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  • Tag: un classico è per sempre

    • Harper Lee, una simpatica eccentrica

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 1, 2018

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      Harper Lee, l’immortale autrice di To Kill A Mockingbird (Il buio oltre la siepe) era un’eccentrica, accanita paladina della sua vita privata; la dedica de Il buio oltre la siepe (for Mr Lee and Alice in consideration of Love & Affection) riesce già a sottolineare quanto le vicende biografiche e familiari della scrittrice siano al centro del suo romanzo. Di qui la necessità di proteggere se stessa e la sua famiglia dalla curiosità generata prima dall’incredibile successo del libro, poi dal suo adattamento cinematografico, che valse l’Oscar a Gregory Peck nei panni di Atticus Finch.

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      Harper Lee e Gregory Peck

       

      Nelle Harper Lee cresce a Monroeville, Alabama, rifiutando ostinatamente gonne e vestitini rosa e passando l’infanzia in salopette, come la sua controparte Scout nel romanzo.

      La persona più importante della sua vita è – e resta – suo padre, l’avvocato Amasa Coleman Lee (A.C). Sua moglie Frances è praticamente assente dalla vita di Nelle e di sua sorella Alice: soffre di disturbi bipolari e agorafobia e trascorre le giornate facendo giardinaggio e le notti suonando il piano. A.C. non si lamenta della sua situazione, non lascia né tradisce la moglie, sostenendo che ognuno nella vita abbia una croce da sopportare: l’importante è riuscire a farlo al meglio. Non fa mancare niente alla piccola Nelle, anzi: passa ogni serata a fare cruciverba con lei, a leggere con lei i giornali, a inventare giochi per incrementare il vocabolario della figlia, che è anni luce più avanti rispetto ai suoi compagni di scuola. Nelle inizia anche ad imitare il tic paterno di giocare incessantemente col suo orologio da taschino (tic che Gregory Peck avrebbe fatto suo nella versione cinematografica de Il buio oltre la siepe). La descrizione di A.C. risulta familiare, vero? A.C. è Atticus Finch, padre meraviglioso e faro morale per Nelle/Scout, pilastro della comunità, strenuo nemico di ogni forma di razzismo.

      Monroeville

      Monroeville, Alabama

       

      Una delle scene chiave del romanzi (Atticus Finch, che ha deciso di difendere in tribunale Tom Robinson, giovane di colore accusato – ingiustamente – di stupro, passa la notte sotto la finestra della cella in cui Tom è imprigionato in attesa del processo, per evitare che un gruppo di fanatici lo linci) è ispirata a un evento realmente accaduto: nell’agosto del 1934, un centinaio di membri del Ku Klux Klan organizzano una marcia per Monroeville, passando anche per la casa dei Lee. A.C. interrompe la manifestazione recandosi di persona dal Gran Dragone (il Ku Klux Klan era organizzato in “regni”, che comprendevano diverse province ed erano gestiti da un Gran Dragone), mettendolo di fronte ad un ultimatum: il Dragone avrebbe interrotto la manifestazione e fatto tornare a casa gli astanti o sarebbe stato citato in giudizio da A.C. stesso. C./Atticus Finch impartisce a Nelle/Scout una lezione morale difficile da dimenticare: spesso la cosa giusta da fare non è quella più facile, né quella più popolare, ma bisogna farla ad ogni costo, anche se significa attirarsi antipatie e inimicizie o addirittura restare isolati (come succede ad Atticus dopo l’impopolare decisione di difendere Tom Robinson in tribunale).

      Harper Lee e suo padre A.C.

      Harper Lee e suo padre A.C.

       

      Ultima curiosità che dimostra quanto Il buio oltre la siepe sia effettivamente legato alla biografia di Nelle: il suo compagno di merende era il suo vicino di casa, Truman Streckfus Persons (si si, proprio lui, Truman Capote), che nel romanzo è impersonato da Dill, il migliore amico di Scout. Per appagare l’intelligenza precoce e la vivacità intellettuale dei due bambini, A.C. aveva regalato loro una macchina da scrivere Underwood, dalla quale i due si separavano raramente. Probabilmente A.C. non immaginava che quei ragazzini sarebbero diventati due degli scrittori americani più conosciuti e celebrati (e che il loro successo sarebbe poi diventato motivo di attrito tra i due, specie per Truman, invidioso del fatto che la fama della sua vecchia amica Nelle avesse eclissato la sua. Truman, fattene una ragione!)

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      Truman Capote e Harper Lee

       

      Ultimissima curiosità: nel 2015, ben 55 anni dopo la pubblicazione de Il buio oltre la siepe, Harper Lee ha autorizzato la pubblicazione di un prequel de romanzo, Go Set A Watchman, suscitando un mare di polemiche e dubbi sulla sua lucidità mentale (Lee, che sarebbe morta nel febbraio 2016, soffriva all’epoca di forti vuoti di memoria). Se siete curiosi di saperne di più, ne ho parlato qui.

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      Posted in Letteratura americana | 0 Comments | Tagged Go set a Watchman, Harper Lee, Il buio oltre la siepe, Storie dietro la storia, Truman Capote, un classico è per sempre
    • Rileggendo i classici #4: i capricci di Rossella O’Hara

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 30, 2017

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      Quando ero una ragazzina, Via col ventoera uno dei miei film preferiti. Ho visto una decina di volte la prima metà, dato che a una certa ora ero rigorosamente mandata a dormire: per me il film finiva, grosso modo, quando Rossella tornava ad Atlanta e sposava il vecchio Frank Kennedy, sottraendolo con l’inganno a quell’antipatica di Suellen.

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      Fortunatamente, ero riuscita a scovare nella libreria di mia madre una vecchia copia del capolavoro della Mitchell, che mi aveva definitivamente conquistato. Ero riuscita non solo a scoprire cosa succedesse a Rossella, ma anche a capire molto meglio quale fosse stato il vero costo della guerra di Secessione, quali lacerazioni e rivoluzioni sociali avesse portato con sé, quanto avesse modificato la vita tranquilla e sonnolenta dei proprietari delle piantagioni di cotone del Sud, delle loro famiglie e dei loro schiavi.

      Ho riletto il romanzo un paio di volte, prima di riprenderlo in mano alla fine dell’estate scorsa. Negli anni, sono riuscita ad apprezzarlo sempre di più, scoprendo e approfondendo alcuni aspetti che avevo sempre sottovalutato, soffermandomi sull’ossessione amorosa dell’ostinata Rossella per il biondo, etereo, astratto Ashley, sulla passione insaziabile e disperata dell’affascinante Rhett per la nostra impassibile, volubile eroina.

