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  • Tag: The Bell Jar

    • I diari di Sylvia Plath

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2018

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      “Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più…”

      Scritti tra il 1950 e il 1962 e pubblicati in Italia da Adelphi nella traduzione di Simona Fefè, i diari di Sylvia Plath sono una testimonianza nuda e diretta della difficile coesistenza della poetessa con se stessa e con le sue molteplici identità, nonché dell’evoluzione del suo rapporto con la scrittura come catartico antidoto al dolore e ricerca di una perfezione che possa penetrare il tempo.

      “La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?”

      Vita e letteratura si intrecciano quasi fino a confondersi, in una precoce ricerca di immortalità: Sylvia ha infatti sempre registrato minuziosamente la sua vita, tanto nelle sue lettere (la cui pubblicazione è stata supervisionata dall’amata-odiata madre-vampiro Aurelia) quanto nei diari, la cui redazione inizia quando Sylvia ha solo undici anni. I diari della maturità vanno dal suo primo anno al prestigioso Smith College (1950) fino alla sua morte.

      Sylvia scriveva sempre come se si rivolgesse a un pubblico ben più vasto del suo diario, di sua madre o degli altri destinatari delle sue lettere: era infatti convinta di essere destinata al successo e che quindi tutti i suoi scritti fossero potenzialmente pubblicabili. Era abituata a essere la prima della classe, a vedere le sue storie pubblicate, a vincere premi e riconoscimenti, non ultimo il prestigioso stage presso la rivista più à la mode del momento, Mademoiselle.

      “Invidio quelle che hanno pensieri più profondi dei miei, che scrivono meglio, che disegnano meglio, che sciano meglio, che amano meglio, che vivono meglio, che sono più belle di me.”

      Non a caso il suo primo episodio di grave depressione (e il suo primo tentativo di suicidio) coincidono con la delusione e il senso di vuoto lasciatole da New York, e dalla mancata accettazione ad una scuola estiva di scrittura creativa ad Harvard (di tutto questo la Plath parla diffusamente nel suo unico romanzo pubblicato, The Bell Jar, La campana di vetro).

      “Oggi molto depressa. Incapace di scrivere. Gli dei sono minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda, in grado solo di provare uno spaventoso torpore vulnerabile. Guardo giù nel caldo mondo terrestre. Nel groviglio di letti di amanti, culle di bambini, tavole apparecchiate, tutto il solito viavai vitale di questa terra, e mi sento estromessa, chiusa dietro una parete di vetro.” (…)

      Sylvia era una ragazza bella e vitale, ansiosa di sperimentare tutte le esperienze che la vita potesse offrirle; amava le persone, adorava essere corteggiata, era consapevole del suo fascino pur vivendo un rapporto conflittuale col suo corpo (si chiedeva spesso se non sarebbe stato meglio per lei nascere uomo, per potersi avvicinare al sesso senza tutte le limitazioni, le inibizioni, i vincoli imposti alle ragazze ancora non sposate).

      The Haunted Reader and Sylvia Plath COVER FINAL

      Tutta la vita di Sylvia, come traspare anche dalle sue poesie (potete leggerne alcune qui, qui, qui) è una lotta per la ricerca di un equilibrio tra l’amore per la vita, per la conoscenza, per la scrittura e la paura di non essere mai abbastanza, la depressione, la malinconia, la mancanza del padre (Otto, venuto a mancare quando Sylvia era ancora piccola, celebrato nella poesia Daddy) e il rapporto conflittuale con la madre, che aveva altissime aspettative e non avrebbe mai – fino alla fine – accettato la fragilità di Sylvia, le sue paure, la sua depressione.

      Sylvia era davvero una ragazza di vetro, andata alla fine a pezzi per il fallimento del matrimonio con Ted (che l’aveva abbandonata per la poetessa Assia), per non essere riuscita a emergere in vita come grande poetessa, ma aver vissuto sempre all’ombra dell’ingombrante marito, per averla abitata veramente, quella campana di vetro (il piccolo appartamento londinese in cui Sylvia avrebbe poi messo fine ai suoi giorni).

      “Frustrata? Sì. Perché non posso essere Dio – o la donna-uomo universale – o una qualsiasi cosa che conti. Io sono quello che provo, penso e faccio. Voglio esprimere il mio essere con tuttala pienezza possibile perché da qualche parte ho scovato l’idea di poter dare un senso alla mia esistenza in questo modo. Ma se devo esprimere ciò che sono ho bisogno di avere un certo livello di vita, un punto di partenza, una tecnica: cioè di organizzare arbitrariamente e provvisoriamente il mio caos personale, minuscolo e patetico. Comincio ad accorgermi di quanto dovrà essere falso e provinciale questo livello, questo trampolino di lancio. È questo che mi è tanto difficile da affrontare.”


      Spesso sento associare la Plath unicamente al suicidio e alla depressione (a tal proposito, vi consiglio la lettura del magistrale articolo di Katie Crouch che trovate in traduzione qui), ma non è affatto così: Sylvia era una ragazza sana e vitale, che amava la natura e il mare, amava sentire il sole sulla pelle, amava piacere e uscire con diversi beaux.

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      Il suo diario è il diario di una ragazza che ha lottato tutta la vita per essere felice, ma ha dovuto soccombere al peso del suo stesso genio. La ragazza di vetro, la ragazza che voleva essere Dio e controllare la morte, sorgendo dalla cenere con i suoi capelli rossi e divorando gli uomini come se fossero aria, la poetessa appassionata, la studentessa ammalata di perfezionismo, la moglie innamorata, la madre combattuta, la Sylvia bionda e la Sylvia bruna: tutte queste identità non riescono a convivere pacificamente e implodono tragicamente.

