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  • Tag: Un Canto di Natale

    • Il Calendario dell’Avvento letterario #17: il meraviglioso Natale di una famiglia disfunzionale

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 17, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Erica di La leggivendola

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      Quando si parla di libri e Natale, i primi titoli che vengono in mente sono grandi classici come Piccole donne di Louisa May Alcott, A Christmas Carol di Charles Dickens, o Lo Schiaccianoci e il Re dei Topi di H.T.A. Hoffmann. L’incipit del primo, “Natale non è Natale senza regali”, frase pronunciata da una sconsolata Jo mentre attende insieme alle sorelle il ritorno della madre, è l’inizio di una delle scene biblionatalizie più emblematiche della letteratura.

      Ho sempre amato il Natale, fin da piccola, e a quanto pare l’avvento della maturità non ha scalfito il mio entusiasmo per luci colorate, decorazioni, alberi, regali etc. Cerco ancora per la città le mie luminarie preferite, pregusto il giorno in cui farò l’albero e mi autoinvito alle decorazioni degli amici, – forse esagero? Mi sa che esagero. Ma per me il Natale ha ancora quella magia.

      Che dire, spero che duri.

      Il Natale è vissuto con particolare intensità nella società occidentale, ed è per questo che si tratta di una festività ricorrente nella letteratura, – tralasciamo il cinema, perché ci perdiamo in una produzione immane – soprattutto se parliamo di romanzi incentrati sui rapporti famigliari. Le scene durante le festività natalizie sembrano ogni volta gettare una luce più intensa e precisa sulle relazioni che intercorrono tra gli individui, nel modo in cui il Natale è pensato e festeggiato e in cui ognuno spera che si sviluppi, i regali che si pensano per gli altri e quello che si è pronti a sacrificare per poterli acquistare. Forse è questo, a prescindere dalle radici cristiane o da motivazioni più ludiche, che continua a tenerci legati al 25 dicembre e alle sue tradizioni. Quello che scegliamo di fare in quei giorni, e con chi, dice molto di quello che proviamo.

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      Qualche mese fa ho letto Elmet di Fiona Mozley (Fazi editore, 2018), un romanzo di cui secondo me non si è parlato abbastanza e che personalmente ho adorato. Protagonista è Daniel, un quindicenne affamato e sperduto che vaga alla ricerca della sorella maggiore, e ci racconta in retrospettiva di come il suo mondo si è sbriciolato. Fino a pochi giorni prima viveva col padre e la sorella Cathy in una casetta nel bosco, isolata dal mondo civile che diamo per scontato, secondo i ritmi di una natura faticosa da trattare. Elmet è un paesino sperduto nello Yorkshire, l’ultimo regno celtico indipendente, in cui vige una concezione di società antica, che vede il controllo dello Stato come un’intromissione indesiderata e la polizia come un antagonista per lo più assente, e comunque molesto. Elmet è un paese che vive di sotterfugi, malavita e sfruttamento. La famiglia di Daniel non fa eccezione; il padre, il gigantesco John, si guadagna da vivere coi combattimenti clandestini, e di che mangiare con la caccia. Cathy è una creatura selvatica, ferale, di cui si riesce a subodorare la pericolosità. Daniel non è come loro, ha un’anima diversa, delicata, priva di quell’istintiva ferocia che contraddistingue la sua famiglia dal resto della società, e che gli fa sembrare il padre e la sorella come esponenti di un’altra razza.

      Tralasciamo la trama, i ricordi della madre scomparsa, i nemici giurati, il finale; tralasciamo ciò che fa del romanzo quel romanzo per un attimo, perché vorrei parlare di una scena in particolare, in cui l’atmosfera natalizia esplode e si fa quasi magica.

      John è stato assente tutto il giorno, e Daniel inizia a preoccuparsi. Ma Papà torna, e chiede ai figli di seguirlo nel bosco. È una notte d’inverno e fa freddo, e non ricevono alcuna spiegazione su dove stiano andando. Ma non ha importanza, Cathy e Daniel del padre si fidano ciecamente, e sanno che con lui saranno al sicuro. Arrivano in una radura che odora di cherosene, e scoprono l’albero di Natale che il padre ha preparato per loro. Un tripudio di lampade accuratamente appese ai rami di un albero enorme, una scena fantastica in un bosco immerso nella neve. Rimangono incantati a fissarlo, persi in quella che non posso non considerare la pura magia del Natale; e anche se ho letto Elmet mesi fa, ben prima dell’inizio delle feste, ricordo chiaramente che per me il periodo natalizio è iniziato quel giorno.

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      Come scrivevo all’inizio, il Natale è percepito come una festa tipicamente famigliare; le relazioni diventano più evidenti, i legami si rinsaldano anche solo per pochi giorni, o vengono messi alla prova; l’assenza si manifesta in maniera più netta, straziante. Penso all’incipit di Anna Karenina, forse la citazione più celebre di Tolstoj, “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”, e mi viene da aggiungere che tutte le famiglie festeggiano il Natale a modo loro, e sono proprio quelle più strane, disfunzionali e imperfette a farci ripensare a come decidiamo di intendere e vivere la nostra.

      Quella di Daniel è un nido nel bosco, separato dal resto del mondo, una situazione anomala e per tanti versi preoccupante, in cui un quindicenne e una diciassettenne non frequentano una scuola pubblica, mancano di amici della loro età, talvolta accompagnano quando deve misurarsi contro uno sconosciuto in un combattimento clandestino. Sono poveri, non hanno granché, e quello che hanno devono sudarselo. È una famiglia che potremmo definire disfunzionale per un sacco di ragioni, e tuttavia basta un albero illuminato di quella luce calda che bagna la neve appena calpestata, ed è Natale non meno che in Piccole donne.

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      Perché certo, la situazione non sarà delle più ottimali, ma l’essenziale diventa all’improvviso più che abbastanza: un nucleo ristretto di persone che si vogliono bene, e un padre che nonostante tutto cerca di dare ai figli ciò di cui pensa abbiano bisogno. Funzionale o disfunzionale, una famiglia è tutta lì.

      Non era quello che mi aspettavo di trovare in Elmet, ma è qualcosa che sono contenta di aver trovato. E spero che in un modo o nell’altro, troviate un modo di festeggiare; che sia per le luci, per l’albero o per la compagnia.

       

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged #AvventoLetterario, A Christmas Carol, Elmet, erica casalini, Fazi editore, Fiona Mozley, Il Calendario dell'Avvento Letterario, la leggivendola, Lo Schiaccianoci, Piccole donne, Un Canto di Natale
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #8: #vestitiperilibri – Dickens in verde e rosso

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 8, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Marina di Interno storie

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      Se si pensa al Natale nella sua versione più culturale vengono subito in mente i classici della letteratura anglosassone moderna, il cui iniziatore è proprio Charles Dickens.