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      In realtà, la tensione amorosa tra i tre personaggi nasconde ben altri temi e spunti di riflessione, che vi propongo qui di seguito.

      Il femminismo di Rossella
      Alle fanciulle del Sud viene chiesto di essere fragili, graziose, delicate, timide. La loro pelle bianca deve essere sempre protetta dal sole, le mani preservate dai guanti. Alle feste devono mangiare poco, perché essere di buona forchetta non è una caratteristica femminile, e comunque quei vitini da vespa vanno preservati con cura. Accalappiarsi un marito è la loro occupazione principale: per raggiungere questo scopo, devono farsi vedere modeste e riservate, parlare poco e assentire molto, sbattere le lunghe ciglia e pendere dalle labbra dei loro spasimanti. Sopra ogni altra cosa, le ragazze del Sud devono mascherare con cura la loro intelligenza: la loro missione è quella di attrarre un gentiluomo che possegga una piantagione, sappia cavalcare abilmente, abbia un’alta soglia di tolleranza al whisky e pensi al posto loro.

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      Rossella ha una mente acuta, un’intelligenza vivace, una naturale propensione per i numeri: se la cultura generale non è il suo forte e la storia, la politica, l’attualità non le interessano, perché le sembra che non la tocchino e non la riguardino, ha un senso per gli affari che poco ha da invidiare agli egregi signori di Atlanta. Dopo la caduta della Georgia, la morte della madre e la pazzia del padre, Rossella non permette alla sua adorata Tara di andare in malora: lavora alacremente, raccogliendo il cotone, prendendosi cura dello scarso bestiame rimasto, difendendo la sua famiglia dagli Scalawag, Sudisti dai pochi scrupoli che sostengono la ricostruzione scendendo a patti con i Nordisti. Rossella rifiuta di farsi sconfiggere: stanca e affamata, dopo aver aiutato Melania, la moglie del suo amato Ashley, a partorire, dopo essere scappata con Melania ammalata e un neonato da un’infernale Atlanta in fiamme, promette a se stessa di sconfiggere la fame e la povertà.

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      Per salvare Tara, la sua famiglia e gli ex-schiavi rimasti, Rossella non esita ad uccidere, o a sposare un uomo che non ama con l’inganno per avere i soldi per pagare le tasse sulla sua piantagione. Stabilitasi ad Atlanta, si dedica anima e corpo al commercio del legname, facendo vergognare il marito Frank Kennedy della sua facilità a fare i calcoli, del suo senso per il commercio, della spietatezza con cui riscuote i debiti, della velocità con cui calcola i tassi d’interesse. La società che la circonda la condanna perché a una donna è chiesto di essere decorativa: se la povertà la costringe a lavorare, deve dedicarsi comunque ad attività prettamente femminili, come la pasticceria o il cucito.

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      Soprattutto, una donna non può, non deve avere più successo del marito e degli uomini che la circondano: la sua indipendenza, la sua intelligenza, la sua abilità negli affari, la sua determinazione e il suo coraggio sono difetti che provocano la sua rovina sociale. Mentre il Sud va in malora e gentiluomini come Ashley non possono fare altro che contemplare le sue rovine e piangere sugli splendori dell’epoca d’oro della Georgia, ormai passata per sempre, Rossella si rifiuta di pensare al passato e costruisce coraggiosamente il suo futuro e quello dei suoi figli, rifiutandosi di rifugiarsi nei ricordi e nei rimpianti e di arrendersi dignitosamente alla povertà.

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      L’amicizia tra Rossella e Melania
      Melania Wilkes è uno dei personaggi meglio riusciti della storia della letteratura. Da brava donna del Sud, è di buona famiglia, timida, modesta, riservata, di buona famiglia e di poche parole: come nella tradizione dei Wilkes, sposa il cugino Ashley e spezza il cuore a Rossella.

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      Rossella la odia, ma promette a Ashley di prendersene cura: resta con lei in un’Atalanta assediata, la aiuta a partorire, la salva da morte sicura e la porta con sé a Tara, dove si prende cura della sua guarigione e del benessere di suo figlio. Melania ama Rossella di un amore cieco: la difende a spada tratta e non permette a nessuno di criticarla e isolarla, anche quando si sposa la prima volta per ripicca, la seconda con l’inganno e la terza senza amore; anche e soprattutto quando viene fuori che Rossella e Ashley se la sono sempre intesa alle sue spalle.

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      La dolce Melly è l’unica a rendersi conto del fatto che il selvaggio, indomabile Rhett ama Rossella di un amore silenzioso, solitario e profondo. Quando Melania muore, Rossella capisce di aver perso la sua vera anima gemella, una persona che l’ha amata tutta la vita senza chiederle niente in cambio, che è stata sempre al suo fianco come un’ombra protettrice e silenziosa. Quando Melandia muore, i castelli di sabbia di Rossella precipitano, e lei si rende conto di aver amato tutta la vita un’illusione.
      Capisce di aver sognato un uomo ideale – un gentiluomo di bell’aspetto, di buona educazione, che incarni l’onore e i valori del Sud; un gentiluomo che sua madre, l’eterea gentildonna Elena de Robillard, avrebbe senza dubbio approvato. Capisce di aver cercato con tutta se stessa di far aderire questo suo ideale al biondo, mansueto Ashley, chiudendo un occhio (o anche tutti e due) davanti alla sue continue mancanze, alla sua passività, alla sua incapacità a vivere una vita reale, con le sue infinite gamme di passioni, dolori e delusioni. Melania è l’unica ad aver capito Rossella, ad averla amata anche nei suoi momenti peggiori, anche quando tutto il resto del mondo le ha girato le spalle.

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      Imparare a vivere con i propri errori
      Non tutte le eroine possono avere lunghi capelli biondi e vivere felici e contente per tutta la vita.
      Mi sono sempre immedesimata in Rossella: testarda, appassionata, visceralmente leale alle cose (Tara) e alle persone (Ashley) che ama – o crede di amare.

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      Rossella non si vergogna di quello che è, non cede alle pressioni delle società che la circonda, fa orecchie da mercante davanti a pettegolezzi e maldicenze: quando le sue illusioni crollano e si rende conto che se avesse capito Ashley non l’avrebbe mai amato, quando Rhett la lascia e si ritrova sola a lottare contro il mondo, Rossella non si arrende, ma si ripromette di continuare a provare, anche col rischio di sbagliare. Dopotutto, domani è un altro giorno.

