rampicanti sempre più radi, spunta la testa riccioluta di un bambino taciturno, che cerca a stento di trattenere le risate e invoca la complicità della sorella perchè l’aiuti a non essere trovato dall’altro fratello, alto, allampanato, occhialetti neri e pelle olivastra.

      Era il ristorante delle Pasquette e il ristorante delle domeniche in cui la mamma non aveva voglia di cucinare, o voleva regalare loro un’avventura, una gita al mare inaspettata e immotivata. Era il ristorante di quando la nonna ritirava la sua magra pensione, e voleva celebrare offrendo ai nipoti un gelato sempre nello stesso posto, il posto che portava il nome di un pirata ed era gestito da un omone paonazzo con la barba lunga color ruggine. I tre pensavano che l’uomo doveva essere davvero stato un pirata, e doveva essere pieno di tatuaggi sotto la sua polo.
      Era il ristorante delle passeggiate al mare fuori stagione, ché il mare è più bello agli inizi di primavera, quando la brezza è ancora pungente e mi raccomando, bambini, non avvicinatevi troppo all’acqua. Ma la marea ha creato una specie di laghetto e il più piccolo non può proprio esimersi dalla tentazione di andarvi a pescare col suo bastone, finendovi dentro, costringendo la truppa a un rientro forzato, coi suoi calzoncini e calzini come vessilli sospesi dai finestrini chiusi, fatti volare via da una folata di vento dispettoso in piena statale, tra l’ilarità generale. Risate, risate fino a quando fa male la pancia, forse anche a causa dei gusti coloratissimi sperimentati nella gelateria del pirata – puffo verde, nuvola azzurra, big babol.

      Cosa resta di quei tre bambini, di quelle risate che facevano male alla pancia e bene al cuore e di quelle gite al mare fuori stagione. Della sabbia nelle scarpe, delle collezioni improbabili di conchiglie che non si potevano assolutamente buttare, dei da grande farò e da grande sarò e da grande andrò e poi.

      Cosa resta di quel ristorante in quella località balneare fuori moda, a parte le crepe nel muro, l’odore di chiuso della sala delle feste, l’odore acre di disinfettante dei bagni, l’odore pungente di una nostalgia lontana, un nodo alla gola, una lacrima solitaria per cose passate troppo in fretta e lontane, così lontane nel tempo e nello spazio – cose avvenute forse a qualcun altro, o forse semplicemente sognate, in pigre domeniche fuori stagione in oscure località balneari che forse non sono mai esistite, o forse non esistono più.

      Posted in Ophelinha scrive | 5 Comments | Tagged Memories, Racconti, Si sta facendo sempre più tardi, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Words
    • Le piaceva scrivere.

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 14, 2014
      “I write because you exist.” – Michael Faudet”

      Le piaceva scrivere.

      Non è del tutto esatto: scrivere per lei era un imperativo categorico, un diktat morale, un appuntamento ineluttabile con la sua coscienza, un tête-à-tête col suo introverso e bizzarro mondo interiore.

      Scriveva storie tenui, dai colori sfumati – spiagge bianche da lungo tempo dimenticate, occasioni perdute, momenti spezzati.

      Scriveva del panico che spesso l’attanagliava, dell’insonnia che la teneva sveglia a combattere coi suoi demoni, delle persone che aveva perduto, della se stessa che aveva dimenticato.

      Scriveva perché in fondo non era capace di viverla, la vita, e allora preferiva osservarla da fuori, da dietro il finestrino polveroso di un treno senza nessuna destinazione. Scriveva perché in fondo non era capace di viverlo, l’amore, un concetto astratto e intellettuale troppo elevato e ideale per potersi far sfiorare dalla prosa della quotidianità. E allora lo ritrovava nei romanzi russi, e lo relegava nelle poesie e nelle storie senza lieto fine.

      Si sentiva in colpa quando non scriveva, perché evitava di guardarsi allo specchio, e quando lo faceva, perché non aveva il coraggio di scrivere tutta la verità. Perché la verità faceva male, spesso, e metteva a nudo, sempre, lasciandola inerme e indifesa come un pulcino bagnato.

      Scriveva per raccontare storie.

      Scriveva per raccontarsi storie (a volte, le proprie).

      Scriveva per immaginare finali diversi.

      Scriveva perchè mettere pensieri, emozioni, eventi nero su bianco svolgeva una funzione catartica, e la aiutava a mettere ordine.

      D’altro canto, mettere le cose nero su bianco le faceva paura. Perchè diventavano reali. Perchè cominciavano a vivere di vita propria. Perché non si potevano piu’ ignorare: per quanto facessero male erano lì, indesiderate, incontrovertibili. Ineluttabili.

      Non era facile scrivere di sè (c’era sempre l’imbarazzo delle prime persone) e scrivere di quelle poche, pochissime cose che le stavano veramente a cuore.

      Non era facile scrivere di persone che l’avevano toccata fino a marchiarla, di eventi che la trascinavano verso il passato anzichè proiettarla verso il futuro (So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past: così Fitzgerald conclude il suo Gatsby).

      Sempre Fitzgerald aveva scritto: what people are ashamed of usually makes a good story. Le cose di cui si vergognava, di cui non riusciva a parlare, né tantomeno a scrivere, erano solitamente le storie più interessanti, più sofferte. Più autentiche. Più oneste. Più sincere. Più vere.

      Scriveva senza perché e senza però, senza aspettarsi che qualcuno fosse interessato alle sue parole, ne’che le leggesse mai. Scriveva messaggi in bottiglia, affidandoli a maree nascoste, invisibili, misteriose.

      Sperando qualcuno li trovasse, prima o poi.

       

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    • 100 books to read (BBC docet)

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 8, 2014

      Troppi libri, troppo poco tempo. Ma quali sono i libri indispensabili per la formazione di ogni lettore che voglia definirsi tale? La BBC ha chiesto ai suoi utenti di scegliere i 100 libri da leggere assolutamente, senza se e senza ma, almeno una volta nella vita. A seguito dell’elenco, ha affermato che il lettore medio legge circa dei libri di questo elenco. Ve lo propongo qui di seguito (in grassetto i libri che ho letto, in corsivo quelli che ho iniziato a leggere ma non ho terminato).

