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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Frammenti di un discorso amoroso#1: Emily Dickinson a Susan Gilbert

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 2, 2016

      I Frammenti di un discorso amoroso sono citazioni letterarie per ricordare che love is not a dirty word, l’amore non è una parolaccia. Usciranno a cadenza imprevedibile, come imprevedibile è il resto del blog. Come imprevedibile è l’amore stesso.

       

      Questa citazione è speciale, perchè è dedicata al mio amico Nicola, che amava leggere.

      Il frammento di oggi è tratto da una lettera di Emily Dickinson alla cognata, Susan Gilbert, moglie del fratello Austin. Il matrimonio di Susan e Austin è tormentato, segnato dalla morte del figlio Gib, di soli otto anni, e dalla storia tra Austin e Mabel Loomis Todd, durata ben tredici anni.

      La corrispondenza pluridecennale tra Emily e “Susie” risponde a quell’ideale di “amicizia romantica” tipico del XIX secolo, caratterizzato da una prosa innocente e piena di affetto. Tuttavia, Susan riveste un ruolo ben più importante nella vita e negli affetti di Emily: la poetessa le manda tutti i suoi versi, chiedendole opinioni e revisioni. Susie è per lei amica, confidente, un tassello della sua vita e delle sua giornate di cui sente acutamente la mancanza; in una lettera datata agosto 1854, Emily le scrive;

      “Non è passato giorno, bambina mia, in cui non ti abbia pensata, in cui io non abbia chiuso gli occhi su una serata estiva senza il ricordo dolce di te….Non mi manchi Susie – è ovvio che non mi manchi – semplicemente me ne sto seduta davanti alla finestra a fissare il vuoto e so che non c’è più nulla…”

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      Il sentimento che unisce le due donne è forte, delicato, giocoso, possessivo, pervaso di una vena di gelosia e di costante malinconia.

      La stessa Emily ha eternato l’impossibilità di definire ed etichettare l’amore nei suoi versi:

       

      That Love is all there is,
      Is all we know of Love;

      (Che l’Amore è tutto/È tutto ciò che sappiamo dell’Amore).

      Senza cercare quindi di stabilirne limiti e confini, le lettere di Emily Dickinson a Susie traboccano di questo tutto.

      susan.jpg

      Susan Gilbert Dickinson, Courtesy of John Hay Library, Brown University)

       

      “A Susan Gilbert, 11 giugno 1852

      In questo pomeriggio di giugno, Susie, ho un solo pensiero, e quel pensiero riguarda te, e una sola preghiera: cara Susie, anche quella riguarda te. Che tu e io, mano nella mano, come facciamo dentro di noi, possiamo vagabondare lontano, nei boschi e nei campi, come fanno i bambini, possiamo dimenticare tutti questi anni, dimenticare affanni, e tutte e due ridiventare bambine – ci riuscirei, se fosse così, Susie, e quando mi guardo intorno e mi ritrovo sola, di nuovo sospiro per te; sospiri brevi, sospiri inutili, che non ti riporteranno a casa.

      Ho bisogno di te ogni giorno di più, il mondo che è già grande diventa sempre più vasto, il numero di coloro che amo sempre più piccolo, ogni giorno che passa e che tu sei lontana – mi manchi, tu cuore mio grande: il mio cuore se ne va in giro a vuoto e chiama Susie – gli amici sono troppo preziosi perché ce ne si separi, sono troppo pochi, e quanto presto se ne andranno là dove tu ed io non riusciremo a trovarli, non dimentichiamolo tutto questo, perché il loro ricordo, ora, ci risparmierà molte angosce, per quando sarà troppo tardi per amarli! Mia dolce Susie perdonami, tutto quello che ti dico – ho il cuore pieno di te, nessun altro all’infuori di te nei miei pensieri, eppure quando cerco di dire parole che non riguardano il mondo, il mondo mi viene meno. Se tu fossi qui – oh se solo lo fossi, Susie mia, non avremmo assolutamente bisogno di parlare, perché i nostri occhi bisbiglierebbero per noi, e la tua mano stretta nella mia, non avremmo bisogno della parola – cerco di avvicinarti sempre di più, scaccio le settimane fino al punto in cui sembrano del tutto dissolte, poi mi immagino che tu sia arrivata, e mi immagino mentre cammino lungo il sentiero verde per venirti incontro e il cuore mi scappa di mano e ho un gran da fare a riportarlo al passo e a insegnargli ad essere paziente, fino al momento in cui arriverà la dolce Susie. Tre settimane – non possono durare per sempre (……)

      Diventerò impaziente ogni giorno di più fino al momento in cui quel giorno arriverà, perché fino ad ora non ho fatto altro che piangere e lamentarmi in attesa di te: adesso comincio a sperare.

      Cara Susie, ho cercato in tutti i modi di farmi venire in mente che cosa ti avrebbe dato piacere, una qualche cosa da spedirti – poi alla fine ho visto le mie piccole Viole, mi supplicavano di lasciarle andare, così eccole qui – e con loro, quale Guida, un briciolo di erba che gli farà da cavaliere, che parimenti mi chiese il favore di accompagnarle – sono solo piccole, Susie, e temo non più profumate, ma ti parleranno degli affetti di casa, di quel qualcosa fedele che “mai si assopisce nè dorme”. Tienile sotto il cuscino, Susie, ti faranno sognare cieli azzurri, casa, il “paese benedetto”!

      (…) Ora, Susie, addio, Vinnie* ti manda saluti affettuosi, la mamma i suoi, e io ci aggiungo un bacio, timidamente, per paura che ci sia lì qualcuno! Non lasciare che guardino, lo farai Susie?

