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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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  • Tag: Truman Capote

    • Harper Lee, una simpatica eccentrica

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 1, 2018

      Harper1

      Harper Lee, l’immortale autrice di To Kill A Mockingbird (Il buio oltre la siepe) era un’eccentrica, accanita paladina della sua vita privata; la dedica de Il buio oltre la siepe (for Mr Lee and Alice in consideration of Love & Affection) riesce già a sottolineare quanto le vicende biografiche e familiari della scrittrice siano al centro del suo romanzo. Di qui la necessità di proteggere se stessa e la sua famiglia dalla curiosità generata prima dall’incredibile successo del libro, poi dal suo adattamento cinematografico, che valse l’Oscar a Gregory Peck nei panni di Atticus Finch.

      Peck

      Harper Lee e Gregory Peck

       

      Nelle Harper Lee cresce a Monroeville, Alabama, rifiutando ostinatamente gonne e vestitini rosa e passando l’infanzia in salopette, come la sua controparte Scout nel romanzo.

      La persona più importante della sua vita è – e resta – suo padre, l’avvocato Amasa Coleman Lee (A.C). Sua moglie Frances è praticamente assente dalla vita di Nelle e di sua sorella Alice: soffre di disturbi bipolari e agorafobia e trascorre le giornate facendo giardinaggio e le notti suonando il piano. A.C. non si lamenta della sua situazione, non lascia né tradisce la moglie, sostenendo che ognuno nella vita abbia una croce da sopportare: l’importante è riuscire a farlo al meglio. Non fa mancare niente alla piccola Nelle, anzi: passa ogni serata a fare cruciverba con lei, a leggere con lei i giornali, a inventare giochi per incrementare il vocabolario della figlia, che è anni luce più avanti rispetto ai suoi compagni di scuola. Nelle inizia anche ad imitare il tic paterno di giocare incessantemente col suo orologio da taschino (tic che Gregory Peck avrebbe fatto suo nella versione cinematografica de Il buio oltre la siepe). La descrizione di A.C. risulta familiare, vero? A.C. è Atticus Finch, padre meraviglioso e faro morale per Nelle/Scout, pilastro della comunità, strenuo nemico di ogni forma di razzismo.

      Monroeville

      Monroeville, Alabama

       

      Una delle scene chiave del romanzi (Atticus Finch, che ha deciso di difendere in tribunale Tom Robinson, giovane di colore accusato – ingiustamente – di stupro, passa la notte sotto la finestra della cella in cui Tom è imprigionato in attesa del processo, per evitare che un gruppo di fanatici lo linci) è ispirata a un evento realmente accaduto: nell’agosto del 1934, un centinaio di membri del Ku Klux Klan organizzano una marcia per Monroeville, passando anche per la casa dei Lee. A.C. interrompe la manifestazione recandosi di persona dal Gran Dragone (il Ku Klux Klan era organizzato in “regni”, che comprendevano diverse province ed erano gestiti da un Gran Dragone), mettendolo di fronte ad un ultimatum: il Dragone avrebbe interrotto la manifestazione e fatto tornare a casa gli astanti o sarebbe stato citato in giudizio da A.C. stesso. C./Atticus Finch impartisce a Nelle/Scout una lezione morale difficile da dimenticare: spesso la cosa giusta da fare non è quella più facile, né quella più popolare, ma bisogna farla ad ogni costo, anche se significa attirarsi antipatie e inimicizie o addirittura restare isolati (come succede ad Atticus dopo l’impopolare decisione di difendere Tom Robinson in tribunale).

      Harper Lee e suo padre A.C.

      Harper Lee e suo padre A.C.

       

      Ultima curiosità che dimostra quanto Il buio oltre la siepe sia effettivamente legato alla biografia di Nelle: il suo compagno di merende era il suo vicino di casa, Truman Streckfus Persons (si si, proprio lui, Truman Capote), che nel romanzo è impersonato da Dill, il migliore amico di Scout. Per appagare l’intelligenza precoce e la vivacità intellettuale dei due bambini, A.C. aveva regalato loro una macchina da scrivere Underwood, dalla quale i due si separavano raramente. Probabilmente A.C. non immaginava che quei ragazzini sarebbero diventati due degli scrittori americani più conosciuti e celebrati (e che il loro successo sarebbe poi diventato motivo di attrito tra i due, specie per Truman, invidioso del fatto che la fama della sua vecchia amica Nelle avesse eclissato la sua. Truman, fattene una ragione!)

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      Truman Capote e Harper Lee

       

      Ultimissima curiosità: nel 2015, ben 55 anni dopo la pubblicazione de Il buio oltre la siepe, Harper Lee ha autorizzato la pubblicazione di un prequel de romanzo, Go Set A Watchman, suscitando un mare di polemiche e dubbi sulla sua lucidità mentale (Lee, che sarebbe morta nel febbraio 2016, soffriva all’epoca di forti vuoti di memoria). Se siete curiosi di saperne di più, ne ho parlato qui.

      Bush

      Posted in Letteratura americana | 0 Comments | Tagged Go set a Watchman, Harper Lee, Il buio oltre la siepe, Storie dietro la storia, Truman Capote, un classico è per sempre
    • Un’ora con… Ilenia Zodiaco di Con amore e squallore

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 23, 2017

      La blogger che ospito oggi è sagace come una Serpeverde, determinata come una Grifondoro, obiettiva come una Tassorosso e amante del sapere come una Corvonero.

      Il cappello parlante di Hogwarts avrebbe insomma difficoltà ad assegnarla a una singola casa in maniera definitiva – vero, Ilenia?

      Potete trovare Ilenia sul suo blog e sul suo canale You Tube. Buona lettura!

      ilenia

      1) Con amore e squallore: come e perché?

      Mi rendo conto che “Con amore e squallore” è un nome che porta con sé delle aspettative, ma è semplicemente il titolo del mio racconto preferito di Salinger, contenuto nella raccolta Nove racconti. L’ho scelto perché la protagonista del racconto, Esmé, è una bambina atipica, dotata di una grande impertinenza ma anche di una grande sensibilità nell’intuire la sofferenza degli altri. Mi piace pensare che questo sia il mio approccio alle storie contenute nei libri e non solo. Almeno questa era l’idea nella mia testa, non so se sono riuscita a trasmetterla.

      2) Chi c’è dietro Con amore e squallore?

      Il mio volto e la mia identità non sono poi così misteriosi, avendo un canale YouTube in cui non solo imbastisco lunghi monologhi su tutto lo scibile umano, ma parlo spesso anche della mia vita da studentessa fuorisede. In poche parole: sono una siciliana trapiantata a Milano. Quante volte avete già sentito questa presentazione? Mi sono laureata prima in Lettere Moderne e poi in Comunicazione per le imprese e i media. Adesso mando curriculum e medito un Master in Editoria (che nel frattempo Ilenia ha iniziato, ndr), ovvero penso a fantasiosi modi per suicidare la mia carriera. Sono per natura curiosa e credo fermamente che i libri siano il mezzo migliore per imparare ciò che non conosci. Se non so fare qualcosa, di solito, è tra le pagine di un libro che cerco.

      Guardo troppe serie tv, amo molto camminare e nuoto come un pesce (ma senza il fisico della Pellegrini). Tutti rimangono stupiti dal fatto che ascolto il rap. Non è tutto qui ma l’essenziale c’è. Ah, dimenticavo. Io dico arancino, non arancina.

