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  • Tag: Walt Whitman

    • Cartoline da New York: passeggiate letterarie

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 20, 2016

      Ho un rapporto un po’ strano con New York. Nel senso, non è stato amore a prima vista, anzi. Ci sono andata per la prima volta tre anni e mezzo fa. Arrivavo da Boston, dal mio New England, dal verdissimo campus di Harvard: New York mi era sembrata troppo. C’è anche da dire che in ogni viaggio cerco qualcosa di quella Albione che possiede il mio cuore da decenni ormai: in questo sono un po’ come Henry James, lo scrittore sospeso tra due continenti, che viveva a Washington Square (che sembra quasi londinese), sostenendo che fosse la parte “più squisita” di New York, più quieta, più ricca, più onorevole. Oggi al posto della casa di Henry James c’è una delle facoltà della NYU, ma Washington Square (dove abitavano anche Edith Warthon, la regina dei salotti newyorchesi, e Edward Hopper) mantiene quell’aspetto un po’ romantico, un po’ decadente, un po’ demodé che mi fa sempre sognare ad occhi aperti.

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      Washington Square

       

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      Qui ha vissuto Edith Wharton

       

       

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      Qui ha vissuto Edward Hopper

      Comunque, avevo cercato di mettere nero su bianco i miei alti e bassi con New York in un racconto (che trovate qui) ispirato ad una canzone di Leonard Cohen.
      Questa volta, la mia esperienza con New York è stata diversa: sarà stato il Natale, sarà stata la ferrea volontà di cercare di non fare la turista e di andare semplicemente alla ricerca delle cose che mi piacciono, senza orari né programmi.

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      Rockefeller Center

      Attraversando a piedi il Brooklyn bridge la sera del ventisei dicembre ho capito finalmente cosa intendesse Joan Didion quando scriveva che a New York “tutto sarebbe potuto accadere, ogni minuto, ogni mese”: lasciandomi alle spalle la (relativa) oscurità di Brooklyn per farmi abbracciare dalle sfavillanti luci di Manhattan, ho pensato che in fondo la cosa che rende New York un posto assolutamente unico al mondo non sono gli sgargianti billboard di Times Square, né la silhouette dell’Empire State Building (o dell’elegante Chrysler, il mio preferito, o del buffo Flatiron). La cosa che rende New York unica al mondo è questo senso di possibilità, questa certezza quasi matematica (che magari dura solo mezz’ora, come nel caso della mia traversata) che tutto possa cambiare, che nella Grande Mela sia possibile lasciarsi tutto alle spalle, liberarsi dei fardelli del passato e respirare a pieni polmoni, reinventandosi, imparando di nuovo ad essere felice.

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      Con questa nuova sicurezza in tasca ho smesso di pianificare e, affidandomi semplicemente alle mie mappe letterarie di NYC, sono andata alla ricerca di librerie indipendenti e non, mostre, angoli meno popolati ma non per questo meno affascinanti. Ho camminato per ore per il Village sotto la pioggia, ritrovandomi poi a Little Italy e trovando rifugio nella McNally Jackson Books, dove ho afferrato una copia di All My Puny Sorrows (in italiano I miei piccoli dispiaceri, edito da Marcos y Marcos) di Miriam Toews e ne ho letto d’un fiato le prime quaranta pagine, per poi finire il libro nel Greyhound da New York a Philadelphia.

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      Tra un pretzel e un sidro di mele dello Union Square Farmers Marker, sono arrivata al mitico Strand Bookstore, che ospita 18 miglia di libri, un piano dedicato a magnifiche edizioni antiche, prime edizioni e edizioni per collezionisti e una sorta di immensa caverna sotterranea di libri usati. Quest’ultima mi ha però deluso: nella sezione saggistica e critica letteraria i libri non erano disposti in ordine alfabetico, ma un po’ a caso. La polvere e il gran numero di persone non aiutano poi a cercare con calma libri interessanti, e i prezzi dell’usato non sono molto bassi. Poco male: sulla Fifth Avenue ho trovato uno stand dello Strand Bookstore, di fronte all’elegante Plaza Hotel, dove ho potuto spulciare libri a piacimento (e all’aperto), nonostante l’aria frizzantina di un tardo pomeriggio dicembrino.

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      Copia di “Little failure” autografata da Gary Shteyngart

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      Copia di “Invisible Monsters” con autografo e dedica di Chuck Palahniuk

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      Sempre alla ricerca di libri usati e edizioni varie, sono finita al Brooklyn Flea Market (che durante i mesi invernali si tiene al chiuso), una vera chicca per gli amanti del vintage.