       Emilie –”

      (Da Emily Dickinson, Lettere, 1845 – 1886, Einaudi, a cura di Barbara Lanati)

       

      *Lavinia Dickinson, sorella di Emily

      Soundtrack: For Emily, whenever I may find her, Simon&Garfunkel

       

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 7 Comments | Tagged Austin Dickinson, Barbara Lanati, Einaudi, Emily Dickinson, Frammenti di un discorso amoroso, In the mood for love, Lavinia Dickinson, Letteratura americana, Lettere d'amore, Simon and Garfunkel, Storie dietro la storia, Susan Gilbert, What we talk about when we talk about love
    • Love Stories (sui pericoli di innamorarsi delle parole)

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 12, 2015

      love

      L’amore mi sfugge.
      Un tempo scrivevo racconti e tante, tantissime poesie d’amore. Mi piaceva pensare all’amore, analizzarlo, osservarlo, metterlo in discussione, cercare di capire il suo rapporto con la felicità e col dolore. Trovarlo ovunque, re-inventarlo, celebrarlo, accusarlo, cercare di comprenderlo.
      Ora mi sfugge, letteralmente, e non riesco a riacciuffarlo. Elude il mio comprendonio e la mia immaginazione, rimanendo quel mistero così difficile da afferrare e da raccontare, come insegna anche Carver. Pessoa scrive (e Vecchioni canta) che più ridicolo di colui che scrive d’amore è colui che non ne scrive, mai. Non pensavo sarei mai rientrata in questa seconda categoria e invece ci sono finita. Sarà l’età, sarà la timidezza, sarà la mancanza di coraggio o di onestà con me stessa.
      Continuo a cercarlo in quello che leggo, come in quest’articolo della Paris Review scritto da Phoebe Connelly. È il genere di storia d’amore che preferisco: eterea, surreale, nata sui libri, condannata fin dall’inizio da un’estrema difficoltà, quasi impossibilità di concretizzarsi.
      Cosa succede quando ci si innamora delle parole? Una volta il mio motto era “le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire”: me l’aveva scritto una persona che, pur conoscendomi pochissimo, è riuscita a vedere in me e a capire quanto bisogno avessi di credere nel potere taumaturgico delle parole. Ho perso un po’ di vista questa fede cieca dei vent’anni, così come ho perso di vista la persona che ero a vent’anni: mi capita di intravederla, di incrociarla, ogni tanto, col suo disordine discreto dentro al cuore, per parafrasare De Andrè, in mezzo a un marasma di dubbi, di scelte, di confusione. Ma dove hai lasciato il tuo cuore?
      Anche Phoebe, come la me ventenne, è affascinata dal potere delle parole, e racconta in questa storia – che mi ha gentilmente concesso di tradurre – le conseguenze dell’amore. Quell’amore nato sui libri, in un vortice di parole, personaggi, storie.
      Buona lettura.