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Il grande Gatsby su tutto e tutti. Ad finem fidelis. Cosmopolis di Don DeLillo. L’isola di Arturo di Elsa Morante. Middlemarch di George Eliot. Colazione da Tiffany di Truman Capote. La macchia umana di Philip Roth. La boutique del mistero di Buzzati. Il giovane Holden. Ehi, aspetta ma quanti libri ci stanno su uno scaffale? Meglio fermarsi qui.

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Ahimè, Madame Bovary. Sempre ad aspettarsi che il meglio sia altrove. Il bovarismo credo sia inevitabile, anche in percentuali minime, per qualunque lettore.

      5) Se il tuo blog fosse una canzone..

      Like a rolling stone. Sempre irrequieta, senza una direzione precisa, un po’ persa ma almeno non ci si annoia, il viaggio è parecchio eccitante.

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Mi piace scrivere ma la mia idea della scrittura è ormai troppo alta perché possa immaginare di avvicinarmici seriamente, visto che le mie doti sono mediocri. E poi sono molto pigra ed incostante con le parole. Le amo, le odio, ne cerco sempre di nuove e per questo preferisco affidarmi spesso al parlato che allo scritto. La conversazione e il dialogo, in questo momento, mi appartengono di più.

      So che può risultare confuso ciò che ho detto. Appunto. Per quanto riguarda la lettura, mi limito a dire che leggere ha cambiato la mia identità. Capisco che per molte persone non sia così ma lo è stato per me. Come penserei, cosa farei, chi sarei, se non avessi passato così tanto tempo dentro le menti di altri, è per me un’incognita.

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      Posted in Guestpost e interviste | 1 Comment | Tagged bovarismo, Colazione da Tiffany, con amore e squallore, cosmopolis, Dino Buzzati, Don DeLillo, Elsa Morante, emma bovary, Francis Scott Fitzgerald, george eliot, Il giovane Holden, Il grande Gatsby, Ilenia Zodiaco, J.D. Salinger, L'isola di Arturo, la boutique del mistero, La macchia umana, Philip Roth, Madame Bovary, middlemarch, Philip Roth, Truman Capote, un'ora con
    • Non siamo mai veramente pronti a dire addio: New York Stories

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 8, 2016
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      Grazia a Laura per il graditissimo regalo

       

      New York è senza alcun dubbio la città più difficile da raccontare.

      Prima di esistere in quanto città, in quanto microcosmo reale e tangibile affollato da milioni di vite, incroci di strade, grattacieli e taxi gialli, esiste per ognuno di noi come mito.

      New York è una vera e propria creatura mitologica, alimentata da secoli di letteratura e da decenni di tradizione cinematografica: c’è chi ci va convinto di incontrare qualcuno nell’osservatorio dell’Empire State Building, ritrovare un numero di telefono dentro una copia di Cent’anni di solitudine in una bancarella, sentirsi spiegare il significato di Auld Lang Sine la notte di Capodanno da un Harry che è corso a piedi dalla sua Sally, perché quando capisci di amare qualcuno, eccetera.

      C’è chi arriva convinto di trovarvi party stratosferici e la mistica luce verde di Gatsby, gli insopportabili brooklynite dell’altrettanto insopportabile Nathaniel P, Holly Golightly che cura i suoi mean reds tra vodka e colazioni da Tiffany. Ognuno di noi arriva a New York per trovare qualcosa: l’ispirazione per scrivere una storia, una mini-fuga dalla realtà, l’amore, quel senso di infinita possibilità che probabilmente esiste da nessun’altra parte – non nello stesso modo, non nella stessa misura.

      Per qualcun altro, come il capitano Paolo Cognetti, New York è una finestra senza tende: New York Stories, l’antologia di racconti che ha curato per Einaudi, è un tentativo di ripulire i vetri di questa finestra, di ricostruirne l’essenza mitologica attraverso i decenni e attraverso ventidue voci, da Fitzgerald a Yates, da Dorothy Parker a Mario Soldati, da Don DeLillo a Joan Didion.

      Questo viaggio è funzionale a uno scopo ben preciso: decostruire il mito, eliminare stucchi ed orpelli e restituire al lettore New York come città. Una città che ha significato qualcosa di diverso per ciascuno degli scrittori interpellati, a cui ha dato o ha tolto in modi e misure diverse, quasi come se New York fosse una sorta di dea bendata e agisse secondo il capriccio del momento.

      Una cosa è certa: nessuna di queste voci è uscita indenne dall’incontro con New York. La città cambia le persone, le persone cambiano la città: c’è chi si perde, chi si ritrova, chi la ripercorre palmo a palmo per ritrovare brandelli di passato, chi la seduce e chi ne è sedotto, chi scappa e chi rimane. Quasi tutti approdano a New York inseguendo un sogno: un sogno che, realizzato o meno, viene comunque modificato dall’impatto con la città. Una città che è pronta anche ad essere un’amante incostante e infedele e a dispensare cocenti delusioni.

      Una delle definizioni più belle dell’incontro con New York è quella di Pier Paolo Pasolini all’interno del racconto di Oriana Fallaci, Un marxista a New York:

       

      “Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo stare qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che lo vuole, che deve mangiarli tutti. Uno a uno. E, nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via”.

       

      New York è la giostra più grande e più bella della festa di paese, quella a cui tutti i bambini ambiscono, che abbiano la monetina per pagare il giro o no. Diventa insieme una sfida e una promessa: prima o poi ci salirò, prima o poi ci tornerò. E quel primo giro può risultare in un amore a prima vista o in una delusione completa, ma può anche far girare la testa, come nel mio caso.

      La prima volta che sono stata a New York non sapevo da che parte guardare, per paura che mi sfuggisse un angolo, una prospettiva, una storia. La mia idea di New York conviveva con così tanti miti, illusioni, fantasie, descrizioni che mi sono sentita persa dentro un cuore che pulsava troppo veloce, come se tutto fosse troppo. C’è voluta una seconda volta, libera di aspettative e con in mente Bei tempi addio di Joan Didion (contenuto nella raccolta), per smettere di cercare di trovarvi quel tutto che mi immaginavo contenesse, smettere di cercare di capirla o analizzarla e lasciarmi semplicemente penetrare dalla bellezza delle sue infinite possibilità, come suggerisce appunto la Didion:

      “…ero innamorata di New York. E non è un modo di dire: ero davvero innamorata della città, la amavo come si ama la prima persona che ti tocca e come non amerai più nessun altro. (…) Credevo ancora nelle possibilità allora, avevo la sensazione, così caratteristica di New York, che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa di straordinario, da un giorno all’altro, da un mese all’altro.”

       

      C’è poi la questione degli addii. Che sia una cosa voluta o un’imposizione del destino, dire addio a New York, come cantano anche i REM, non sembra essere cosa facile, né indolore.

       

      Probabilmente per questo la voce che ho amato di più all’interno di quest’antologia (come mi succede ogni volta nel caso di antologie di poesie o di racconti, anche in New York stories ho ritrovato voci che amo, scoperto voci nuove che mi hanno colpito tantissimo e sono stata delusa da voci che mi hanno lasciato del tutto indifferente) è quella di Colson Whitehead nel racconto di chiusura, Limiti cittadini. Ognuno ha la sua versione di New York, necessariamente diversa da tutte le altre perché è una città che conosce un’evoluzione continua, un cambiamento così veloce che è impossibile bagnarsi due volte nelle stesse acque; le sue strade, le sue case, i suoi palazzi, i suoi esercizi commerciali sono disseminati delle versioni di noi che li hanno percorsi e abitati. Dire addio a una lavanderia, a un ristorante cinese, a un appartamento significa dire addio alla versione di noi che lì si è innamorata, ha sofferto, ha festeggiato, ha vissuto.