      “Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti. È un po’ come le sabbie mobili… senza scampo fin dall’inizio. Un racconto, un quadro possono far rivivere un poco la sensazione, ma mai abbastanza, mai abbastanza. Niente è reale, eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa una ragazza ha vissuto come vivo io. Poi è morta. Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire.”

      ps

      Bibliografia:

      Diari, Sylvia Plath, Adelphi edizioni, traduzione di Simona Fefè

      Pain, Parties, Work: Sylvia Plath in New York, Summer 1953, Elizabeth Winder, Harper

      La grande estate: Sylvia Plath a New York, 1953,  Elizabeth Winder, trad. a cura di Elisa Banfi, Guanda

      Letters Home: Correspondence, Sylvia Plath, Faber&Faber

      Quanto lontano siamo giunti. Lettere alla madre, Sylvia Plath, trad. Di M. Fabiani, Guanda

      Per saperne di più:

      – Immensamente Sylvia Plath

      – Sylvia Plath, la donna senza voce

      – Sylvia Plath, solitudini e moltitudini

      – Sylvia Plath tra poesia e mito

      – The Bell Jar. Dentro la campana di vetro di Sylvia Plath

      – Making sense of suicide with Sylvia Plath: un articolo di Katie Crouch

      Soundtrack: Clem Snide – No One’s More Happy Than You

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 4 Comments | Tagged Adelphi, diari, La campana di vetro, Letteratura americana, Sylvia Plath, The Bell Jar
    • Pain, parties, work: l’estate newyorchese di Sylvia Plath

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 10, 2017

      editor

      Nell’ormai lontano 2008, fresca di laurea, vincevo uno stage a Londra. Un piccolo risultato, ma alla me di allora sembrava l’inizio di un futuro gonfio di mirabolanti capacita: passare tre mesi nell’ufficio stampa dell’ambasciata italiana nella città che più amavo al mondo era esattamente quello che volevo (e quante volte nella vita i risultati ottenuti si allineano perfettamente a desideri ed aspettative?)
      Ero partita con due valigione di Carpisa stracolme di tutto quello che pensavo potesse servirmi per la mia prima esperienza professionale: un guardaroba assemblato con l’aiuto di mia madre e mia nonna, il tailleur della laurea triennale e quello della specialistica, la borsa regalatami dalle mie amiche dell’università e un paio di scarpe a tacco. Ero pronta, pronta come non sarei mai più stata. Sarebbero stati mesi in cui per risparmiare avrei comprato solo riso, latte e biscotti, yogurt e cereali; mi sarei diplomata nella nobile arte di farmi invitare a pranzo da chiunque e imbucarmi  in qualsiasi evento che prevedesse champagne e canapè; mi sarei innamorata e avrei avuto il cuore spezzato. È stato uno dei periodi più confusi e più belli della mia vita: ne conservo un ricordo edulcorato,  idealizzato, scevro di quelle notti insonni e di quelle insicurezze che caratterizzano il debutto dell’ex studente nella vita vera.

      summer

      Nel 1953, Sylvia Plath lascia Boston alla volta di New York, per un mese di stage presso la prestigiosa rivista Mademoiselle, che ha pubblicato scritti di Truman Capote, William Faulkner, Tennessee Williams, Flannery O’Connor e Joan Didion (che, come Sylvia, partecipa al programma di stage). Mademoiselle si rivolge ad una lettrice a tuttotondo, che combini il suo amore per la buon letteratura all’amore per i vestiti e per la moda. La lettrice di Mademoiselle ama il teatro di Arthur Miller, ma anche le partite di football delle Ivy League; va a fare shopping, ama ballare e fa volontariato, mantenendo al tempo stesso una media di tutto rispetto. È pronta a tutto: andare al college, diventare una donna in carriera, sposarsi e dedicarsi ai cocktail e alla vita di società.
      Il prestigioso programma di stage, partito nel 1939, permette a un gruppo selezionato di studentesse universitarie di lavorare alla prestigiosa college issue, un numero di Mademoiselle interamente dedicato alla vita universitaria. Le venti prescelte, selezionate tra migliaia di candidate, ricevono uno stipendio regolare e la possibilità di alloggiare al Barbizon, celebre hotel che ha ospitato Grace Kelly, Liza Minelli e l’attrice di Love Story, Ali McGraw, altra celebre stagiaire della rivista.

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      La college issue del 1953 ospita pubblicità di shampoo, trucchi, lingerie e vestiti studiati per le starlette dei campus universitari e per le novelle donne in carriera: Sylvia compare come modella a pagina 54, vestito color argento e rossetto scuro, e pagina 252, con una rosa in mano. A pagina 213 della rivista, Sylvia intervista invece Elizabeth Bowen, scrittrice irlandese. A un’altra delle fortunate partecipanti tocca il graditissimo compito di intervistre Dylan Thomas, con grande disappunto della Plath, innamorata del poeta maledetto (che sarebbe morto qualche mese dopo, a novembre). La rivista contiene anche suggerimenti per arredare la propria stanza nei dormitori del college (quando ancora non c’era Pinterest), articoli sull’uomo ideale, pubblicità di corsi di stenografia e scuole di segreteria, pubblicità di porcellane e anelli di fidanzamento, ma anche articoli sulla donna moderna, che non ha paura di fare l’autostop e di affermare la sua indipendenza.