      love3
      F. mi è stato presentato da un amico comune durante un viaggio a Los Angeles. Vivevo a D.C., ero da poco single e lavoravo per una rivista di politica. Mi ero data una regola ferrea: mai uscire con giornalisti. In una sonnolente cittadina aziendale* dove, per motivi etici, dovevo evitare coinvolgimenti romantici con le mie fonti, iniziavo a credere di essermi condannata a restare da sola.
      F. era uno scrittore che aveva appena finito il suo primo film e si occupava di rubriche di spettacoli per passare il tempo. A volte giocava a tennis con la mia migliore amica. “Ti piacerà” mi aveva promesso mandandogli un messaggio, mentre io ficcavo la mia borsa nel sedile posteriore della sua macchina all’aereoporto internazionale di Los Angeles (LAX). “Gli dirò di incontrarci per bere qualcosa insieme in questo locale tedesco all’aperto”. Ci siamo piaciuti subito.
      Tutto è iniziato con una sfida. Quella prima sera, gli ho detto che avevo trovato Il verificazionista di Donald Antrim troppo affettato, così ha fatto scivolare I cento fratelli nel mio bagaglio a mano per il volo notturno che mi avrebbe riportato ad est. La moltiplicazione costante dei fratelli di Antrim e la sua prosa claustrofobica si addicevano benissimo ai monotonia degli spazi del LAX. Il mio profumo si è aperto in valigia durante il volo, ma gli ho restituito lo stesso la sua copia insieme a un biglietto scritto a mano, con lo stesso odore della mia nuca.
      Abbiamo passato i due anni successivi a corteggiarci con le parole – le nostre, ma anche quelle di qualsiasi scrittore per mezzo del quale pensavamo di fare colpo. Non eravamo di certo i primi a intraprendere questo cammino; tuttavia, come in ogni storia d’amore – e lista di libri da leggere- che si rispetti, ci sembrava di essere gli unici. La domanda “cosa stai leggendo?” diventava una scusa molto conveniente per iniziare a parlare ogni volta che eravamo tutt’e due online, per mandarci link, per scriverci lettere lunghe e complicate il cui messaggio subliminale era il desiderio.
      Per lui ho letto Sportwriter di Richard Ford, che avevo scartato, etichettandolo come troppo sessista, prima ancora di leggerlo. (La mia opinione non è migliorata di molto dopo la lettura, ma lui sosteneva che il protagonista offrisse una rappresentazione fedele del maschio scrittore). Gli ho mandato La talpa di John le Carré, dopo avergli citato una descrizione della moglie di Smiley fuori contesto. Mi ha detto che il fatto che la citazione non arrivasse fino alla penultima scena del libro l’aveva fatto quasi uscire fuori di testa.
      Ho iniziato a leggere compulsivamente libri ambientati nella West Coast. Ho passato un luglio umido ad appiccicoso a completare la mia serie di Lew Archer; ho fatto scorta di malconci libri in brossura di James M. Cain, sognando pomeriggi all’insegna dello smog e inverni senza neve. Mi stavo innamorando di F. o dell’idea di una città che si prestava così facilmente alla narrazione? All’epoca non me lo sono chiesto. Ero grata di avere un posto nuovo da abitare, anche se questo avveniva solo in weekend rubati e nei titoli della Library of Congress.
      Un paio di mesi dopo il nostro incontro, Farrar, Straus e Giroux ha pubblicato la corrispondenza completa tra Elizabeth Bishop e Robert Lowell. Abbiamo studiato attentamente i dettagli delle loro rispettive esperienza a D.C. come poeti insigni e consulenti di poesia presso la Library of Congress; gli ho scritto una lettera durante una noiosa lezione sulla politica del deficit presso il Cosmos Club, dove Lowell aveva vissuto nel 1947 e nel 1948. “Il clima invernale di Washington è come quello di Parigi, ma senza compensazioni” osservava seccamente la Bishop in una lettera a Lowell nel dicembre 1949.
      Thomas Travisano scrive nell’introduzione che “quelle lettere erano diventate parte della loro persistenza: parte di quell’enorme pezzo di vita che avevano condiviso, vicini e lontani, attraverso trent’anni di corrispondenza intima e acuta”
      Quando arrivavo a casa, mi sdraiavo in un letto solitario con quel volume, trovando nelle loro poesie un mezzo per esprimere tutto ciò che io e F. esitavamo a dirci.
      “A volte/ sorprendo la mia mente/ ruotare intorno a te con occhi di vetro-/ il mio amore perduto a caccia/ del tuo viso perduto”. La nostra corrispondenza manteneva un tono stranamente cortese e formale, nonostante il flirt. I romanzi spediti dall’altra parte del continente, le caustiche osservazioni dei due poeti: tutto ciò ci permetteva di fingere che si trattasse di un gioco letterario, che non coinvolgesse i nostri cuori pulsanti, ad alto rischio di spezzarsi.
      Dimmi perchè ami questo libro, gli chiedevo, e lui me lo spiegava.
      I libri sostituivano il sesso, reso impossibile dalla distanza. Gli avevo mandato La biblioteca della piscina di Alan Hollinghurst; durante una delle mie puntatine a L.A., ci siamo infiltrati nel Los Angeles Athletic Club, prossimo alla chiusura, e abbiamo trascorso un’ora di felicità a galla nella piscina circondata da colonne del 1910, scambiandoci baci al cloro. Avevamo una sorta di romantico riflesso condizionato: immergerci in quegli scenari che avevamo condiviso attraverso la lettura. Mi aveva mandato Dieci giorni sulle colline di Jane Smiley, ambientato a L.A., che ho abbandonato più o meno alla metà del Quarto Giorno. “Leggere di politica per me è come lavorare”, gli ho confessato. “Magari leggo solo le parti sexy”.
      Dopo un anno di libri spediti, occasionali fine settimana insieme, e molte lacrimevoli telefonate su quanto difficile stesse diventando stare lontani, F. ha fatto le valigie e si è trasferito ad est. Era impaziente di sperimentare un’altra città: la superficialità di L.A. lo stava logorando, diceva. Invidiava il fatto che ogni notte passata in un bar di D.C. sfociasse in infiniti dibattiti. Aveva iniziato a lavorare nella mia libreria preferita e a dedicarsi seriamente alla scrittura. Io continuavo a dedicarmi al giornalismo politico.
      Ma il nostro circospetto corteggiamento letterario continuava. Lui mi aveva trovato una copia del 1997 della rivista Granta, dedicata alla Francia, in previsione del mio primo viaggio a Parigi, e al mio ritorno mi aveva aspettato a Dulles con una copia di Il flâneur. Vagabondando tra i paradossi di Parigi di Edmund White, che avevo letto durante il mio viaggio. Appoggiati al cofano della sua macchina, nel parcheggio dell’aeroporto avvolto dal crepuscolo rosa di una sera di fine marzo, avevamo fumato sigarette e ripercorso i nostri rispettivi viaggi a Parigi – il mio effettivo, il suo letterario.

      Aveva imparato a memoria il contenuto della mia libreria. “Quello ce l’hai già, Connelly. Stessa copertina, ma edizione anni ’80” mi ha avvertito quando ho preso in mano una copia di La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. Le Guin. Sono andata alla ricerca di un memoir sulla manifattura tessile nel Sud per un articolo che aveva pensato di scrivere. Ma continuava a rimandare; gli spunti per una nuova sceneggiatura erano in continua revisione, e la routine lavorativa faceva a pezzi il resto. Nonostante vivessimo ora nella stessa città, la nostra storia necessitava di manutenzione.
      Ognuno di noi aveva il suo appartamento. Quando passavo il weekend da lui, cercavo qualcosa da leggere tra i suoi scaffali. Ho pescato da lì uno dei primi Ian McEwan che non avevo mai letto, e, nel corso dei mesi, ho riletto Territori londinesi di Martin Amis. Teneva una copia del Decameron in bagno, e la mattina mi ritrovavo appollaiata sul davanzale della finestra a leggere anzichè prepararmi per andare a lavorare.
      F. sapeva quanto mi mancassero i libri che non mi ero portata dietro quando mi ero trasferita a D.C. Per il mio ventinovesimo compleanno, dopo aver festeggiato in un bar invaso da un’orda di miei amici, arrivati a casa mi aveva passato una pila di tascabili Pocket Press di Joan Didion. In cima troneggiava una prima edizione di The White Album. La sua dedica, “A Phoebe, per il suo trentesimo compleanno”, voleva prendermi in giro per la mia abitudine di aggiungere un anno o due alla mia età effettiva.