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      Il canto del cigno del Sud
      L’epopea della Mitchell è un omaggio al crepuscolo degli dei sudisti, alla fine di un’epoca aurea, fatta di pomeriggi sonnolenti di terra rossa, di eleganza e di armonia, di un ritmo di vita lento e misurato, scandito dal tempi del cotone e dagli eventi mondani: balli e barbecue, visite ai vicini e passeggiate a cavallo. I due protagonisti maschili che si contendono il cuore di Rossella incarnano il passato e il presente: l’elegante, pacato Ashley rappresenta il vecchio Sud dei coltivatori benestanti, il gentiluomo d’altri tempi che non è capace di adattarsi al cambiamento e lottare per la sopravvivenza, ma preferisce svanire insieme al sogno di una vita che non tornerà più.

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      Rhett invece è il cambiamento stesso, coi suoi pochi scrupoli che gli permettono di arricchirsi grazie alla guerra e alla sua camaleontica capacità di adattarsi e compagnie, contesti e situazioni diverse. Francamente, Rhett se ne infischia, tranne quando si tratta della volitiva, inafferrabile Rossella e di quell’onore scomodo che non gli permette di dimenticare di essere un figlio del Sud, dopotutto, inesorabilmente ammalato di una nostalgia che ha radici nel profondo: nella terra rossa, nei pomeriggi afosi, nella pelle bianchissima delle belle del ballo, nell’aver fatto parte di un mondo che non esiste più.

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      Quando ero ragazzina e sognavo di volare via col vento (lontano, lontanissimo dal mio Sud, da quella Calabria di terra rossa e cieli blu da fare male, da quel paesino che mi stava così stretto), avevo chiamato la mia gatta Tara e sognavo la mia versione di Ashley, senza poter prevedere che, una volta cresciuta, sarebbero stati i Rhett del mondo a togliermi il respiro.
      Quando ero ragazzina e leggevo Via col vento, mio nonno comprava Famiglia Cristiana e mi lasciava sempre gli inserti letterari. Una domenica è successo che l’inserto fosse intitolato I capricci di Rossella e fosse dedicato all’immortale Katie Scarlett, la ragazza di Tara, la belle du bal, la civetta smorfiosa che accalappiava più beaux delle altre ragazze, che per questo non le erano amiche.

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      L’articolo era accompagnato da una bellissima illustrazione – se chiudo gli occhi la rivedo come devo averla vista in quella domenica assolata: Rossella col celeberrimo vestito bianco a fiorellini verdi che indossa al barbecue a casa Wilkes, il giorno in cui scopre che Ashley non sarà mai suo; Rossella con gli occhi verdissimi e un sopracciglio innalzato in segno di sdegno. Fiddle-dee-dee!
      Mia madre mi aveva allungato l’editoriale dicendomi: Tieni, è la tua eroina; sei capricciosa proprio come lei’. Lì per lì ci ero rimasta male, ma, anni dopo, ho capito.

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      Non erano capricci i tuoi, Rossella: erano un misto di scontentezza, irrequietezza, ansia spasmodica di capire chi fossi e quale fosse il tuo posto nel mondo. Non eri una volubile coquette: volevi amare, ma non ti eri mai interrogata sui sentimenti (i tuoi e quegli degli altri). Sopra ogni altra cosa, volevi essere amata: volevi essere reputata degna d’amore, nonostante i tuoi errori, nonostante quelle scelte di vita che ti avevano fatto dimenticare gli insegnamenti di tua madre Ellen – e fatto perdere di vista te stessa. Dopo la guerra, dopo la fuga da Atlanta, dopo la morte di tua madre, dopo aver lavorato tanto per fare in modo che tu e la tua famiglia non aveste mai più fame, avresti tanto voluto qualcuno che ti prendesse tra le braccia e ti dicesse che tutto andava bene, che tu andavi ancora bene, nonostante le scelte infelici e le bruttezze imposte da una guerra di cui non condividi il cieco idealismo.
      No, Rossella, i nostri non erano capricci. Fiddle-dee-dee!

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      Soundtrack: la colonna sonora di Via col vento, ovviamente

      Posted in Ophelinha legge, Uncategorized | 1 Comment | Tagged ashley wilkes, Guerra di secessione, Katie Scarlett, Margaret Mitchell, Melly Hamilton, Rhett Butler, Rileggendo i classici, Scarlett O'Hara, un classico è per sempre
    • Rileggendo i classici #3: la saga dei Forsyte

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 30, 2017

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      La saga dei Fosyte,  capolavoro del premio Nobel  John Galsworthy, abbraccia tre generazioni e una generosa fetta di storia inglese: l’epoca vittoriana, il suo achmé e il suo declino, foriero di un futuro sconosciuto e misterioso, fatto di Labourismo, ascesa della piccola borghesia e altre diavolerie moderne, che mettono a repentaglio uno stile di vita dai confini tracciati col righello, senza mai uscire dai margini.
      Quella dei Forsyte è una famiglia numerosa, i cui personaggi principali emergono però con caparbia determinazione: il vecchio Jolyon, orgoglioso e sentimentale; suo figlio, il giovane Jolyon, dalla natura artistica e dal passato sentimentale tormentato; sua nipote June, una ragazza minuta con un’aureola di capelli biondo rame, testarda come tutti i Forsyte.

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      Su tutti spicca Soames Forsyte, il possidente, “l’uomo di proprietà”, un personaggio facile da odiare, ma che ispira anche un’involontaria pietà. Soames incarna perfettamente lo spirito del tempo, quell’irresistibile necessità di trattenere il passato e il presente senza far spazio a un futuro confuso: un futuro che vede l’Impero a repentaglio,  tra le guerre anglo-boere e la morte dell’immensa regina Vittoria. Un futuro che vede l’alta borghesia dei Forsyte, priva di titoli nobiliari e ancorata nelle proprietà, minacciata dalla piccola borghesia e dalle sue pretese.