      Nell’Inghilterra vittoriana prende corpo la celebrazione del Natale, grazie soprattutto al recupero antropologico ad opera di Thomas K. Hervey nel suo The Book of Christmas  (1837), dove ha indagato il passato più lontano per riportare a galla le consuetudini medievali, periodo in cui la festività ha assunto un aspetto importante. Perché dunque questa riappropriazione? Nei secoli avvenire è caduta nell’oblio, nonostante sia stata ricordata con nostalgia da Chaucer e Shakespeare. Si parla dunque di una riscoperta.

      Dickens è il vero autore moderno del Natale, scrive Adam Gopnik nell’Invenzione dell’inverno (Guanda), ha imparato la lezione di Hervey e ha catapultato questa festività nell’atmosfera magica della fiaba, corredando la sua bibliografia di un ciclo di libri destinato al 25 dicembre.

      Nel primo romanzo, Il circolo Pickwick, il «Natale è celebrato pattinando sul ghiaccio, mangiando e festeggiando nell’allegria generale».

      Da questo momento in poi diverrà una festa secolarizzata.

      Piccola parentesi frivola.

      #Vestitiperilibri è una rubrica che curo su Instagram, dedicata agli abiti e ai libri: accosta titoli per cromie e, a volte citazioni, con il guardaroba. E in questa occasione si veste delle due fiabe dickensiane, Il Grillo del Focolare e A Christmas Carol, entrambe curate e tradotte da Enrico De Luca per Caravaggio editore, comprese di note esplicative.

      I due colori per eccellenza del Natale, rosso e verde, giocano per opposizioni e piccole suggestioni letterarie.

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      A Christmas Carol rappresenta l’idea del Natale svincolato dalla religione: il dualismo tra capitalismo e carità, ricordi e cinismo, paternalismo e individualismo. Gli ingredienti per fare di Scrooge il rappresentante del materialismo ci sono tutti, ma fortunatamente ha la possibilità di redimersi.

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      Il Grillo del Focolare è una fiaba domestica, in cui equivoci, spiriti e fate hanno un ruolo non secondario. Anche qui troviamo uno Scrooge, Tackleton, ma le atmosfere e la posta in gioco sono differenti rispetto alla sua opera più nota, nonostante ciò il calore umano ha il potere sciogliere i cuori più freddi.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, #vestitiperilibri, A Christmas Carol, Adam Gopnik, Caravaggio editore, Charles Dickens, Guanda, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il circolo Pickwick, Il grillo del focolare, interno storie, Invenzione dell’inverno, Marina Grillo, The Book of Christmas, Thomas K. Hervey, Un Canto di Natale, un Natale inglese
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #9: un Natale di privazioni

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Erica di La Leggivendola

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      Il Calendario dell’Avvento di Manuela è diventato una delle mie tradizioni natalizie preferite. Sarà anche che sono intollerante al lattosio, quindi se faccio tanto di avvicinarmi ai Calendari che si trovano nei supermercati, quelli coi cioccolatini al latte dentro, ecco, il Natale mi acquista tutto un altro significato fatto di dolore e sofferenza.

      Dal 2015 penso dunque a un tema simil-natalizio e ne chiacchiero gioiosamente su queste allegre lande internettiane, lasciando che una colonna sonora adeguata mi guidi nella scrittura del post. Oggi tocca allo Schiaccianoci di Tchaikovsij – o comunque intendiate scriverlo, che le possibilità non mancano.

      Il Natale nella letteratura ha molteplici sfaccettature; c’è il lato romantico, quello drammatico-familiare, il tema della redenzione. Cotanta festività è stata presa e ripresa così tante volte da sviluppare un numero indecifrabile di significati e sfumature.

      C’è però un particolare aspetto del Natale cui mi viene istintivo pensare, quando lo collego al magico mondo della narrativa, ed è la povertà. Il Natale inteso come modestia, sacrificio e privazioni.

      Natale in casa March è l’esempio perfetto. Piccole donne ne cattura l’essenza fin dall’incipit, con quella chiacchierata delle sorelle davanti al fuoco che decidono di fare a meno dei regali per quell’anno, in modo da poter rendere più lieto il Natale della madre. E che fa la madre, la mattina di Natale? Sceglie lei stessa di privarsi di una lauta colazione insieme alle ragazze, e di comune accordo con loro sfama piuttosto un’intera famiglia di umilissima estrazione.Ma forse sbaglio a iniziare il discorso con Piccole donne. So bene che il binomio “Sacrificio” e “Natale” porta alla mente in modo assai più diretto un’altra opera di narrativa, che tutti conosciamo soprattutto per via delle innumerevoli trasposizioni cinematografiche e animate. Mi riferisco ovviamente a Canto di Natale di Charles Dickens, i cui personaggi per me avranno sempre i volti affibbiati dalla Disney. Scusami, Charles, ma l’espressione più calzante del tuo Scrooge per me rimane Zio Paperone.

      C’è ancora un racconto di Hans Christian Andersen, il più grande traumatizzatore nella storia della letteratura. George R. R. Martin, fatti da parte, che la vera divinità del massacro è il vecchio Hans. Il soldatino di stagno sarà pure la mia favola preferita, ma diamine le lacrime. Ma non è la tragica vicenda del soldatino il magico legame tra Andersen e il Natale; non con La piccola fiammiferaia in giro per le nostre librerie. Un racconto dedicato interamente alla morte per congelamento di una bambina, con tanto di descrizione delle sue allucinazioni. E neanche una mezza lamentela dal Moige.

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      La piccola fammiferaia si collega facilmente al Natale di Martin di Lev Tolstoj; poche pagine irte di tristezza, sulla disgrazia di un ciabattino rimasto solo dopo aver perso sia la moglie che i figli. Notiamo subito la vena allegra che contraddistigue l’autore, e non è difficile intuire un finale di morte dato comunque per lieto: Martin si riunisce alla famiglia, col Vangelo tra le mani e un sorriso sulle labra.

      A pensarci bene non è affatto strano che una festa che siamo ormai abituati a vivere come un momento di allegria e ritrovo, calore, cibo e (doloroso) sperpero di denaro, fosse in altri tempi primariamente associata con povertà e privazioni. Che la datazione sia o meno quella giusta, tecnicamente il Natale dovrebbe rifarsi alle difficili vicende di una famiglia assai modesta, costretta a trovare rifugio in una stalla. Chi interpreta la festa partendo da un’ottica cristiana, ne riprenderà i valori primigeni di povertà e sacrificio, facendone il vero tema dei racconti. Dobbiamo anche pensare che un tempo la letteratura per l’infanzia aveva una funzione più educativa che ludica, e che tramite favole e storielle si tentava di far trangugiare ai fanciulli le basi di un comportamento corretto, di umiltà e obbedienza.

