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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #24: Natale in giallo. Nuove frontiere che vengono dal passato

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 24, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Simona di Letture sconclusionate

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      Ciao, io sono quella che l’anno scorso si domandava chi invitare a cena a natale, ricordi? E alla fine la scelta era caduta su Tom Perrotta. Quest’anno già da settembre sapevo chi avrei invitato, ma sapevo che non sarebbe potuto star lì da solo, perché il protagonista di questa casella ha una caratteristica molto particolare è uno un po’ schivo, sta sulle sue. Non lo fa apposta ma ha scelto nel tempo di vivere in un luogo tranquillo e, quando vivi in posti in cui il silenzio urla, circondato da animali e natura, tornare al mondo è sempre una faccenda complessa. Per cui quest’anno ti chiedo di seguire le peregrinazioni dei miei pensieri e alla fine, magari, converrai con me, che questo insolito duetto che si formerà, che si burla del tempo e anche dello spazio, non poteva essere meglio assortito.

      Ci sono volte in cui mi domando perché si preferisca leggere i classici invece dei contemporanei e la risposta universalmente accettata è che “i classici servono, non solo per il peso che hanno avuto nel tempo in cui sono stati concepiti e pubblicati ma, anche e soprattutto, a capire e apprezzare la buona letteratura“. Il punto è che spesso, questo “apprezzamento“, non viene messo a frutto e, quello che impariamo dai classici, allora serve a poco se non si prova a verificare ciò che viene pubblicato oggi.
      Dopotutto che gusto c’è a conoscere buona parte dell’opera e dell’ingegno di Wilkie Collins, definito come “il padre del poliziesco moderno“, se poi i gialli non si leggono?
      Stamattina ho finito l’ultimo libro della serie di romanzi, e ci tengo a sottolinearlo “Romanzi”, di Antonio Manzini e mi sono domandata come possa uno scrittore così schivo e defilato, rispetto a colleghi decisamente più “star”, essere entrato così tanto nelle mie grazie da costringermi a fare quello in cui nemmeno Collins, il mio amato Wilkie, è riuscito, ovvero leggere tutta una serie – quella dedicata a Rocco Schiavone- e avermi costretta a cercare e comprare tutti i lavori precedenti o successivi non legati a questo ciclo.

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      Alla fine mi sono risposta che quello che mi piace, di Antonio Manzini, è che è un po’ come me: vive in provincia, sembra un tipo che ami il silenzio e il rumore della natura, vive di distopie personali e le mette in tutto ciò che scrive. Se poi andiamo un po’ più a fondo, riguardo il lavoro che lo ha reso particolarmente famoso e amato dai lettori ovvero Rocco Schiavone, si scopre che non scrive gialli ma romanzi, in cui l’omicidio è un mezzo per parlare di società, etica, costume, cultura e sociale ovvero ciò che vediamo per abitudine ma non guardiamo davvero.
      E per me è stata una vera e propria sorpresa scoprire che quel che avevo stabilito fosse l’ennesimo caso letterario, in fondo,non era così male. Mi piace questo modo di approcciare alla questione: un giallo che non è un giallo, che comprende delle indagini che non sono solo focalizzate a risolvere il caso ma anche a svolgere la complessa matassa di cui è composta l’anima dannata di questo ispettore. E’ un noir perché scava nelle persone che vediamo scorrere davanti, nel loro rispondere alle domande e giustificarsi, è un romanzo perché ha particolare attenzione nella costruzione del complesso mondo delle relazioni e di come si percepisce e si è percepiti nel mondo. Ed è anche una delle basi dei mondi disegnati proprio da Collins che in uno stile concentrato in puntate settimanali ottiene lo stesso effetto portando innovazione in un mondo popolato di romanzi, portando l’omicidio, non più ai fini romantici, alla creazione di un nuovo genere di scrittura, non con l’eroe indagatore ma in un certo modo in una versione più verosimile.