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      Amo i campus delle università americane. Sono così eleganti, così ordinati, dall’architettura raffinata e dalle biblioteche così accoglienti che ti fanno venire voglia di mollare tutto e sederti su una poltrona di pelle e avvicinarti a un tavolo di mogano, alla luce fioca di una lampada, e leggere fino all’orario di chiusura. Non potevo non visitare la Columbia University, dove hanno studiato Isaac Asimov, Paul Auster, Federico García Lorca, Allen Ginsberg, Langston Hughes, Jack Kerouac (che ha abbandonato gli studi prima di laurearsi), Ursula K. Le Guin, Carson McCullers, J.D. Salinger, Hunter S. Thompson, Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt e Madeline Albright, per citare un paio di nomi.
      La Columbia è famosa per la sua scuola di giornalismo, fondata da Joseph Pulitzer – sì, quello del premio, che è stato creato appunto dall’università e viene assegnato ogni anno ai fortunati vincitori nella Low Library.

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Wendell Berry 🙂

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      Dalla Columbia sono passata a Central Park e sono andata alla ricerca delle anatre di Holden Caulfield (confermo che il lago era pieno di pennuti, probabilmente perchè è stato un Natale caldissimo a New York). Di Central Park amo le panchine: mi piace fermarmi a leggere le dediche sulle targhe, immaginare le vite delle persone che si sono intrecciate magari proprio tra gli alberi, le foglie e i sentieri del parco, i loro volti, le loro storie.

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      Pensando a Walt Whitman e alla sua Crossing Brooklyn Ferry, ho preso il traghetto per Staten Island nel corso di una mattinata azzurra e freddissima, contemplando lo skyline di Manhattan e la Statua della Libertà.

      What is it, then, between us?

      What is the count of the scores or hundreds of years between us?

      Whatever it is, it avails not—distance avails not, and place avails not.

      Cosa c’è da fare a Staten Island? Poco e niente, come ho avuto modo di appurare. Nell’isola c’è una cittadina storica, Richmond, che avrei voluto visitare, ma dista una cinquantina di minuti dal porto e, nella città che non dorme mai, il tempo è tiranno. Mi sono rifatta con uno stupendo tramonto su Wall Street e una passeggiata a Williamsbourg.

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      Una delle tappe più piacevoli della mia vacanza newyorchese è stata la visita alla mostra dedicata a Hemingway, Ernest Hemingway: Between Two Wars, ospitata dalla Morgan Library & Museum. Sfortunatamente non si potevano scattare foto all’interno, ma era ricca di tesori per gli amanti di good ol’Ernest: lettere all’ultima moglie Mary, la lettera che Salinger gli scrisse nel 1945 e che rimane una testimonianza dell’amicizia tra i due scrittori, i divertenti carteggi tra Hemingway e Fitzgerald, le lettere di Dorothy Parker, che si preoccupava alquanto del giudizio di Hemingway. E poi ancora quaderni manoscrittti, progetti di scrittura, appunti: una vera e propria immersione nel mondo di Hemingway e nel ruolo che le due guerre mondiali e la guerra civile spagnola hanno giocato nel suo immaginario di scrittore. Nello shop del museo mi sono regalata Hemingway in love, un memoir su Ernest e le sue donne scritto dall’amico A.E. Hotchner, e una raccolta di racconti di Hemingway.

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      La notte del 31 dicembre mi sono ritrovata in mezzo a un milione di persone a Times Square, ad aspettare la caduta della palla. Non amo particolarmente l’ultimo dell’anno: arriva sempre col suo carico di rimpianti, di malinconia e di bilanci, di propositi per l’anno nuovo che verranno puntualmente riscritti o abbandonati nel corso delle prime due settimane di gennaio. Mi sono ritrovata ad osservare le persone intorno a me, armate di fischietti e di incontenibile entusiasmo, e mi sono ritrovata a chiedermi a cosa pensassero, cosa causasse quell’incontenibile allegria. Con la mezzanotte è arrivata anche la mia risposta: festeggiavano semplicemente il fatto di essere vivi, di essere riusciti a rimanere a galla per un altro anno, di essere circondati dalle persone che amavano, di avere la possibilità di dare il benvenuto al 2016 tra le luci sfavillanti di Times Square, nella città in cui ogni strada sembra una possibilità e nessun obiettivo sembra irraggiungibile. Nella città in cui sembra possibile lasciar andare gli errori del passato e ricominciare da zero, abbracciando con fiducioso entusiasmo tutto il futuro che ci sarà.