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      Quello dei Forsyte è un circolo chiuso, disturbato dagli estranei che entrano a far parte della famiglia senza condividerne l’essenza, lo spirito; fra tutti, la più estranea è la bellissima Irene, che ha sposato Soames per i suoi soldi e lo disprezza con tutto il cuore. Irene non parla mai per se stessa: arriva al lettore filtrata dalle descrizioni e percezioni altrui. Prima che come personaggio o come donna, arriva come zaffata di bellezza: quella stessa bellezza, eterna ed evanescente, che i Forsyte, nonostante le loro ricchezze, non riescono a comprendere, né a possedere, essendo la loro dimensione spirituale soffocata da quella materiale.
      La giovane donna dall’eleganza innata, il portamento eretto e orgoglioso, i capelli dorati e gli occhi di velluto, rimane un mistero per Soames; non lo guarda se non con freddezza e con disprezzo, non gli rivolge la parola se non per rispondere in sussurri forzati.

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      La sua algida indifferenza viene messa a dura prova da Bosinney, affascinante architetto fidanzato con June, cugina aquisita e amica più cara di Irene; I due diventano amanti, e la faccenda fa venire alla luce gli istinti più bassi di Soames, per il quale amare significa possedere.
      Soames non riesce a capire come sia possibile che la bellissima moglie, tutta pizzi e spalle bianche e capelli dorati, possa non appartenergli, di fatto come di diritto; passa notti insonni alla ricerca della chiave che gli permetta di aprire la porta della camera di Irene, sempre chiusa per lui; arriva a usarle violenza, a pretendere con la forza quello che dovrebbe essere suo, perché non c’è niente che un Forsyte non possa comprare.

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      Eppure, Soames è condannato a una vita di solitudine: Irene se ne va e si risposa col cugino, il ribelle Jolyon Jr; la sua seconda moglie, la giovane Annette, adempie al dovere di dargli un figlio e rimane distante e sfocata; perfino l’amatissima figlia, Fleur, finisce per innamorarsi del figlio di Irene e Jolyon, Jon, infilandosi nel cul de sac di una faida familiare che ha poco da invidiare a quello dei Montecchi e dei Capuleti.
      Il triangolo amoroso tra Irene, Soames e Jolyon riflette la vicenda autobiografica dell’autore: Galsworthy brucia infatti di passione amorosa per Ada, moglie di suo cugino Arthur. I due sono amanti per quasi dieci anni, fino alla morte del padre dello scrittore; dopo la sua dipartita, Ada chiede il divorzio e i due possono finalmente sposarsi, allontanandosi però da una società bigotta che guarda di mal grado ai matrimoni finiti.

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      Nonostante tutto, è difficile, nell’arco dei tre romanzi della saga – Il possidente (A man of property);  Nella ragnatela – In chancery, pubblicato anche col titolo Alla Sbarra da Mondadori nel 1939, nella traduzione di Elio Vittorini;  Affittasi (To let) – non provare pietà per Soames, erede dell’abbacinante filosofia dei Forsyte, secondo la quale essere è possedere, amare è possedere, e possedere equivale a non morire. I Forsyte si sentono immortali: provano shock e indignazione quando qualcuno di loro tira le cuoia, ma si consolano pensando al suo ricco testamento, sempre escogitato in modo che i beni siano vincolati ai Forsyte di sangue.

      Tra di loro, Soames si muove con una sorta di ottundimento: non è brutto, non è illetterato, non è zoppo, non è sfigurato, ma non riesce a farsi amare. È ricco, in salute, ha una ricca collezione di opere d’arte, ma non possiede quell’altruistica devozione capace di ammetterlo al cospetto della Bellezza. Perfino la sua devozione per Irene, per Fleur lo condanna alla solitudine: devozione che confonde l’amore col possesso, senza volerlo, senza esserne consapevole.

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      Il mondo solido, robusto, apparentemente intoccabile di Soames si sgretola poco alla volta: con la fuga di Irene e il successivo, lungamente ritardato divorzio; col matrimonio di Irene con Jolyon; con la morte dell’eterna regina Vittoria, il cui funerale segna il tramonto dell’epoca a lei intitolata, che ha sancito le libertà del possidente e ha canonizzato l’ipocrisia di un’intera società; col matrimonio della figlia Fleur, autocondannatasi ad un’unione senza amore dopo aver perso Jon, il figlio di Jolyon e Irene, per colpa di una faida che nessuno riesce a dimenticare.
      Se non sono riuscita a provare simpatia per Irene, arroccata nel suo odio per Soames – non totalmente giustificato – e nell’autocommiserazione, ne ho provata tanta per Soames, l’infelice prodotto di un’epoca ormai al tramonto, il rampollo di una società che ha occultato I suoi valori sotto un velo di ipocrisia e di cupidigia. La sua costante tensione verso l’amore, nell’incapacità di capirlo, e verso la bellezza, nell’impossibilità di avvicinarsi ad essa, lo assolvono dal suo ruolo di cattivo, rendendolo un personaggio straordinariamente vulnerabile ed umano;  a mio parere, uno dei personaggi più belli e meglio riusciti della storia della letteratura.

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      La saga dei Forsyte è completata da due racconti che Galsworthy definisce interludi: L’estate di San Martino, contenuto nella raccolta Cinque racconti (Five Tales) e Risveglio (Awakening), che però non ho letto.
      Ho letto i tre romanzi della saga in inglese; in italiano sono disponibili nella traduzione di Gian Daùli e in quella di Lucio Angelini per Newton Compton (che, a una prima ricerca, sembrerebbe fuori catalogo).
      Le immagini che ho usato per il post sono tratte dalla serie omonima della PBS.

      Soundtrack: Death of a ladies’ man, Leonard Cohen

      Posted in Rileggendo i classici | 7 Comments | Tagged Fleur Forsyte, Forsyte, Irene Forsyte, John Galsworthy, Jolyon Forsyte, June Forsyte, Letteratura inglese, saghe familiari, Soames Forsyte, un classico è per sempre
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #16: i buoni propositi di Jane Austen

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 16, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Erica di La Leggivendola

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      Quando Manuela mi ha chiesto se avessi voglia di prendere parte al Calendario dell’Avvento Letterario, ero contenta come una Pasqua – che detto così sembra tipo “qual è il colmo per una blogger a Natale?”, ma tralasciamo. Ero entusiasta perché è una rubrica che ho adorato la scorsa edizione, e poi perché Manuela mi ha riservato con estrema premura la casella di oggi, quella del 16 dicembre. Per i non iniziati – o non fanatici, vedete voi – il compleanno di Jane Austen.

      Ora, io adoro zia Jane, ma a lungo ho tentennato sul tema. Avevo pensato a un lungo post sul rapporto tra i suoi romanzi e i regali, e stavo spulciando il meraviglioso sestetto in cerca di doni, quando mi è balenata in testa un’idea ben più adeguata e succosa.

      I buoni propositi.