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      Sylvia Plath intervista Elizabeth Bowen, Mademoiselle College Issue, 1953

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      Mademoiselle College issue, 1953

      Mademoiselle college issue, 1953
      Mademoiselle college issue, 1953
      Mademoiselle college issue, 1953
      Mademoiselle college issue, 1953

      Quando Sylvia arriva a New York, la città è in piena evoluzione: è il momento delle donne single, che arrivano nella Grande Mela per lavorare e vivere da sole, senza un fratello, un fidanzato, o un marito come chaperon. Le donne iniziano ad essere più interessate al proprio sviluppo personale e alla propria carriera che ai figli e al matrimonio: Truman Capote avrebbe catturato e reso eterna questa New York al femminile nelle pagine del suo Colazione da Tiffany, mentre la fotografa Lisa Larsen nel 1954 pubblica su Life uno speciale sulla vita di sei ragazze che condividono un appartamento nel Greenwich Village, tra toast alla marmellata, zuppe Campbell, pacchetti di Chesterfield, letti improvvisati e coperte patchwork portate da casa.

      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine
      Lisa Larsen, Life magazine

      Sylvia fa il suo ingresso in questa New York riveduta e corretta come una vera e propria principessa, il primo giugno 1953, accompagnata da due militari conosciuti sul treno, che, come due bodyguard, le portano la valigia, la guidano tra la folla di Grand Central, le chiamano un taxi e la accompagnano fino al Barbizon.
      La valigia è l’elemento cruciale del trasferimento newyorkese: contiene outfit studiati alla perfezione per scongiurare l’immagine di Sylvia ragazzina (gonne ampie di cotone, maniche a sbuffo, vestiti tirolesi). La Plath ama i vestiti: le piace fare shopping, seguire la moda mantenendo il suo stile. Organizza le spese in base al budget che ha a disposizione: sogna ad occhi aperti, fa liste, scrive dei suoi acquisti. Ha una netta preferenza per il rosso: un pullover rosso aderente su una gonna bianca per un cocktail party, una fascia rossa nei capelli biondi, ballerine rosse, l’onnipresente rossetto rosso. Sylvia predilige il rossetto Cherries in the Snow di Revlon; non ama invece ciprie e polveri, dal momento che l’abbronzatura è una delle sue vanità principali.
      Prima di partire per New York, la ragazza acquista una borsa rossa e un paio di scarpe abbinate; un reggicalze, un paio di calze e un rossetto nuovo, tutti in rosso. Passa mesi a ricercare e acquistare bluse di nylon, gonne dritte, maglioncini e scarpe a tacco nere, nel tentativo di costruirsi un look più sofisticato, adatto a una guest editor di Mademoiselle.
      Il 27 aprile 1953, Sylvia spende ben 85 dollari per un tubino nero di seta, con bolero abbinato, e un tubino di cotone blu e bianco, con una giacchina col colletto alla coreana, ispirata alle creazioni di Dior. Conclude il guardaroba da Cenerentola un vestito col collo a barca e il corpetto attillato, rallegrato da una fantasia messicana in bianco, nero e marrone. La cura dell’aspetto esteriore e dell’abbigliamento è estremamente importare per la Plath, che coltiva attentamente il suo look da sweetheart americana amante del mare, del tennis, del cibo, dell’aria aperta. I vestiti nuovi le regalano una felicità inattesa: ama fare shopping da sola e considera le shopping list vere e proprie poesie. Il suo spiccato senso artistico cerca soddisfazioni estetiche nella vita di ogni giorno: preparare la tazza perfetta di caffè scuro, tirare su le calze, disporre i frutti rossi in una ciotola (insomma, Sylvia avrebbe amato Pinterest alla follia e sarebbe diventata un’influencer su Instagram!).
      Nel corso del decenni, Sylvia è diventata una vera e propria icona fashion, e la cosa non avrebbe potuto che farle piacere: ho trovato su Polyvore e su Pinterest numerose idee di oufit e collage ispirati al suo stile inconfondibile.

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      Oltre ai vestiti e alle composizioni artistiche con le tazze di caffè, Sylvia avrebbe riempito il suo feed Instagram di cibo. Affamata di vita e di esperienze nuove, la ragazza non rifugge dalle seduzioni del palato: durante un pranzo con la managing editor di Mademoiselle, Cyrilly Abels, Sylvia si appropria della ciotola di caviale, disposta a centrotavola come aperitivo per tutti i commensali, e la divora con un cucchiaio, davanti agli occhi increduli di una collega di stage. Sylvia ama i colori del cibo: il giallo del mais e dei tuorli, il blu cangiante delle ostriche, il biancume della mayonnaise sulle insalate di tonno o di granchio. Dilapida il suo budget riservato alle spese alimentari in condimenti troppo costosi per una studentessa: pasta di acciughe e di capperi, mostarda francese, frutta secca.
      Questa è la Sylvia che arriva a New York nel 1953, una ragazza curiosa, entusiasta, desiderosa di sperimentare tutto quello che la città le può offrire in termini di appuntamenti, amicizie, moda, sapori esotici, esperienze inedite: un caffè con un interprete delle Nazioni Unite; una folle uscita nel Queens, terminata con la fuga di Sylvia e della sua amica da un peruviano troppo intenso; una nottata di appostamento al Chelsea Hotel, nella speranza di intravedere Dylan Thomas; tutte le notti passate con le nuove amiche a chiacchierare e complottare, in una New York troppo grande e un hotel che può diventare troppo piccolo e soffocante per un gruppo di ragazze alle prese con la prima esperienza di vita indipendente lontano da casa o dal campus, in una torrida estate piena di aspettative e di speranze.
      Con premesse del genere, cosa può andare storto? Come può un’esperienza così esclusiva ed ambita lasciare Sylvia disincantata, delusa dalle mille luci e dal buio di New York, emotivamente fragile, più che mai vittima di quella depressione che le sarebbe quasi costata la vita in un primo tentativo di suicidio?