       

      “Non siamo mai veramente pronti a dire addio. Era il tuo ultimo viaggio su un taxi Checker e non lo sospettavi nemmeno. Era l’ultima volta che ordinavi i gamberetti del lago Tung Ting in quel ristorante cinese un po’ equivoco e non ne avevi idea. Se lo avessi saputo, forse, saresti andato dietro al banco a stringere le mani a tutti, avresti tirato fuori la macchina fotografica usa e getta e messo tutti in posa. Invece non ne avevi idea. Ci sono momenti inaspettati di ribaltamento, occasioni in cui, aprendo la porta di un appartamento, eri più vicino all’ultima volta che alla prima, e non lo sapevi nemmeno. Non sapevi che a ogni passaggio da quella soglia ti stavi congedando.”

       

      Soundtrack: Leaving New York, REM (It’s easier to leave than to be left behind
      Leaving was never my proud
      Leaving New York, never easy
      I saw the light fading out…)

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      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Adelle Waldman, Amori e disamori di Nathaniel P., Bei tempi addio, Cent'anni di solitudine, Colson Whitehead, Don DeLillo, Dorothy Parker, Einaudi editore, Empire State Building, Francis Scott Fitzgerald, Goodbye to all that, Harry ti presento Sally, Holly Golightly, Joan Didion, Leaving New York, Limiti cittadini, Mario Soldati, mean reds, New York, New York Stories, non sono brava a dire addio, Oriana Fallaci, Paolo Cognetti, Pier Paolo Pasolini, REM, Richard Yates, The Great Gatsby, Truman Capote, Turismo letterario, Un marxista a New York
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario#6 – Un Natale a New Orleans

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 6, 2015

      bannervale

      Questa casella è scritta e aperta da Marta di La McMusa.

      1. truman capote

      C’era una volta un bambino preoccupato: aveva più o meno sei anni, viveva in Alabama con alcuni zii e una cara cugina di nome Sook, molto molto più grande di lui, e, che fosse inverno o no, credeva in Santa Claus. Un giorno di dicembre, all’improvviso, il bambino preoccupato ricevette una lettera decisa e misteriosa in cui veniva richiesto.

      Veniva richiesto dal padre – un signore lontano che aveva visto poche altre volte nella sua vita e che abitava a New Orleans – che adesso lo invitava a trascorrere il Natale con lui. Padre e figlio, e una manciata di giorni insieme per ricordarsi, forse, di un calore ormai disperso. Spaventato e in lacrime, il bambino disse a Sook che a New Orleans per Natale non ci voleva andare e che avrebbe preferito stare con lei a scartare i regali che Santa Claus avrebbe di certo consegnato sotto l’albero della loro casa di campagna la notte del 24 dicembre: un cappello da cowboy con tanto di lazo, un coltello con il manico di perla, un fucile ad aria con cui sparare ai passeri.

      “Non piangere, Buddy. Magari a New Orleans vedrai la neve!”

      Il bambino preoccupato, convinto allora dal sogno della neve, prese la corriera e, quando arrivò a New Orleans dopo 400 miglia di terre paludose, per sopportare il distacco, la paura e la solitudine, si mise in attesa di fiocchi bianchi e un poco di magia. Si mise in attesa di un soffio di fiaba abbagliante come abbagliante era stata la neve delle storie che gli leggeva Sook da quando era piccolo per dargli la buonanotte.

      Solo che la neve, a New Orleans, non arrivò mai. Né quel Natale, né gli altri. Al suo posto il bambino preoccupato conobbe per la prima volta i suoni e frastuoni dei tram di quella grande città afosa, il vociare della gente nelle strade, la radio e il frigorifero (insieme, nella casa del padre, nel bel mezzo della Grande Depressione), il balcone della stanza da letto con i merletti di ferro, il cortile con i fiori e la fontana a forma di sirena, una mezza dozzina di amiche del padre, un aereo.

      2. vintage aeroplane toy

      Stava in una vetrina di un negozio di giocattoli. Il giorno prima di Natale, camminando per Canal Street, il bambino preoccupato era rimasto ammaliato: l’aereo aveva i pedali, un motore rosso ed era tanto grosso da poterci entrare dentro e pedalare fino a prendere il volo. Con quell’aereo sì che avrebbe fatto ridere i suoi cugini; con quell’aereo sì che avrebbe potuto correre in mezzo alle nuvole; con quell’aereo sì che Santa Claus l’avrebbe reso felice.

      Il bambino preoccupato quella notte si mise a pregare e pregò proprio rivolto a Santa Claus: il Signore raccoglie gli ordini, Santa Claus li consegna sotto forma di regalo. Così diceva Sook.

      Fu quella notte stessa, però, che il bambino preoccupato – che di nome faceva Truman e come cognome portava la malinconia agitata di un matrimonio durato poco e finito male tra un ricco uomo d’affari di New Orleans e una tipica southern belle che era stata anche Miss Alabama – scoprì che Santa Claus non esisteva: la piramide di regali sotto l’albero stava sì prendendo forma, ma la stava costruendo il padre, tradendo rumore e prosaicità nel bel mezzo della notte più poetica dell’anno.

      “Un ragazzino della tua età non può credere ancora nel Signore. E neanche in Santa Claus.”

      Senza lacrime ma con rabbia, Truman pregò allora per un altro padre, che pochi anni dopo arrivò e gli diede il cognome Capote, un’istruzione prestigiosa e una stabilità emotiva che non aveva mai avuto ma che adesso, forse, era troppo tardi per apprezzare. Pregò allora anche per un’altra madre, che da quel Natale fino alla sua morte divenne proprio New Orleans, la città senza neve e con un grosso aeroplano in vetrina, la città dove vivono le sirene, i colori, uomini e donne in costume, e la libertà di poter credere a Santa Claus perché Santa Claus, in fondo, altro non è che la bellezza di avere qualcosa in cui credere.

      3. new orleans at xmas

      Il racconto One Christmas di Truman Capote – da cui è tratta la mia storia natalizia di oggi – lo potete trovare in una vecchia edizione Garzanti intitolata Un Natale e altri racconti. È una storia  semplicemente perfetta, di cui io ho modificato il finale facendolo convergere sulla vita vera, ma che sulla pagina fa il paio con il celeberrimo (almeno in America) racconto Un ricordo di Natale: nostalgia, dolcezza e amicizia proiettati nell’infanzia e riportati in vita nel presente da uno degli scrittori più amabili e potenti della storia letteraria contemporanea. Non solo americana.

      Buon Natale 🙂

      Posted in Letteratura e dintorni | 9 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Alabama, Garzanti, Grande Depressione, Il Calendario dell'Avvento Letterario, la mcmusa, Letteratura americana, Marta Ciccolari Micaldi, New Orleans, One Christmas, Santa Claus, Sook, Truman Capote, Un Natale e altri racconti, Un ricordo di Natale, Xmas is all around
    • #libriinvaligia5: per un pugno di classici

      Posted at 11:50 am08 by ophelinhap, on August 6, 2015

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      Finalmente anche il conto alla rovescia per le mie vacanze si è attivato, quindi, dopo due settimane trascorse a preparare pacchi e valigie per un trasloco… mi rimetto a preparare le valigie per tornare in Italia, affrontando il dilemma di ogni anno: quali libri portare con me, oltre al mio amatissimo Kindle?

      Come l’anno scorso, colgo la palla al balzo e vi suggerisco un pugno di classici da scoprire/riscoprire durante le vacanze. Che siate al mare, in viaggio, in montagna, in città o in ufficio (sigh!), buone letture!