      A Natale siamo tutti più buoni – in teoria – e a fine anno a molti viene da mettersi metaforicamente una mano sull’anima per fare un rendiconto delle azioni e delle malefatte compiute nell’anno che volge al termine. Cosa si può migliorare, cosa si dovrebbe cambiare? Chi abbiamo ferito e come? C’è rimedio?

      Ammetto – e sarò in minoranza – che per me non tutti i difetti sono da rimuovere; certi sono carini e ci rendono quelli che siamo. Ma ci sono anche i cambiamenti importanti, quelli che è vitale fare. La cosiddetta crescita, se vogliamo.

      E trovo che sia uno degli aspetti che Jane Austen aveva più cari quando componeva le sue opere, anche se sicuramente non era al Natale e ai conseguenti buoni propositi che pensava. Ma ci penso io, mia è la casella e mio è il collegamento.

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      Premetto che da qui in avanti saranno presenti numerosi spoiler sui romanzi di Jane Austen; se ancora non li avete letti – male – vi sconsiglio caldamente di leggere innanzi. Piuttosto, correte in biblioteca e abbrancate il primo che vi passa tra le mani.

      Prendiamo i buoni propositi di Elizabeth Bennett e di Fitzwilliam Darcy, anche se già col titolo Orgoglio e Pregiudizio le magagne dei protagonisti sono già abbastanza esplicite. Lizzie evolve enormemente nel corso del romanzo. Fin dalle prime pagine, dai suoi dialoghi con la sorella Jane e l’amica Miss Lucas, è chiaro quanto le venga facile affibbiare giudizi su chiunque capiti a tiro del suo intelletto, basandosi talvolta su fattori ben poco oggettivi, quali la gentilezza dimostrata a lei e alle persone cui tiene. Le è bastata una frase per sancire la sua idea di Mr Darcy, e da quella ha rifiutato di discostarsi a lungo, nonostante i ripetuti tentativi di lui di farsi conoscere e di farle una buona impressione. Lizzie non smuove il proprio pregiudizio, antepone i propri valori alle scelte altrui – come fa col matrimonio di Miss Lucas – e sbaglia, sbaglia terribilmente.

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      D’altro canto, Mr Darcy a inizio romanzo è di una presunzione insopportabile, e non c’è da meravigliarsi se la prima impressione che suscita, non soltanto a Lizzie, sia di pura antipatia. Mr Darcy è stato fortunato a incontrare Lizzie; se non fosse stato così fermamente umiliato dopo la prima dichiarazione – che comunque è un capolavoro di faccia tosta – difficilmente avrebbe avuto la possibilità di guardarsi dentro e di trovare qualcosa che, dopotutto, non gli piaceva. Lo stesso si può dire di Lizzie, comunque. In Orgoglio e Pregiudizio i due eroi cambiano in seguito a un errore madornale e alla conseguente vergogna.

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      Il loro è un cambiamento cosciente, una crescita dovuta che li avvicina alle loro rispettive controparti, alle loro coscienze: la sorella Jane e l’amico Bingley. In una lettera alla nipote Fanny Jane Austen decretava la superiorità del buon carattere rispetto all’intelletto, nel valutare una persona. E ripensando a questa sua personalissima visione dell’umanità, mi viene da pensare che in Orgoglio e Pregiudizio i veri esempi da seguire non siano Elizabeth e Darcy, ma Jane e Bingley. Sono loro i buoni, quelli che fin dall’inizio non fanno danno, ma che finiscono per soffrire per le altrui intromissioni, nonostante facciano un po’ la figura dei manovrabili bonaccioni.

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      Un altro romanzo della sestina in cui l’evoluzione della protagonista riveste una parte fondamentale è Emma, e si tratta anche del titolo austeniano che prediligo. Forse proprio perché la protagonista, all’inizio, è così piena di difetti che non sarebbe strano, rimaneggiando la trama per raccontarla dal punto di vista di Jane Fairfax o di Harriet Smith, vederla come un personaggio negativo. È presuntuosa, calcolatrice, indifferente agli altrui sentimenti, snob. Gioca con la vita delle persone per puro orgoglio; ha deciso di essere un’ottima combinatrice di matrimoni, seppure il caso abbia avuto una parte assai preminente rispetto alle sue azioni nel procurare marito alla sua istitutrice, e dunque si fa portatrice del compito di accoppiare le sue conoscenze. Gioca con la vita di Harriet, già orfana sfortunata, che le solletica l’ego e che tratta alla stregua di un animaletto da compagnia e rischia letteralmente di rovinarle la vita, precludendole un avvenire di gioia e prosperità con un fattore soltanto per la sua classe sociale. Ah, Emma.

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      Emma ha diverse occasioni per cambiare; prima fra tutte la ferita che infligge a Miss Bates durante il picnic, che le procurerà un immediato senso di colpa e una terribile vergogna. Emma non è crudele, ma manca di tatto. L’offesa a Miss Bates colpisce anche lei, e cercherà a suo modo di fare ammenda. L’avrebbe fatto anche senza l’intervento di Mr Knightley, che a fine giornata la mette di fronte alla sua sfacciataggine a agli effetti provocati.

      Emma si rende conto delle mancanze della propria persona anche quando viene a conoscenza della vera storia di Jane Fairfax, che fin dall’inizio ha giudicato malissimo, e quando realizza il danno che ha rischiato di provocare ad Harriet Smith. Sono tutte occasioni di crescita personale, ma vedo qui un punto di somma differenza tra la crescita di Emma e quella di Lizzie e di Mr Darcy.

      Emma viene messa di fronte ai suoi difetti dall’eloquenza di Mr Knightley, l’eroe del romanzo – che un tempo era il mio preferito, ora mi rendo conto che con la protagonista ha instaurato un rapporto non molto paritario di mentore/allieva, e questo mi disturba non poco – mentre Lizzie e Darcy sono soli con la loro vergogna, è qualcosa che non possono scegliere di provare, ma che potrebbero decidere di accantonare, perché nessun altro ne è a conoscenza. Emma ha una coscienza in Mr Knightley e non ci è dato di sapere se sarebbero bastati i suoi errori a farla crescere, in assenza di lui.