      La poetessa si scopre fragile, incapace di conciliare la ferma volontà di vivere New York, le rigide aspettative di Mademoiselle e il suo stesso perfezionismo. In una lettera del 13 maggio 1953, a due settimane dalla partenza, Sylvia confida alla madre Aurelia le sue speranze (poi disattese) di intervistare J.D. Salinger, Shirley Jackson, E.B. White e Irwin Shaw; in un’altra lettera del 4 giugno, confessa il suo disappunto per non essere stata nominata fiction editor.
      In una lettera datata 8 giugno, Sylvia racconta di passare le sue giornate lavorative leggendo numerosi manoscritti e scrivendo lettere di rifiuto, cercando al contempo di soffocare la paura di non essere accettata alla celebre scuola estiva di scrittura creativa a Harvard (paura che si rivelerà fondata: il rifiuto esacerberà la depressione di Sylvia, conducendola al tentativo di suicidio).
      In una lettera al fratello Warren, scritta durante gli ultimi giorni di permanenza a New York, Sylvia dichiara di voler solo andare a casa per mangiare, dormire, giocare a tennis e abbronzarsi, lontano dall’afa opprimente della città. Scrive inoltre di sentire la necessità di fermarsi, per riuscire a riflettere sui significati, i cambiamenti, le conseguenze del suo mese a New York, troppo frenetico e pieno di eventi per permetterle di pensare. Sylvia scrive a Warren di aver perso di vista se stessa e i suoi obiettivi: nel corso del suo mese a New York, si è sentita a fasi alterne estatica, orribilmente depressa, shoccata, eccitata, nervosa, stanca, confusa; ha bisogno di tornare a casa, di essere circondata dalle sue cose e dalle persone che ama. Conclude scrivendo di essere contenta di aver fatto quest’esperienza, ma di essersi anche resa conto della sua giovinezza e inesperienza. La Smith le evoca il ricordo di una vita semplice, bucolica, incantevole, in netto contrasto con l’afa, umidità, la sporcizia di New York. Si firma “la tua esausta, estatica, elegiaca newyorchese”.

      Prom dress
      Prom dress
      Prom dress
      Prom dress

      Uno degli elementi più stressanti e confusionari dello stage è il fatto che le ragazze abbiano sia il compito di realizzare un prodotto, la college issue, che di viverlo, arrivando ogni mattina ben vestite, fresche e pimpanti dopo giornate (e nottate) di cocktail party e sfilate di moda. New York a giugno è asfissiante e umida, ma le ragazze sono tenute a presentarsi ogni mattina fresche come rose e senza tracce di stanchezza. Imperversa tra loro la mania di vedere ed essere viste, entrare in contatto con la gente giusta, uscire con i ragazzi più invidiabili ed affascinanti, essere intellettuali e modelle a tempo stesso.
      Tutta questa pressione è troppa per Sylvia, che, durante i festeggiamenti per l’ultima notte al Barbizon (il 26 giugno), lancia dalla terrazza dell’hotel tutto il contenuto della famosa valigia: ogni singola blusa, sottoveste, gonna svolazza nella notte newyorchese, nel tentativo di esorcizzarne il grigio, l’asfalto, l’oppressione, i fantasmi. Il giono dopo, Sylvia riparte da Grand Central indossando una blusa e una gonna prestatele da una delle ragazze dello stage, non volendo portare con sé nemmeno un pezzo di quell’esperienza newyorchese che ha messo fine a tante delle sue illusioni.

      Soundtrack: City of stars, da La La Land, per celebrare tutti quei sogni che non sempre si realizzano (o almeno, non come vorremo)

      Per saperne di più:

      – Pain, Parties, Work: Sylvia Plath in New York, Summer 1953, Elizabeth Winder, Harper

      – La grande estate: Sylvia Plath a New York, 1953,  Elizabeth Winder, trad. A cura di Elisa Banfi, Guanda

      – Letters Home: Correspondence, Sylvia Plath, Faber&Faber

      – Quanto lontano siamo giunti. Lettere alla madre, Sylvia Plath, trad. Di M. Fabiani, Guanda

      – Immensamente Sylvia Plath

      – Sylvia Plath, la donna senza voce

      – Sylvia Plath, solitudini e moltitudini

      – Sylvia Plath tra poesia e mito

      – The Bell Jar. Dentro la campana di vetro di Sylvia Plath

      – Making sense of suicide with Sylvia Plath: un articolo di Katie Crouch

      Posted in Letteratura e dintorni | 7 Comments | Tagged Ali McGraw, Aurelia Plath, Barbizon, Dylan Thomas, Elizabeth Bowen, Elizabeth Winder, J.D. Salinger, JD Salinger, Joan Didion, La grande estate: Sylvia Plath a New York, Mademoiselle, New York, pain parties work: Sylvia Plath in New York, The Bell Jar, Warren Plath
    • How To Be A Heroine: Or, what I’ve learned from reading too much