      Nel lavoro di lettura e scrittura dei post relativamente a questa serie  mi sono resa conto che, questo mio interesse tardivo all’opera manziniana, è stato un colpo di fortuna perché se non avessi affrontato in questo modo tutto l’insieme, di quel che ha scritto in merito, certe sfumature, non mi sarebbero saltate all’occhio.
      Per esempio, dopo aver ripetutamente sentito chiedere “chi sia effettivamente il protagonista e da dove gli sia venuta l’ispirazione per crearlo così e non in un altro modo“, io oggi potrei rispondere che Rocco Schiavone è Manzini ma non negli aspetti che noi possiamo vedere. Non lo è né caratterialmente o fisicamente. E’ una trasposizione e l’insieme delle emozioni e delle rivalse di un uomo che guarda alla società con occhi diversi e che ne vede il lato oscuro. Quindi non importa che il protagonista appaia alto o basso e nemmeno che sia figo o pure bruttarello perché non è questo il punto: Rocco rimane sempre solo e non si può innamorare perché è inconsistente, non è materia del nostro mondo tangibile e, proprio per questo, piace così tanto perché, seppur diversi gli uni dagli altri, tutti abbiamo provato almeno una volta il senso di sconfitta, di colpa, la solitudine, l’impotenza, la voglia di menar le mani o di insultare qualcuno che, cosciente o no, stava minando il nostro angolo di serenità personale o fisica.

      Manzini vive di distopie personali, un po’ come Wilkie Collins e come lui le sviscera puntata dopo puntata. Nella seconda metà del 1800 Collins, come oggi fa Manzini, prendeva a piene mani dalla realtà e dalla cronaca, trasformando quei lunghissimi romanzi dickensiani, pieni di invettiva su una società che socialmente era un vero disastro, in una raffinata antologia di mostri che riassumevano i limiti di tutti noi, che siamo la base della società stessa, con l’istitutrice assassina, il marito infame e la ragazzina che si faceva sposare prima che l’incauto innamorato si accorgesse di quel che nascondeva. Aveva meno mezzi di Manzini, ma riuscì in delle soluzioni, veri punti di svolta delle sue intricate trame, che ancora oggi vengono utilizzate in libri e anche in serie TV come ad esempio la chiave di volta de “La signora in bianco” che si ritrova “para para” in uno degli episodi di Law&Order delle prime stagioni.

      Come detto, ho schivato a lungo l’opera manziniaia convinta che fosse l’ennesimo caso, l’ennesimo ispettore, magari il solito rude e antipatico che diventa l’amore di tutte le signore perché contrappone, a quel piglio, questa sua dote di saper risolvere un sacco di casi senza perdere l’aura del leader, anche perché è sempre ignobilmente affiancato da emeriti idioti che pendono dalle sue labbra come fosse il salvatore.
      Quando quel giorno ho scelto di vedere la serie TV io nemmeno sapevo chi fosse l’attore, figuriamoci il personaggio. Ho persino dovuto chiedere ad un’amica chi ne fosse il creatore (se avessi guardato attentamente i titoli magari avrei avuto un indizio, visto che è Manzini stesso lo sceneggiatore, ma io con TV e cinema non ho mai avuto un grande feeling!). Però questo improbabile tizio, vestito in maniera quanto mai stupida, che molleggiando se ne va per Aosta, fumando come una ciminiera ma che trova anche il tempo di guardare il mondo dagli archi delle rovine di Aosta mi aveva particolarmente colpito. Volevo proprio capirlo, capire come si fa a vivere una vita incastrata in una distopia puntando i piedi ad ogni mano che ti si porge in aiuto.

      E così ho letto, un libro al giorno, ho rivisto episodio dopo episodio confrontando la differenza fra sceneggiatura e scrittura, ho apprezzato le sfumature aggiunte da Marco Giallini, un po’ meno alcune situazioni tagliate, ho capito i meccanismi dell’indagine e apprezzato l’indubbio talento di Antonio nel costruire questi omicidi, la raffinatezza della differenza fra indagine e prova, quella fra Giustizia e “senso della Giustizia” e infine quell’urlo della morale che avvolge le storie che sono un po’ come le fiabe de “Lo cunto de li cunti” di Basile. E guardando l’insieme così, il quadro diventa più chiaro.
      Rocco Schiavone è stronzo, un po’ infame, divertente quando gli gira bene, antipatico la maggior parte delle volte e pieno di”rotture di coglioni” affibbiategli dal mondo che non si decide a lasciarlo in pace. Proprio il carnet di emozioni che non appartengono solo ad Antonio ma anche a tutti noi.
      Rocco Schiavone è “costretto” nel senso che vive una vita che non vuole vivere, che si è fermata il giorno in cui ha subito un agguato, che si svolge in una città che non gli appartiene, che è fredda, innevata e spesso buia e che lo destabilizza. Aosta è una città piccola, in una vallata circondata da catene montuose, e non ha nulla a che vedere con quel panorama quasi infinito di tetti e cupole di Roma.
      È “costretto” nel lavoro, perché circondato da persone con cui non vuole legare, e nella vita, perché questi valdostani sembrano strani e invece sono come un grosso quartiere dove tutti sanno di tutti.
      E ancora è “costretto” nell’amore perché, sebbene Marina sarà sempre il suo unico amore, tende ad avere bisogno di calore umano che per lui è sinonimo di continuo tradimento e dalle altre è percepito solo come una comune relazione.