      Chi parla di Natale in tempi più recenti, da prospettive ben più laiche e moderne, lo fa spesso per lamentare il consumismo imperante, per indicare con sprezzo l’ipocrisia di una festa che vorrebbe fingersi sentita, ma che pare esprimersi al suo meglio nell’opposto del suo spirito primigenio. Ne hanno parlato Dino Buzzati in Cos’è il Natale oggi? e Italo Calvino in I figli di Babbo Natale, e perfino Stefano Benni in un glaciale racconto intitolato È Natale.

      E io? Io mangio il panettone – da un paio d’anni senza togliere né uvetta né canditi, evidente segnale di crescita e maturazione. Attendo il momento in cui allestirò l’albero con ansia e trepidazione. Il pensiero dei regali – quelli da fare, non quelli da scartare – mi inebria che manco il profumo dei biscotti alla cannella.

      Adoro il Natale. Per i motivi sbagliati, che tutti gli autori di cui ho chiacchierato oggi mi sputerebbero nel piatto. Ma le lucine di Natale, dai. Le lucine di Natale.

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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #7: gli universi natalizi di Elizabeth Gaskell

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 7, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Mara di Ipsa legit

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      Elizabeth Gaskell (1810-1865), la cui opera è sempre più apprezzata anche in Italia grazie alle recenti prime traduzioni dei romanzi e ai lavori di studio e di curatela, oltre che un’eccellente letterata fu senza dubbio una vera e propria donna vittoriana, moglie e madre devota, sensibile ai conflitti etici della sua epoca e affezionatissima all’idea della casa[1] come contenitore poliforme di rifugio, nostalgia, speranze, gioia, paura e desideri.

      La costante e infaticabile interrelazione con i suoi luoghi e con il suo tempo, che è un aspetto identitario fortissimo della sua produzione narrativa (si vedano, per esempio, la biografia di Charlotte Brontë e gli ultimi due romanzi lunghi della sua carriera, Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie), assume anche la forma della descrizione di molteplici universi natalizi, che vorrei tentare di analizzare in questo post, ricordando, come premessa, che all’età vittoriana risale l’origine dei festeggiamenti del Natale come li intendiamo oggigiorno. Propongo due soli flash a sostegno di questa affermazione: l’albero di Natale (il primo in Inghilterra) allestito e decorato nel salotto della regina Vittoria grazie all’idea del marito; e la pubblicazione di A Christmas Carol di Charles Dickens, che da allora è definito “The Man Who Invented Christmas”[2] (l’uomo che inventò il Natale).

      Se scorriamo l’interezza dell’opera gaskelliana, scopriamo che il Natale assume innanzitutto un aspetto squisitamente climatico. Ad esempio, nel primo romanzo pubblicato della scrittrice, Mary Barton, si legge che «la luce chiara delle sei contrastava in modo bizzarro con il freddo natalizio, e il vento feroce si insinuava dentro ogni interstizio»[3].

      In Cranford, la raccolta di bozzetti che Gaskell scrisse in memoria del villaggio dove trascorse la propria infanzia e prima giovinezza (Knutsford, nel Cheshire), per celebrare la piccola società di donne d’età avanzata che riesce a sopravvivere nonostante tutto, con ironia e un forte senso morale, si cita proprio Il canto di Natale di Dickens, che Miss Matty lascia appoggiato sopra un tavolo. L’ironia di questo episodio è sottile eppure deliziosa: uno dei personaggi di Cranford muore nei primi capitoli perché investito da un treno mentre è distratto dalla lettura del Circolo Pickwick – Dickens, che all’epoca era l’editore di Gaskell (l’opera fu pubblicata a puntate sulla rivista da lui diretta, Household Words), chiese di modificare il titolo del libro letto dal personaggio, ma in fase di ripubblicazione di Cranford in volume, l’autrice ristabilì il titolo originale.

      Considerata la grande importanza assegnata da Gaskell al valore della domesticità, è naturale che la nostra attenzione di lettori si concentri sulla presenza del focolare, che in molte stanze delle storie gaskelliane ha la funzione di magnetizzare intorno a sé i personaggi, i loro corpi e le loro meditazioni. Un fuoco natalizio è il catalizzatore dei pensieri del reverendo Benson in Ruth, che riflette sull’assennatezza delle proprie decisioni trascorrendo la serata davanti a un «Christmas fire» in compagnia della sorella Jemima.

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      Gli innamorati di Sylvia, come accennavo sopra, è tra le opere gaskelliane il libro che maggiormente si configura come un dettagliatissimo ritratto storico, sociale e culturale: la presenza di personaggi quaccheri, inoltre, ci rivela come questa professione religiosa non rispettasse l’usanza della celebrazione natalizia. Gli anziani fratelli Forster, che possiedono l’emporio di Monkshaven e appartengono alla comunità quacchera della città, «non avrebbero mai e poi mai esposto alcuna decorazione natalizia e tenevano scrupolosamente aperto il negozio in quel giorno di festa». In questo romanzo, in cui si descrive una colorata festa di capodanno, il Natale assume piuttosto il valore di una delle tante scadenze dell’anno contadino: scrive Gaskell che «le brave massaie preparavano il loro pezzo di manzo per Natale, lasciandolo a macerare in salamoia, prima che fosse passato San Martino». Il Natale segna anche il limite temporale della malattia della signora Robson, la madre della protagonista: un episodio che ingenera importanti conseguenze per l’evoluzione dei sentimenti di Sylvia.

      Il Natale è citato in Mogli e figlie come periodo dell’anno in cui l’aristocratica Lady Cumnor gradirebbe si celebrassero le nozze tra la sua governante di un tempo, Mrs. Kirkpatrick, e il dottor Gibson: e la ragione che adduce per questa preferenza è che i propri nipotini, in quella settimana, si ritrovano a casa per le vacanze scolastiche. Di maggiore importanza per lo sviluppo della trama è il Natale in La casa nella brughiera, perché in occasione della festività torna a casa da Parigi Erminia, un personaggio che avrà forti ripercussioni sull’esistenza della protagonista Maggie.