      1) Il buio oltre la siepe, Harper Lee

      Di Harper Lee si è parlato tanto, tantissimo negli ultimi mesi, causa la riscoperta e la pubblicazione del suo inedito Go set a watchman. Io l’ho letto, ne ho parlato qui, e approfitto dell’occasione per sottolineare ancora una volta che – a prescindere da operazioni pubblicitarie più o meno infelici – GSAW non è Il buio oltre la siepe. Quindi, se aspettate l’edizione italiana per leggere un prequel/sequel dell’amatissimo classico, resterete estremamente delusi: sono due romanzi diversissimi, che affrontano tematiche più o meno simili da due prospettive estremamente diverse.

      Ergo, approfittate dell’estate per scoprire/riscoprire la Maycomb dell’adorabile Scout Finch, maschiaccio perennemente scalzo e in salopette che odia vestitini e scarpe di vernice, suo fratello Jem e l’inseparabile amico Dill (controparte romanzata di Truman Capote, amico d’infanzia della Lee). I tre si trovano a crescere in un momento storico pieno di cambiamenti per la società americana degli stati del Sud, con la fortuna di avere una vera e propria bussola morale: il mitico papà Atticus, che ha il vizio di giocare con l’orologio da taschino e l’inestimabile pregio di fare sempre ciò che ritiene giusto, a scapito delle conseguenze.

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      Feltrinelli editore, trad. a cura di Amalia D’Agostino Schanzer

      2) Effie Briest, Theodor Fontane

      Ho letto questo romanzo molto recentemente, incuriosita da un tweet di Oxford World’s Classics che lo definiva la controparte teutonica di Anna Karenina, il mio romanzo preferito, per me vera e propria Bibbia della letteratura di tutti i tempi.

      Se nella prima metà del romanzo ho rischiato di cadere vittima della lentezza delle narrazione, nella seconda ho ceduto alla malia dell’innocenza e del candore con cui viene raccontata la storia di Effie, fanciulla diciassettenne data in sposa in quattro e quattr’otto a un ex pretendente di sua madre che ha più del doppio dei suoi anni. L’unica colpa di Effie è quella di essere sostanzialmente una bambina, che non si conosce, non conosce il suo posto nel mondo, e in mezzo alla sua tranquilla confusione cade preda delle avances del maggiore Crampas. Ovviamente, Effie è destinata a non vedere più la figlia Annuccia e a morire di tubercolosi lontano da lei e dal marito, il rigido barone Von Instetten, che vorrebbe perdonarla, ma attribuisce all’onore e alle apparenze un ruolo molto più importante di quello giocato dall’amore.

      Se Thomas Mann avesse dovuto scegliere solo sei libri, Effie Briest di Fontane sarebbe stato uno di quelli. Fidatevi del buon vecchio Thomas, e lasciatevi conquistare dalla sua apparente semplicità e dal candore di tempi andati: caratteristiche che, più o meno inconsapevolmente, sono tra quelle che cerco in un buon classico.

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      3) Ritratto di signora, Henry James

      Isabel Archer è una delle eroine più belle e sfortunate della storia della letteratura. Affascinante, indipendente, intelligente, si ritrova ad ereditare un’ingente fortuna, e a compiere uno sbaglio di proporzioni colossali in ambito sentimentale, sposando un inquietante omuncolo interessato solo ai suoi soldi, l’insopportabile, pomposo Gilbert Osmond. La vera tragedia di Isabel è essere stata amata tanto, da tanti, e non essere mai riuscita a capire le persone, e a leggere davvero nel suo cuore.

      È uno dei miei libri preferiti, che rileggo volentieri a cadenza irregolare. Da affiancare all’omonimo film di Jane Campion, con una splendida Nicole Kidman e un cast di tutto rispetto, che include John Malkovich e Viggo Morgensen.

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      4) L’età dell’innocenza, Edith Wharton

      Con L’età dell’innocenza, il suo dodicesimo romanzo, la Wharton diventa la prima donna ad essere insignita del premio Pulitzer (1921). Basta leggere L’età dell’innocenza per rendersi conto che il suo successo è più che meritato: la penna della Wharton attacca senza pietà l’ipocrita alta borghesia newyorchese della fine del XIX secolo, svelandone il volto nascosto da una maschera dorata.

      In questo contesto, Newland Archer, avvocato di belle speranze, si trova costretto a sposare May, scialba ma di buona famiglia, pur essendo perdutamente innamorato della cugina, la misteriosa e perduta contessa Ellen Olenska, colpevole di avere “un passato” (una vita scandalosa in Europa! Il divorzio da un dissoluto conte polacco!). Da affiancare all’omonimo film di Scorsese, che vede Michelle Pfeiffer nei panni della contessa Olenska e Winona Ryder in quelli di May Welland.

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      5. Via dalla pazza folla, Thomas Hardy

      Confessione: ho iniziato a leggere il celeberrimo romanzo di Hardy da pochissimo, dopo aver visto il nuovo adattamento cinematografico con una splendida Carey Mulligan nei panni della protagonista, la bellissima, indipendente e sfortunata (avete notato quanto spesso questi aggettivi vadano insieme nella descrizione delle eroine dei classici?) Bathsheba Everdene. Anche Bathsheba, come Isabel Archer, ha la tendenza a far innamorare di sé un po’ tutti, dal leale fattore Oak al ricco Boldwood, che si rivela uno stalker della peggior specie. Ovviamente, si innamora dell’unico uomo che non la ricambia, il vanesio, sprezzante sergente Francis Troy, che la rende molto, molto infelice.

      Ah, è anche un romanzo pieno di pecore. Ci sono pecore ovunque. Anche molte mucche. Arcadia pura, insomma.

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      Garzanti, traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman

      6) Camera con vista, E. M. Forster

      Lucy Honeychurch è un’altra delle mie eroine preferite in assoluto. Di lei, il pastore Beebe dice che, se si arrischiasse a vivere come suona, sarebbe una delle persone più interessanti del mondo. E lo fa: lascia l’insignificante, freddo fidanzato Cecil per una vita di avventure con l’inappropriato, imprevedibile George, conosciuto durante un viaggio in Italia, complice uno scambio di camere.

      Da affiancare alla visione del film di James Ivory, con un’intensa Helena Bonham Carter nei panni della protagonista.

      Newton Compton, trad. a cura di  P. Meneghelli

      Newton Compton, trad. a cura di P. Meneghelli

      Ultimo consiglio libresco: dopo aver tanto parlato di eroine, vi suggerisco la lettura di un libro che ho amato molto (purtroppo non disponibile in traduzione italiana): How To Be A Heroine: Or, what I’ve learned from reading too much, di Samantha Ellis (di cui ho parlato qui).

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      Dalla redazione è tutto: vi auguro delle bellissime vacanze, piene di avventure, di parole, di storie.

      Soundtrack: Summertime, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong

      Posted in Ophelinha legge | 3 Comments | Tagged Anna Karenina, Atticus Finch, Bathsheba Everdene, Bur, Camera con vista, E. M. Forster, Edith Wharton, Effie Briest, Feltrinelli, Garzanti, Go set a Watchman, GSAW, Harper Lee, Henry James, Il buio oltre la siepe, Isabel Archer, Jane Campion, L’età dell’innocenza, Lev Tolstoj, libriinvaligia, Lucy Honeychurch, Movies, Newton Compton, Oscar Mondadori, Oxford World's Classics, Pulitzer, Ritratto di Signora, Scout Finch, Theodor Fontane, Thomas Hardy, Thomas Mann, Truman Capote, un classico è per sempre, Via dalla pazza folla
    • Go Set a Watchman: Scout Finch non abita più a Maycomb

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 27, 2015

      gsaw

      Vi ricordate la prima volta che vi hanno spezzato il cuore? Metafora trita e ritrita, lo so: ma come spiegare la sensazione che qualcosa si sia spezzato per sempre dentro di sé, e che non ci sia colla che possa rimetterlo a posto, e farlo tornare come prima?