      Anche qui le somiglianze fra i miei improbabili ospiti non si fermano. “Le puntate di Rocco Schiavone sono poche in confronto a quelle de La donna in bianco che durarono in uscite settimanali per circa un anno!” esclamerebbe Wilkie Collins. Fu il romanzo che più lo fece conoscere e apprezzare dal grande pubblico del All The Year Round di Dickens, definito come una “sensation novel” che fu di moda in tutto il periodo vittoriano. La sua protagonista è presente e vivida, anche se assente fisicamente per gran parte del romanzo, ma di lei si parla in continuazione, lo fanno tutti i testimoni del processo e la narrazione cambia di registro ogni volta che cambia colui che riferisce dei fatti. E’ forse l’unica delle donne di Collins che subisce totalmente, ma è anche la prima ad essere cesellata e descritta minuziosamente, quasi fino all’ultimo respiro. Ne verranno tante altre e altre ce n’erano state prima, ma lo scettro della “prima” spetta solo a lei.

      Rocco Schiavone è uomo e prima ancora un essere umano diviso fra la Giustizia, uguale per tutti ma mai per nessuno, e il “senso della giustizia” che è quella Giustizia filtrata attraverso i nostri occhi, la nostra etica e i nostri valori, quello che ci fa dare due pesi e due misure a due reati identici commessi però da un povero o da un ricco: se è povero, aveva bisogno, il ricco è solo un’infame.
      Lo ribadisce anche quando schiaffeggia l’uomo che urla la sua innocenza di “educatore della moglie che solo a schiaffi poteva essere disciplinata” e lo è quando si arrabbia con le donne che deve interrogare rivendicando quell’immagine di essere umano nato “per dare la vita” e non “per toglierla” e nello stesso tempo non è in grado di percepire i bisogni delle sue donne, seppur amanti. Non ha mezze misure e il suo senso di giustizia difficilmente riesce a contenerlo. Lo è quando risparmia la famiglia indigente o salva gli immigrati clandestini, lo è quando vendica le ragazzine stuprate, indifferente al rischio a cui si espone,  lo è ancor di più quando parla alla sua adorata, con la voce rotta dal peso di una colpa, quando ride con gli amici o quando ne piange la perdita.

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      Lo è come la protagonista di Armadale che in maniera del tutto simile descrive la sua distopia attraverso la sua malvagità. Nulla può il mondo che la circonda perché è proprio da lì che nasce la sua rivalsa, il suo odio e la sua sete di arrivismo. L’epoca che vive, le classi sociali che compongono la società, la formazione, l’hanno forgiata a sapere quello che si deve volere, le hanno dato la ragione per perseguire l’obiettivo senza distrarsi. E’ un po’ lo sguardo di Wilkie, che filtra quell’apparenza fatta di buone maniere ed ipocrisia, mettendola in crisi con ciò che teme, ovvero la bellezza che incanta, con il rapporto fra due consanguinei e gioca sul malinteso in maniera, per certi versi, maliziosa un po’ come lo sguardo del suo creatore, che, seppur certo che a questa storia c’è da mettere il punto, non riesce ad eliminarla. Sarebbe troppo il dolore di ucciderla e, alla fine, la salva.

      Rocco è un insieme contorto di emozioni, sensazioni, cultura, ricordi, formazione che si arricchisce delle stesse manie dello scrittore. Manie che non possono essere concentrate tutte in un unico personaggio che già è sul punto di scoppiare. E così escono fuori le parole di Marina che fanno il paio con gli “occhi che spennazzano” o le terminologie mediche dell’anatomopatologo che fanno sembrare Manzini uno scrittore ipocondriaco, strappandoti un sorriso perché, va bene la precisione, ma tanta pedanteria un dubbio te lo lascia! L’amore per l’arte e per le meraviglie che l’uomo abbia potuto realizzare sono solo un compendio dell’amore per la bella scrittura che però non tralasci un aspetto importante: la leggibilità, la possibilità di essere fluente anche se letta ad alta voce; deve poter essere apprezzata perché l’armonia, con il ritmo incalzante delle situazioni che si susseguono, non permetta la distrazione di colui che ascolta, cosa che non sempre i classici moderni ricordavano ma per i romani e i greci, nonché i romantici tra il ‘200 e il ‘300, persino per Dante,Boccaccio e Petrarca era imprenscindibile.