      Avevamo tutte le carte in regola: se potevo parlare di libri con lui, se capiva perchè piangevo su un romanzo, perchè sognavo rubriche, tutto il resto doveva venire da sè. Ma le parole, da sole, non ci sono bastate. Dopo due anni e un trasferimento dall’altra parte del continente, ci siamo lasciati.
      “Mi dispiace non averti risposto prima” mi ha confessato nella sua ultima lettera. “Ci ho provato un paio di volte, ma non ho mai trovato le parole giuste. Anzi, non le ho trovate proprio, le parole”

      *(Ndrm – nota della redazione mia : le company town sono città in cui la maggior parte o tutti gli immobili, sia residenziali che commerciali, sono di proprietà di una singola azienda che provvede, in genere, anche alla pianificazione urbana)

      Soundtrack: Half the world away, Aurora (cover della celeberrima canzone degli Oasis)

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      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 11 Comments | Tagged Alan Hollinghurst, D.C., Donald Antrim, Edmund White, Elizabeth Bishop, Fabrizio De André, Farrar, Fernando Pessoa, Granta, Ian McEwan, Il Decamerone, In the mood for love, James M. Cain, Jane Smiley, Joan Didion, John le Carré, le conseguenze dell'amore, Letteratura americana, Lettere d'amore, Lew Archer, Library of Congress, Los Angeles, Martin Amis, Parigi, Phoebe Connelly, Raymond Carver, Richard Ford, Robert Lowell, The Paris Review, The White Album, Thomas Travisano, Ursula K. Le Guin, Washington, What we talk about when we talk about love
    • What we talk about when we talk about books

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 13, 2015

      BS

      Non sono una persona polemica. Chi mi conosce sa che odio i contrasti, i conflitti, il πόλεμος fine a se stesso.

      La vita è già troppo greve, e il mio motto è choose your battles, scegli attentamente le battaglie che vuoi combattere. Conosci il tuo nemico e affrontalo ad armi pari. Non sprecare energie inutili quando sai che il duello è fine a se stesso, il gioco non vale la candela, vincere è questione di orgoglio e vanità.

      Ma. C’è un ma. Durante le vacanze di Natale, ho letto tanto, di tutto (si, my life rocks , all’insegna del #partyhard): articoli, post, liste, decaloghi, ultimatum, to do list, i 100 libri da leggere prima di morire, i 100 libri da non leggere mai, gli autori di serie A e gli autori di serie C, i lettori meritevoli e quelli che leggono spazzatura.

      Ne è venuto fuori un breve elenco (numerato, non puntato) di cosa che mi fanno davvero uscire dai gangheri. Dopo essermi sfogata, posso tornare nel mio mondo di rime baciate, lettere mai spedite, ninfe lacustri ed eteronimi.

      1) Ho letto recentemente un articolo di Giovanni Turi, Perché nessuno stronca i libri brutti?, che si interroga sulle ragioni per cui sul web pullulino recensioni positive, mentre quelle negative siano mosche bianche. Chiedo scusa, io sono totalmente avulsa dal mercato dell’editoria, e gravito intorno alla galassia dei book blogger e dei lit-blogger con un misto di distacco e curiosità, quindi non posso commentare molto su ipotesi  che vanno dai contatti con le case editrici ai tentativi/speranze di pubblicazione presso le medesime – cose di cui io non so un bel nulla, perché scribacchio per me stessa e per i miei quindici lettori* di manzoniana memoria, che, dopo la migrazione da blogger a wordpress, si sono peraltro – inspiegabilmente? – dimezzati, e l’unica cosa gratuita che io abbia mai ricevuto sono un paio di PDF da parte di amici compassionevoli, che NON LAVORANO per case editrici, preoccupati più che altro per lo stato del mio portafoglio ogni volta che accendo il mio Kindle/entro in una libreria. Stessa cosa dicasi nel caso della fidelizzazione del lettore: mi piace pensare di avere lettori infedeli, pronti a girarmi le spalle nel caso in cui ciò che scrivo non andasse più a genio; ergo, continuo a fare di questo spazio il mio mondo, e a riempirlo solo di cose che mi piacciono e mi fanno stare bene.

      Ciò detto, sono totalmente d’accordo con l’articolo di risposta dell’ottima Alessandra di Una lettrice. Alessandra si rivolge a un pubblico di nicchia (lettori versus compratori di libri). Il punto è: siamo circondati di bruttezza, perché non mettere in circolo un po’ di bellezza (un po’ di quella che Muriel Barbery definirebbe un sempre nei mai?)

      Un #Librobello fa bene al cuore, illumina la fantasia, accende sogni, attenua il grigiore della routine quotidiana. E fa evadere, conoscendo altri mondi, altre realtà, altri cuori (ci sono tanti ingegni quante teste, ci sono tanti generi d’amore quanti cuori, scriveva Tolstoj in Anna Karenina).