      Io me lo ricordo come se fosse ieri: avevo quindici anni e frequentavo la quinta ginnasio. Sono andata in bagno e ho fumato una sigaretta perché le mie compagne di classe mi avevano assicurato che mi avrebbe aiutato a dimenticare. Speravo di sentirmi grande e sofisticata, ma ho provato solo nausea. E ho letto per la prima Anna Karenina: mi sembrava il momento più appropriato per una lettura così tragica, così romantica, così solenne.

      Jean Louise Finch, conosciuta come Scout da tutti coloro che hanno letto e amato Il buio oltre la siepe, è in un certo senso fortunata: non conosce questa devastante malattia del corpo e dell’anima, questo terremoto fino all’età di ventisei anni.

      Miss Jean Louise non è più Scout, monella di strada perennemente scalza e in salopette, allergica ai vestiti e alle maniere da signorina per bene del Sud: ora è una ragazza di ventisei anni indipendente e decisa, trasferitasi a New York, dove svolge un lavoro non meglio definito. Quasi nessuno si ricorda più del suo nomignolo di bambina; nomignolo che viene estirpato per sempre da un’estate torrida e polverosa, che marca il battesimo definitivo di Jean Louise, il suo ingresso nell’età adulta.

      Prima di procedere oltre, ripetete insieme a me: Go set a Watchman (per gli amici GSAW) non è Il buio oltre la siepe . Non c’è più nemmeno la siepe, perché la vecchia casa dei Finch è stata venduta ed è diventata una gelateria. Dall’altra parte dello steccato non c’è più Dill, l’alter ego letterario di Truman Capote, andato a combattere in Europa e rimastovi, per onorare la sua natura inquieta e vagabonda.

      Non c’è più nemmeno Jem, il fratello maggiore di Scout che ha rischiato la morte ed è stato salvato dall’intervento tempestivo di Boo Radley: è venuto a mancare prematuramente, stroncato da un infarto per le strade della sua Maycomb.

      Jean Louise torna a Maycomb da New York per le sue vacanze estive, riscoprendosi innamorata come non mai della sonnolenta cittadina meridionale scrigno dei suoi ricordi di bambina e di adolescente:

      When you live in New York, you often have the feeling that New York’s not the world. I mean this: every time I come home, I feel like I’m coming back to the world, and when I leave Maycomb it’s like leaving the world. It’s silly. I can’t explain it, and what makes it sillier is that I’d go stark raving living in Maycomb.

      (Quando vivi a New York, hai spesso la sensazione che New York non sia il mondo. Quello che voglio dire è che, ogni volta che torno a casa, mi sembra di tornare al mondo, e quando lascio Maycomb mi sembra di andarmene dal mondo. È stupido, e non riesco a spiegarlo bene; la cosa più ridicola è che vivere a Maycomb mi farebbe uscire di senno.)

      Torna anche per fare i conti con i sentimenti che nutre nei confronti di Henry (Hank) Clinton, suo amico d’infanzia che vuole seguire le orme del padre, Atticus Finch, e studia per diventare avvocato, facendogli da assistente. Lui vorrebbe sposarla, lei esita: è innamorata della sua indipendenza, terrorizzata delle possibili conseguenze di scegliere il marito sbagliato. Ma Hank non vuole mollare:

      He began dating her on her annual two-weeks visits home, and although she still moved like a thirteen-year-old boy and abjured most feminine adornments, he found something so intensely feminine about her that he fell in love. She was easy to look at and easy to be with most of the time, but she was in no sense of the word an easy person. She was afflicted with a restlessness of spirit he could not guess at, but he knew she was the one for him. He would protect her; he would marry her.

      (Hank) Aveva iniziato a uscire con lei nelle due settimane che trascorreva a casa ogni anno, e, nonostante lei si muovesse ancora come un ragazzino tredicenne e disprezzasse la maggior parte degli orpelli femminili, aveva trovato in lei qualcosa di così profondamente femminile che se n’era innamorato. Guardarla era naturale, passare del tempo con lei era semplice, nella maggior parte dei casi, ma non era di certo una persona facile. Soffriva di un’irrequietezza d’animo che lui non riusciva a penetrare; ma sapeva che lei era l’unica per lui. L’avrebbe protetta; l’avrebbe sposata.

      Il metro di paragone di Jean Louise per ogni uomo che voglia davvero far parte della sua vita è la persona più importante per lei, il suo compasso morale, colui nel quale ripone la più cieca fiducia e ammirazione: il padre Atticus, colui che fa sempre ciò che è giusto, infischiandosene anche dell’opinione pubblica e delle ripercussioni sulla sua famiglia. Per Jean Louise, tornare a casa significa tornare da lui, e constatare ancora una volta che, benché Atticus abbia ormai settantadue anni e soffra di artrosi, il mondo idealizzato e perfetto delle sua infanzia è ancora lì, immoto ed immutabile, presidiato da Atticus, divinità benigna che dal suo piedistallo elargisce saggezza e buon senso.

      Il mondo di Jean Louise viene improvvisamente sovvertito dalla scoperta che il suo Atticus, colui che non può sbagliare, presiede il Maycomb County Citizens’ council, del quale fa parte anche Hank, una fosca organizzazione che sostiene che le persone di colore non siano ancora pronte e diventare cittadini americani al 100%: non hanno la maturità necessaria per votare, non hanno il diritto di andare nelle stesse scuole dei bianchi, né di essere difesi da avvocati della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, Associazione Nazionale per la promozione delle persone di colore, una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, fondata nel 1909 con sede principale a Baltimora, Maryland).

      E qui le si spezza il cuore: inizia a stare fisicamente male, a non riuscire a mangiare  e a non voler vedere nessuno (specie Hank), tormentata da una domanda: di chi potrà fidarsi, adesso che Atticus, il suo mentore, la sua fonte d’ispirazione, l’ha tradita in modo così bieco e meschino, rivelandosi un omuncolo indegno della fama che lo precede?

      The one human being she had ever fully and wholeheartedly trusted had failed her; the only man she had ever known to whom she could point and say with expert knowledge, “He is a gentleman, in his heart he is a gentleman,” had betrayed her, publicly, grossly, and shamelessly.

      (L’unico essere umano in cui avesse mai riposto la più piena e complete fiducia l’aveva delusa; l’unico uomo del quale avesse potuto dire con sicurezza “è un gentiluomo; ha il cuore da gentiluomo” l’aveva tradita in maniera grossolana, in pubblico, senza vergogna).

      Il giorno prima della terribile scoperta di Jean Louise, il pastore Stone legge il sesto verso dal ventunesimo capitolo di Isaia:

      Go, set a watchman, let him declare what he seeth

      Va’, metti una sentinella, che annunzi ciò che vede

      Jean Louise, ferita, confusa, persa, ripensa alle parole del pastore, e anela a un faro nel buio, a una guida in quel labirinto intricato che è improvvisamente diventato la sua vita:

      Blind, that’s what I am. I never opened my eyes. I never thought to look into people’s hearts, I looked only in their faces. Stone blind . . . Mr. Stone. Mr. Stone set a watchman in church yesterday . He should have provided me with one. I need a watchman to lead me around and declare what he seeth every hour on the hour. I need a watchman to tell me this is what a man says but this is what he means, to draw a line down the middle and say here is this justice and there is that justice and make me understand the difference. I need a watchman to go forth and proclaim to them all that twenty-six years is too long to play a joke on anybody, no matter how funny it is.