      In che cosa Manzini e Collins si distinguono? Solo nei personaggi, sebbene Collins nel suo mondo abbia avuto anche dei protagonisti uomini, la facevano da padrone le donne, anche se lui le vedeva in maniera molto diversa dai suoi contemporanei. Sapeva del loro intuito e delle loro mille sfaccettature e permetteva loro di interpretare il bello della natura e anche il brutto. Le donne di Collins sono volitive e a volte volubili, sanno quello che vogliono e hanno una sintesi che permette loro di guardare alle situazioni e al delitto in modo pragmatico.
      Le donne di Collins racchiudono le diversità dell’umana natura, come anche Schiavone con le sue mille sfaccettature, nate dalle mille declinazioni di uno scrittore che cercava di vedere e rappresentare l’uomo che avrebbe probabilmente voluto conoscere.
      Ma il fattore che li rende ancora più simili è questo grande interesse per la contrapposizione fra Giustizia e il senso di giustizia. Entrambi presentano storie e protagonisti con descrizioni fatte al millimetro dove l’omicidio è parte di un contesto, che non è solo delittuoso, ma prima di tutto sociale. Così il peso è spostato e il delitto non è solo quello di colui che commette il reato ma l’insieme delle responsabilità di molti, di una comunità rea, molto spesso, di creare le condizioni perché questi fatti avvengano.

      Che cosa si direbbero questi improbabili due, magari seduti in una tavola che sta per essere sparecchiata mentre con le dita giocano distrattamente con le briciole rimaste sulla tovaglia ancora non sparecchiata? Manzini probabilmente nulla, magari dondolerebbe sulla sedia come fa spesso, se la sedia glielo permette, nell’attesa che tutto questo finisca e possa tornare a casa. Collins invece con la sua aria panciuta e soddisfatta, di uno che ama l’atmosfera natalizia in quanto inglese, lamentando con gli occhi la mancanza del Christmas Pudding e della classica torta di formaggio, probabilmente, con tanto di pipa o sigaro alla mano tenterebbe l’approccio con un classico “Quindi lei è uno scrittore? E cosa scrive?“.
      Devo ammettere che pagherei per avere questa opportunità di guardarli confrontarsi sul mondo di oggi e sulle differenze con quello di ieri. Probabilmente Collins racconterebbe con orgoglio la sua storia nata da un giorno in tribunale (La signora in bianco) e Manzini ascolterebbe con interesse le soluzioni adottate e i trucchi dello scrittore per mantenere in un numero elevatissimo di puntate l’attenzione dei lettori. magari si confronterebbero sulle trame e converrebbero che seppur passato più di un secolo in fondo, la forma del delitto, non è poi così diversa. Ma alla fine arriverebbero comunque al punto che li unisce “l’unica distopia che ognuno di noi vive ogni giorno è la vita” puoi scegliere di voltarti dall’altro lato, ma lì rimane a ricordarti che sei un uomo e che qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa tu faccia, in fondo, ogni vita è destinata a finire, il dubbio è il come e il quando. Chi vive di distopie, in fondo non è mai un grandissimo ottimista.

      In questa conversazione potrei interloquire anche io sostenendo che non è la vita una distopia, ma in un mondo perfetto di giorni che si susseguono senza soluzione di continuità, la vera distopia è ognuno di noi. Ogni volta che cerchiamo di vivere creiamo una distopia. E quindi siamo noi stessi un elemento della scala delle “rotture di coglioni”. E probabilmente, dopo aver spiegato a Collins che sono le “rotture di coglioni”, converrebbe con me che è un punto di vista su cui riflettere. Mi piacerebbe davvero vederli insieme questi due davanti al camino, siccome è fantasia facciamo anche che sia decorato, intenti in questa discussione. Probabilmente Collins sarebbe incuriosito da questa nuova mania che vede gente leggere romanzi a rotta di collo in serie e non in puntate settimanali, Manzini risponderebbe che la gente non aspetta più e persino il suo editore quando ha la data dell’uscita dell’ultimo libro consegnato chiede già quando arriverà il successivo. Il suo interlocutore assentirebbe pensieroso e rimarrebbe stupito se Antonio facesse anche un’affermazione che spesso ripete: la maggior parte dei lettori in Italia sono donne. Wilkie sorriderebbe e poi direbbe,”Ma certo! Le donne hanno sempre amato la lettura, gli intrighi e i misteri”. Allora Manzini sospirerebbe e sottovoce direbbe: se solo smettessero di chiedermi quando Rocco si innamorerà…