      In Mr. Harrison’s Confessions, che si mostra come una sorta di “anticipazione” dei temi di Cranford, assistiamo a una piccola festa di Natale organizzata da Miss Tomkinson il giorno 23 dicembre alle cinque, per il tè. Per l’occasione, la non più giovane Mrs. Rose si diletta in inediti preparativi che ci riempiono di sorrisi. Il salotto della padrona di casa si presenta poi così ai suoi ospiti: «Le sedie, le tende e i divani di Miss Tomkinson furono liberati dalle loro coperture; e un enorme vaso pieno di fiori artificiali fu posizionato al centro della tavola – cosa che, mi confidò Miss Caroline, era stata tutta opera sua, perché lei adorava vedere nella vita il bello e l’artistico. Dritta come un granatiere, Miss Tomkinson stava vicina alla porta per accogliere i suoi amici, e stringeva loro le mani con calore mentre questi facevano il loro ingresso; diceva che era veramente contenta di vederli. E lo era sul serio». La festività è così importante in questo graziosissimo romanzo breve da segnare anche la sua conclusione.

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      La scrittura gaskelliana, come sappiamo, si discosta difficilmente dalla trattazione della realtà, per quanto fredda e cruda essa possa apparire; il racconto “Lizzie Leigh”, infatti, si apre sulla descrizione di un lutto nel periodo natalizio, e così recita: «Quando la Morte si presenta in famiglia il giorno di Natale, il contrasto tra la giornata con il ricordo di ciò che è stata in passato aggiunge strazio alla sofferenza – alla desolazione, un tremendo senso di abbandono. James Leigh morì proprio mentre le campane distanti della chiesa di Rochdale chiamavano alla funzione del mattino, il giorno di Natale del 1836».

      My Lady Ludlow ci fornisce invece interessanti dettagli sul cibo legato alla festività natalizia, citando una cena a base di roast beef, le «mince-pies» e il «plum-porridge», mentre il Natale è menzionato in Delitto di una notte buia come appuntamento immancabile di riunione familiare, così come avviene, con sublime delicatezza, in Mia cugina Phillis: è in quella occasione che Paul, il narratore, si ritrova a cospetto del cambiamento intervenuto sull’espressione e sul corpo di Phillis a causa delle sue pene d’amore.

      Un racconto che porta la traccia della festa già nel titolo è “Christmas Storms and Sunshine”, nel quale si narra di una vigilia battuta da un aspro vento dell’est, sotto un cielo color dell’inchiostro, e che si chiude con un messaggio di tolleranza di valore universale: «Se hai avuto un litigio, o un’incomprensione […] con un’altra persona, fate la pace prima di Natale; così sarete tanto più felici!»

      Un’ultima annotazione non può che provenire dal ricchissimo epistolario di Elizabeth Gaskell, così denso di sentimenti, di amicizie e di pensieri rivolti alle figlie, spesso lontane da casa. Il giorno della vigilia del 1852, l’autrice scrisse alla primogenita: «Mia carissima Marianne, un buon Natale a te, e che ne vengano tanti, mia cara. Vorrei che fossi a casa, anche se qui sarà tutto molto tranquillo. Non verrà nessuno e noi non andremo da nessuna parte se non alla Cappella. Flossy e Julia ti mandano tanto tanto tanto affetto». Interessante e curiosa dal punto di vista della carriera letteraria è invece la lettera spedita tra la vigilia e il Natale del 1854 alla carissima amica Tottie Fox, alla quale Gaskell scrisse: «Nel complesso tutto sembra molto triste, questo Natale. Sono quasi ammattita a furia di lavorare su quella dannatissima storia… che vada in malora! Sono arcistufa di scrivere […] per me è stato un peso tale che ho avuto uno dei mal di testa più invalidanti della mia vita».

      A quale storia faceva riferimento la nostra Elizabeth? Nientemeno che al suo romanzo più conosciuto e forse più amato, l’ormai celebre Nord e Sud.

      [1] Si veda, in proposito, il mio saggio Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana (flower-ed 2016).

      [2] Del 30 novembre è l’uscita nelle sale cinematografiche di un film che porta esattamente questo titolo, in cui l’attore britannico Dan Stevens interpreta Dickens.

      [3] Qui e in seguito, le traduzioni dall’inglese sono di chi scrive.

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #9: il valore delle piccole cose

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Mariateresa di Casa di Ringhiera

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      Quand’ero piccola – si parla di tutta la durata degli anni Novanta –, dal primo di novembre tutti cominciavano a pensare al Natale. Che disdetta, pensavo, non sanno che questo mese si conclude ogni anno dal 1989 col mio compleanno. Allora mentre tutti fracassavano il cervello a mamma e papà su ciò che avrebbero scritto nella lettera per Babbo Natale, io cominciavo il mio conto alla rovescia per diversi rituali che dopo ventinove giorni mi conducevano al giorno del mio compleanno.

      Tra tutti, due erano quelli fondamentali: Lo Zecchino d’oro e Canto di Natale di Topolino. Entrambi avevano a che fare con la musica, una di quelle costanti fondamentali nella mia vita. Intorno alla fine del mese la Rai trasmette in Eurovisione il programma televisivo che da piccola adoravo. La leggenda narra che quando avevo circa cinque anni mi arrivò la lettera di partecipazione ai provini per lo Zecchino, ma nessuno pensò che avessi la possibilità di sfondare come cantante. Le mie performance si tenevano nel soggiorno di casa, usando come microfono la mascherina dell’aerosol tra i fumi dell’acqua fisiologica, interpretando i successi dello Zecchino d’oro a squarciagola per sovrastare il fastidioso ed assordante rumore del generatore.

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      Durante le pause tra le viarie esibizioni, gli sketch di Mago Zurlì con Topo Gigio e le votazioni, c’erano le pubblicità di giocattoli. Le ricordo natalizie, scintillanti e piene di quelle musicassette che ti mandano in visibilio. C’erano le bambole più belle, i giochi più in voga e tutti sorridevano super carichi di quell’energia che solo il Natale ti da. Strattonavo mia madre ogni anno per mostrarle il regalo che desideravo per il mio compleanno. Quando quegli spot terminavano ero così piena di aspettative che nella mia mente stilavo una lista di possibili regali da scegliere per la richiesta che mi era concessa soltanto una volta all’anno.

      Quando il Festival dello Zecchino d’oro era passato, così come lo era il mio compleanno, quel che mi gasava di più dei regali che avrei ricevuto a Natale era Canto di Natale di Topolino, il film d’animazione basato sul racconto di Charles Dickens. Sin da subito, ovvero tra i titoli di testa, passava la scritta: “tratto da Canto di Natale di Charles Dickens”. E mentre leggevo quel pezzetto mi chiedevo chi fosse tale Charles Dickens. Inutile dirvi che ne sono venuta a conoscenza anni dopo, al liceo, attraverso l’adeguata conoscenza della letteratura inglese.