      1. The Lord of the Rings, JRR Tolkien
      2. Pride and Prejudice, Jane Austen
      3. His Dark Materials, Philip Pullman
      4. The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, Douglas Adams
      5. Harry Potter and the Goblet of Fire, JK Rowling
      6. To Kill a Mockingbird, Harper Lee
      7. Winnie the Pooh, AA Milne
      8. Nineteen Eighty-Four, George Orwell
      9. The Lion, the Witch and the Wardrobe, CS Lewis
      10. Jane Eyre, Charlotte Brontë
      11. Catch-22, Joseph Heller
      12. Wuthering Heights, Emily Brontë
      13. Birdsong, Sebastian Faulks
      14. Rebecca, Daphne du Maurier
      15. The Catcher in the Rye, JD Salinger
      16. The Wind in the Willows, Kenneth Grahame
      17. Great Expectations, Charles Dickens
      18. Little Women, Louisa May Alcott
      19. Captain Corelli’s Mandolin, Louis de Bernieres
      20. War and Peace, Leo Tolstoy
      21. Gone with the Wind, Margaret Mitchell
      22. Harry Potter And The Philosopher’s Stone, JK Rowling
      23. Harry Potter And The Chamber Of Secrets, JK Rowling
      24. Harry Potter And The Prisoner Of Azkaban, JK Rowling
      25. The Hobbit, JRR Tolkien
      26. Tess Of The D’Urbervilles, Thomas Hardy
      27. Middlemarch, George Eliot
      28. A Prayer For Owen Meany, John Irving
      29. The Grapes Of Wrath, John Steinbeck
      30. Alice’s Adventures In Wonderland, Lewis Carroll
      31. The Story Of Tracy Beaker, Jacqueline Wilson
      32. One Hundred Years Of Solitude, Gabriel García Márquez
      33. The Pillars Of The Earth, Ken Follett
      34. David Copperfield, Charles Dickens
      35. Charlie And The Chocolate Factory, Roald Dahl
      36. Treasure Island, Robert Louis Stevenson
      37. A Town Like Alice, Nevil Shute
      38. Persuasion, Jane Austen
      39. Dune, Frank Herbert
      40. Emma, Jane Austen
      41. Anne Of Green Gables, LM Montgomery
      42. Watership Down, Richard Adams
      43. The Great Gatsby, F Scott Fitzgerald
      44. The Count Of Monte Cristo, Alexandre Dumas
      45. Brideshead Revisited, Evelyn Waugh
      46. Animal Farm, George Orwell
      47. A Christmas Carol, Charles Dickens
      48. Far From The Madding Crowd, Thomas Hardy
      49. Goodnight Mister Tom, Michelle Magorian
      50. The Shell Seekers, Rosamunde Pilcher
      51. The Secret Garden, Frances Hodgson Burnett
      52. Of Mice And Men, John Steinbeck
      53. The Stand, Stephen King
      54. Anna Karenina, Leo Tolstoy
      55. A Suitable Boy, Vikram Seth
      56. The BFG, Roald Dahl
      57. Swallows And Amazons, Arthur Ransome
      58. Black Beauty, Anna Sewell
      59. Artemis Fowl, Eoin Colfer
      60. Crime And Punishment, Fyodor Dostoyevsky
      61. Noughts And Crosses, Malorie Blackman
      62. Memoirs Of A Geisha, Arthur Golden
      63. A Tale Of Two Cities, Charles Dickens
      64. The Thorn Birds, Colleen McCollough
      65. Mort, Terry Pratchett
      66. The Magic Faraway Tree, Enid Blyton
      67. The Magus, John Fowles
      68. Good Omens, Terry Pratchett and Neil Gaiman
      69. Guards! Guards!, Terry Pratchett
      70. Lord Of The Flies, William Golding
      71. Perfume, Patrick Süskind
      72. The Ragged Trousered Philanthropists, Robert Tressell
      73. Night Watch, Terry Pratchett
      74. Matilda, Roald Dahl
      75. Bridget Jones’s Diary, Helen Fielding
      76. The Secret History, Donna Tartt
      77. The Woman In White, Wilkie Collins
      78. Ulysses, James Joyce
      79. Bleak House, Charles Dickens
      80. Double Act, Jacqueline Wilson
      81. The Twits, Roald Dahl
      82. I Capture The Castle, Dodie Smith
      83. Holes, Louis Sachar
      84. Gormenghast, Mervyn Peake
      85. The God Of Small Things, Arundhati Roy
      86. Vicky Angel, Jacqueline Wilson
      87. Brave New World, Aldous Huxley
      88. Cold Comfort Farm, Stella Gibbons
      89. Magician, Raymond E Feist
      90. On The Road, Jack Kerouac
      91. The Godfather, Mario Puzo
      92. The Clan Of The Cave Bear, Jean M Auel
      93. The Colour Of Magic, Terry Pratchett
      94. The Alchemist, Paulo Coelho
      95. Katherine, Anya Seton
      96. Kane And Abel, Jeffrey Archer
      97. Love In The Time Of Cholera, Gabriel García Márquez
      98. Girls In Love, Jacqueline Wilson
      99. The Princess Diaries, Meg Cabot
      100. Midnight’s Children, Salman Rushdie

      Tanti sono i titoli che aggiungerei (e sottrarrei) a quest’elenco, tante le wishlist, i libri iniziati e mai finiti (le mie nemesi sono Il nome della Rosa e Guerra e Pace). Ma poi mi ricordo che leggere è la cosa che amo più al mondo, e che mi deve emozionare, e mi deve divertire, e mi deve far sognare. E mi dico che in fondo va bene così, che parte del suo fascino e della sua bellezza risiedono nella sua incompiutezza, nel sapere che non vi sarà mai un limite ai libri che vorrei leggere, che vorrei comprare, che vorrei rileggere e sottolineare fino a consumarli. E che grazie ai libri ho vissuto nella Russia di fine ‘800, ho viaggiato per gli States della fine dello schiavismo, del proibizionismo, della beat generation.
       E mi dico che, in fondo, va bene così.

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    • Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati (Nietzsche)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 13, 2014

       

       

      Caro 2014, così non va bene.

       

      Sei iniziato davvero male, giocando tiri mancini, sferrando altri colpi che si vanno ad aggiungere a quelli del tuo degno compare, il 2013, che mi ha lasciato come eredità una riga profonda che solca il viso e mi fa sentire ancora più stanca, e avvilita.

       

       

       

      Caro 2014, mi sto disamorando. Delle cose che mi circondano, del quotidiano, e di me stessa.

       

       

       

      Mi sto disamorando dei miei sogni ad occhi aperti e occhi chiusi, perché tanto la realtà ci pensa sempre a sporcarli, a corromperli, a rovinarli. E allora, ne vale la pena? Sono fiori delicati, rari e inebrianti, che non possono fiorire in mezzo alla spazzatura.

       

       

       

      Caro 2014, quest’anno per me si conclude un altro decennio, e si sta facendo sempre più tardi, eccetera eccetera. E io ho bisogno di innamorarmi di tutto, ho bisogno di sentirmi viva ogni giorno, ho bisogno di passioni vaste e sconfinate, di colori sgargianti, di parole semplici, leggiadre, leggere, che siano poco pretenziose ma aprano il cuore. Ho bisogno di vivere col cuore in gola.

       

       

       

       

       

      C’è una frase di Nietzsche che da giorni mi frulla in testa, Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati.

       

       

       

      Non so, caro 2014. Spero solo di essere in grado di prendere congedo dalla vita benedicendola per tutte le cose che mi ha regalato e restandone fedelmente, malinconicamente innamorata, non di liquidarla con un freddo cenno del capo, uno svolazzo di mani di cera, oppressa dal peso dei rimpianti e delle cose che non avrò fatto e delle cose che avrei voluto fare diversamente.