      Inoltre, se leggo un libro brutto (e i libri li finisco, sempre, perché non credo al decalogo del lettore di Pennac) preferisco farlo finire nel dimenticatoio il prima possibile. Un #Librobello mi fa venire voglia di raccontare le mie impressioni; un libro brutto mi lascia poco e niente, e quel poco non ho voglia di raccontarlo. E questo è quanto.

      2) È possibile che io sia la sola ad essere piena di dubbi, piena di incertezze, piena di voglia di imparare da tutti, nessuno escluso (perché tutti hanno qualcosa da insegnare)?

      Molti di coloro che scrivono e parlano di libri su testate, webzine, blog, social media e quant’altro mi sembrano a volte troppo pieni delle (loro) certezze, poco aperti al dialogo. Troppo infervorati, troppo arrabbiati, troppo pronti ad abbaiare e, se necessario, a mordere.Quella che troppo spesso mi sembra una corrida potrebbe diventare un sano, armonioso simposio, con un po’ di apertura in più, con un po’ di voglia di ascoltare in più, con un po’ di voglia di scambiarsi idee, opinioni, impressioni.

      3) Chi decide quali siano i libri “giusti” da leggere? (E qui vi rimando ai post della mitica McMusa sul Poptimism e sulla pop revolution).Intendiamoci, anch’io ho i miei gusti: ma credo che – specie quando si parli di lettori in erba che si avvicinano ai libri per le prime volte, o di non lettori che tentano di diventare tali – un libro sia un successo già se riesce a far spegnere PC, tablet, smartphone, PSP e quant’altro, e riesce a far incollare gli occhi alla pagina, o al reader. Per me, un libro è bello nella misura in cui rende felice un lettore. Sarà una visione buonista alla Pollyanna, ma è la mia, e Pollyanna peraltro mi è sempre risultata alquanto antipatica. Non entro invece nel merito di tutto quello che viene pubblicato/auto pubblicato, la cui qualità è (spesso?) dubbia. Credo però che esistano case editrici che compiono scelte coraggiose e scelgono il sentiero meno battuto, per dirla con Frost.

      Ad esempio, ultimamente ho avuto il piacere di innamorarmi della collana Senza frontiere di Edizioni Lindau, casa editrice indipendente nata a Torino nel 1989 con un catalogo che spazia dalla saggistica cinematografica alla storia, dall’attualità alla narrativa. Allo stesso modo, emergono librerie indipendenti come la Modus Vivendi di Palermo. Cito dalla loro pagina Facebook:

      La libreria Modusvivendi nasce nel giugno del 1997 da un progetto, non solo professionale, di Marcella e Salvo Spiteri. Non casuale infatti la sua denominazione. Un modo nuovo e moderno di “fare libreria” dando spazio alla piccola e media editoria di qualità. Libreria indipendente fuori dalle logiche di mercato. Siamo librai attenti al nuovo e al “catalogo”. Leggiamo i libri che proponiamo creando un rapporto di fiducia e scambio con il cliente. Organizziamo laboratori, eventi e presentazioni.

      Vivo all’estero da tanti anni che ho perso un po’ il contatto con quello che succede in Italia a livello di libri&affini: vi prego dunque di segnalarmi case editrici indipendenti, librerie che lancino idee originali, collane che sicuramente mi sono sfuggite.

      4) Un libro non è solo un bene di consumo. Non è carta, inchiostro, copertina, brossura, o un file mobi o epub.

      I libri raccontano storie. Sono contenitori di sogni e di emozioni. Insegnano. Fanno viaggiare quando non si può farlo effettivamente, ma non si vorrebbe fare altro che scappare (chi non è felice si muove, o ci prova, quantomeno). I libri cambiano il lettore e cambiano con la lettura. I libri sono saturi di contenuti affettivi – basta andare a rileggersi l’articolo di Helen Rosner su quanto si possa amare un libro perché ci è stato consigliato, o, meglio ancora, prestato, da una persona cara, una persona che ha rappresentato una larga fetta della nostra vita – di lettori e non.

      E quello che vedete qui sotto è il mio scaffale felice, in cui mi rifugio quando ho bisogno di indicazioni, di indizi, di risposte, di spunti, di storie. O, semplicemente, di ritrovarmi.

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      PS: ovviamente il titolo del post è un omaggio al celeberrimo racconto di Carver, What we talk about when we talk about love.

      *si, i lettori di Manzoni erano 25. Ma, quando ho iniziato a scrivere sul blog, i miei erano effettivamente 15 😉

      Posted in Ophelinha legge | 16 Comments | Tagged Bookworms, Muriel Barbery, Raymond Carver, What we talk about when we talk about love
    • Montagne russe

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 3, 2014
      I didn’t fall in love. I fell through it:
      Came out the other side moments later, hands full of matter, waking up from the dream of a bullet tearing through the middle of my body.
      I no longer understand anything for longer than a long moment, or the time it takes to receive the shot.
      This kind of gravity is like falling through a cloud, forgetting it all, and then being told about it later. On the day you fell through a cloud . . .
      (Love letter – Clouds, Sarah Manguso)
      Life is a Roller Coaster, Christine Wagner

      Questa breve, brevissima storia e’ una traduzione un po’ riadattata di una storia in Inglese che ho pubblicato qui, e che trovate sotto il testo in Italiano.

      ****************************

      Ho sempre avuto paura delle montagne russe.

      Non di quelle fobie, tipo il sangue; piuttosto quel tipo di paura che ti blocca quando sei a due passi dall’oggetto dei tuoi desideri, eppure non riesci ad allungare la mano per toccarlo.