      Sarebbe probabilmente la maniera perfetta per passare il pomeriggio post prandiale di Natale…
      E per finire, c’è una cosa che ad oggi un po’ ci unisce tutti e tre: nello scorrere degli anni io ho perso la magia del Natale, non è una cosa triste in sé, succede crescendo. Manzini nell’unico racconto che mi è capitato in cui si cita la festività, “Buon Natale Rocco” ne parla proprio poco dello “spirito di Natale” regalando ai suoi lettori il momento da cui nascerà l’intera serie. E, ultimo ma mai tale, Wilkie Collins: lui di racconti di Natale ne ha scritti un po’ e cominciò nel 1852. L’anno prima aveva conosciuto Charles Dickens ed era rimasto stupito da quanto guadagnasse proprio scrivendo racconti di Natale. Anche qui, Manzini avrebbe a che dire… Probabilmente che i tempi son diversi, almeno me lo auguro!

      Buone letture e buone feste!

       

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Antonio Manzini, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Rocco Schiavone, Tom Perrotta, Wilkie Collins
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #17: indovina chi viene a cena per Natale?

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 17, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Simona di Letture sconclusionate

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      È stata LibrAngoloAcuto a ricordarmi il perché io ami tanto Perrotta, che, in un calendario che di solito contempla grandi classici, stona un po’. Ma quando si è ventilata l’idea di un nuovo calendario dell’avvento, mi sono detta “E quest’anno di chi parlo?” poi la domanda è stata cambiata all’occorrenza con “Chi invito a cena quest’anno?”. Tre erano i papabili: Henrietta Lacks, Ira Levin e Tom Perrotta e, dopo aver lungamente pensato e provato ad invitarne due, con Perrotta che continua a ronzarmi attorno, ho deciso per quest’ultimo. Ma chi è Perrotta? Perrotta è uno scrittore e anche uno sceneggiatore per la rinomata HBO e nel 2003 veniva citato nella rubrica mensile del The Believer da Hornby, che per la prima volta si avvicinava a quella che è diventata a tutti gli effetti l’opera più conosciuta di questo autore: “L’insegnante di astinenza sessuale” ( Edizioni E/O, 2009, 4,90€). Qualche anno più tardi, poco prima che arrivasse anche qui, intorno al 2006 nella stessa rubrica, Hornby che già scriveva saltuariamente rispetto a prima a causa dei frequenti viaggi per le presentazioni dei suoi libri, scriveva di sentirsi molto stupito ma anche orgoglioso che Perrotta, arrivato al grande pubblico per tre opere riconosciute come capolavori – che comprendono il già citato romanzo, “Intrigo scolastico“(Edizioni E/O, 2009, 16,50) e “Bravi bambini” (BUR, 2007, 5,90€)-, venisse definito in patria “il Nick Hornby americano. Fantasioso, umano. Divertente e profondo”(NewsWeek).