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      Soundtrack: New York, New York,  Frank Sinatra

      Posted in Cartoline | 22 Comments | Tagged A.E. Hotchner, All my puny sorrows, Brooklyn Bridge, Carson McCullers, Columbia University, Crossing Brooklyn Ferry, Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Federico García Lorca, Francis Scott Fitzgerald, Frank Sinatra, Franklin Delano Roosevelt, Hemingway in Love, Henry James, Hunter S. Thompson, I miei piccoli dispiaceri, Il giovane Holden, Isaac Asimov, J.D. Salinger, Jack Kerouac, JD Salinger, Joan Didion, La lettrice rampante, Langston Hughes, Letteratura americana, Little Italy, Madeline Albright, Manhattan, Marcos y Marcos, McNally Jackson Books, Miriam Toews, Morgan Library, Paul Auster, Philadelphia, Premio Pulitzer, Staten Island, Strand Bookstore, Theodore Roosevelt, travelling, Turismo letterario, Ursula K. Le Guin, viaggi e altri viaggi, Walt Whitman, Washington Square
    • Walt Whitman, Wislawa Szymborska e due poesie che battono all’unisono

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 3, 2014
      Walt Whitman (1819 – 1892)
       
      In un momento di serendipità, due poeti diversi, due poesie che battono con un unico cuore: A uno sconosciuto (To a stranger) e Amore a prima vista (Love at first sight).
      Lui è Walt Whitman, il celeberrimo poeta statunitense autore di Leaves of Grass e di Song of the open road; lei è la polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996.

      Entrambi si rivolgono allo sconosciuto, al passante, partendo da due punti di vista diversi: Whitman è il protagonista della poesia, colui che osserva lo sconosciuto, la passante, e si sente esplodere di una divina impazienza, perché la sua ricerca potrebbe essere finita: lui/lei potrebbero essere l’amore della sua vita, l’amico che cercava, qualcuno con cui in passato ha già condiviso momenti e sorrisi. Qualcuno che ha già toccato la sua vita e tornerà a toccarla, qualcuno con cui correre, qualcuno che diventa lo stesso Whitman: i confini tra le due diverse fisicità si perdono, e i due diventano stesso corpo, stesso sangue, due cuori che battono all’unisono fino a fondersi in uno solo.

      La Szymborska, invece, si diverte a fare la benevola osservatrice esterna di una coppia di passanti, convinti di essersi appena incontrati, di essere uno dei fortunatissimi (e fortuiti) casi di amore a prima vista. La poetessa ne immagina tutte i momenti, le situazioni in cui la loro vita deve essersi inconsapevolmente toccata: i segni, i segnali, i sogni. Perché non esistono lieti inizi, ma solo lieti seguiti, e non esistono lieti fini, perché il libro degli eventi è sempre aperto a metà.

      Entrambi i poeti accarezzano l’idea del passante come contenitore delle infinite possibilità della vita, una sorta di giardino dei sentieri che si biforcano alla Borges. I due sembrano rifarsi alla filosofia di John Donne: nessun uomo è un’isola, e quando suona la campana a morte una piccolissima parte di noi muore. Perché tutti noi siamo parte di un unico corpo, e quando un braccio o un dito o il collo fanno male, l’intero organismo si abbatte. Non esistono dunque sconosciuti, ma soltanto misteri, punti interrogativi, incroci, possibilità.
      E tutti in qualche modo riescono a toccare la nostra vita, seppur per un momento fugace.

       

       

      To a Stranger, Walt Whitman (Leaves of grass)

      PASSING stranger! you do not know how longingly I look upon you,
      You must be he I was seeking, or she I was seeking, (it comes to me, as of a dream,)
      I have somewhere surely lived a life of joy with you,
      All is recall’d as we flit by each other, fluid, affectionate, chaste, matured,
      You grew up with me, were a boy with me, or a girl with me, 5
      I ate with you, and slept with you—your body has become not yours only, nor left my body mine only,
      You give me the pleasure of your eyes, face, flesh, as we pass—you take of my beard, breast, hands, in return,
      I am not to speak to you—I am to think of you when I sit alone, or wake at night alone,
      I am to wait—I do not doubt I am to meet you again,
      I am to see to it that I do not lose you.

      Ad uno sconosciuto
       Sconosciuto che passi! tu non sai con che desiderio io ti guardo,
      tu devi essere colui che io cercavo, o colei che cercavo
      (mi arriva come un sogno),
      certamente ho vissuto in qualche luogo una vita di gioia,con te
      tutto è ricordato, mentre passiamo l’uno vicino all’altro
      fluido, amorevole, casto, maturo
      sei cresciuto con me, sei stato ragazzo o ragazza con me,
      io ho mangiato e dormito con te, il tuo corpo è diventato
      qualcosa che non appartiene soltanto a te, nè ha
      lasciato che il mio restasse mio soltanto,
      mi hai dato il piacere dei tuoi occhi, del tuo volto, della
      tua carne, mentre io passo tu ne prendi in cambio
      dalla mia barba, dal mio petto, dalle mie mani,
      non devo parlarti, devo pensarti a te quando seggo da solo o
      veglio la notte da solo
      devo aspettarti, non dubito che t’incontrerò ancora,
      e a questo devo badare, di non perderti.