      Le guardo, le montagne russe. Ne sono affascinata e repulsa al tempo stesso. Il momento più brutto è il prima: il dibattito interiore sui pro e i contro di salire sul trenino, la lotta tra ansia e eccitazione, le mani gelate, la nausea durante la prima parte del tragitto, breve, calma, ingannatrice, il terrore della salita.

      (Ricordarsi di respirare).

      Ma la discesa è sempre qualcosa di magico: il panico si mischia all’eccitazione e insieme formano una miscela che mi esplode nella pancia, lasciandomi libera, leggera, lontana da tutto e da tutti, così vicina al cielo da dover solo allungare la mano per toccare le stelle. Lasciandomi preda di pensieri un po’ morbosi, a desiderare che la morte sia un po’ così, come questa caduta che in realtà è un’ascesa verso le nuvole e le stelle, come lasciare le proprie paure a terra e diventare leggera come un palloncino, fino a diventare solo aria. Non un addio ma un arrivederci, non una fine ma una trasformazione.

      Ho capito di non essere mai salita sulle montagne russe quando ho conosciuto te. Il mio istinto, quello che si nasconde nella pancia, mi ha suggerito di scappare lontano a gambe levate. Ma io sono rimasta, incapace di muovermi, senza parole, quasi istupidita.

      Dovevo restare, semplicemente, anche quando il mio restare era solo un rituale vuoto a perdere, la mia autostima un agnello sacrificale immolato all’altare della tua vanità. Dovevo restare, anche quando mi centrifugavi il cuore e mi trituravi l’anima, e io ero in caduta libera.

      Non mi stavo innamorando, stavo cadendo, barcamenandomi tra panorami da mozzare il fiato e vertigini buie, fatte di solitudine (ricordarsi di respirare, far arrivare aria alla pancia, zittirne l’istinto primordiale. Si tratta sempre di respirare).

      Sei stato le mie montagne russe. È stata la corsa più spaventosa, piena di ostacoli, selvaggia della mia vita. Il triplo salto mortale dello stomaco, la vitalità nuda e cruda, la cecità, l’euforia, l’incanto, la frustrazione pura hanno conferito alla mia caduta una certa nobiltà, dignità, sobrietà. Inevitabilità.

      Ora sono rimasta con un gomitolo di parole, le nostre parole (euforica, cotta, infatuata, pazza di).

      E non posso più usarle, quelle parole, e non riesco a trovarne altre. E sono ancora senza fiato. E sto ancora cadendo.

      ***********************************

      I have always been scared of rollercoasters.

      Not scared like I am when it comes to blood: the kind of scared that makes you want something so badly, yet being afraid of reaching out and touching it.

      I would be amusingly scared when looking at them, quite preoccupied queuing for  them (after much talking and debating with myself the pros and cons of wanting something so badly, yet being so terrified), kinda anxious seating in the wagon, nauseous at the beginning, in tenterhooks after the first, tentative, easy part of the ride, utterly horrified while going up, up, up.

      But in going down the magic would happen: the fear would mingle with excitement and together they would explode, leaving me ever so light, so ethereal, so close to the sky that I would only have to stretch my arm in order to touch the stars. Leaving me with the estranged, morbid wish that death could be something like that, leaving all your fears behind and getting lighter and lighter and lighter reaching for the clouds, mingling with them, dissolving into them. Not a farewell but just a goodbye, not an ending but a transformation.

      Anyway, I found out I had never really been on a rollercoaster when I first met you, and my gut instinct (it’s always the guts) told me to run as fast as I could, but there I stayed, dumbstruck.

      I had to stay, as simple as that, even when my staying was just a redundant, empty gesture, my self-esteem a new born lamb sacrificed to the altar of your vanity. I had to stay, even when you were running my bare soul in the spin cycle, and I was freefalling.

      It wasn’t falling in love, it was falling from it and through it, far away from any possible state of grace, sailing through tough days and breath taking moments, loneliness and completeness, utter misery and thorough bliss. (Breath and guts, it was always a question of breath and guts)

      You were my own rollercoaster. It was by far the scariest, the bumpiest, the wildest ride of all. The triple jump of my guts, the sheer vitality, the blindness, the elation, the enchantment, the sheer frustration gave my fall from grace a certain dignity, a sobriety, a solemnity, a feeling of unavoidability.

      Now I am left with a ball of thread made of words, our words (elated, smitten, besotted. Who knew the English language could be so enthralling).

      And I am still lost for words, and I am still catching my breath. And I am still falling.

      Cecily Brown, Shadow burn, Gagosian gallery

       

      Cecily Brown, Combing the Hair (Côte d’Azur), Gagosian gallery

       

       

       
      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 0 Comments | Tagged In the mood for love, Poetry, Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Things we forget, What we talk about when we talk about love
    • Raw with love (l’amore secondo Bukowski)

      Posted at 11:50 pm08 by ophelinhap, on August 15, 2014

      Little dark girl with
      kind eyes
      when it comes time to
      use the knife
      I won’t flinch and
      I won’t blame
      you,
      as I drive along the shore alone
      as the palms wave,
      the ugly heavy palms,
      as the living does not arrive
      as the dead do not leave,
      I won’t blame you,
      instead
      I will remember the kisses
      our lips raw with love
      and how you gave me
      everything you had
      and how I
      offered you what was left of
      me,
      and I will remember your small room
      the feel of you
      the light in the window
      your records
      your books
      our morning coffee
      our noons our nights
      our bodies spilled together
      sleeping
      the tiny flowing currents
      immediate and forever
      your leg my leg
      your arm my arm
      your smile and the warmth

      of you
      who made me laugh
      again.
      little dark girl with kind eyes
      you have no
      knife. the knife is
      mine and I won’t use it
      yet. 