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 25, 2015

      ellisQualche settimana fa mi sono imbattuta in quello che sarebbe il mio salotto ideale.
      (Tra l’altro, io il salotto nemmeno ce l’ho. Una stanza qualsiasi, insomma).
      Una stanza popolata di tutte quelle eroine che hanno invaso, in ordine sparso, la ma infanzia, la mia adolescenza, la  mia età attuale (senza denominazione, che è meglio), seminandovi colori e confusione, distribuendo scie di profumo e risate chiassose, mischiando lacrime a sorrisi. Le sorelle March e Esther Greenwood, Cathy Earnshaw e Rossella O’Hara, Jane Eyre e le sorelle Bennet, Lucy Honeychurch e Sarah Crewe.
      Donne che non potrebbero essere più diverse tra di loro si ritrovano, da una sponda all’altra dell’Atlantico, da un secolo all’altro, nel salotto di Samantha Ellis, o meglio nel suo delizioso, brioso memoir How to be a Heroine: Or, What I’ve learned from reading too much (purtroppo non ancora disponibile in traduzione italiana).
      Samantha Ellis scrive per il teatro, vive a Londra, ha origini ebraico-irachene e nutre fin da piccola una vera e propria ossessione per le eroine letterarie che racconta in un Bildungsroman autobiografico. La Ellis descrive come le  protagoniste delle sue letture abbiamo  contribuito allo sviluppo del suo carattere, alle sue scelte, alla delicata transizione da ragazza a donna, tra le mille aspettative, pretese e limitazioni imposte dalla piccola, ristretta comunità ebraico – irachena londinese.
      L’interesse di Samantha per queste appassionate, carismatiche, contraddittorie figure femminili parte dall’affascinante, avventurosa storia di sua madre.
      Gli ebrei di Baghdad non hanno certo avuto una vita facile: protetti durante la dominazione ottomana, hanno iniziato a essere preda di discriminazioni e persecuzioni tra le due guerre mondiali, fino ad arrivare al farhud  (pogrom, genocidio) del 1941, quando la popolazione ebrea è stata derubata, seviziata, uccisa.
      La famiglia di sua madre, decisa a rimanere in Iraq a tutti i costi, cerca di scappare. Qualcosa va storto, e tutti i componenti vengono arrestati e rilasciati dopo tre settimane, riuscendo a scappare a Londra, dove sua madre, appena ventiduenne, si innamora e si sposa dopo pochissimo tempo con un altro ebreo iracheno. La piccola Samantha ambisce a una vita eroica, ricca di avventure, e con un lieto fine.
      Una delle sue prime eroine è Ariel, l’infelice sirenetta protagonista della favola di Andersen. Da bambina, la Ellis si immedesima in lei perché, come Ariel è sospesa in una sorta di terra di nessuno, tra i fondali marini e la superficie, lei è divisa in due, tra il suo desiderio di visitare Baghdad e di appartenere alla comunità ebraico-irachena e la sua vita londinese, con la sua insofferenza nei confronti delle tradizioni troppo rigide della comunità stessa. Ormai adulta, la Ellis rilegge Ariel come una sorta di “campanello d’allarme” per tutte le donne: non rinunciate mai alla vostra voce! Non fate sacrifici per uomini che non se lo meritano! Non sacrificatevi, ma usatelo, quel coltello (la presenza e il sostegno di altre donne; nella fiaba di Andersen, la sirenetta può sopravvivere solo pugnalando il principe nel cuore, e bagnando le gambe nel suo sangue ancora caldo; sceglie invece di morire, dissolvendosi in migliaia di bollicine d’acqua, nonostante le sorelle avessero sacrificato i loro bellissimi capelli marini per procurarle il pugnale stregato), simbolo di affrancamento personale dalla gabbia delle convenzioni di genere.

      Uno dei capitoli più interessanti è quello dedicato alla rilettura di Cime tempestose di Emily Brontë e Jane Eyre di Charlotte Brontë. Durante una gita ad Haworth, sulle tracce delle sorelle Brontë , l’autrice discute con la sua migliore amica, compagna da sempre di letture e di merende,  che preferisce la Jane di Charlotte, pacata e apparentemente scialba, ma solida e decisa, all’impetuosa Catherine che vive un amore assoluto, ma è capricciosa, viziata e snob.
      Rileggendo i due romanzi, la Ellis, che nutre da sempre una predilezione per la selvaggia Cathy, rivaluta Jane Eyre, apprezzandone il coraggio e la determinazione,  i valori (quando scopre che Rochester, il suo datore di lavoro che le ha chiesto di sposarlo, ha già una moglie, Bertha, chiusa in soffitta per i suoi problemi mentali, si rifiuta di rimanere e diventare la sua amante e scappa via la notte stessa, col cuore spezzato), la generosità, il suo desiderio di instaurare con Rochester un rapporto paritario.

      Tuttavia, leggendo la vicenda di Jane in chiave più critica e femminista, l’autrice sostiene che Jane e Rochester non arrivano mai a un rapporto paritario: si sposano solo quando lui, avendo perso un occhio e una mano durante un incendio causato da Bertha, ha bisogno di lei più che mai. C’è davvero bisogno che un uomo sia parzialmente disabile perché possa instaurare con la sua donna un rapporto equo?
      E comunque, un’eroina perfetta che non compie mai errori (Jane Eyre) non riesce a riscuotere le simpatie indiscusse della Ellis.
      Cathy è tutta un’altra storia. È una creatura selvaggia, che appartiene alle brughiere e alle lande desolate dello Yorkshire, alle foglie, al vento, alla nebbia. È viziata, capricciosa, conosce il suo cuore ma non è capace di seguirlo: nutre un amore sterminato, illimitato per Heathcliff, trovatello di oscure origini con cui è cresciuta, ma sposa codardamente Linton, il giovane più ricco della contea, sostenendo che Heathcliff la degraderebbe. Ma Cathy è Heathcliff: le loro anime sono fatte della stessa sostanza, le loro sofferenze sono condivise, la loro sensibilità è affine, come lo è il loro egoismo, il loro essere noi-due-contro-il- mondo.
      Sono divisi però da divisioni sociali e valichi incolmabili; scrive la Ellis;

      Cathy and Heathcliff’s love is too raw and rarefied to exist in the real world, and they know it; they can only be together as restless ghosts. (…) Their love is just not realistic. It is the kind of love, in fact, that could only be written by someone who had never been in love…and also mean that Wuthering Heights is a terrible template for actually conducting a love affair. (…) I can’t help thinking that a heroine should be able to love without being erased.
      (L’amore di Cathy e Heathcliff è troppo crudo e rarefatto per esistere nel mondo reale, e loro lo  sanno; possono solo essere insieme quando diventano inquieti fantasmi. (…) Il loro amore non è realistico. È un amore che poteva essere descritto solo da qualcuno che non è mai stato innamorato…ciò rende Cime tempestose un pessimo modello di storia d’amore. (….) Non posso fare  a meno di pensare che un’eroina dovrebbe essere in grado di amare senza essere annullata dall’amore).