      Da bambina però mi importava molto di quella storia così strappacuore e ogni volta che vedevo morire Tiny Tim piangevo a dirotto perché era così ingiusto che al mondo ci fosse gente che aveva troppo e non voleva donare nulla. L’empatia è sempre stata una parte importante del mio temperamento, ma il mio giudizio nei confronti di Scrooge, impersonato impeccabilmente da Zio Paperone, non riservava sconti. Per non parlare del terrore che provavo all’apparizione del fantasma di Jacob Marley e dello spirito del Natale futuro. Molto probabilmente è anche questa la ragione per cui quella fetta di letteratura romantica di stampo gotico non mi ha mai attirato. Tutta la costruzione del cartone animato era basata su un saliscendi di emozioni perlopiù negative. Ed era ciò che permetteva a noi bambini di godere del nostro meritato happy ending, nonostante l’angoscia per la presenza di miseria, avarizia e spettri.

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      Quando compresi chi era Dickens avevo ormai rimosso dalla memoria Canto di Natale di Topolino. Ricordo bene il giorno in cui il nostro professore d’inglese entrò in classe per cominciare a spiegare il nuovo autore di letteratura. Avevamo appena concluso col compito in classe su Emily Bronte e le sue Wuthering Heights che ad essere sincera avevo mal sopportato.

      – Cosa sapete di Charles Dickens?

      Alle sue lezioni non era necessario alzare la mano per rispondere, soprattutto perché nel 90% dei casi esigeva che si rispondesse in lingua; va da sé che la maggior parte della 5ˆG non avesse il coraggio di cominciare un dialogo, a maggior ragione su un argomento praticamente sconosciuto ai più. Mi piacevano le sue lezioni, sopratutto il modo in cui interpretava i brani selezionati dalle opere maggiori sul nostro libro di testo. Bene o male, nonostante la mia perenne timidezza e la tendenza ad arrossire molto facilmente, cercavo sempre di farmi coraggio e superare quel maledetto imbarazzo provocato dal parlare in pubblico. Quel giorno quando ci chiese se sapevamo chi fosse Dickens non solo risposi quasi immediatamente, ma trovai la forza di spiegare che da piccola guardavo spesso un cartone animato della Disney basato su Canto di Natale. Mi sbloccai a tal punto da confessare la paura per i fantasmi e i pianti disperati per la sfortuna di Timmy e la sua famiglia, strappando un sorriso a quell’insegnate spesso impassibile e pronto a storcere il naso per gli strafalcioni in lingua.

      Propose a tutti di leggere il racconto nelle vacanze di Natale, dicendoci che avrebbe leggermente smorzato la felicità natalizia perché «Dickens is a bit sad», disse annuendo incessantemente e col fare di chi sa quello che dice. Ci rassicurò però che questa lettura ci avrebbe permesso di ricacciare nei meandri della nostra stupidità adolescenziale la parte materialista insita nel Natale, rendendoci più compassionevoli.

      Mentre le mie amiche cercavano il racconto in ogni libreria nel raggio di 50 km (IBS e Amazon erano ancora poco usati), io non dovetti fare alcuno sforzo impensabile. Mia zia, laureata da circa dieci anni in Lingue straniere, aveva la sua copia di racconti in cui era inserito proprio Canto di Natale. Glielo chiesi in prestito e, nonostante avessi preso due libri dalla biblioteca scolastica, nel pomeriggio mi accomodai sul divano accanto all’albero di Natale addobbato e illuminato e cominciai a leggere.

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      La storia la conoscevo bene, avendo guardato decine di volte il film d’animazione e per questo motivo l’Ebenezer Scrooge che immaginavo parlava con la stessa voce del doppiatore italiano di Zio Paperone. La lacrimosa sensazione di cui conservavo il ricordo in qualche disperso meandro della mia mente tornava a farmi visita prepotentemente in tutta la Strofa dello Spirito dei Natali passati. Se nella parte introduttiva Scrooge appare come un uomo avido e senza scrupoli, Dickens, rivolgendosi direttamente al lettore e utilizzando l’espediente dello spettro di Jacob, cerca di portarlo ad osservare con attenzione il passato dell’uomo. Quello che lo scrittore cerca di smuovere nel lettore è la reazione che si ha ogni volta che si cerca di oltrepassare la superficie delle apparenze.

      In definitiva Scrooge è l’uomo dal cuore arido a causa delle sconfitte affrontate sin da bambino, quando in collegio veniva emarginato dai suoi compagni, cercando continuo conforto nel mondo dei libri. Quando lo spirito gli mostra sua sorella Fan, venuta in suo soccorso per portarlo via da quel luogo così triste, a Scrooge torna in mente che le persone a cui teneva di più sono andate via, lasciandolo a marcire in una solitudine immensa.

      Sua sorella era morta, lasciandogli un nipote che per i suoi gusti era troppo entusiasta del Natale. Che sciocchezze, continuava ad asserire il vecchio dal cuore di pietra. Ad ogni ricordo, ogni sensazione di quei momenti che l’avevano reso l’uomo che era, Scrooge si scioglie in pianti di dispiacere per se stesso. La gente intorno non può comprendere perché lui non vuol lasciarsi attraversare dagli altri, mostrandosi così vulnerabile e umano.

      Anche osservando il Natale attraverso lo spirito del Presente si può realizzare quanto le vicende passate abbiano influito sugli atteggiamenti di Scorge, il cui modo di fare si riflette sui Cratchit. Quello che in definitiva rappresenta Canto di Natale è il viaggio di un uomo attraverso il tempo vissuto. L’occasione di sentirsi deluso dal comportamento che si manifesta con l’apparizione prima di Jacob e poi degli spiriti, equivale alla seconda chance di cui Scrooge può usufruire per riscattarsi nei confronti del mondo. È un modo per dimostrare che il Natale è solo un momento dell’anno che però ci rende meno aridi e, se siamo fortunati come Scrooge, avremo l’occasione di godere di una felicità raggiunta con poco.

      Dopo aver letto le ultime parole del racconto, ho fatto quello che faccio sempre quando termino una lettura. Ho riletto le frasi che mi conducevano alla chiusura, come se stessi temporeggiando in attesa di un’illuminazione. Poi ho poggiato il libro sul divano ed ho deciso di farmi carico dell’insegnamento di Dickens. Mi sono stesa sotto l’albero di Natale e mi sono lasciata ipnotizzare dalle luci che si accendevano in modo scoordinato. Non erano perfette, qualcuna era anche fulminata, ma l’aria sapeva di cartellate* e tutto ciò per me aveva un gran valore, quello delle piccole cose.