      Ragazzina mora dagli occhi gentili

      quando verrà il tempo di usare il coltello

      non batterò ciglio

      e non incolperò

      te,

      mentre guido lungo la costa, da solo

      mentre ondeggiano le palme,

      palme brutte, pesanti

      quando i vivi non arrivano

      e i morti non se ne vanno

      non incolperò te,

      invece

      ricorderò i baci

      le nostre labbra scorticate d’amore

      e ricorderò come mi hai dato

      tutto quello che avevi

      e come io ti ho offerto

      quello che restava di me

      e ricorderò la tua stanzetta

      il senso di te

      la luce alla finestra

      i tuoi dischi

      i tuoi libri

      i nostri caffè mattutini

      i nostri pomeriggi le nostre notti

      i nostri corpi fusi

      addormentati

      flussi e correnti minime

      immediate ed eterne

      la tua gamba la mia gamba

      il tuo braccio il mio braccio

      il tuo sorriso e il tuo calore

      tu

      che mi hai fatto ridere

      di nuovo.

      Ragazzina mora dagli occhi gentili

      non hai un coltello.

      Il coltello è mio e non lo userò

      non ancora.

      Ci sono poesie che sono ferite aperte e ogni verso getta un po’ di sale nel taglio.
      Ci sono poesie che appartengono a tutti, perché parlano un linguaggio semplice e diretto.
      Ci sono poesie che sono come strali, perché sono nude. Perché sono vere.
      C’è Charles Bukowski, e ci sono notti che arrivano accompagnate da una malinconia pertinace, che si attacca alla pelle come l’afa di agosto, quell’afa che contiene già in grembo la promessa delle piogge di fine estate che verranno e porteranno via con sè la sabbia dai teli da mare, insieme a ricordi di cose che sono state e non sono più. Cose che potevano essere e non saranno mai.
      C’è Bukowski, e c’è una ragazzina dagli occhi profondi e gentili, e c’è l’impossibilità di viverlo nel momento, l’amore, perché c’è la consapevolezza che finirà, che andrà via, come il solleone di agosto che si scioglie nelle piogge di settembre torrenziali e piangenti di cardarelliana memoria.
      C’è un coltello, perché l’amore è una lama sottile e affilata, che può facilmente ferire anche le pelli più dure.
      C’è l’amore, e ci sono gli amanti, separati e tenuti insieme dalla promessa e dalla minaccia di questa lama sospesa nel mezzo, prigionieri del dilemma dei porcospini di Schopenauer:  se si avvicinassero troppo, se decidessero di vivere come un’entità sola, gli aculei dell’uno infliggerebbero sicuramente dolore all’altro, e viceversa. E allora l’amore diventa una sorta di balletto, un avvicinarsi allontanarsi riavvicinarsi prendersi riprendersi lasciarsi, dilaniati da una parte dalla paura di soffrire, dall’altra dalla paura della perdita, del vuoto, della solitudine, ottenebrati dall’immensità di questa dipendenza fisica e intellettuale, fatta di carne e sogni, di pelle e pensieri, di sangue e sudore.
      C’è l’amore che è un’arma a doppio taglio, fatta di beatitudine e di solitudine.
      Se la ragazzina usasse il coltello contro Bukowski, quest’ultimo non batterebbe ciglio, né l’accuserebbe, perché guiderebbe già nelle ramblas di chi sa che ha già perso in partenza, sospeso in una terra di mezzo costeggiata di palme brutte perché pesanti, brutte perché in qualche modo delimitano un orizzonte brumoso, senza confini, che limiti non dovrebbe avere dal momento che è una terra di nessuno, una regione dove i vivi non arrivano e i fantasmi dei morti (degli amori persi e finiti? delle cose che avrebbero potuto essere e non saranno mai?) non vogliono proprio saperne, di andarsene.
      È la terra di passaggio di tutti coloro che hanno perso un amore e camminano alla cieca, avanzando a tentoni, nella nebbiolina dell’oblio.
      No, Bukowski non ce l’avrebbe con la morettina dagli occhi gentili: userebbe il suo tempo in questa terra di nessuno per ricordarla, centimentro per centimetro. Ricordare le labbra scorticate dall’amore, i baci crudi. Ricordare come lei gli avesse dato tutto quello che aveva e lui, in cambio, solo quello che gli era rimasto, o meglio, quello che di lui era rimasto.
      Ricorderebbe questa ragazza minuta nella sua camera, la luce del mattino che penetrava tra le fessure delle imposte, la stanza infestata da un amore crudo, nudo, puro, essenziale.
      Ricorderebbe tutto quello che la definiva: i suoi libri, i suoi dischi, la sua presenza minuta nella sua piccola stanza.
      Ricorderebbe tutto quello che li definiva: i loro caffè mattutini, il loro mezzogiorno e la loro notte, quando il braccio di lei era il braccio di lui, quando c’era una confusione di gambe di arti di respiri di sudore di pelle. Quando quell’amore duro, nudo, scorticato era una questione di centimetri di pelle e di correnti. Quando il sorriso di lei gli aveva insegnato a ridere, di nuovo.