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      Eppure, come nel caso di Hornby, capire il senso del lavoro di Perrotta pare essere complicato per il pubblico italiano e, probabilmente, è dato dal fatto che molti che vi si avvicinano non trovano quello che pensano ci debba essere in un romanzo. Nel tempo sono decisamente convinta che per autori come questi bisognerebbe coniare un genere diverso e più consono visto che, a conti fatti, non sono romanzi ma nemmeno saggi ma sono di certo analisi di un vissuto, passato o recente che permettono di delimitare una società attraverso i singoli che la compongono. L’arte e il talento si esprimono nel racchiudere queste osservazioni all’interno di una storia, il limite di questo metodo espressivo è che la storia è e diventa un brogliaccio di situazioni, luoghi e avvenimenti in cui muovere i personaggi e quindi non necessariamente ha un inizio e una fine, ma parte da un punto qualsiasi che demarca l’evento scatenante e finisce quando le scelte che hanno operato i personaggi in questo anomalo tavolo da gioco non sono più possibili o non rappresentano più l’espressione di un comportamento derivante dalla cultura in cui si cresce ma diventano parte stessa del personaggio che le vive, divenendo abitudini. È un concetto complesso e articolato, ne convengo, ma ogni opera di Perrotta che sia arrivata all’altare dell’apprezzamento di critica e lettori si può sintetizzare così. Avviene anche per il suo lavoro “The leftovers. Svaniti nel nulla”(Edizioni E/O, 2015, 11,64€), conosciuto più per la sua trasposizione in serie TV che per il libro stesso che ha giudizi non totalmente entusiastici perchè i lettori, in mancanza di una introduzione che li guidi, si trovano spaesati senza un finale certo e, alcuni, marcano come noiosa la prosa perrottiana non vedendo un fine cui puntare. Eppure la grande metafora di un romanzo che è nato intorno ai primi anni del 2000 diventa la nemesi di questa narrativa: il punto più alto di espressione di una società e un’opera unica che difficilmente potrà presto essere superata da un’altra ancora più particolare e incisiva.

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      In “The leftovers”, infatti, l’elemento scatenante è la scomparsa di migliaia di persone diverse. Non c’è un nesso fra una sparizione e l’altra: spariscono adulti e bambini, neri e bianchi, spariscono persone alte e basse, buone e cattive. Quindi non c’è una logica. Però in un anno qualunque, ognuno può essersi ritrovato a scrivere davanti al pc con l’amico del cuore e ad un certo punto, girandosi, può essersi accorto che l’amico che commentava ora è improvvisamente sparito, come vaporizzato. Non iniziamo da quel momento, ma un anno dopo, quando l’America e questo paese di provincia non fa eccezione, si ritrova a dover fare i conti con le commemorazioni e con i sopravvissuti. È un termine strano quello dei “Sopravvissuti” in particolare nel caso di questo strano evento; chi è sparito non è morto, ma non c’è nemmeno, non ci sono indizi che sia da un’altra parte, ma nemmeno che non ci sia più su questa terra. Vi ricorda qualcosa? Ebbene sì, l’11 settembre 2001.

      Con la caduta delle torri gemelle, usiamo dire che sono morte migliaia di persone, ma contempliamo in queste migliaia, quelli che si sono trovati e quelli che non abbiamo trovato più, ma che si sapeva che fossero in quei luoghi. La riflessione perrottiana segue due vie: l’accettazione di un evento inspiegabile e le soluzioni per trovare una via per trovare una pace che ci aiuti ad andare avanti. L’accettazione è forse la questione che più rappresenta la complessità della natura dell’uomo: accettare le vittime di un evento come quello dell’undici settembre è di per se un evento complesso, perché è l’evento che era inconcepibile fino ad allora per tutti. Accettare che in un evento così inconcepibile un tuo caro sia “morto ufficialmente” anche se non hai nemmeno il bordo di un vestito da riconoscere e seppellire fa sì che non comprendiamo mentalmente che lo status del congiunto è che non tornerà più ma al contempo ci fa domandare “E se non fosse stato lì? se si fosse salvato e non si ricorda chi è?”. La vita di colui che in questo caso, davvero sopravvive non a qualcuno ma nonostante un evento, genera una seconda osservazione sulla società americana: la ricerca di una vita di sopravvivenza accettabile. E in questo caso, in particolare quando si parla di America, a sorpresa ne viene fuori che la società si riorganizza diventando uguale a prima anche se la composizione cambia. Detta in maniera più facile da capire per chi non conosca questo lavoro: la società in questione ha una base di partenza che prevede che il singolo è artefice del suo destino. In un mondo che dall’esterno sembra correre verso l’affermazione individuale però il singolo cerca sempre un contatto e, in America, spesso si ritrova nei gruppi di ascolto e supporto per qualsiasi motivo: alcol, solitudine, famiglia, figli, disordini alimentari, e chi più ne metta. Persino per i buoni sconto o per le passioni di hobbistica esistono gruppi di confronto o anche associazioni che organizzano eventi in cui i soci possano trovare e coltivare un obiettivo comune. Cosa avviene quindi in Leftovers, quindi? In risposta ad un evento destabilizzante perché impensabile, la risposta della società diventa inizialmente diversa da quella che ci sia aspetterebbe: il singolo, invece di stringersi al gruppo di appartenenza (di ascolto, associazionario o familiare) prende spesso le distanze isolandosi nel suo dolore. C’è chi riesce a convivere con il dubbio, ma più spesso, cerca di associarsi con chi individua vivere la stessa sofferenza o cerca nuovi gruppi religiosi che possano fornire una qualsiasi risposta, là dove risposta, ovviamente, non c’è. La società che chiude la storia è sostanzialmente simile a quella di partenza, ma è comunque differente, perché sono cambiati i riferimenti.