       

       

       

      Caro 2014, voglio liberarmi di tutto questo grigiume che è come una seconda pelle, un profumo stantio, un sapore amaro di noia e rassegnazione.

       

       

       

      Voglio fermarmi in mezzo alla strada a guardare incantata un tramonto o un bambino paffuto che ride e mi fa ciao. Voglio svegliarmi di notte perché ho interrotto la lettura in un punto interessantissimo e devo assolutamente riprenderla. Voglio fermarmi in ogni angolo a buttare giù scarabocchi di pensieri. Voglio trovate il coraggio di raccontare le storie che mi abitano. Voglio bagnarmi di poesia.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di trovare il mio posto nel mondo, non continuare a nascondermi, con codarda rassegnazione.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di cambiare quelle cose che proprio non mi vanno giù e che si sono insediate sulla bocca dello stomaco, impedendomi di respirare.

       

       

       

      Voglio tornare a casa, in Italia, senza averlo tanto pianificato, e trovare mia nonna al suo posto vicino al fuoco, che mi sorride e mi prepara i perperoni sotto la brace e mi racconta per l’ennesima volta la storia di come ha incontrato mio nonno, quella storia magica e bellissima che non cessa mai di incantarmi.

       

       

       

      Soprattutto, voglio trovare il coraggio di essere me stessa.

       

       

       

      Ti ho chiesto un segno, e finora mi hai solo depistato. E so bene che sono passati sono 13 giorni, ma cosa ci vuoi fare? È l’entusiasmo, la rabbia, la fretta della mia ultima ondata di giovinezza a parlare.

       

       

       

      Allora sai cosa faccio, caro 2014? Esco da questo ufficio grigio e stantio e vado a comprarmi un vestito bellissimo e costoso in modo ridicolo e spropositato, che non posso assolutamente permettermi.

       

       

       

      Sarò la ragazza col rossetto rosso più intenso che tu abbia mai visto e col vestito senza maniche, che beve champagne rigorosamente all’aperto, anche se qui a Greyville è tempo di montoni e vacche grasse.

       

       

      PS: sì, l’ombrelllo rosso fa parte del piano.
      Posted in Ophelinha scrive | 1 Comment | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Great Expectations, Memorie di una precaria perbene, Mine vaganti, non se ne parla mai abbastanza, Ophelinha, Si sta facendo sempre più tardi, Words
    • Alice and the maze (playing with words)

      Posted at 11:50 pm08 by ophelinhap, on August 11, 2013

       
       
      I was little Alice

      and you were the maze.

      I tried to break in

       – wanted to get lost,

         never to be found.

      There was no key

      the maze was sound-proof

      double-glazed.

       

      There was a bowl of icecream

      for a ravenous child

       – a scrumptious sight for sore eyes.

      You were the silver spoon

      the table so tall

       – I was too small.

      I could just break down and cry

      out of anger and exhaustion.

       

      You were a blue cool lake

      so far away.

      I tried to reach out to you

       – the harder I tried, the further you moved away.

      Besides, I couldn’t swim, nor dive.

       

      You spoke a language

      I could not understand.

      You were telling me stories

      and you wouldn’t translate.

      I was bored and fed up

       – needed to be entertained.

      I cried out of sheer loneliness.

      You just faded away.

       

      You were the White Rabbit

      I met you in the dark

      I tried to catch up with you

      You were running so fast

      Always looking at your funny turnip pocket watch

       – never looking at me.

      I tried to call you

      but I had no voice

       – there and then you were gone.

       

      You were the Mad Hatter

      giving a tea party.

      I was so thirsty

      but you said it didn’t matter.

      You said you were no judge

      but there you were assessing me

      dismissing me

      shrugging me off

       – I was no good.

      I would have cared for a cupcake.

      You told me, child don’t bother

      love is not easy game to play

      not even in Wonderland

      and lies are no currency

      not even in Wonderland.

      I cried out of guilt

      loneliness and abandonment

       – more invisible than a pale ghost.

       

      You were the Cheshire cat

      whimsical look

      quixotic smile

       – eyes wider and wilder than life.

      I felt kinda obnoxious

      but all the same besotted.

      I read you a poem

      you said, little girl, you’re just a child

      you’ll never know better

      and love is not easy game

      not even in Wonderland.

      I tore my notebook in pieces

      and cried my eyes out.

       

      You were the Queen of Hearts

       – frozen pale eyes, algid grin.

      I bowed and sang you a song

      trying so hard to please

      you said, little girl, don’t bother

      love is not easy game to play

      not even in Wonderland

      leave my kingdom of broken hearts

      or else I’ll smash yours.

      My feet were sore

      My mind was numb

      Nowhere to go.

      I cried out of randomness,

      a ragged bum.

       

      We were sitting in the grass

      and there was chilled wine.

      My favorite word was “complicated”

      yours were “never mind”.

      You said, don’t drink little girl

       – it will not help you grow up

         nor older nor wiser.

      I am sorry I have judged you

        – that’s just how it goes.

      You were snotty and curious

      you wanted to be beguiled.

      Well that’s Wonderland for you

       – you were not invited

         and love is not easy game

         not even in Wonderland.

      Take a sip and forget

       – take it from me, you’ll never come back.

      I cried out of sheer rejection

       – was that my reflection

         in your iridescent eyes?

       

      I am such a mess.

       

      I was little Alice

      and you were the maze.

      The locket was empty

      the moon was pale white

      the pages were torn

      the glass was half drunk

       – I was just so tired.

      I wanted to get lost

       – so I sat there and waited and waited and waited

      to find a way

      to get into you.

       

      Love is not easy game to play

      not even in Wonderland

      and moonlights

      are heartaches in disguise.
       
      Posted in Anglophilia, Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged Ophelinha, Poetry, Words
    • Farfalle in un lazzaretto

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 18, 2013
      Perchè è così che va: siamo sempre e solo di dove vogliamo essere e il resto è semplice geografia della scusa