      (Sono cieca. Non ho mai aperto gli occhi. Non ho mai pensato di esaminare il cuore delle persone: ho guardato solo i loro visi. Cieca come una pietra..Mr Stone*. Mr Stone ha messo una sentinella in chiesa ieri. Ne avrebbe dovuto dare una anche a me. Ho bisogno di “una sentinella che mi guidi e mi annunci ciò che vede ogni ora. Ho bisogno di una sentinella che mi spieghi la differenza tra ciò che un uomo dice e ciò che vorrebbe dire veramente, che tiri una linea nel mezzo e mi spieghi la differenza tra i diversi tipi di giustizia. Ho bisogno di una sentinella che mi faccia da emissario e proclami che ventisei anni sono troppi per prendere in giro qualcuno, per quanto possa essere divertente).

      *Ndrm (nota della redazione mia): stone blind in inglese significa”totalmente cieca”. Ho cercato di mantenere il gioco di parole per associarlo al pastore, Mr Stone, il cui nome significa appunto pietra.

      Jean Louise, da degna figlia di Atticus, lo confronta. Gli lancia addosso accuse pesanti come massi. Lo insulta. Dichiara di odiarlo, e che non tornerà mai più a Maycomb.

      In realtà, la lotta tra Jean Louise e Atticus altro non è che lo scontro di due generazioni che vivono un momento molto particolare nella storia del Sud degli Stati Uniti. Nel 1954, Brown vs Board of Education aveva eliminato la segregazione razziale nelle scuole statunitensi, ma al tempo stesso creato un acceso, infervorato dibattito tra i costituzionalisti: la costituzione dev’essere interpretata alla lettera, e lo stato di diritto deve venire prima di tutto, o la costituzione stessa dev’essere adattata alla esigenze socio-politico-economiche dell’epoca?

      Non sono certo un’esperta in diritto costituzionale statunitense, e il fatto che la mia edizione di GSAW (Harper Collins, in ebook) non avesse uno straccio di nota a piè di pagina mi ha procurato non pochi grattacapi con l’interpretazione del decimo emendamento (una preghiera al mondo dell’editoria italiana: quando sarà il momento, per favore inserite qualche nota a piè di pagina, o almeno una prefazione: non siamo tutti costituzionalisti! E, vi prego, non intitolate il romanzo Va’, metti una sentinella…). In sostanza, il X emendamento stabilisce che ogni potere che non rientri nelle competenze del governo federale spetta di diritto ai cittadini o agli stati. Secondo Atticus, il X emendamento sarebbe stato aggirato per rispondere ai bisogni e alle necessità di una fascia ristretta della popolazione americana: ciononostante, le decisioni prese finiscono per avere un impatto molto significativo su tutta la popolazione stessa.

      Atticus rappresenta il passato: per lui, il rispetto pedissequo della costituzione deve venire prima di ogni altra cosa. Jean Louise rappresenta il presente e il futuro: la legge dev’essere adattata per garantire giustizia e uguaglianza per tutti.

      Atticus ha paura del cambiamento e di quello che potrebbe significare per la tranquilla, regolare esistenza dei cittadini di Maycomb: si sente minacciato dagli avvocati del NCAACP e dal neonato elettorato di colore. Ma non è solo di questo che Atticus ha paura: teme la nascita del sistema assistenziale, la fine del concetto di proprietà; in sostanza, la fine del mondo che ha conosciuto – e difeso strenuamente – tutta la sua vita.

      Avete presente il discorso che Ashley Wilkes fa all’innamorata – e annoiata  – Rossella O’Hara sullo stile di vita del Sud che gli Yankees stanno distruggendo? Ashley indulge malinconicamente nella descrizione delle sieste nelle magioni delle famiglie meridionali, i canti dei neri nei campi di cotone, il ritmo di vita lento, l’apprezzamento della bellezza nel senso più classico del termine. Questo è un po’ quello che succede a Atticus in GSAW:il suo mondo sta cambiando, e così il significato e l’uso della legge. Jean Louise, la vera eroina di GSAW, incarna il modo di pensare della sua generazione di Americani: la Costituzione è stata pensata dai padri fondatori per dare a tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. Il treno che riporta Jean Louise a Maycomb porta con sé idee nuove, rivoluzionarie: quelle stesse idee che sarebbero diventate cuore pulsante del movimento per i diritti civili.

      Non è un caso che lo zio di Jean Louise, l’eccentrico Dr Finch – che gioca un ruolo strumentale nel crepuscolo degli dei della piccola Scout, facendo scendere Atticus dal suo piedistallo una volta per tutte, e incoraggiandola a formarsi da sola idee e opinioni – le chieda di tornare a casa: Maycomb ha bisogno di gente come lei, ha bisogno del suo idealismo e della sua energia.

      Se ne Il buio oltre la siepe la difesa dei diritti civili e la lotta contro la segregazione razziale era affidata ad Atticus, eroe perfetto e solitario, in GSAW la stessa lotta è affidata alla costituzione americana, e alla nuova generazione di giovani americani, di cui Jean Louise, lasciandosi dietro di sé Scout e la sua infanzia, è chiamata a fare parte attiva.

      Soundtrack: Theme from “To Kill a Mockingbird” (Elmer Bernstein)

      monro

      Monroeville, Alabama, da cui Harper Lee ha creato Maycomb

      Monroeville, Alabama (credits http://net.archbold.k12.oh.us/ahs/web_class/Spring_13/TokillaMockingbird_Adoga/Background.html)

      Monroeville, Alabama (credits http://bit.ly/1Ksok6Z)

      Monroeville, Alabama (credits http://bit.ly/1Ksok6Z)

      Monroeville, Alabama (credits http://bit.ly/1Ksok6Z)

      Monroeville, Alabama (credits http://bit.ly/1Ksok6Z)

      Monroeville, Alabama (credits http://bit.ly/1Ksok6Z)

      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 3 Comments | Tagged American literature, ashley wilkes, Atticus Finch, Brown vs Board of Education, diritti civili, Go set a Watchman, Gone with the Wind, Harper Collins, Harper Lee, Margaret Mitchell, Rossella O'Hara, Scout Finch, Truman Capote, Via col Vento, X emendamento
    • Cocktail letterari, tra libri e bollicine

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 14, 2015

       

      tequila

      Avvertenza: un numero considerevole di cocktail è stato consumato per scrivere questo post. Quali sacrifici non si fanno in nome della ricerca…

      Image courtesy of http://bit.ly/1LIAEzc

      Image courtesy of http://bit.ly/1LIAEzc

      Siete tutti in vacanza? Siete tutti al mare, come sembrerebbe dal flusso di foto vacanziere su Instagram? Su, ditemi di no, per favore.

      Da queste parti, purtroppo, le tanto agognate vacanze quest’anno non sembrano altro che un sogno lontano, difficilmente destinato a concretizzarsi. E per me estate è sinonimo di temperature tropicali, sale sulla pelle, capelli spettinati, quella sabbia bianchissima e ostinata che sembra resistere a ogni tentativo di lavaggio, acque verdazzurre, e un Mojito al tramonto.

      In assenza di tutti  – o quasi – gli elementi citati, mi consolo con un paio di cocktail.. letterari. Ma andiamo con ordine.