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      È affascinante seguire questo aspetto della narrazione perrottiana perché apre una miriade di finestre in ambiti, spesso, decisamente ristretti; permette di notare le differenze culturali fra nazioni completamente diverse e anche fra razze completamente differenti, come succede nella serie TV dove, nella seconda stagione, il fulcro è una società completamente diversa anche se non è molto distante “fisicamente” da quella della prima e del libro, ovvero la comunità latino-americana. La differenza fra i due mondi, e qui credo sinceramente che solo Perrotta possa riuscire in questo frangente a sottolineare le sottigliezze,  la differenza è propriamente dei riferimenti culturali dei singoli: mentre il classico americano non ha un pesante retaggio religioso che si insinui nelle scelte di ogni giorno, ma tende a rendere il “credo” parte della sua esistenza e quindi sceglie cosa e chi credere, nella società latino-americana, il cristianesimo e le sue derivazioni pesano come un macigno sulle scelte dei singoli che, nel momento di massima perdizione, tornano a lui per cercare risposte. Quindi questo aprirebbe a nuove riflessioni e in particolare se la diversità non sia nazionale ma solo culturale. Se un musulmano ortodosso, o un ebreo, o un cristiano di origine italiana, anche se americani, avrebbero avuto una risposta simile a quella che vediamo nella seconda stagione di The Leftovers oppure no. Alla lunga, e dopo queste riflessioni, mi sono sempre risposta di sì, la differenza è data dal peso del retaggio e non dalla nazionalità anche se, per alcuni atteggiamenti, anche la nazionalità ha decisamente il suo peso.

      Perché invitare quindi Tom Perrotta alla cena di Natale? Dopo tutto questo discorso potrebbe sembrare una scelta alquanto bislacca ed è invece decisamente sensata. A 16 anni dall’evento inspiegabile, reale o narrato, mi pacerebbe sapere quali sono le nuove osservazioni in materia di risposta della società ad eventi terroristici e capire, attraverso una sua storia se siamo diventati insensibili oppure no. In particolare quello che mi ha colpito è l’attentato, non di grandi dimensioni, avvenuto a New York poche ore prima della sfilata di Halloween. Strano ma vero, un evento che avrebbe gelato il sangue non ha impedito alla città, poche ore dopo di vedere la sfilata. Potremmo vederla come la risposta di una società che non si piega più all’orrore del terrorismo e che decide di ignorarlo nella speranza che chi usa questi mezzi per protestare rinunci a favore di vie più umane o, per contro, che, dopo tanti eventi simili, ci siamo abituati e quindi, come nelle migliori tradizioni perrottiane, la storia si chiude qui e non dopo. Allora non rimarrebbe che trovare un nuovo elemento che destabilizzi la società per ricrearne un’altra. una novella distopia insomma. Me lo ha fatto venire in mente Librangolo acuto proprio perché lo ha letto di recente e ne abbiamo parlato (la grande fortuna è quella di avere tante amiche lettrici che hanno molta voglia di confrontarsi). Per cui questo è il mio invito a cena di quest’anno, che Henrietta non me ne abbia, ma Tom, con tutti i pregi e difetti -che sicuramente ci saranno, ma sono meno visibili rispetto alle qualità sin qui citate-, per quest’anno ha scalzato tutti. Ognuno, in fondo, il Natale lo passa un po’ come gli pare e, a me, le discussioni letterarie e sociologiche piacciono da morire.

      Buone letture e buone feste,

      Simona

      Bibliografia:

      “Una vita da lettore“, Nick Hornby, Guanda, 2008, 12,00€

      “Shakespeare scriveva per soldi“, Nick Hornby, Guanda, 2010, 8,00€

      Posted in Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged Bravi bambini, Bur, Edizioni E/O, Guanda, Intrigo scolastico, L'insegnante di astinenza sessuale, Letture sconclusionate, LibrAngoloAcuto, Nick Hornby, Simona Scravaglieri, The leftovers, Tom Perrotta
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