                                                                           Camilla Ronzullo


      Cosa succede a uno scrittore che ha perso le parole?
      Precipita in uno stato di frustrazione, di insopportabile prostrazione e, al tempo stesso, di irrefrenabile irrequietezza. Amoris vulnus idem sanat qui facit, la ferita d’amore è sanata da chi la provoca. Non è un caso, dunque, se le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire: sono al tempo stesso causa prima e cura ultima del dolore.
      Marco Robustelli e Agata Lorenzi, i protagonisti del romanzo d’esordio di Camilla Ronzullo, alias l’inarrestabile ed estrosa Zelda was a writer, sono ammalati di parole: o meglio, sono ammalati a causa della loro mancanza.
      I loro destini, intrecciatisi tra i banchi universitari, cementati da un’antipatia reciproca così forte da sconfinare inevitabilmente nell’amore, tornano a incrociarsi nel corso di una sorta di terapia di gruppo, una “riabilitazione” per tutti quegli autori in cerca di personaggi che boccheggiano nell’ansia di ritrovare la propria ispirazione.
      Lo strampalato gruppetto, affidato alle cure del dottor Spiegelmann, vanta un’interessantissima galleria sui generis di personaggi minori, come Cesare Crotti, giovanissimo poeta decadente stanco di essere condannato alla depressione perpetua da contratti editoriali che lo vogliono successore di Novalis; Colette Canavacciuolo, scrittrice di romanzi erotici, sedicente parigina, che ama ritenersi ancora irresistibile nelle sue mise di dubbio gusto; Carlo Lucaretti, castrato da una madre matrona che finirà per uccidere, in un raptus di follia paragonabile a quelli degli esimi personaggi dei suoi romanzi.
      Tra tutti spiccano Marco e Agata, una coppia di ossimori tuttavia indispensabili a se stessi per ritrovare la loro ispirazione, la loro creatività. La loro strada.
      Marco è egocentrico, egoista, vanesio, pieno di sè, incapace di darsi al 100%, innamorato degli specchi e del successo del suo primo libro, – successo che gli sembra impossibile da replicare – del codazzo di fan adoranti, facili prede dello scrittore dongiovanni.
      Agata, delicata e in controluce, piena di talento, dopo un dottorato in letteratura comparata a New York lascia gli USA e il suo compagno francese per fare ritorno in Italia. Crea un personaggio, Stella Hughes, molto Sex&TheCity, che riscuote un enorme successo di pubblico, nonchè il disprezzo della sua autrice, il cui sogno sarebbe parlare di quelle scrittrici italiane che tanto ha studiato, che tanto le stanno a cuore, che tanto ammira e vorrebbe emulare.
      Sia Agata che Marco sono perseguitati da fantasmi: nel caso di Agata, Elsa Morante alias la sua coscienza letteraria, che le rimprovera il fatto di essersi dedicata a Stella, in maniera esclusiva, senza vergogna, tralasciando quei personaggi di cui avrebbe davvero voluto scrivere. Dimenticandoli nel cassetto. Anche Stella Hughes perseguita Agata, col suo profumo cheap e il suo fascino spudorato, senza ritegno, da mangiatrice di uomini incurante dell’incipiente cellulite.
      Le giornate di Marco sono invece infestate dallo spettro del protagonista del suo primo romanzo, Saverio Magnini, che gli rinfaccia quotidianamente di averlo lasciato morire nelle sue pagine e, con un ghigno sardonico, diventa testimone delle sue notti di fallimenti e d’insonnia, dei suoi inutili tentativi di ritrovare l’ispirazione.
      Al di là delle vicende sentimentali e personali di Agata e Marco – e delle persone che li circondano; del loro timido amore giovanile illuminato dai raggi pallidi della luna di una spiaggia greca; dell’ idealismo sognatore di Agata, capace di rincorrere i sogni e le farfalle in un lazzaretto (immagine che ispirerà il secondo romanzo di Marco Robustelli, intitolato, per l’appunto, Farfalle in un lazzaretto), il romanzo di Camilla è una storia d’amore per le parole. Un inno all’amore per la scrittura, a quella dipendenza fisiologica dalla carta stampata, a quel connubio perfetto che scatta tra lo scrittore, i suoi personaggi, le sue storie.

      Vi lascio con alcuni stralci del libro di Camilla (lo trovate qui), in attesa di tutte quelle storie che ancora ci deve raccontare.

      Pensò al piacere del ricciolo della g che si sposa magnificamente con l’ambizione a volare alto della l. Pensò a quanto gli piaceva guardare le parole ancora prima di comprenderne il senso. La scrittura era la graduale scoperta di un corpo sinuoso e pieno d’incognite. Era mattino, quando il risveglio dei sensi è energico e la progettualità ha quel sapore di speranza che sfugge alle leggi ferree dell’intelletto.
      Si, scrivere era provare tutta l’ingenua e folle certezza di fare delle cose mirabolanti per tutto il corso della giornata. Scrivere era essere francese essendo nato a Napoli, era sfogare la rabbia uccidendo i propri personaggi, era amare nelle posizioni più scomode, essere donna quando sei maschio, sedicenne quando ti avvicini ai quaranta.
                                                 
                                                          *************************

      Scrivere era migliorare la vita, plasmarla senza ritegno, renderla probabile anche nelle situazioni più paradossali. Una lotta costante, un delicato meccanismo d’incastri e possibilità. Ecco cos’era. Come aveva potuto dimenticarlo? Come si poteva vivere senza la bellezza di una parola che racchiude un sentimento indefinito, che arriva a chi la comprenderà a modo suo o a chi non la capirà affatto ma se ne chiederà il perchè?
      Apparteneva alle parole, Marco Robustelli, e niente, neanche il suo ego devastante, l’avrebbe allontanato da questa sudditanza voluta e cercata. Era schiavo. Schiavo di un bisogno estremo di tradurre il narrabile in narrato.

                                                       ***************************

      A cosa diavolo servivano i romanzi russi se non a mettere in guardia dagli amori troppo contorti?

                                                       ***************************

      Capita così con i libri. Capita che si passi un’intera esistenza a lagnarsi di non aver vissuto altre tre vite contemporaneamente e che poi ci si ritrovi in mano un rettangolo di carta stampata, capace di descriverci meglio di quanto saremmo mai riusciti a fare noi stessi. Le parole cesellano esistenze multiple e vengono da remoti angoli di un passato condiviso e ancestrale.

                                                     ****************************

      Siamo di dove vogliamo essere, del piccolo spazio vitale a cui fino a ieri non avremmo dato un soldo bucato, siamo di quelle libertà che studiate a tavolino ci erano parse odiose costrizioni. Apparteniamo ai ritmi più fuori sincrono, ai tempi in perenne ritardo, alla dannata fatica dell’esserci, al miracolo di provarci.

      Camilla Ronzulli col suo Farfalle in un lazzaretto (da zeldawasawriter.com)
      Posted in Ophelinha legge | 4 Comments | Tagged Bookworms, Si legge e si racconta di libri, Words, Zelda Fitzgerald
    • Confessioni del triste e solitario scrittore Telemaco Storti (un breve, brevissimo racconto)

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2013
      A tutte le cose che potevano essere, e non sono state