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      Da Rossella O’Hara la Ellis impara che non è necessario diventare una lady: basta avere il coraggio di diventare una donna, ed essere fedele all’idea di se stessa. Grazie a lei e al timido, passivo Ashley, la scrittrice riesce a superare la sua attrazione fatale per gli amori impossibili:

      I thought impossible love was the best kind. But I hope I’m braver about love now, and I’m tempted to make a rule that any heroine who spends a whole novel in love with someone who can’t or won’t love her back is not truly a heroine. Because unrequited love is delusional, thankless and boring. It’s also a misuse of imagination…
      (Pensavo che l’amore impossibile fosse quello vero. Ora spero di essere diventata più coraggiosa in amore, e mi stuzzica l’idea di stabilire la seguente regola: ogni eroina che passi un intero romanzo innamorata di qualcuno che non può amarla o non l’amerà mai non si merita il titolo di eroina. L’amore non corrisposto è una delirante, ingrata, noiosa illusione, nonché uno spreco di immaginazione…)

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      Impara dalla Franny salingeriana a trovare significato e risposte al di fuori della religione, e ad apprezzare il potere curativo e mistico del brodo di pollo; da Ester Greenwood, l’eroina autobiografica di Sylvia Plath, a convivere con l’idea che essere donna equivalga a soffrire, a sopravvivere al dolore e allo senso di smarrimento che derivano dagli attacchi di cui la Ellis diventa vittima durante gli anni universitari (derivano probabilmente da forti emicranie, causate da pulsazioni dell’arteria basilare). Questi attacchi le fanno perdere orientamento ed equilibrio, rendendola incapace di continuare a vivere come prima: da Sylvia Plath impara l’eroismo di chi lotta ogni giorno con fantasmi più grandi di lei, cercando di dare a se stessa – e ai suoi lettori  – la possibilità di rinascere dalle ceneri.

      Da Lucy Honeychurch, la poco convenzionale protagonista di Camera con vista di Edward Morgan Forster, eredita il desiderio di essere coraggiosa quando scrive e nella vita, facendo sua la massima di Mr Beebe, uomo di chiesa che dice di Lucy:

      If Miss Honeychurch ever takes to live as she plays, It will be very exciting both for us and for her.
      (Se Miss Honeychurch iniziasse a vivere come suona, si aprirebbero nuove ed eccitanti prospettive sia per lei che per noi).

      Valley of the Dolls di Jacqueline Susann le insegna a fidarsi del suo talento, e a investire tutta se stessa nel desiderio di scrivere per il teatro, facendo sua la lezione di Neely, una delle controverse protagoniste:

      Guys will leave you, your looks will go, your kids will grow up and leave you, and everything you thought was great will go sour; all you can really count on is yourself and your talent.
      (Gli uomini ti lasceranno, la tua bellezza svanirà, i tuoi figli cresceranno e se ne andranno, le tue cose preferite ti lasceranno l’amaro in bocca; puoi solo contare su te stessa e sul tuo talento).

      L’ultima eroina del libro, Sherazade, le insegna la lezione più importante: solo appropriandoci delle nostre eroine diventiamo eroine noi stesse. Il coraggio dell’intrepida protagonista de Le mille e una notte non si trova nelle storie che racconta, ma nelle storie che vive, che salvano lei stessa, le altre vergini destinate a diventare vittime, il re.

      La frustrazione della scrittrice, che ambisce ad essere un’eroina in carne ed ossa, non tarda a farsi sentire, insieme ad un paio di rivelazioni:

      I felt let down when I could see a writer too much at work on a character because it reminded me forcefully that of course I didn’t have a writer working on my story, guiding me to safety, bending the laws of reality for me, bringing in a hero  to rescue me or transporting me to a happier life by the stroke of her pen. No writer is writing me a better journey.
      And then I realise I am the writer. I don’t mean because I write. I mean because we all write our own lives
      (Mi sentivo tradita quando mi rendevo conto che uno scrittore lavorava troppo su un personaggio, perché mi metteva di fronte al fatto che io non avevo uno scrittore a lavorare sulla mia storia, a portarmi al sicuro, a sfidare la realtà per me, facendo intervenire un eroe a salvarmi o trasportandomi a colpi di penna verso il mio lieto fine.
      Poi mi sono resa conto che lo scrittore sono io, e non perché scrivo. Tutti scriviamo la nostra vita).

      Il segreto delle vere eroine, sostiene la Ellis, è l’improvvisazione: affidandosi ad essa, ogni incidente di percorso diventa un’avventura, ogni errore un invito a cambiare direzione, ogni caduta una revisione delle regole del gioco. Il principio dell’improvvisazione è semplice, come a teatro: uno degli attori formula un’offerta, l’altro la accetta mettendoci qualcosa di suo, per non bloccare lo sviluppo della situazione. E si va avanti, a tentativi, a braccio.
      Dire sì diventa allora il segreto non solo dell’improvvisazione, ma della vita stessa, la formula che permette di scegliere, trasformarsi, andare avanti.
      Perché non ci sono lieti fini, solo lieti inizi.