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      *cartellate: tipici dolci originari della Puglia preparati soprattutto a Natale. Nella tradizione cristiana rappresenterebbero l’aureola o le fasce che avvolsero il Gesù nella mangiatoia.

      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, casa di ringhiera, Charles Dickens, Ebenezer Scrooge, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Un Canto di Natale
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #1: un Natale vittoriano

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 1, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da me medesima

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      Istruzioni per leggere questo post:

      • tirate fuori addobbi e decorazioni natalizie;
      • indossate il il vostro maglione più kitsch, quello con le renne, le lucine e il pupazzo di neve;
      • munitevi di tazzona con cioccolata calda, eggnog o vin brulé, a seconda dell’ora;
      • accompagnate il bibitozzo con una generosa fetta di pandoro, un pezzo di torrone o una mince pie calda;
      • mettete su le vostre canzoni di Natale preferite (la mia playlist preferita è questa)

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      Pronti?

      Il calendario dell’avvento letterario torna a farvi compagnia, regalandovi venticinque giorni di storie, parole, racconti, curiosità letterarie, ricette letterarie, musica.

      Ogni giorno qui sul blog sarà un blogger diverso ad aprire una casella, svelandone il misterioso contenuto. Potere seguirci anche sui social con l’hashtag #AvventoLetterario (su Facebook, Twitter, Pinterest).

      Approfitto dell’occasione per ringraziare tutti i meravigliosi partecipanti e Claudia di A Clacca piace leggere, che ha realizzato il bellissimo banner del nostro calendario.

      Siete pronti? Siete caldi? Vi siete messi comodi?

      Come da tradizione, la prima casella la apro io, trasportandovi nell’Inghilterra del XIX secolo, per scoprire, dopo il Natale Regency, tutto ma proprio tutto sul Natale vittoriano.

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      Se i Vittoriani non hanno inventato di certo il Natale, hanno però il merito di aver contribuito all’idea del Natale che conosciamo e festeggiamo oggi, nel bene e nel male. Grazie ai Vittoriani, il Natale è infatti diventato un momento da condividere con familiari e amici; un momento di riunione, in cui mettere in pausa preoccupazioni e problemi e godere della compagnia reciproca davanti al ceppo (lo yule) acceso nel focolare, senza però dimenticarsi di coloro che non possono permettersi questo lusso o addirittura un tetto sulla testa.

      I Vittoriani hanno definito quelli che oggi sono le caratteristiche principali del Natale inglese (e non solo): il Christmas pudding (che in Regno Unito è un po’ l’equivalente del nostro panettone in quanto a simbolismo), i biglietti di auguri, le pantomime e le sciarade, i cracker (delle mega caramelle di cartone; a tavola, due commensali tirano le due estremità; all’interno sono contenuti giochi di parole e barzellette, una corona di carta e una piccola sorpresa –  tipo il nostro uovo di Pasqua, insomma), la maggior parte dei Christmas carol più famosi, lo stesso Babbo Natale, nel costume e nei colori con cui lo ritroviamo oggigiorno.

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      Albert, il teutonico consorte della regina Vittoria, ha il merito di importare in Inghilterra dalla nativa Germania l’albero di Natale, che diventa subito di moda dopo la diffusione di un ritratto raffigurante la famiglia reale radunata intorno all’albero decorato e illuminato. Il principe Albert introduce a corte anche il mitico gingerbread (pan di zenzero) e altri dolcetti tedeschi che fanno ormai parte dell’immaginario natalizio collettivo.

      Albert importa inoltre l’usanza di scambiarsi i regali in occasione del Natale. Vittoria ed Albert seguono la moda tedesca di aprire i rispettivi regali la sera della vigilia; tra i doni che la regina e il principe consorte si scambiano, una miniatura di Vittoria a sette anni, regalatale dal marito nel 1841, e un libro di poesie di Lord Alfred Tennyson con la seguente dedica: ‘To My beloved Albert from his ever devoted & loving wife VR, Christmas 1859.’ (al mio amato Albert da parte della sua sempre devota ed innamorata moglie VR, Natale 1859). Anche i piccoli di casa aspettano i regali di Natale con ansia, come testimonia questa lettera della regina datata 1850:

      The 7 children were then taken to their tree, jumping and shouting with joy over their toys and other presents: the boys could think of nothing but the sword we had given them and Bertie some of the armour, which however he complained, pinched him.

      (Portammo al loro albero i sette bambini, tra salti e urla di gioia per i giocattoli e gli altri regali; i maschietti non riuscivano a pensare a nient’altro che alla spada che gli avevamo regalato e Bertie all’armatura, nonostante si lamentasse del fatto che lo pizzicasse).

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      L’albero di Natale viene decorato con elaborate decorazioni, per lo più fatte a mano: soldatini di stagno, fischietti, gioiellini, guanti da regalare ai bambini; ghirlande di frutta secca, di pigne, di frutti rossi, di alloro e di edera; fiocchi, fiori di carta dipinti a mano e pigne dorate; stecchi di cannella e arance (al cui interno vengono conficcati chiodi di garofano) per regalare all’albero un profumo tipicamente natalizio; pan di zenzero, caramelle e biscottini a forma di stella, cuore o albero completano il tutto, per la gioia dei bambini. L’albero viene illuminato con delle candeline; le luci elettriche come decorazioni natalizie sarebbero poi state introdotte nel 1882 dall’assistente di Edison, Edward Johnson, a uso e consumo prevalentemente dei ceti più abbienti.

      Dickens, l’altro pilastro portante del Natale vittoriano, ci lascia una vivacissima descrizione di un albero di Natale:

      Stasera sono rimasto a lungo a contemplare l’allegria dei bambini riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l’albero di Natale. L’albero stava nel mezzo di un grande tavolo rotondo e dominava le loro teste. Era illuminato da una moltitudine di piccole candele, e sfavillava e sfolgorava di oggetti luccicanti. C’erano bambole con le guanciotte rosa seminascoste dal verde delle foglie; e orologi veri (o perlomeno, con le lancette mobili e un’infinita possibilità di carica) che pendevano dagli innumerevoli ramoscelli; c’erano tavoli laccati, e sedie, letti, armadi e orologi a pendolo in miniatura, e vari altri articoli d’arredamento in latta realizzati da mani sapienti a Wolverhampton, in bilico tra i rami, come in attesa delle pulizie di casa da parte delle fate; c’erano omarini dal faccione allegro, assai più piacevole di quella di tanti uomini reali – e non c’è da meravigliarsi, perché staccando loro la testa si rivelavano pieni di gelatine di frutta; c’erano grancasse e violini; c’erano tamburelli, libri, cestini da cucito, cassette di colori, scatole di dolciumi e contenitori di ogni genere e forma; c’era della bigiotteria per le ragazzine più grandi, ben più brillante di qualsiasi vero gioiello per adulti; c’erano canestri e puntaspilli di ogni foggia; c’erano fucili, spade e bandiere; c’erano fattucchiere pronte a predire il futuro al centro di anelli incantati di cartone; c’erano trottolini di legno e trottole sonore, astucci per aghi, nettapenne, bottigliette di profumo, supporti per bouquet; c’erano frutti veri, resi artificialmente luccicanti da una pellicola dorata; e mele, pere e noci finte zeppe di sorprese. In breve, come sussurrò un delizioso bambino all’altrettanto delizioso amichetto del cuore di fronte a me, «C’era tutto, e anche di più».