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      Persuasione è un romanzo fortemente malinconico; forse non più di Mansfield Park , che ho trovato particolarmente cupo, ma comunque ben lontano dalle atmosfere casalinghe e scherzose di Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento. Anne Elliot ha ventisette anni – a quanto corrisponderebbero ai giorni nostri? – e ha perso l’amore della sua vita – possiamo credere o meno al concetto in sé, ma è quello che zia Jane intende raccontarci, quindi prendiamolo per buono – per via della propria debolezza. La famiglia era contraria al suo legame con il giovane Wentworth, e lei non era riuscita a imporsi né a insistere. Il fidanzamento è stato sciolto, l’amato è andato per mare, e Anne è rimasta sola ad affliggersi per anni, rinchiusa in una bolla di rimpianto e desolazione che l’ha separata dal resto del mondo, rendendola anzitempo una zitella senza speranza. E nel romanzo, ovviamente, cambia, cresce, si rafforza poco a poco. Anche lei prosegue per gradi: c’è la sua decisione di fare visita a una vecchia compagna di scuola nonostante il parere contrario della famiglia; c’è la sua volontà di dire la propria in difesa di sentimenti delle donne che durano a lungo, durante una discussione col Capitano Harville a casa dei Musgrove; e infine, ovviamente, la decisione di accettare la proposta del Capitano Wentworth.

      La crescita di Anne non ricalca esattamente quella compiuta da Emma o da Lizzie; se loro erano motivate al cambiamento dalla vergogna e dall’imbarazzo, Anne è spinta soltanto dal dolore che la propria debolezza le ha provocato. Certo, anche quella debolezza l’avrà fatta vergognare, ma identifico nella sofferenza e nel rimorso la causa della sua rivoluzione interiore.

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      E poi? Poi ci sono Marianne ed Elinor di Ragione e sentimento , che devono imparare l’una dall’altra. L’una impara a carissimo prezzo a non farsi trascinare dalle fantasie e dai sentimenti, l’altra capisce che deve esporsi e rischiare per essere felice. E Fanny di Mansfield Park cosa impara, se non a imporsi, ad anteporre un “no” ai desideri altrui quando cozzano coi propri? E la mia adorata Catherine Morland de L’abbazia di Northanger che scopre la differenza tra i romanzi e la realtà, che non sempre un castello cela un mistero.

      northanger

      Non la faccio lunga su questi casi, però. Si tratta sempre di eroine che cambiano nel corso dei rispettivi romanzi, ma non vedo in loro caratteristiche tali da annotare come difetti da risolvere, dunque mi parrebbe poco sensato disquisirne a lungo in un post che vorrebbe trattare le magagne personali e i cambiamenti dettati dai buoni propositi.

      La trattazione è finita – era ora, eh? – e spero di non avervi annoiato. Sicuramente dovrei imparare ad essere un attimo meno prolissa; ma se ben ricordate, all’inizio dicevo che non sempre guardo ai difetti come aspetti da ripulire e risolvere.

      Buone feste, e grazie mille a Manuela per avermi ospitata qui – e per non avermi defenestrata. Lei sa perché. (Risposta di Manuela: ami troppo Jane Austen per essere defenestrata, nel giorno del suo compleanno poi <3)

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      Posted in Letteratura e dintorni | 3 Comments | Tagged #AvventoLetterario, anne elliot, Bingley, Catherine Morland, elinor dashwood, Elizabeth Bennet, Emma, erica casalini, fanny price, Harriet Smith, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Jane Bennet, Jane Fairfax, Janeite, la leggivendola, Letteratura inglese, Lizzie Bennet, Mansfield Park, Marianne Dashwood, Mr Darcy, Mr Knightley, northanger abbey, orgoglio e pregiudizio, Ragione e Sentimento, un classico è per sempre, Wentworth
    • Rileggendo i classici#2: la solitudine di Jane Eyre

      Posted at 11:50 am06 by ophelinhap, on June 7, 2016

      Rileggendo

      Rileggendo Jane Eyre, non ho potuto fare a meno di pensare alla sua solitudine.

      La sua è una storia di mancanze: dei genitori; di una persona che la faccia sentire protetta, sicura e amata; di un tetto sopra la testa, di un posto da chiamare casa.

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      Da un certo punto di vista, Jane è un’antesignana del precariato 2.0: orfana, cresce a Gateshead, casa della perfida zia Reed, che non fa niente per soddisfare il bisogno di accettazione e di amore della bambina. Viene poi mandata a studiare in una scuola così rigida che, tra freddo, privazioni, acqua sporca e cibo insufficiente, diverse ragazze perdono la salute o addirittura la vita, come nel caso di Helen, la migliore amica di Jane. Jane riesce a sopravvivere e a diventare insegnante nella stessa scuola, diventata più moderna e rispettabile: ma la sua vita inizia a starle stretta. La ragazza vuole vedere quel mondo che, dalle sue quattro mura, sembra così immenso, così lontano. Da brava ragazza moderna e indipendente, Jane decide di pubblicare un annuncio per trovare un posto da tutrice: finisce così a Thornfield, dove si imbatte per la prima volta nell’amore.

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      Edizione The Folio Society

      Un amore intenso, tanto da sconfinare quasi nell’amore tossico.

      Un amore così totalizzante da diventare idolatra: nell’immaginario di Jane, l’oggetto del suo amore – Rochester – diventa simile a una divinità da adorare.

      Vorrei soffermarmi un attimo su quest’aspetto, comune sia ad Emily – immortale autrice di Cime tempestose – sia a Charlotte Brontë: l’amore come religione.

      In Cime tempestose, l’amore tra Cathy e Heathcliff trascende l’umano e il divino comprendonio, sfidando le leggi della terra e del cielo: Cathy sostiene che la sua anima e quella di Heathcliff siano fatte della stessa sostanza, e che solo insieme i due riescano a essere completi (lui è me più di me stessa!). Quando Cathy muore, Heathcliff esclama disperato di non essere in grado di vivere senza la sua vita e la sua anima, dileguatesi con Cathy. A sua volta, l’intensa, capricciosa, incostante Cathy, più e più volte evocata da Heathcliff, torna a manifestarsi anche dopo la sua dipartita; dopo la morte di Heathcliff, i passanti sono pronti a giurare che i due fantasmi passeggino insieme nelle notti brumose delle brughiere dello Yorkshire.

      L’amore come religione è presente anche in Jane Eyre, mitigato dalla rettitudine e dai valori morali dalla protagonista, che le impediscono di cedere a un abbandono assoluto. Quando St John, cugino ritrovato dopo rocambolesche vicissitudini in un improvviso e inaspettato twist of fate, le propone di soffocare l’amore per Rochester – un amore che non può realizzarsi – e dedicarsi totalmente alla fede, diventando missionaria in India (e sua moglie), Jane esita. È combattuta tra il fare la cosa – apparentemente – giusta e l’obbedire ai dettami del cuore; tra purezza e tentazione; tra due tipi di fede – quella in Dio e nell’integerrimo parroco St John e quella in Rochester.