      Wislawa Szymborska (1923 – 2012)

      Amore a prima vista

      Sono entrambi convinti
      che un sentimento improvviso li unì.
      E’ bella una tale certezza
      ma l’incertezza è più bella.

      Non conoscendosi prima, credono
      che non sia mai successo nulla fra loro.
      Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
      dove da tempo potevano incrociarsi?

      Vorrei chiedere loro
      se non ricordano –
      una volta un faccia a faccia
      forse in una porta girevole?
      uno “scusi” nella ressa?
      un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
      – ma conosco la risposta.
      No, non ricordano.

      Li stupirebbe molto sapere
      che già da parecchio
      il caso stava giocando con loro.

      Non ancora del tutto pronto
      a mutarsi per loro in destino,
      li avvicinava, li allontanava,
      gli tagliava la strada
      e soffocando un risolino
      si scansava con un salto.

      Vi furono segni, segnali,
      che importa se indecifrabili.
      Forse tre anni fa
      o il martedì scorso
      una fogliolina volò via
      da una spalla all’altra?
      Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
      Chissà, era forse la palla
      tra i cespugli dell’infanzia?

      Vi furono maniglie e campanelli
      in cui anzitempo
      un tocco si posava sopra un tocco.
      Valigie accostate nel deposito bagagli.
      Una notte, forse, lo stesso sogno,
      subito confuso al risveglio.

      Ogni inizio infatti
      è solo un seguito
      e il libro degli eventi
      è sempre aperto a metà.

      Traduzione di Pietro Marchesani

      Love at first sight

      Both are convinced
      that a sudden surge of emotion bound them together.
      Beautiful is such a certainty,
      but uncertainty is more beautiful.

      Because they didn’t know each other earlier, they suppose that
      nothing was happening between them.
      What of the streets, stairways and corridors
      where they could have passed each other long ago?

      I’d like to ask them
      whether they remember– perhaps in a revolving door
      ever being face to face?
      an “excuse me” in a crowd
      or a voice “wrong number” in the receiver.
      But I know their answer:
      no, they don’t remember.

      They’d be greatly astonished
      to learn that for a long time
      chance had been playing with them.

      Not yet wholly ready
      to transform into fate for them
      it approached them, then backed off,
      stood in their way
      and, suppressing a giggle,
      jumped to the side.

      There were signs, signals:
      but what of it if they were illegible.
      Perhaps three years ago,
      or last Tuesday
      did a certain leaflet fly
      from shoulder to shoulder?
      There was something lost and picked up.
      Who knows but what it was a ball
      in the bushes of childhood.

      There were doorknobs and bells
      on which earlier
      touch piled on touch.
      Bags beside each other in the luggage room.
      Perhaps they had the same dream on a certain night,
      suddenly erased after waking.

      Every beginning
      is but a continuation,
      and the book of events
      is never more than half open.

      -translated by Walter Whipple

       


       

       
       
      Posted in Frammenti di poesia, Letteratura americana, Letteratura e dintorni, Ophelinha legge, Ophelinha scrive | 9 Comments | Tagged Poetry, Walt Whitman, Wislawa Szymborska
    • And will never be any more perfection than there is now/ Nor any more heaven or hell than there is now (Walt Whitman)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 19, 2014

      I know it doesn’t seem that way
      But maybe it’s the perfect day
      Even though the bills are piling
      And maybe Lady Luck ain’t smiling

      But if we’d only open our eyes
      We’d see the blessings in disguise
      That all the rain clouds are fountains
      Though our troubles seem like mountains

      There’s gold in them hills
      There’s gold in them hills
      So don’t lose heart
      Give the day a chance to start