      Una vita sola non è sufficiente a contenere tutte le vite che vorremmo vivere, tutte le persone che vorremmo essere.
      Una vita sola è un tempo così lungo che pare tendere all’infinito, un labirinto di scelte obbligate una volta intrapreso il cammino in una direzione, un contenitore troppo piccolo che si riempie troppo in fretta di delusioni e di rimpianti, non lasciando spazio a sufficienza a sogni, speranze, illusioni, che soffocano per mancanza d’aria.
      Quand’ero piccolo il mio gioco preferito era farmi portare in macchina per ore attraverso l’intrico di strade della città – oh, se mi sembrava immensa – e osservare la gente, studiare le persone, cercare di abbinare ad ogni volto un nome, una storia, immaginare se assomigliasse di più al padre o se avesse il naso e gli occhi della madre. Guardare dentro le finestre e cercare di immaginare come vivessero quelle persone, quelle famiglie, immaginare di far parte della loro vita, di essere loro, tutti loro, sul divano di pelle bianca a guardare la televisione, in balcone a mangiare anguria su un tavolo di plastica bianco coperto da una tovaglia a scacchi, nella finestra dell’appartamento di universitari a cantare accompagnati da una chitarra, in una piccola stanza dalle pareti verde oliva a studiare di notte, o a scrivere lettere d’amore, sospirando.
      Mi chiedo cosa sarei stato – cosa avrei scelto di essere – se non fossi divenuto quello che sono, uno scrittore scorbutico e solitario – nemmeno tanto di successo, eh.
      Un uomo chiuso e orgoglioso che dorme di giorno e sogna ad occhi aperti di notte. Un inetto, così spaventato di aver scelto la strada sbagliata da accontentarsi di vivere attraverso le vite degli altri, personaggi fittizi attraverso i cui occhi filtro il mondo.
      Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se fossi riuscito ad evadere da quell’oscurità, da quello schermo, da quei mugugni e avessi invece abitato il mondo, vestendomi a festa, adobbandomi di un sorriso. Per te.
      Ma non posso fare altro che nascondermi tra le poltroncine dell’ultima fila e guardarti danzare.
      Nella danza si svolge la vera essenza di te: quella bellezza algida e fredda come un diamante, quella maniacale tendenza al perfezionismo, quell’ossessiva attenzione alla forma, quell’instancabile cura dei particolari.
      Un occhio estraneo e poco allenato si soffermerebbe ad osservare soltanto la linea elegante del tuo collo di cigno, quell’incavo tra spalla e attaccatura del collo suddetto su cui fermarsi a sospirare fino a morirne.
      Si lascerebbe trascinare dall’indescrivibile grazia del tuo corpo allungato, annegando le pene dell’anima nell’armonia fluida dei tuoi movimenti liquidi. Quando danzi non sei della terra: sei d’aria e d’acqua, eterea, divina, eterna. Il tuo corpo non ha contorni nè confini: è infinita poesia di pennellate di colore, sfumate.
      Solo questo osserverebbe l’occhio acerbo e distratto, la rosea, ingenua conchiglia da bimba delle tue orecchie, la tenera attaccatura dei tuoi capelli di miele scuro raccolti nel perfetto ed impassibile chignon di rito. E si perderebbe la luce incredibile dei tuoi occhi, quella luce così chiara, quasi trasparente, che si infiamma di un entusiasmo quasi infantile quando parli delle cose che ami, che splende di un’estasi ebbra quando danzi.
      Eri un mistero troppo semplice, una poesia troppo piena di prosa per un orso come me. Incarnavi ed impersonavi paure ataviche, le stesse che vengono a stanarmi nelle mie notti da vampiro, che scaricano velate minacce nelle mie orecchie stanche, che stendono l’ennesima pennellata di grigiore, disegnano l’ennesima ruga, marcano i contorni delle borse sotto i miei occhi vitrei.
      E, quando alla tua perentoria  richiesta, in contrasto col tono di voce timido, sussurrato – portami a ballare – ho grugnito no, io non ballo mai, i tuoi occhi grigiazzurri hanno riassunto in un istante quel freddo distacco, frutto di un’antica abitudine, e mi hanno licenziato con un impercettibile ma imperioso scrollare delle tue spalle sottili, con un’ombra di sorriso tirato.
      Così ora non posso che eternarti a musa, cercarti in ogni personaggio, rincorrerti tra le parole, farti malinconica eroina di tutti i miei racconti, alla ricerca di un altro finale. Cantarti in ogni poesia, celebrarti in ogni verso, accarezzarti i capelli sottili in ogni rima, cercare di raggiungerti tra un enjambement e l’altro.
      Così ora non posso che nascondermi tra le poltrone dell’ultima fila, mentre interpreti una Giselle o un’Aurora o un’Odile o un’Odette o una Clara dagli occhi incredibilmente, straordinariamente luminosi, ed essere il primo a lasciare la scena, quando le luci si accendono ad illuminare questa perenne ed imperitura imitazione di vita, sempre uguale a se stessa.

      Photo credits: le fotografie che accompagnano il racconto sono opera della talentuosa Chiara Maria Lenzini, ballerina, fotografa, lettrice e molto di più. Grazie 🙂

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 8 Comments | Tagged Caos calmo, Le notti bianche, Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Words
    • Famous blue raincoat di Leonard Cohen. Una lettera d’amore.

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 11, 2013
      lc-marianne.jpg

      Leonard e Marianne

      And what can I tell you my brother, my killer
      What can I possibly say?
      I guess that I miss you, I guess I forgive you
      I’m glad you stood in my way.

      If you ever come by here, for Jane or for me
      Your enemy is sleeping, and his woman is free.

      Leonard Cohen
      coat.jpg

      Nella mia ricerca di lettere d’amore, non potevo trascurare un grandissimo poeta e cantautore, le cui atmosfere e sonorità malinconiche mi avvolgono come una melodia un tempo conosciuta, da tempo dimenticata: Leonard Cohen.

      In particolare, c’è una della sue canzoni, che altro non è una lettera d’amore, che avrò ascoltato centinaia di volte. Perché, oltre ad essere di una bellezza e di una tristezza struggente, è di  difficile interpretazione, quasi criptica: Famous blue raincoat (Il famoso impermeabile blu), da Songs of love and hate (1951).

      It’s four in the morning, the end of December
      I’m writing you now just to see if you’re better
      New York is cold, but I like where I’m living
      There’s music on Clinton Street all through the evening.
      I hear that you’re building your little house deep in the desert
      You’re living for nothing now, I hope you’re keeping some kind of record.

      Yes, and Jane came by with a lock of your hair
      She said that you gave it to her
      That night that you planned to go clear
      Did you ever go clear?

      Ah, the last time we saw you you looked so much older
      Your famous blue raincoat was torn at the shoulder
      You’d been to the station to meet every train
      And you came home without Lili Marlene

      And you treated my woman to a flake of your life
      And when she came back she was nobody’s wife.

      Well I see you there with the rose in your teeth
      One more thin gypsy thief
      Well I see Jane’s awake —

      She sends her regards.

      And what can I tell you my brother, my killer
      What can I possibly say?
      I guess that I miss you, I guess I forgive you
      I’m glad you stood in my way.

      If you ever come by here, for Jane or for me
      Your enemy is sleeping, and his woman is free.

      Yes, and thanks, for the trouble you took from her eyes
      I thought it was there for good so I never tried.