      Quello di Rochester è però un amore bugiardo: un amore che nasconde in soffitta una moglie malata di mente – Bertha Mason, sposata nella lontana, esotica Giamaica. Jean Rhys, nell’ambito del filone del neocolonialismo letterario, ha cercato di riscattare la figura di Bertha/Antoinette in Wide Sargasso Sea, storia della colonizzata – Bertha – strappata via dalla sua terra, dal suo clima e dalla sua gente dall’inglesissimo Rochester, trapiantata forzatamente in una società oppressiva e patriarcale alla quale non appartiene, a metà strada tra il bianco caucasico e il nero giamaicano.

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      Edizione The Folio Society

      Devo ammettere che, rileggendo Jane Eyre, ho sviluppato una percezione molto diversa di Rochester: nonostante sia prigioniero di un matrimonio affrettato e una situazione infelice, rifiuta di accettare – e affrontare – la realtà e cerca di scappare – prima girando l’Europa alla ricerca di amanti usa e getta, poi mentendo a Jane, chiedendole di diventare sua moglie senza raccontarle il suo segreto. Rochester è lunatico, cupo, collerico: quando Jane, dopo aver scoperto l’esistenza di Bertha, decide di non restare a Thornfield e rischiare di diventare l’amante di Rochester, anche se lasciarlo le spezza il cuore, confessa di avere paura della reazione di Rochester, della sua rabbia.

      A questo proposito, ho trovato particolarmente pertinente l’analisi di Samantha Ellis in How to be a Heroine, or what I’ve learned from reading too much: Rochester pecca di machismo e di presunzione nel non considerare l’intelligente, indipendente, coraggiosa Jane come sua pari: per lui è la sua piccola Jane, un uccellino da vestire di seta e ricoprire di perle. Non a caso, una delle mie citazioni preferite tratte dal romanzo è la seguente:

      sisters room

      Fonte: The Sisters’ Room

      Per Rochester, Jane è una creatura fragile da proteggere da Bertha, da sposare in fretta e furia e in segreto, per evitare che qualcuno mandi tutto all’aria, cosa che in effetti succede.

      Anche quando si arriva al celeberrimo lettore, l’ho sposato e si tira un sospiro di sollievo, perchè Jane e Rochester sono finalmente insieme, si tratta di un lieto fine a metà: secondo la Ellis, Rochester accetta Jane come sua compagna e sua pari solo dopo essere diventato un “uomo a metà”, cieco e privo di una mano; solo allora la loro diventa una vera unione, una comunione di mente e anima, in cui lui, Rochester, rispetta e ama lei, Jane, per quello che è veramente: non un uccellino fragile e indifeso, ma una donna coraggiosa e indipendente, dall’invidiabile forza interiore, grazie alla quale riesce a superare avversità e solitudine.

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      E torniamo, dopo questa lunga digressione, alla solitudine di Jane: la Jane bambina desiderosa di amore, in punizione nella tanto paventata stanza rossa, dove crede di vedere il fantasma dello zio; la Jane ragazzina, che si sveglia abbracciata al corpo esanime dell’adorata amica Helen; la Jane ragazza dal cuore spezzato, che scappa da Thornfield senza portare niente con sé e passa tre orribili giorni da mendicante, dormendo fuori al freddo e mangiando poco e niente, prima di essere accolta da St John e le sue sorelle; la Jane donna, maestra in una piccola scuola di campagna, che vive sola in un’umile dimora isolata, passando serate cupe e eterne in compagnia di un libro o dei suoi disegni, aspettando un segno che la riporti da Rochester.

      La sua pazienza, la sua umiltà, la sua lealtà, la sua rettitudine, la sua fede smisurata nell’amore e in Rochester le permettono di essere in grado di accorrere da lui quando Rochester ha ormai perso tutto, e fanno di Jane Eyre un’eroina senza tempo.

      Soundtrack: Stubborn love, The Lumineers

      how I met your Jane

      Fonte: schmoop.com/jane-eyre/summary.html

      Posted in Rileggendo i classici | 7 Comments | Tagged Bertha Mason, Cathy Earnshaw, Charlotte Brontë, Emily Brontë, heathcliff, How To Be A Heroine: Or, In the mood for love, Jane Eyre, Jean Rhys, Letteratura inglese, neocolonialismo, Rochester, Samantha Ellis, un classico è per sempre, Wide Sargasso Sea
    • #libriinvaligia5: per un pugno di classici

      Posted at 11:50 am08 by ophelinhap, on August 6, 2015

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      Finalmente anche il conto alla rovescia per le mie vacanze si è attivato, quindi, dopo due settimane trascorse a preparare pacchi e valigie per un trasloco… mi rimetto a preparare le valigie per tornare in Italia, affrontando il dilemma di ogni anno: quali libri portare con me, oltre al mio amatissimo Kindle?

      Come l’anno scorso, colgo la palla al balzo e vi suggerisco un pugno di classici da scoprire/riscoprire durante le vacanze. Che siate al mare, in viaggio, in montagna, in città o in ufficio (sigh!), buone letture!

      1) Il buio oltre la siepe, Harper Lee

      Di Harper Lee si è parlato tanto, tantissimo negli ultimi mesi, causa la riscoperta e la pubblicazione del suo inedito Go set a watchman. Io l’ho letto, ne ho parlato qui, e approfitto dell’occasione per sottolineare ancora una volta che – a prescindere da operazioni pubblicitarie più o meno infelici – GSAW non è Il buio oltre la siepe. Quindi, se aspettate l’edizione italiana per leggere un prequel/sequel dell’amatissimo classico, resterete estremamente delusi: sono due romanzi diversissimi, che affrontano tematiche più o meno simili da due prospettive estremamente diverse.

      Ergo, approfittate dell’estate per scoprire/riscoprire la Maycomb dell’adorabile Scout Finch, maschiaccio perennemente scalzo e in salopette che odia vestitini e scarpe di vernice, suo fratello Jem e l’inseparabile amico Dill (controparte romanzata di Truman Capote, amico d’infanzia della Lee). I tre si trovano a crescere in un momento storico pieno di cambiamenti per la società americana degli stati del Sud, con la fortuna di avere una vera e propria bussola morale: il mitico papà Atticus, che ha il vizio di giocare con l’orologio da taschino e l’inestimabile pregio di fare sempre ciò che ritiene giusto, a scapito delle conseguenze.