      La parola “cocktail” sembra aver fatto la sua comparsa per la prima volta nel 1798 nell’edizione del 20 marzo di un giornale satirico, l’ormai defunto The Morning Post and Gazetteer, nell’ambito di una curiosa vicenda: il proprietario della taverna Axe & Gate, tra Downing e Whitehall, vince la lotteria e, estatico, cancella tutti i debiti dei santi bevitori frequentatori della sua bettola. Quattro giorni dopo, il giornale rilascia un elenco di tutti i bevitori i cui debiti erano stati cancellati dalla fortuita vincita alla lotteria, e, sorpresa sorpresa, molti erano noti uomini politici, tra cui William Pitt, il più giovane primo ministro britannico, che avrebbe dovuto pagare due bicchierini di un bibitone chiamato “l’huile de Venus”, uno di “perfeit amour” e tre quarti del (molto meno francese) “cock-tail, volgarmente chiamato ginger”.

      L’origine del “cock-tail” è in effetti molto poco romantica: il termine veniva usato per indicare quei cavalli la cui coda mozzata indicava che non erano purosangue, ma di razza mista. Un rimedio molto comune nei manuali di veterinaria dell’epoca era curare le coliche dei cavalli con un mix di acqua, avena, gin e zenzero; quindi, la prossima volta che la gastrite vi fa piegare in due, o la colite non vi lascia tregua, dimenticatevi Malox, Gaviscon&co: un G&T e passa la paura.

      Il termine “cocktail” viene battezzato con la pubblicazione della prima guida per bartender, nel 1862, ad opera di Jerry Thomas, principal bar tender al Metropolitan Hotel di New York, che nell’introduzione si vanta di fornire chiare indicazioni su come preparare drink mischiando tutte le bevande conosciute negli Stati Uniti, insieme a quelle britanniche, francesi, tedesche, italiane, russe e spagnole, dal punch al julep (giulebbe), creando combinazioni infinite. Ambizioso, il nostro Mr Thomas! Se siete curiosi, trovate la sua guida integrale qui.

      Agli inizi del XX secolo, i cocktail smettono di avere il ruolo di mere comparse e assurgono a protagonisti, anche grazie alla diffusione dei cocktail party negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale: c’è bisogno di dimenticare gli orrori della guerra, di leggerezza, di ricominciare a ridere e a celebrare la vita. Quindi via libera alle spalle scoperte, ai tagli di capelli à la gamine delle flapper, alla musica degli anni ruggenti, all’alcool che scorre a fiumi sfidando il Volstead Act, che introduce il proibizionismo negli States (dal 1919 al 1933).

      Lentamente, ma inesorabilmente, i cocktail fanno la loro comparsa anche sulla scena letteraria, dominata in precedenza dal nettare di Bacco e qualche altro liquore. Negli scrittori russi – Tolstoy e Checkov in testa – i personaggi indulgono spesso e volentieri nei piaceri dell’alcool, bevendo vino – e vodka, da – come se non ci fosse un domani.

      Gli scrittori americani si distinguono nella promozione di bollicine&co.: è difficile non associare Fitzgerald al gin, che sosteneva di preferire agli altri alcolici perché non faceva puzzare l’alito (Zelda avrà ringraziato). A Fitzgerald spetta anche l’invenzione del verbo “to cocktail”, coniugato per la prima volta in una lettera a Blanche Knopf, moglie dell’editore Alfred A. Knopf. E chi altri avrebbe potuto creare un tale neologismo, introducendo nel linguaggio un assaggio degli eccessi dei Roarin’Twenties, se non lo scrittore che ne è la perfetta incarnazione, dandy, playboy, brillante, ammirato e sregolato?

      Present: I cocktail, thou cocktail, we cocktail, you cocktail, they cocktail.

      Imperfect: I was cocktailing.

      Perfect or past definite: I cocktailed.

      Past perfect: I have cocktailed.

      Conditional: I might have cocktailed.

      Pluperfect: I had cocktailed.

      Subjunctive: I would have cocktailed.

      Voluntary subjunctive: I should have cocktailed.

      Preterit: I did cocktail.

      (Fonte: Open Culture)

      fitzgerald-conguates-cocktail

      Faulkner, da uomo del Sud tutto d’un pezzo, aveva una marcata preferenza per il mint julep (menta, ghiaccio, zucchero e bourbon).

      Il cocktail preferito di Hemingway era invece il mojito (anche il mio, Ernest, anche il mio. Vedi che sarei stata una perfetta quinta moglie?), un mix di zucchero di canna, rum e menta, che preferiva consumare a La Bodeguita del Medio, ormai iconico ristorante tipico cubano, arrivando da una lunga giornata di pesca al marlin, il bestione protagonista de Il vecchio e il mare. Ernest non disprezzava nemmeno il daiquiri (lime, rum bianco, sciroppo di zucchero, ghiaccio tritato); sulla parete de La Bodeguita campeggia una famosa frase di Hemingway, Mi mojito en la Bodeguita, mi daiquiri en La Floridita (storico ristorante di pesce e cocktail bar dell’Avana vecchia). Pare che il vecchio Ernest si cimentasse anche nella creazione di nuovi bibitoni, come il Papa doble (un daiquiri fatto col rum, succo di lime, maraschino e succo di pompelmo) e Morte nel pomeriggio (nome più che azzeccato per un mix letale di champagne e assenzio). Tuttavia, le abitudini alcoliche di Hemingway sono così leggendarie che è difficile delimitare dove finisca la realtà e inizi la mitologia: altre fonti sostengono che, essendo diabetico, lo scrittore preferisse drink senza zucchero e non disdegnasse un martini dry.

      ehmy-mojito-in-la-bodeguita-my-daiquiri-in-el-floridita-2

      Il Martini è uno dei protagonisti assoluti della scena letteraria, dalla sua comparsa in Casino Royale di Ian Fleming nel 1953: James Bond lo preferisce molto forte, e la sua ricetta personale prevede tre unità di Gordon’s, una di vodka, mezza di Kina Lillet, una scorzetta di limone, da consumare in un bicchiere da champagne ampio e profondo a sufficienza.

      Tornando a Hemingway, i protagonisti della sua (alcolica) Fiesta consumano (in grande abbondanza) Martini, vino, grappa, assenzio, birra, brandy, Anis del Mono, Izzarra – un liquore basco – e il Jack Rose (applejack – un brandy invecchiato nel legno – granitina e succo di lime), che Jack Barnes ordina mentre aspetta l’affascinante e crudele Brett, ammiratrice di toreri e indossatrice di titoli nobiliari. Bung-o! (Ndrm: è il prosit utilizzato da Brett nelle sue libagioni).

      All’irrequieta Dorothy Parker sono stati attribuiti questi celeberrimi versi

       I like to have a martini, Two at the very most. After three I’m under the table, After four I’m under my host.

      (Apprezzo un martini/ due al massimo/ al terzo sono sotto il tavolo/ al quarto sotto il mio ospite).

      L’ironica poesiola è quasi certamente spuria, nata a seguito di una sua dichiarazione dopo un cocktail party particolarmente riuscito:

      Enjoyed it? One more drink and I’d have been under the host!

      (Se mi è piaciuto? Un altro drink e sarei finita sotto il mio ospite!)

      Il mito del martini di Miss Parker ha portato addirittura alla creazione di un bicchiere da martini che porta il suo nome; in realtà, si vocifera che Dottie preferisse lo scotch.