      And Jane came by with a lock of your hair
      She said that you gave it to her
      That night that you planned to go clear —

      Sincerely, L. Cohen

      Probabilmente, se questa lettera/canzone fosse stata scritta da un altro cantautore, che non avesse gli abissi e le profondità di Cohen, potrebbe essere semplicemente riconducibile a un triangolo: lui, Cohen (la canzone è necessariamente autobiografica, e non solo perchè reca la sua firma, ma per come è scritta, come è cantata, come è sentita, come è vissuta, come fa venire i brividi a chi la ascolta), alle quattro del mattino di una fredda quasi alba di fine dicembre, sente la necessità di scrivere a un non meglio identificato signore dall’impermeabile blu. Inizialmente potrebbe semplicemente sembrare una lettera scritta di getto a un caro amico che non vede e non sente da tanto, troppo tempo:

      Sono le quattro del mattino, dicembre sta per finire
      ti scrivo ora solo per sapere se stai meglio
      fa freddo a New York, ma amo il luogo dove vivo
      c’è musica in Clinton Street tutta la notte

      Tuttavia, le note grevi e malinconiche, il paesaggio freddo e desolato suggeriscono uno stato di angoscia e di solitudine. Le prime note autobiografiche emergono con chiarezza: Clinton Street è una strada nel Lower East Side di New York, un mix di storia americana ed ebrea, nelle quale Cohen ha effettivamente vissuto per un periodo.

      Ho saputo che ti stai costruendo
      una casetta, in mezzo al deserto:
      vivi senza uno scopo adesso
      spero ne rimanga qualche traccia

      Ecco che l’io narrante si inizia a scindere in due diverse individualità: L. Cohen, l’uomo che scrive, e Leonard Cohen, il destinatario della missiva, che si è in qualche modo perso, ha perso di vista lo scopo della sua esistenza, i suoi obiettivi, e ha sentito la necessità di nascondersi, in piena solitudine, nelle profondità di un deserto, vero o fittizio (facendo riferimento alle origini ebree di Cohen, potrebbe anche essere visto come un riferimento ai quarant’anni di peregrinazioni degli Ebrei nel deserto per sfuggire alla schiavitù ed arrivare nella Terra promessa: forse Leonard Cohen vuole sfuggire al controllo di L. Cohen per ritrovare se stesso?).

      E Jane è tornata con un ricciolo dei tuoi capelli
      ha detto che gliel’avevi dato tu
      quella notte in cui avevi deciso di uscire allo scoperto
      le hai mai poi detto la verità?

      Appare nella terza strofa l’oggetto della contesa: Jane, probabilmente un’incarnazione di tutte le donne di Cohen. Entrambi la amano, ma, mentre L. Cohen riesce a esserle fedele e addirittura a perdonare il suo tradimento, Leonard, pur amandola, non riesce a fare altrettanto.
      L’espressione “to come clean ” è di difficile traduzione: significa uscire allo scoperto, dire la verità, confessare, ammettere la propria colpa. Può essere però anche un riferimento a Scientology, alla quale Cohen, nei suoi anni di vagabondaggio spirituale, si era avvicinato, seppur per un breve periodo. Scientology predica infatti una sorta di disciplina di automiglioramento, attraverso la quale bisogna reggiungere lo stato di “clear” che significa privo di “mente reattiva”, e passa tra l’altro attraverso diversi corsi e livelli di “auditing“, una tecnica uno-a-uno tra un praticante (detto auditor) che pone domande e un “paziente” (detto preclear) che cerca nella sua mente e fornisce risposte.

      Ah, l’ultima volta che ti abbiamo visto sembravi molto più vecchio
      il tuo famoso impermeabile blu era consumato sulle spalle
      eri andato in stazione per aspettare un treno qualsiasi
      e tornato a casa senza Lili Marlene

      Qui la copertura di Cohen cade: lo stesso cantante aveva infatti dichiarato di possedere un trench blu Burberry, acquistato a Londra nel 1959, che si era talmente consumato sulle spalle da dover essere sistemato con delle spalline di pelle. Nelle sue Linear Notes che accompagnano The Best of Leonard Cohen (1975), lo stesso Cohen dichiara:

      I had a good raincoat then, a Burberry I got in London in 1959. Elizabeth thought I looked like a

      I had a good raincoat then, a Burberry I got in London in 1959. Elizabeth thought I looked like a spider in it. That was probably why she wouldn’t go to Greece with me. It hung more heroically when I took out the lining, and achieved glory when the frayed sleeves were repaired with a little leather. Things were clear. I knew how to dress in those days. It was stolen from Marianne’s loft in New York sometime during the early seventies. I wasn’t wearing it very much toward the end

      Le cose erano diverse, quando Cohen era in possesso del suo famoso impermeabile blu, prima che gli venisse sottratto: tutto era più chiaro, sapeva come vestirsi, sapeva come vivere, anche se forse aveva già iniziato a perdere di vista la strada da percorrere, dato che poco prima che glielo rubassero aveva iniziato a non indossarlo più tanto spesso…Ma Leonard appare agli occhi di L. Cohen stanco e provato, con il suo talismano consumato dal tempo e la sua inutile ricerca di Lili Marlene, che simboleggia l’amore perfetto. Durante un concerto, in un’introduzione alla bellissima Chelsea Hotel #2, il cantante aveva dichiarato:

      Once upon a time, there was a hotel in New York City. There was an elevator in that hotel. One evening, about three in the morning, I met a young woman in that hotel… I wasn’t looking for her., I was looking for Lili Marlene.

      Agli occhi di L. Cohen, Leonard ha dunque fallito anche nella sua ricerca dell’amore ideale.

      E la mia donna è stata per te solo una scheggia della tua vita
      quando è tornata non era la moglie di nessuno
      E ti vedo lì, una rosa tra i denti,
      l’ennesimo snello ladro gitano
      vedo che Jane si è svegliata
      Ti saluta

      E cosa vuoi che ti dica, mio fratello, mio assassino,
      cosa potrei mai dirti?

      Mi manchi, suppongo, ti perdono, almeno credo,
      Ti sono grato per esserti messo in mezzo

      Se mai dovessi tornare, per Jane o per me,
      il tuo nemico sta dormendo, e le sua donna è libera

      E voglio ringraziarti per la pena che hai cancellato dai suoi occhi
      pensavo fosse lì per un buon motivo, così non ci avevo mai provato
      E Jane è tornata con un ricciolo dei tuoi capelli
      ha detto che gliel’avevi dato tu
      quella notte in cui avevi deciso di uscire allo scoperto

      Tuo, L. Cohen –

      Lo stesso Cohen non aiuta a gettare luce sul misterioso triangolo sentimentale di Famous blue raincoat, come dimostra questo estratto di una celebre intervista della BBC del 1994:

      The trouble with that song is that I’ve forgotten the actual triangle. Whether it was my own…of course.I always felt that there was an invisible male seducing the woman I was with, now whether this one was incarnate or merely imaginary I don’t remember, I’ve always had the sense that either I’ve been that figure in relation to another couple or there’d been a figure like that in relation to my marriage. I don’t quite remember but I did have this feeling that there was always a third party, sometimes me, sometimes another man, sometimes another woman. It was a song I’ve never been satisfied with. It’s not that I’ve resisted an impressionistic approach to songwriting, but I’ve never felt that this one, that I really nailed the lyric. I’m ready to concede something to the mystery, but secretly I’ve always felt that there was something about the song that was unclear. So I’ve been very happy with some of the imagery, but a lot of the imagery… The tune I think is good, I remember my mother approving of it, I remember playing the tune for her, in her kitchen, and her perking up her ears while she was doing something else and saying “that’s a nice tune”.