      How to be a Heroine: Or, what I’ve learned from reading too much, Samantha Ellis, Chatto & Vindus

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      Posted in Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 8 Comments | Tagged American literature, Camera con vista, Cathy Earnshaw, Charlotte Brontë, Edward Morgan Forster, Elizabeth Bennet, Emily Brontë, Franny&Zooey, How To Be A Heroine: Or, Jane Austen, Jane Eyre, Janeite, JD Salinger, La campana di vetro, Letteratura inglese, Lucy Honeychurch, Margaret Mitchell, orgoglio e pregiudizio, pride and prejudice, Rossella O'Hara, Samantha Ellis, Sylvia Plath, The Bell Jar, Valley of The Dolls, Via col Vento, what I’ve learned from reading too much
    • Sylvia Plath tra poesia e mito

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 10, 2015

      I think I would like to call myself “The girl who wanted to be God”
      (Sylvia Plath, Words)

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      Perché continuiamo a leggere Sylvia Plath, a cinquantadue anni dalla sua morte, e ad immedesimarci nei suoi scritti?
      Perché Sylvia Plath incarna e simboleggia la dicotomia che ogni donna (e, in una certa misura, ogni essere umano) si trova ad affrontare: l’eterna lotta tra essere e dover essere, tra io privato e io pubblico. La disperata ricerca di conformarsi allo stereotipo di ragazza americana (sana, bella, intelligente, simpatica, sportiva, competitiva) cercando di nascondere, dietro questa patina dorata, il suo essere una ragazza di vetro sotto una campana di vetro.

      american girl

      Questa dicotomia viene analizzata da Ginevra Bompiani nel suo Lo spazio narrante, e viene messa in relazione con la poetica della Plath.
      Nell’estate del 1954, Sylvia cerca di dare forma concreta (e ironica) alle contraddizioni che le straziano l’anima (l’anno precedente la ragazza aveva cercato di uccidersi ed era stata ricoverata in una serie di cliniche psichiatriche, dove aveva sperimentato una delle sue più grandi paure, l’elettroshock; l’intera esperienza viene raccontata dalla Plath nel suo unico romanzo, The Bell Jar, La campana di vetro) tingendosi i capelli biondo platino.

      Il suo io biondo platino rappresenta il suo tentativo di ribellarsi all’io bruno, “…la grigio vestita, sobria, bevitrice d’acqua, presto-a-letto, economa, pratica ragazza che ero diventata…” (da una lettera alla madre del 13 ottobre 1954).
      Non stupisce dunque che Sylvia abbia scelto come argomento di tesi il tema della doppia personalità in Dostoevskij, né che elementi come lo specchio, l’acqua, il riflesso, le ombre, i gemelli diventino parte integrante dell’immaginario mitico della sua poesia. La cura rigorosa, quasi maniacale della forma e dello stile serve a contenere, a plasmare quelle poesie che “…non sono ispirate da nient’altro che un ago o un coltello o quel che sia” (da una dichiarazione per la  BBC del 1963, prima di un suo reading di poesie).

      reading
      Non c’è tuttavia una contraddizione tra un “io vero” e un “io falso” nella Plath: la poetessa accetta il mondo per quello che è, pur vedendolo come una comunità a lei estranea in cui ha bisogno di essere riconosciuta.
      Per questo motivo Sylvia cerca di conformarsi e di accettare quelle regole che la vogliono studentessa modello, figlia affezionata, moglie innamorata, madre devota. La Sylvia delle lettere è la Sylvia pubblica, la Sylvia bruna: tutta la vita degli affetti appare nelle sue corrispondenze costante e tale da riscuotere l’approvazione dell’Americano medio. Nelle lettere, Sylvia dichiara di amare sua madre, suo fratello, le amiche, i bei ragazzi alti e sportivi.

      pinkLa Sylvia bionda, che non ha bisogno di essere riconosciuta, emerge nelle sue poesie: qui viene fuori l’odio/amore per la madre, garante della Sylvia convenzionale, che si rifiuta di accettare la confusione, i problemi mentali della figlia.

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      Le lettere di Sylvia alla madre sono sempre piene di affetto e di riconoscenza nei suoi confronti, in contraddizione con l’insofferenza e il rancore che emergono in The Bell Jar; Aurelia, la madre-vampiro, non deve, non può vedere sua figlia come quel calice di cristallo, prossimo a frantumarsi, come quella ragazza di vetro dentro una campana di vetro dopo che Ted l’ha lasciata. Silvia, spezzata dal dolore, proibisce alla madre di raggiungerla a Londra.
      Un’altra delle colpe imputate alla madre Aurelia è la morte del padre Otto. Quest’ultimo aveva deciso che sarebbe morto precocemente di malattia e si era autodiagnosticato un tumore, chiudendosi nelle sue stanze e vivendo totalmente alienato dai figli. In realtà, Otto sarebbe morto nel 1940 di diabete. Per Sylvia, il padre avrebbe rappresentato, nel suo immaginario poetico, la volontà di morte.
      Altro rapporto problematico è quello col fratello Warren. A due anni e mezzo, mentre Sylvia cammina sulla riva del mare (che identifica come il suo elemento naturale; appena in grado di gattonare, Aurelia l’aveva portata sulla spiaggia e Sylvia si era diretta con decisione verso l’onda) le viene annunciato l’arrivo del fratello.

      warrenLa bambina, mentre riflette su quest’inaspettata notizia dalle prospettive incerte, avverte per la prima volta la “separatezza” di ogni cosa:

      Avvertii  la parete della mia pelle: Io sono Io. Questa pietra è una pietra. La mia meravigliosa fusione con le cose di questo mondo era finita.
      (Ocean 1212-W)