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      Parker martini glass

      Il martini fa la sua comparsa anche ne Il giovane Holden: Carl Luce, amico del protagonista, lo consuma molto secco e senza olive, mentre Holden preferisce dissetare le scapigliate nottate newyorkesi con scotch&soda.

      L’indimenticabile Holly Golightly di Colazione da Tiffany ama il martini, i Manhattan, che consuma col suo “Fred baby”, i cocktail di champagne e il White Angel (vodka, gin, vermouth). E come dimenticare le orge alcoliche delle feste decadenti di Jay Gatsby? Tra tanti, il gin rickey, un mix di gin, succo di lime e acqua gassata), mentre la frivola Daisy Buchanan condivide con Faulkner la passione per il mint julep.

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      Vi è venuta sete, di cocktail e di libri? Poco male: Tim Federle, attore, scrittore e giornalista, ha compilato una deliziosa guida alle gozzoviglie letterarie, Tequila Mockingbird: cocktails with a literary twist, in cui gioca con gli ingredienti dei cocktail, adattandoli a romanzi e ribatezzandoli. Tequila Mockingbird contiene anche una guida di base per i bartender in erba, drinking games letterari, abbinamenti drink-gruppi di lettura e una miniguida a spuntini da hangover, ovviamente letterari: ad esempio, Alice’s Adventures in Wonder Bread (pane bianco con formaggio svizzero e patè di funghi) o The Deviled Egg Wears Prada ( una variante un po’ esotica delle uova ripiene, con humus, paprika e limone).

      Vi lascio con un paio di cocktail letterari suggeriti da Federle: consumate con moderazione!

      Cocktail d’autore n.1: Rye and Prejudice (da Pride and Prejudice, Orgoglio e Pregiudizio, Jane Austen)

      • tre once* di succo di pompelmo
      • 1/3 di oncia di rye whiskey (whisky di segale)

      Versate gli ingredienti su un bicchiere riempito a metà di ghiaccio, mescolando come se aveste a che fare con un cuore innamorato, pieno di complicazioni.

      Cocktail d’autore n.2: Love in the time of Kahlua (da Love in the time of Cholera, L’amore ai tempi del colera, Gabriel Garcìa Marquez)

      • 1 oncia di rum
      • ½ oncia di liquore al caffè (tipo il Kalhua)
      • 2 once di panna
      • cannella o noce moscata a piacimento

      Mescolate rum, liquore al caffè e ghiaccio, aggiungendo poi la panna e spezie a volontà, per un drink pieno di passioni non corrisposte ed esplosive.

      Cocktail d’autore n.3: Romeo and Julep (da Romeo e Giulietta, William Shakespeare)

      • 6 rametti di menta fresco
      • un cucchiaino da tè di zucchero di canna
      • ½ oncia di schnapps alla pesca
      • ½ oncia di bourbon
      • una lattina di bevanda gassata al limone o al lime

      Mescolate il tutto on the rocks finché lo zucchero si sarà sciolto, poi aggiungete la bevanda al limone/lime e preparatevi ad innamorarvi, velocemente, inesorabilmente.

      Cocktail d’autore n.4: Huckleberry Sin (da Le avventure di Huckleberry Finn, Mark Twain)

      • 5 mirtilli, lavati
      • 2 once di vodka ai frutti di bosco
      • una lattina di gassosa

      Pestate i mirtilli in un barattolo di vetro. Aggiungete ghiaccio a piacimento, la vodka e la gassosa. Sedetevi sui gradini del portico, e godetevi il tramonto (facendo attenzione alle zattere di banditi scalzi che risalgono il fiume).

      Cocktail d’autore n.5: Infinite zest (da Infinite jest, David Foster Wallace)

      • 2 once di vodka
      • un’oncia di limoncello
      • ½ oncia di succo di limone

      Shakerate per bene gli ingredienti e versateli in un bicchiere da cocktail, aggiungendo ghiaccio a piacimento, per un drink giallo come un pallina da tennis.

      Cocktail d’autore n.6: Gone with the wine (da Gone with the Wind, Via col Vento, Margaret Mitchell)

      Dosi per 6 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • una bottiglia di vino rosso
      • 2 once di brandy alla pesca
      • 2 cucchiai di zucchero
      • una pesca, tagliata a pezzettini
      • un’arancia a spicchi
      • 2 bicchieri e mezzo di ginger ale (soft drink a base di estratto della radice di zenzero, bella fredda

      Versate il vino e il brandy in una caraffa, insieme allo zucchero e ai pezzi di frutta. Lasciate a macerare in frigorifero per almeno un’ora. Quando qualcuno degli ospiti si riferirà ad Ashley come una ragazza (non avendo chiaramente letto il libro né – sacrilegio! – visto il film), togliete la caraffa dal frigo, aggiungete la ginger ale e fate sbollentare gli ardenti spiriti, ché domani è un altro giorno

      Cocktail d’autore n.7: The Rye in the Catcher (da Catcher in the Rye, Il giovane Holden, JD Salinger)

      Dosi per 6 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • ½ bottiglia di rye whiskey (whisky di segale)
      • 4 once di succo d’ananas
      • 2 once di succo di limone
      • un litro di ginger beer (letteralmente birra allo zenzero, una bevanda composta da zenzero, zucchero, acqua, succo di limone e lievito)

      Mescolate whisky e succhi di frutta, aggiungendo ghiaccio in abbondanza. Aggiungete gradualmente la ginger beer, shakerate e chiamate a raccolta i vostri amici: è tempo di scacciare quei fastidiosissimi mean reds, e andare avanti.

      Cocktail d’autore n.8: The Portrait of a pink lady (da The Portrait of a Lady, Ritratto di signora, Henry James)

      Dosi per 12 drink (ideale per un gruppo di lettura, o quello che volete voi):

      • un litro di gin
      • 3 tazze di limonata rosa (per il colore, si posso aggiungere alla limonata tradizionale fragole o succo di mirtillo q.b.)
      • 6 once di granitina (succo di melograno più zucchero granulato)
      • un litro di gassosa

      Mescolate tutti gli ingredienti, tranne la gassosa, in una zuppiera da punch. Aggiungete giaccio a piacimento e la gassosa come tocco finale per un rimedio ideale per le pene d’amore, per il rimorso di aver scelto l’uomo sbagliato, di non aver capito se alla fine l’erba era più verde oltre l’Atlantico, o meno.

      *Un’oncia equivale a circa 2,96 cl

      Ancora assetati di cocktail e di libri? Poco male: The Reading Room offre una lista di quindici abbinamenti drink/romanzi (per citarne uno, Il grande Gatsby e il French 75, un mix di gin, champagne, sciroppo, limone e ghiaccio.) Nunc est bibendum!

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      Soundtrack: A little party never killed nobody, Fergie (The Great Gatsby soundtrack)

      Posted in Letteratura e dintorni | 5 Comments | Tagged Carl Luce, Casino Royale, Charlotte Brontë, cocktail, cocktail letterari, Colazione da Tiffany, Daisy Buchanan, David Foster Wallace, DFW, Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Faulkner, Fiesta, Francis Scott Fitzgerald, Gabriel García Márquez, Henry James, Holden Caulfield, Holly Golightly, Huckleberry Finn, Ian Fleming, Il giovane Holden, Il grande Gatsby, Infinite Jest, James Bond, Jane Austen, Jane Eyre, JD Salinger, L'amore ai tempi del colera, Margaret Mitchell, Mark Twain, martini, mint julep, mojito, orgoglio e pregiudizio, pride and prejudice, Ritratto di Signora, Romeo e Giulietta, Shakespeare, The Reading Room, Truman Capote, Via col Vento, Zelda Fitzgerald
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