      Il cantante dichiara quindi di aver perso di vista il triangolo effettivo e il suo grado di coinvolgimento; di aver sempre avvertito la presenza di un nemico invisibile ponto a sedurre una delle sue donne, o l’incarnazione di tutte le sue donne. In sostanza, l’uomo dell’impermeabile blu potrebbe essere lui nei confronti di un’altra coppia, o una minaccia incombente sul suo matrimonio: Cohen non lo sa più, o non vuole dirlo.

      Le domande aperte restano tante: è lui ad aver tradito? è lui ad essere stato tradito? rimpiange di averla perduta? rimpiange che lei sia accaduta? rimpiange di non aver cambiato tutto per lei? rimpiange di aver fatto soffrire qualcun’altro?
      Resta una delle canzoni più belle e struggenti nella storia della musica, un inno ad un amore, forse il più grande, il più importante, perduto per sempre, senza rimedio. E poco importa se la colpa è di L.Cohen, che ha perduto per strada una parte di sè, o di Leonard, che gli ha portato via la sua donna, o di Jane, che l’ha tradito o se n’è andata: L. Cohen canta il suo sottile senso di colpa, quella Jane dai contorni sfocati, diventata quasi un fantasma, avvolta dalle nebbie della memoria, quel disperato e viscerale desiderio di riaverla con sè che culmina in quelli che sono i versi più belli della lettera/canzone:

      If you ever come by here, for Jane or for me
      your enemy is sleeping, and his woman is free

      Esiste anche una versione italiana della canzone, cantata da Ornella Vanoni, la cui traduzione è stata curata da Fabrizio de Andrè (autore di magistrali rivisitazioni di canzoni di Cohen, come Suzanne, Giovanna d’Arco o Nancy). Devo dire che è una delle pochissime volte in cui il bravissimo Faber mi ha deluso: La famosa volpe azzurra non riesce a trasmettermi le stesse sensazioni di Famous blue raincoat. A voi giudicare.

      LA FAMOSA VOLPE AZZURRA
      (Famous Blue Raincoat)
      Di: F. De Andrè – S. Bardotti – L Cohen

      Le quattro di sera di fine dicembre
      Ti scrivo e non so se ci servirá a niente
      Milano é un po’ fredda ma qui vivo bene
      Si fa musica all'”Angolo” quasi tutte le sere
      Mi dicono stai arredando la tua piccola casa
      In qualche deserto
      E che per il momento stai vivendo di poco
      O soltanto di quello
      Sì, e Lucio, sai
      Parla ogni tanto di te
      Di quella notte in cui tu
      Gli hai detto che eri sincera …
      Sei mai stata sincera?

      L’ultima volta ti ho vista invecchiata
      Con la tua volpe azzurra famosa e sciupata
      Lì alla stazione a contare mille treni
      E tornartene a casa come Lili Marléne
      Hai trattato il mio uomo come un fiocco di neve
      Che si scioglie da sé
      E un attimo dopo non era più l’uomo
      Né per te né per me
      E ti vedo lì con una rosa tra i denti
      Un trucco nuovo per nuovi clienti
      Ora Lucio si è svegliato
      Anche lui ti saluta …

      Che cosa altro dirti, sorella assassina
      Che cosa altro scriverti adesso non so
      Se non che mi manchi se non che ci manchi
      E certo alla fine ti perdonerò
      E se tornerai da ‘ste parti
      Per lui o per noi
      Troverai una rivale che dorme
      E il suo uomo, se vuoi

      E grazie per la noia che gli hai tolto dagli occhi
      Io mi c’ero abituata e così
      Non mi ero neppure provata
      E Lucio, sai
      Parla ogni tanto di te
      Di quella volta che tu
      Gli hai fatto la notte più bella
      Ti saluto, tua

      Ornella

      leonard-2it ery much toward the end.— 

      Qualche riferimento bibliografico sull’interpretazione di  Famous Blue Raincoat:

      http://blog.bestamericanpoetry.com/the_best_american_poetry/2012/05/famous-blue-raincoat-by-lawrence-j-epstein.html

      http://www.judithfitzgerald.ca/famousblueraincoat.html

      http://leonardcohen-prologues.com/famous_blue.htm

      http://www.webheights.net/speakingcohen/bbctrans.htm

      rain.jpg

      Posted in Uncategorized | 7 Comments | Tagged In the mood for love, Leonard Cohen, Lettere d'amore, Words
    • L’indicibile solitudine degli eteronimi

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 27, 2013
      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

       

      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

      Cos’è un eteronimo? Dal greco héteros, diverso, altro da sé, e onoma, nome, è un personaggio fittizio, che possiede però una sua personalità e una sua biografia diversa da quella del suo “creatore”.
      È un “altro da sé” a cui si affidano aspetti del proprio carattere che non si riescono ad accettare, sogni e speranze che non si sono riuscite a concretizzare. Qualcuno che fa scelte diverse dal suo autore, che ad un incrocio sceglie una direzione diversa, che naviga tra le infinite possibilità della vita con maggiore disinvoltura e sicurezza.
      O forse, ci si crea un eteronimo quando la vita non è abbastanza, quando si hanno dentro mondi diversi da quello quotidiano, da quello che si vede. Quando si coltiva un’innata ed infinita irrequietezza. Quando non si accettano alcuni aspetti del proprio carattere che sono però i più veri, i più autentici. E si affidano all’eteronimo.
      A volte, l’eteronimo, o gli eteronimi, diventano noms de plume, e, dietro la loro maschera, si scrive, si compone, si dipinge in modo molto più spontaneo ed autentico, tirando fuori la parte più genuina e sincera di sé.

      Il più famoso creatore di eteronimi è ovviamente Fernando Pessoa, che spiega la genesi di questi suoi “altri da sé” in una lettera a Adolfo Casais Monteiro – scrittore, poeta, saggista e traduttore portoghese –  pubblicata in Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (a cura di Antonio Tabucchi) e inserita nell’appendice del libro di Luciana Stegagno Picchio Nel segno di Orfeo.

      Ecco alcuni stralci della lettera:

      Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

      Casella Postale 147
      Lisbona, 13 gennaio 1935

      Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (…) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. (…)

      Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Ala fine, in un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile.

      Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la risposta di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.

      Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e di derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. (…)

      Come scrivo col nome dei tre? … Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).