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      Feltrinelli editore, trad. a cura di Amalia D’Agostino Schanzer

      2) Effie Briest, Theodor Fontane

      Ho letto questo romanzo molto recentemente, incuriosita da un tweet di Oxford World’s Classics che lo definiva la controparte teutonica di Anna Karenina, il mio romanzo preferito, per me vera e propria Bibbia della letteratura di tutti i tempi.

      Se nella prima metà del romanzo ho rischiato di cadere vittima della lentezza delle narrazione, nella seconda ho ceduto alla malia dell’innocenza e del candore con cui viene raccontata la storia di Effie, fanciulla diciassettenne data in sposa in quattro e quattr’otto a un ex pretendente di sua madre che ha più del doppio dei suoi anni. L’unica colpa di Effie è quella di essere sostanzialmente una bambina, che non si conosce, non conosce il suo posto nel mondo, e in mezzo alla sua tranquilla confusione cade preda delle avances del maggiore Crampas. Ovviamente, Effie è destinata a non vedere più la figlia Annuccia e a morire di tubercolosi lontano da lei e dal marito, il rigido barone Von Instetten, che vorrebbe perdonarla, ma attribuisce all’onore e alle apparenze un ruolo molto più importante di quello giocato dall’amore.

      Se Thomas Mann avesse dovuto scegliere solo sei libri, Effie Briest di Fontane sarebbe stato uno di quelli. Fidatevi del buon vecchio Thomas, e lasciatevi conquistare dalla sua apparente semplicità e dal candore di tempi andati: caratteristiche che, più o meno inconsapevolmente, sono tra quelle che cerco in un buon classico.

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      3) Ritratto di signora, Henry James

      Isabel Archer è una delle eroine più belle e sfortunate della storia della letteratura. Affascinante, indipendente, intelligente, si ritrova ad ereditare un’ingente fortuna, e a compiere uno sbaglio di proporzioni colossali in ambito sentimentale, sposando un inquietante omuncolo interessato solo ai suoi soldi, l’insopportabile, pomposo Gilbert Osmond. La vera tragedia di Isabel è essere stata amata tanto, da tanti, e non essere mai riuscita a capire le persone, e a leggere davvero nel suo cuore.

      È uno dei miei libri preferiti, che rileggo volentieri a cadenza irregolare. Da affiancare all’omonimo film di Jane Campion, con una splendida Nicole Kidman e un cast di tutto rispetto, che include John Malkovich e Viggo Morgensen.

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      4) L’età dell’innocenza, Edith Wharton

      Con L’età dell’innocenza, il suo dodicesimo romanzo, la Wharton diventa la prima donna ad essere insignita del premio Pulitzer (1921). Basta leggere L’età dell’innocenza per rendersi conto che il suo successo è più che meritato: la penna della Wharton attacca senza pietà l’ipocrita alta borghesia newyorchese della fine del XIX secolo, svelandone il volto nascosto da una maschera dorata.

      In questo contesto, Newland Archer, avvocato di belle speranze, si trova costretto a sposare May, scialba ma di buona famiglia, pur essendo perdutamente innamorato della cugina, la misteriosa e perduta contessa Ellen Olenska, colpevole di avere “un passato” (una vita scandalosa in Europa! Il divorzio da un dissoluto conte polacco!). Da affiancare all’omonimo film di Scorsese, che vede Michelle Pfeiffer nei panni della contessa Olenska e Winona Ryder in quelli di May Welland.

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      5. Via dalla pazza folla, Thomas Hardy

      Confessione: ho iniziato a leggere il celeberrimo romanzo di Hardy da pochissimo, dopo aver visto il nuovo adattamento cinematografico con una splendida Carey Mulligan nei panni della protagonista, la bellissima, indipendente e sfortunata (avete notato quanto spesso questi aggettivi vadano insieme nella descrizione delle eroine dei classici?) Bathsheba Everdene. Anche Bathsheba, come Isabel Archer, ha la tendenza a far innamorare di sé un po’ tutti, dal leale fattore Oak al ricco Boldwood, che si rivela uno stalker della peggior specie. Ovviamente, si innamora dell’unico uomo che non la ricambia, il vanesio, sprezzante sergente Francis Troy, che la rende molto, molto infelice.

      Ah, è anche un romanzo pieno di pecore. Ci sono pecore ovunque. Anche molte mucche. Arcadia pura, insomma.

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      Garzanti, traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman

      6) Camera con vista, E. M. Forster

      Lucy Honeychurch è un’altra delle mie eroine preferite in assoluto. Di lei, il pastore Beebe dice che, se si arrischiasse a vivere come suona, sarebbe una delle persone più interessanti del mondo. E lo fa: lascia l’insignificante, freddo fidanzato Cecil per una vita di avventure con l’inappropriato, imprevedibile George, conosciuto durante un viaggio in Italia, complice uno scambio di camere.

      Da affiancare alla visione del film di James Ivory, con un’intensa Helena Bonham Carter nei panni della protagonista.

      Newton Compton, trad. a cura di  P. Meneghelli

      Newton Compton, trad. a cura di P. Meneghelli

      Ultimo consiglio libresco: dopo aver tanto parlato di eroine, vi suggerisco la lettura di un libro che ho amato molto (purtroppo non disponibile in traduzione italiana): How To Be A Heroine: Or, what I’ve learned from reading too much, di Samantha Ellis (di cui ho parlato qui).

      se

      Dalla redazione è tutto: vi auguro delle bellissime vacanze, piene di avventure, di parole, di storie.

      Soundtrack: Summertime, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong

      Posted in Ophelinha legge | 3 Comments | Tagged Anna Karenina, Atticus Finch, Bathsheba Everdene, Bur, Camera con vista, E. M. Forster, Edith Wharton, Effie Briest, Feltrinelli, Garzanti, Go set a Watchman, GSAW, Harper Lee, Henry James, Il buio oltre la siepe, Isabel Archer, Jane Campion, L’età dell’innocenza, Lev Tolstoj, libriinvaligia, Lucy Honeychurch, Movies, Newton Compton, Oscar Mondadori, Oxford World's Classics, Pulitzer, Ritratto di Signora, Scout Finch, Theodor Fontane, Thomas Hardy, Thomas Mann, Truman Capote, un classico è per sempre, Via dalla pazza folla
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