      (Ron Sexsmith, Gold in Them Hills)
      Prendo ogni giorni, da ottobre 2012 a questa parte, la stessa metro, alla stessa fermata, dallo stesso lato.
      Eppure, per un motivo o per l’altro – la fretta, il sonno, il ritardo, la testa tra le nuvole, la corsa dal tornello per prendere al volo la metro solo per poi vedersela passare davanti – non ho mai alzato gli occhi dalle scale mobili, sempre persa nella nebbia mattutina dei miei pensieri ancora assonnati, nel mio Kindle, in un libro, nei miei sogno ad occhi aperti.
      Stamattina – non so perchè – cullata dalla voce del mio Leonard, ho alzato gli occhi. E l’ho visto.
      Una specie di murales di vetro, del genere un po’ ambiguo che caratterizza la bellezza/bruttezza di Greyville  -un gruppo un po’ retrò di persone, uomini da una parte, donne dall’altra, una sorta di esplosione nel mezzo, una scritta un po’ ambigua  -Aequus nox.
      Non riuscivo a capacitarmi del fatto di non averlo mai visto, enorme, sbrilluccicante, sospeso sopra la mia testa.
      Aprire gli occhi, alzare lo sguardo è una mera questione di esercizio ed attenzione: così per la prima volta ho notato l’omino in grembiule che puliva le macchinette del caffè all’interno del bar del palazzo di specchi prima del mio ufficio; la bellezza dei rampicanti rossicci sulla palazzina della stradina interna per la quale corro ogni mattina per ridurre il mio percorso. Perché ogni minuto è prezioso. La cosa che ci si dimentica, però, è che ogni minuto passa in fretta, e in ogni minuto sono contenuti piccoli particolari che diventano ricordi subito dopo, o svaniscono nella nebbia dell’oblio, se non vi prestiamo attenzione.
      Come allontanarmi di soli dieci minuti dal mio ufficio e trovarmi in un bosco. In un bosco vero, con tanto di nebbiolina e scarpe che sprofondano nel fango e panchine fatte di tronchi di albero. Togliermi sciarpa e cappello e farmi scompigliare i capelli dal vento, circondata dal silenzio e da alberi centenari, dagli occasionali jogger, da due signore anziane in tuta di ciniglia coi loro barboncini. E poi vedere loro, una coppia di ragazzi, lui alto e allampanato, lei bassina e con le guance rosee, persi l’uno nell’altra, del tutto incuranti del vento freddo, degli sguardi delle due signore in ciniglia, del fango, di tutto. Vedere lei sorridere, lui perdersi tra i suoi capelli.
      E pensare a quanto sia difficile parlare d’amore, raccontare l’amore, senza risultare banali, senza scadere nel melenso. A quanto sia difficile far capire che ogni singola storia, ogni singolo istante, è speciale e unico. Trovare le parole giuste per raccontare uno sguardo, un sorriso, un sospiro, una lacrima, un bacio, un addio. Il cuore in gola. La stretta alla bocca dello stomaco.
      Le nostre giornate sono fatte di momenti. Ogni momento è un contenitore di immagini, di persone, di parole. Ogni istante è un contenitore di tutte quelle parole che non riusciamo a dire, di tutte le volte che vorremmo trovare il coraggio di dire qualcosa ma non ci riusciamo, di tutte quelle volte che cerchiamo le parole giuste e non le troviamo, di tutte quelle volte che cerchiamo il momento giusto. E, intanto, un altro momento è finito, un altro momento è passato.
      Ogni istante contiene qualcosa di speciale, che sul momento sembra banale, che spesso si perde perché siamo presi a rincorrere le ore, i giorni, le settimana, a gareggiare nella maratona di una vita sempre più veloce, sempre più distratta.
      Basterebbe fermarsi, un attimo, e alzare gli occhi.

       

      Soundtrack: Gold in Them Hills, Ron Sexton (About Time soundtrack)

      I know it doesn’t seem that way
      But maybe it’s the perfect day
      Even though the bills are piling
      Maybe Lady Luck ain’t smiling

      But if we only open our eyes
      We’d see the blessings in disguise
      That all the rain clouds are fountains
      Though our troubles seem like mountains

      There’s gold in them hills
      There’s gold in them hills
      So don’t lose heart
      Give the day a chance to start
      Every now and then life says:
      Where do you think you’re going so fast?
      We’re apt to think it’s cruel, but sometimes
      It’s a case of cruel to be kind

      And if we get up off our knees
      Why then we’d see the forest for the trees
      and we’d see the new sun rising
      Over the hills and horizon

      There’s gold in them hills
      There’s gold in them hills
      So don’t lose faith
      Give the world a chance to say:

      A word or two, my friend
      There’s no telling how the day might end
      We’ll never know until we see
      That there’s gold in them hills
      There’s gold in them hills
      So don’t lose heart
      Give the day a chance to start

      There’s gold in them hills
      There’s gold in them hills

      Posted in Letteratura americana, Letteratura e dintorni, Ophelinha scrive | 5 Comments | Tagged Confessions of a Dangerous Mind, Si sta facendo sempre più tardi, Walt Whitman
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