      Tabucchi, Antonio
      Un baule pieno di gente
      Feltrinelli, 1990

      La migliore definizione degli eteronimi di Pessoa è, a mio parere, quella di Luciana Stegagno Picchio, una delle massime autorità italiane di lingua e letteratura portoghese e brasiliana, che in un’intervista su RaiLibro ha dichiarato:

      (…) Queste “persone”, questi “autori altri”, non sono pseudonimi: lo pseudonimo, infatti, abbraccia l’intera personalità dello scrittore. Nel caso di Pessoa, invece, quando si parla di eteronimi, ci si riferisce a una parte della personalità, quei segmenti di sé non espressi.
      Parlare è di per sé una mutilazione: quando un essere umano si esprime, mutila, “esclude” in quello stesso momento le cose che non dice e tutti gli altri personaggi che dentro di lui direbbero altre cose.
      In Pessoa erano presenti tante voci diverse – si è arrivati a calcolare addirittura ottanta, novanta eteronimi. E mi sono sempre chiesta cosa sarebbe stato Pessoa se non fosse morto precocemente.

      E ancora:

      (…) Sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati, basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita.
      Ad ognuno di essi attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale… Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
      Eppure, al di là di questi aspetti “contingenti”, tutti loro hanno in comune il fatto di essere persone di sesso maschile, sole, della stessa età, anche simili fisicamente: caratteristiche che alla fine si riuniscono in un unico uomo, che si chiama Fernando Pessoa.

      A volte gli eteronimi smettono di essere finzione e invadono la vita reale del poeta. È il caso della sua tormentata e surreale relazione con Ophélia Queiroz, unica “fidanzata” del poeta,  ostacolata, tra le altre cose, dalla gelosia dell’eteronimo Alvaro de Campos, omosessuale e geloso della giovane.

      Come Ophélia stessa racconta nella prefazione di Lettere alla fidanzata a cura di Antonio Tabucchi (edito da Adelphi):

      Fernando era una persona molto speciale. Tutta la sua maniera di essere, perfino nel vestire, era speciale. Ma forse io allora non me ne accorgevo, perchè ero troppo innamorata. La sua sensibilità, la sua tenerezza, la sua timidezza, la sua eccentricità mi incantavano. A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Alvaro de Campos. Mi diceva: “Sai, oggi non ero io, al mio posto è venuto il mio amico Alvaro de Campos..”.

      In quei momenti si comportava in un modo completamente diverso dal suo: era sconclusionato, diceva cosa senza senso. Un giorno mi disse: “Gentile signorina, ho una commissione per lei: dovrebbe buttare l’abietta immagine di quel tale Fernando Pessoa in un secchio pieno d’acqua, a testa in giù”.

      Io gli obiettai: “Detesto Alvaro de Campos, mi piace solo Fernando Pessoa”.

      “Chissà poi perchè”, riprese lui, “guarda che invece a Campos piaci molto”.

      Raramente parlava di Caeiro, di Reis o di Soares.

      Da queste pagine, dalle loro lettere, dalla loro tormentata storia è nata la mia curiosità per Ophélia Queiroz, minuta e vivace fanciulla della media borghesia lisbonese, che, diciannovenne, viene assunta come segretaria dal Diàrio de Notícias e si innamora di questo ometto strambo, che si dichiara a lei con le stesse parole che Amleto usa per promettere amore eterno alla sua Ofelia. Seguono mesi di namoro tormentato, fatto di bigliettini segreti, baci rubati negli androni dei portoni, dato che Fernando non vuole rendere il fidanzamento ufficiale presentandosi a casa sua (Sai, devi capire che è una cosa da persone comuni, e io non sono una persona comune).

      E Ophélia lo accetta, e lo ama per quello che è, per tutti i suoi io, per le promesse mai mantenute di sposarla. Lo ama nonostante il malcontento della famiglia, nonostante quella lettera del 29 novembre del 1920 con la quale Fernando mette fine alla loro storia:

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?  

      Ophélia non si sposerà mai. E mi piace credere che sia rimasta sempre innamorata del suo Nininho, che, pochi giorni prima di morire, chiedendo sue notizie al nipote Mario, con gli occhi pieni di lacrime esclama Che anima bella! Che anima bella!

      Ophelinha diventa così per me la regina degli amori mai realizzati, degli amori impossibili, di quelli sognati e accarezzati col pensiero ma mai vissuti. La destinataria di lettere d’amore che fanno ridere, ma farebbero ridere ancora di più se non venissero mai scritte. Diventa una piccola donna anticonformista, forte e indipendente, capace di amare un uomo geniale e imprevedibile come il suo Nininho, d’un amore tenero e capriccioso, ma sempre costante.

      Nel corso dell’ultimo anno, Ophelinha è diventata la mia maschera, il mio naturale eteronimo che mi aderisce come una seconda pelle.

      Perchè preferisco Ophelinha a me stessa? Perchè Ophelinha non ha paura di parlare in prima persona.
      Perchè la vedo così, uno scricciolo controcorrente, del tutto incurante delle tradizioni, a cui non importa un fico secco del matrimonio borghese e si innamora del poeta da strapazzo che le declama i versi con cui Amleto si dichiara a Ofelia, e le ruba un bacio.
      Perché a lei non importa nulla del parere della gente. Perché gioca a nascondino con Nininho dentro anditi e portoni sotto la pioggia. Perché è orgogliosa di essere chi è, di essere quello che è, e non fa nulla per nascondersi o per conformarsi.
      Ophelinha non ha paura. Non ha paura di piangere. Non ha paura di mettersi in gioco, anche se potrebbe significare perdere, e ha il terrore dell’abbandono, e ogni schiena che si allontana le spezza il cuore.
      Non si astiene dall’indulgere nel piacere masochista dei ricordi, degli amori passati, delle cose che erano e non sono più.

      E Ophelinha scrive d’amore, anche se fa ridere. Anche quando l’ha perso, e non può fare nulla per riaverlo indietro.

       

      E non si vergogna della natura malinconica del suo carattere, del bovarismo accentuato, del bisogno di frequentare personaggi fittizi più di quelli reali. Non adotta maschere per fingersi sempre allegra e superficialmente spensierata. Per cercare di piacere agli altri, e di essere accettata.
      È incapace di vivere a pieno il presente, e vive nel passato, crogiolandosi nei ricordi, annaspando tra i se e i forse.

      Così, protetta da questo schermo virtuale, divento Ophelinha e scrivo di quei mondi che nessuno vede e in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore della vita quotidiana.

      Ci sono anche eteronimi che non funzionano, che si provano e poi si mettono da parte per sempre, come un vestito troppo stretto e troppo corto. È il caso della frivola contessina Aspasia, un tentativo di trovare un eteronimo più leggero e civettuolo, più frivolo, per l’appunto.

      Ma no, non è andata. E allora, che Ophelinha sia. In questo strano mondo di eteronimi fin troppo soli.

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 13 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, Eteronimi, Fernando Pessoa, Lettere d'amore, Literature and Beyond, Me myself and I, Nininho, Ophelinha, Si legge e si racconta di libri, Words
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