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      Sylvia definisce quel giorno “l’orribile compleanno dell’alterità”, data in cui ha inizio il suo esilio dall’unità.
      Tutti questi elementi si ritrovano nell’immaginario poetico di Sylvia, che la Bompiani ricollega a quello che Northrop Frye in The Secular Scripture definisce “the Night World”, la terza fase di discesa negli Inferi, nell’utero della terra. Questa fase è caratterizzata da sofferti riti di passaggio, parte del ciclo della morte e della rinascita; da sacrifici umani;  da una progressiva, solitaria alienazione; da figure oracolari e dal tema del Doppelgänger, il doppio, che si ritrova in elementi quali lo specchio.
      Nella raccolta The Colossus (Il Colosso), la figura maschile è legata all’abisso e alle profondità marine. I suoi colori sono quelli dei fondali dell’abisso: il fango, il nero, il verde.
      La figura femminile appartiene invece alla superficie; è algida e fredda, pallida come la luna, bianca come il ghiaccio.

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      La sapienza di questo mondo di uomini marini e vergini lunari è oracolare: la conoscenza non arreca sollievo e non può essere salvifica, ma pura consapevolezza di un destino ineluttabile.
      Il sangue invece è la vita, il suo calore, la terra, il corpo, il sesso: non a caso il primo rapporto sessuale di Sylvia/Esther in The Bell Jar culmina in un’emorragia.

      Le nozze di Sylvia e Ted sono nozze di sangue: nella sua poesia Pursuit (Inseguimento), Sylvia scrive:

      There is a panther stalks me down:
      One day I’ll have my death of him;
      …
      I hurl my heart to halt his pace,
      To quench his thirst I squander blood;
      He eats, and still his need seeks food,
      Compels a total sacrifice.

      (C’è una pantera che m’incalza:
      un giorno me ne vorrà morte.
      …
      Scaglio il mio cuore per fermarne il passo,
      per spegnerne la sete effondo il sangue;
      lui mangia, e ancora il suo bisogno vuole cibo,
      pretende un assoluto sacrificio.)
      (da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).

      ST3Da queste nozze di sangue nasce la Sylvia, poetessa.

      Not easy to state the change you made
      If I’m alive now, then I was dead.
      Though, like a stone, unbothered by it,
      Staying put according to habit.
      You didn’t toe me just an inch, no –
      (Non è facile dire il cambiamento che operasti.
      Se adesso sono viva, allora ero morta
      anche se, come una pietra, non me ne curavo
      e me ne stavo dov’ero per abitudine.
      Tu non ti limitasti a spingere un po’ col piede, no –
      (Love Letter – Lettera d’amore, da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).

      Dopo il matrimonio con Ted, la maternità diventa un altro elemento essenziale della poesia di Sylvia: è per la poetessa un’esperienza profondamente simbolica e salvifica, perché trasmette la vita. La madre si rigenera nel figlio, mentre il padre scompare (come Otto era scomparso per la sua volontà di morte, come Ted scompare per inseguire Assia).
      Nel suo poemetto a tre voci Three Women (Tre donne), trasmesso dalla BBC nell’agosto del 1962, la maternità viene rappresentata in tutti i suoi aspetti e tutti i suoi contrasti, senza idilli né idealizzazioni. Le protagoniste sono tre donne: una ragazza madre che abbandona il bambino (il rifiuto); una donna che lo perde (l’incapacità; Sylvia stessa perde un bambino, tra Frieda e Nicholas); la donna che abbraccia la sua nuova condizione di madre (l’accettazione).

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      La Bompiani osserva che il viaggio poetico di Sylvia coincide anche col suo viaggio esistenziale: la maturità poetica coincide con la fine del viaggio.
      Al  Alvarez, saggista inglese che era anche stato amico della Plath, nel suo The Savage God, una riflessione sul suicidio, osserva che “la poesia di quest’ordine è un’arte omicida”: la poesia succhia a Sylvia la vita che le è rimasta, taglia i suoi ultimi legami col mondo, traduce in morte il desiderio di morte. I versi sono specchio ed emulazione di una tragedia per attrice sola, un monologo che vede come protagonista Sylvia, chiusa nella sua campana di vetro, in un freddissimo inverno londinese.
      La poesia, non l’amore, ha fatto nascere e rinascere Sylvia Plath.
      Attraverso la poesia Sylvia Plath conosce e riconosce la realtà, quella stessa realtà che non riesce ad accettare.
      Di quella stessa poesia la ragazza di vetro, la ragazza che voleva essere Dio, muore.

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      Letture consigliate:
      – Ginevra Bompiani, Lo spazio narrante. Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, et al. edizioni
      – Katie Crouch, Making sense of suicide with Sylvia Plath (trovate l’articolo in traduzione qui sul blog)
      – Sylvia Plath, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano, prefazione a cura di Seamus Heaney
      – Northrop Frye, The Secular Scripture: A Study of the Structure of Romance, Harvard University Press
      – Sylvia Plath, La campana di vetro, Mondadori, trad. Adriana Bottini, Anna Ravano
      – Al Alvarez, The Savage God, Bloomsbury Publishing PLC

      – Andrew Wilson, Mad Girl’s Love Song. Sylvia Plath and Life before Ted, Scribner

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      Posted in Frammenti di poesia, Letteratura americana, Letteratura e dintorni | 18 Comments | Tagged Al Alvarez, American literature, Aurelia Plath, BBC, Frieda Hughes, Ginevra Bompiani, Il Colosso, Katie Crouch, La campana di vetro, Libri Mondadori, Lo spazio narrante, Nicholas Hughes, Northrop Frye, Otto Plath, poesia, Sylvia Plath, Ted Hughes, The Bell Jar, The Savage God, The Secular Scripture, Warren Plath
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