      (Charles Dickes, Un albero di Natale, dalla raccolta Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau, trad. a cura di Vincenzo Perna)

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      L’introduzione dei biglietti d’auguri natalizi spetta invece a Henry Cole, primo direttore del neonato Victoria and Albert Museum. Cole commissiona  il primo biglietto di Natale  all’artista John Horsley, che produce una sorta di trittico: la tipica famiglia vittoriana che celebra il Natale e due scenette laterali che vogliono ricordare ai più fortunati di non dimenticarsi di assistere i poveri e i bisognosi, specie durante le festività. Il biglietto, commissionato nel 1843, va in stampa nel 1846, per un totale di mille litografie, tutte colorate a mano. I biglietti vengono venduti in un negozio di Bond Street, Summerly’s Treasure House. Nel decennio successivo, i biglietti d’auguri conoscono un’enorme diffusione: è tutta una profusione di campane, cupidi, fiocchi di neve e Christmas pudding,  ma la vera protagonista è la rondine, che, col suo petto rosso, diventa il simbolo del Natale vittoriano, tanto che i postini vengono ribattezzati “robin” (rondine) o “redbreasts” (pettirossi).

      Secondo l’Oxford English Dictionary, l’espressione ‘Christmas-card’ compare per la prima volta nel 1883 in uno scritto del critico John Ruskin.

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      I regali di Natale cambiano molto a seconda della classe sociale – e delle possibilità – delle famiglie; in ogni caso, molti regali vengono fatti in casa e hanno un valore prettamente sentimentale. Intorno al 1870 si diffonde la consuetudine della calza di Natale, specie per i bambini; nelle case più povere le calze contengono frutta di stagione e frutta secca, in quelle più ricche i regali più in voga: per i maschietti, cavalli a dondolo, animali, trenini, gli antenati dei camion dei pompieri; per le bambine, secondo Harper’s  Bazaar del 1868, il regalo più ambito è un set da tè in porcellana francese, dipinto a mano, seguito da set per la toeletta o per il ricamo (per la serie, gli stereotipi di genere sono duri a morire).

      La cosa che più mi ha fatto sorridere (sempre nel filone degli stereotipi di genere) sono i consigli alle donne per i regali di Natale a mariti/fidanzati/spasimanti (Harper’s Bazaar del 1873): una vera Lady non può fare regali costosi, perché l’uomo si sentirebbe obbligato a ricambiare con un cadeau ancora più importante, quindi il dono perderebbe ogni grazia, rovinato da considerazioni commerciali e del tutto egoistiche (!)

      Le donne devono quindi preparare i regali con le loro manine sante: fazzoletti ricamati con le iniziali o braccialetti di capelli, per un regalo audace e pieno di spirito d’iniziativa; un bouquet di fiori rari, una pianta esotica, un souvenir di viaggio. Fortunatamente, Harper’s Bazaar del 1896 stila una lista per aiutare le povere lady, specie quelle impedite nel DIY come me: sigilli d’argento, portapenne, fermacarte, caraffe di cristallo pari pari a quelle della regina, per lo scapolo che non deve chiedere mai.

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      La cosa bella del Natale vittoriano è che la famiglia è il centro di tutto: ricette, bevande, canzoni, giochi e passatempi sono pensati per stare tutti insieme, al caldo, e godersi la compagnia reciproca. Quasi ogni famiglia possiede un pianoforte, che viene frequentemente usato per serate musicali e danzanti in compagnia di vicini di casa, parenti e amici. Un’altra tradizione è quella di radunarsi intorno al fuoco e raccontare storie, a volte ispirate alla religione, più spesso vicine al gusto tutto vittoriano per fantasmi e misteri, fate e goblin. La prima traduzione inglese delle fiabe dei fratelli Grimm risale infatti al 1823. Non è un caso quindi che la storia di Natale più amata dai Vittoriani sia il Canto di Natale di Dickens, che affida il sempre arduo compito di fare la morale a tre fantasmi, il Natale passato, il Natale presente, il Natale futuro.

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      Altri passatempi molto comuni sono pantomime, sciarade e giochi di società, come Questions and commands, una sorta di “obbligo o verità” in cui il comandante può chiedere ai suoi “sottoposti” di rispondere a ogni sorta di domande, pena l’annerimento della faccia o una multa. Tutto questo mentre si aspettano i gruppetti che vanno di casa in casa a cantare i Christmas carol, le tradizionali canzoni natalizie. Ai cantanti vengono offerte bevande calde, come il wassail, fatto di birra ale calda, zucchero, spezie e polpa di mele cotte,  il vin brulé o un bel punch con rum o brandy, al suono di God Rest Ya Merry Gentlemen, The First Noel, The Holly and The Ivy, It Came upon the Midnight Clear, Silent Night e O little Town of Betlehem.

      carolers

      punch

      Spero che quest’incursione nel Natale vittoriano vi sia piaciuta e abbia destato quello spirto natalizio ch’entro vi rugge. Vi consiglio di non perdervi Victoria, la serie di IMDb dedicata alla longeva regina britannica che ha dato il nome a un periodo ricchissimo di storia, arte, cultura, letteratura e tradizioni, e di dare un’occhiata alle letture a cui ho attinto per scrivere il mio articolo:

      The Victorian Christmas, Anne Selby

      Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau

      Dickens at Christmas, Vintage Books

      Vi lascio con una carrellata di calendari dell’avvento alternativi e bizzarri, dal calendario del gin al calendario degli attrezzi per il fai da te, da un calendario per lettori a uno per le barbe o per gli amanti del formaggio, augurandovi un bellissimo dicembre, pieno di gioia, di pandoro, di sorprese.