      No, Bukowski non le serberebbe rancore. Perché l’amore è un’arma a doppio taglio, e forse il coltello per tagliare quel filo sottile che sono loro due non è nelle piccole mani di lei, ma nelle mani sofferte e forti di lui. Che lo userà, perché sa che quello che lo aspetta è quel viale alberato senza inizio né fine, che ha come partenza la fine e come arrivo la solitudine, passando attraverso il lungo tunnel dell’oblio.
      Lo userà, ma non ancora. Perché in fondo, l’amore è una nebbia che si dissolve al mattino. Per essere più precisi, è una nebbiolina combustibile che brucia con le prime luci del mattino, sostiene Bukowski, sostiene:

      Love is kind of like when you see a fog in the morning, when you wake up before the sun comes out. It’s just a little while, and then it burns away… Love is a fog that burns with the first daylight of reality.

      E ancora:

      If there are junk yards in hell, love is the dog that guards the gates.

      Se ci fossero discariche di rottami all’inferno, l’amore sarebbe il cane che ne sorveglia i cancelli. Perché l’amore è un cane dall’inferno, sostiene Bukowski, sostiene. 

       

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura americana, Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged Charles Bukowski, Le notti bianche, Literature and Beyond, Poetry, What we talk about when we talk about love
    • If you are not ready for love, how can you be ready for life?

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 29, 2014
      I don’t want to judge
      What’s in your heart
      But if you’re not ready for love
      How can you be ready for life?
      How can you be ready for life?
      Soko, We might be dead by Tomorrow
       
       

      Ieri parlavo con un’adorabile bambina anglo-spagnola di quasi sei anni. Si chiama Emma, e già il nome te la rende simpatica (Emma Woodhouse docet).
      Era nervosa perché il giorno successivo si sarebbe esibita nel suo primo spettacolo di danza, e aveva paura di dimenticarsi i passi.
      Io le ho raccontato del mio spettacolo teatrale la settimana precedente, di quanto sia divertente stare sul palcoscenico, di quanto tutto il resto smetta di esistere.
      Non era convinta.
      Le ho fatto vedere le foto dei costumi, che le sono piaciute tantissimo, perché per lei eravamo tutte principesse.
      Ha voluto che le raccontassi la storia di Ofelia e Amleto. L’ho fatto, per grandi linee.
      Mi ha guardato ancora più perplessa. Mi ha chiesto se adesso mi chiamassi Ofelia, e perché fossi diventata pazza, e perché “quel tizio”, Amleto, non mi amasse più.
      Poi, guardandomi con i suoi occhioni azzurri, mi ha chiesto: “ma com’è possibile che un ragazzo ti ami e poi non ti ami più?”
      E io lì sono rimasta basita. Ho invocato tutti gli articoli di Brain Pickings sulla scienza dell’innamoramento, Alberoni, La verità è che non gli piaci abbastanza. Niente.
      La verità vera è solo una: non lo so. Non so perché ci si innamora. Non so perché si smette di amare.
      Non so perché non si viene ricambiati. Non so perché qualcuno smette di amarci.
      Non so quando cominciano e quando smettono le farfalle nello stomaco. Non so quando il cuore in gola smette di essere semplicemente una metafora, e quando riprende ad essere una mera figura allegorica.
      Conosco, come tutti o quasi, il profumo nauseante delle mandorle amare, emissarie di un amore non ricambiato.
      La risposta, cara Emma, è: non lo so. Non ne ho nessuna idea. Alla fine ha ragione Carver, in What we talk about when we talk about love: dovremmo avere l’umiltà di ammettere di non sapere di cosa stiamo parlando, quando parliamo d’amore. Nel racconto di Carver, il protagonista – Mel, un chirurgo – racconta una storia: due anziani hanno avuto un incidente automobilistico e, contro ogni aspettativa, se la sono cavati entrambi. Eppure, lui è triste, deperisce a vista d’occhio, si rifiuta di mangiare; questo perché il collare di gesso gli impedisce di girarsi e guardare la moglie, accertarsi che stia bene. Sapere che c’è, anche solo intravedendola con la coda dell’occhio.

      La verità, cara Emma, è che io non ci ho mai capito niente, ma una cosa ti auguro: ti auguro di non crescere come me, esposta troppo precocemente a Jane Austen, alle sorelle Bronte, a Love Story di Erich Segal.
      Non crescere in mezzo alle principesse. Non crescere coltivando la convinzione che l’amore sia insieme la più grande domanda e la risposta ultima, l’ultimo pezzo del puzzle, il bandolo della matassa, una forza risolutiva e salvifica, il faro verso il quale navigare.
      Non cullarti nella certezza che un amore possa salvarti.
      Impara a salvarti, da sola. Impara ad amarti, prima che amare. Maya Angelou, gigante della letteratura scomparso ieri, affermava di non fidarsi di chi diceva di amarla ma non amava se stesso, e che bisogna fare attenzione a una persona nuda che ti offre una camicia.
      Impara ad essere indipendente, a cercare il tuo posto nel mondo. Coltiva la tua curiosità, la tua sete di conoscere, il tuo desiderio di viaggiare, di esplorare, di ridere, di buttarti a capofitto in nuove esperienze.
      Impara ad abbracciare il nuovo come se fosse un amico benevolo, non un nemico dal quale diffidare.
      Solo così potrai essere pronta all’amore, senza bruciare nessuna tappa, senza rimpianti. Solo così potrai cercare di imparare ad amare.
      Solo così potrai innamorarti dell’amore.

      Prima di andarsene con la mamma, Emma si è girata e mi ha detto: “io comunque non ce l’ho un fidanzato, e nemmeno mi interessa”.

      Way to go, girl.

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 0 Comments | Tagged Confessions of a Dangerous Mind, Jane Austen, Me myself and I, Ofelia, Raymond Carver, What we talk about when we talk about love
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