      Calendari dell’avvento alternativi:

      – Calendario del tè

      – Calendario dell’avvento paleo (?!)

      – Calendario romantico

      – Calendario del vino

      – Calendario del gin

      – Calendario del piccolo chimico

      – Calendario della gentilezza

      – Calendario dell’avvento per lettori

      – Calendario per i feticisti delle porcellane

      – Ispirazione circense

      – Per il tuttofare che c’è in voi

      – Per l’hipster barbuto che c’è in voi

      – Per la fashionista di casa

      – Qualcuno ha detto formaggio?

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      Posted in Letteratura e dintorni | 15 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Anne Selby, Charles Dickens, Edizioni Lindau, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Letteratura inglese, Racconti sotto l'albero, The Victorian Christmas, Un Canto di Natale, Victoria
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario#23: le mince pies di Jane Eyre

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 23, 2015

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      Questa casella è aperta da me medesima e da Sigrid de Il cavoletto di Bruxelles

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      Quando ho chiesto a Sigrid se aveva voglia di preparare una ricetta letteraria natalizia per il nostro Calendario dell’Avvento, mi ha proposto una serie di elementi e di ingredienti per dare un twist à la cavoletto alle ricette più tradizionali.
      Un ingrediente in particolare mi ha immediatamente colpito; un frutto, che già racchiude in sé – come la madeleine di proustiana memoria – memorie e profumi di casa: la castagna.
      Oltre a far parte dell’immaginario personale e familiare, la castagna è un frutto carico di suggestioni e ispirazioni letterarie. Il primo riferimento letterario che mi ha fatto venire in mente è Jane Eyre, l’amatissimo romanzo di Charlotte Brontë; in particolare, ho ripensato a quel castagno che fa da sfondo all’amore tra Jane e Rochester.

      Un amore forte e resistente ma travagliato, difficile, nodoso come i rami dell’albero stesso.
      Rochester, il misterioso, cupo e inevitabilmente affascinante datore di lavoro di Jane, le dichiara il suo amore sotto questo grande castagno, che, durante la notte, viene colpito e spezzato in due da un fulmine.

      L’albero potrebbe rappresentare l’amore tra Jane e Rochester, e il fulmine la rabbia di Bertha, la moglie segreta di Rochester, segregata nell’attico a causa della sua infermità mentale (per una rilettura della storia di Bertha in chiave post-coloniale, vi suggerisco Wide Sargasso Sea  di Jean Rhys); in questo caso, Rochester sarebbe la metà che resta, legata da un vincolo coniugale da cui non si può liberare, e Jane la metà che fugge, scegliendo di spezzarsi il cuore pur di non cadere nella tentazione di diventare l’amante di Rochester, e mantenere così intatta la purezza del suo amore.
      Il castagno potrebbe anche essere Rochester: lui stesso si paragona all’albero, consumato, rovinato, spezzato, mentre Jane è una pianta giovane, in piena fioritura. Facile capire perché queste mince pies à la cavoletto siano diventate quasi immediatamente le mince pies di Jane Eyre, dedicate al suo coraggio e alla sua inflessibile determinazione che le regala quel lieto fine tanto adatto al clima natalizio che ci circonda: lettore, lo sposai.
      La seconda suggestione letteraria legata alla castagna deriva da una scena del celeberrimo Un Canto di Natale di Dickens:

      “Nel momento in cui la mano di Scrooge si posò sulla maniglia, una voce strana lo chiamò per nome e gli disse di entrare. Obbedì.
      Era proprio la sua stanza, non c’era dubbio, ma aveva subito una trasformazione sorprendente. Le pareti e il soffitto erano talmente coperti di vegetazione, da farli sembrare un vero e proprio bosco in cui da ogni punto luccicavano bacche lucenti. Le foglie dell’agrifoglio, del vischio e dell’edera riflettevano la luce come tanti piccoli specchi e nel caminetto ardeva un fuoco così potente, come quella triste pietrificazione di un focolare non aveva mai conosciuto ai tempi di Scrooge e Marley né per molti e molti inverni passati. Ammucchiati sul pavimento, in modo da formare una specie di trono, erano tacchini, oche, selvaggina, pollame, cosciotti, grandi pezzi di carne, porcellini da latte, lunghe ghirlande di salsicce, pasticci di carne, pudding, barilotti di ostriche, castagne arrosto roventi, mele rosse, arance succose, pere succulenti, torte smisurate e ciotole fumanti di punch, che annebbiavano la stanza col loro vapore delizioso”.
      (Newton Compton, trad. a cura di Emanuele Grazzi)

      Difficile immaginare una scena da cenone natalizio più evocativa di quella descritta da Dickens, vero?

      Lascio ora la parola a Sigrid, alla sua ricetta che sa tanto di Natale e alle sue foto.

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      Per l’impasto:

      farina 00 170g

      burro freddo 100g

      zucchero semolato 1 cucchiaio

      tuorlo 1

      Sbriciolare il burro nella farina fino a ottenere un composto sabbioso. Aggiungere il tuorlo e lo zucchero, due cucchiai d’acqua, e impastare velocemente. Avvolgere in pellicola e lasciar riposare al fresco per 30 minuti.

       

      Per il ripieno

      uvetta 100g

      uvetta di corinto 100g

      cranberries secchi 50g

      whiskey 40ml

      limone mezzo

      arancia mezza

      castagne precotte 80g

      zucchero di canna scuro 100g

      burro 30g

      cannella mezzo cucchiaino

      mela piccola 1

      Grattugiare la buccia del limone e dell’arancia e tenere da parte. Mescolare la frutta secca con il whiskey e il succo della mezza arancia, e lasciar riposare per 20 minuti. Aggiungere poi lo zucchero, il burro fuso, la cannella, le castagne grossolanamente tritate e la mela grattugiata. Mescolare il tutto, versare il composto in un vasetto, chiudere e lasciar riposare per una notte prima di utilizzare.

      Per le mince pies:

      Stendere l’impasto, ritagliare dei dischetti leggermente più grandi dei vostri stampini, farcire con un cucchiaino di ripieno, ritagliare poi dei dischetti, stelline o fulmini di pasta e porre questi ritagli sopra il ripieno, Cuocere in forno a 180°C per 20-25 minuti finché le tortine siano dorate.

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      Posted in Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Bertha, Charles Dickens, Charlotte Brontë, cucina letteraria, Emanuele Grazzi, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il cavoletto di Bruxelles, Jane Eyre, Jean Rhys, Letteratura post-coloniale, libri in cucina, Newton Compton, ricette letterarie, Rochester, Scrooge, Sigrid Verbert, Un Canto di Natale, Wide Sargasso Sea
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