Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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  • Tag: Tales of a Surreal Urban Storyteller

    • Due storie.

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 4, 2015

      Sono solo finzioni letterarie, in fondo. No?

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      Ad occhi chiusi

      Avrò avuto 10 anni. Frequentavo la quinta elementare.

      Non mi piaceva prendere l’autobus della scuola per tornare a casa. Non abitavo lontano dalla scuola e mi piaceva tornare a casa a piedi, anche se non lo dicevo mai a mia madre: si sarebbe soltanto preoccupata.

      Non mi piaceva l’autobus, era troppo pieno di bambini, bambini che gridavano, che cantavano, che giocavano, che prendevano in giro. Che mi prendevano in giro.

      L’anno precedente, una bambina più grande mi aveva dato una spinta mentre scendevo. Ero caduta e tutti avevano riso. Da quel giorno avevo deciso che non avrei più preso l’autobus.

      Anche adesso odio prendere gli autobus: mi manca l’aria. Tutto questo comunque non è rilevante.

      Era una giornata primaverile, ero quasi arrivata a casa. La mia casa si trova alla fine di una strada residenziale, un po’ isolata, dopo una curva a gomito.

      Mia madre si era sempre raccomandata di guardare bene la strada quando attraversavo, perché la visibilità era molto ridotta. E io avevo sempre la testa tra le nuvole.

      Non so perché quel giorno decisi, arrivata alla curva, che avrei attraversato la strada ad occhi chiusi. Forse era una sfida con me stessa, forse era solo per fare un dispetto a mia madre e per dimostrarle che in fondo quella curva non era tanto pericolosa. Forse era per scoprire se morire fosse veramente come dicevano, se esistesse poi realmente, la morte. Forse era per scoprire se Dio esistesse veramente, e avrebbe poi  mandato il mio angelo custode a salvarmi o meno. Forse per tutte queste cose messe insieme.

      Attraversai la strada con gli occhi chiusi. Ricordo solo il rumore di una frenata e un colpo sullo zaino che mi fece rotolare per un bel po’. Aprii gli occhi, curiosa di sapere se ero arrivata in paradiso. Il cielo era blu.

      Il ragazzo che guidava la macchina si era spaventato da morire perché andava troppo veloce. Mi alzai lentamente: avevo il grembiulino e la camicetta lacerati ed escoriazioni sulle braccia e sulle gambe. Anche i jeans erano rovinati.

      Decisi che avrei raccontato a mia madre di essere caduta. Invece, un piccolo stuolo di vicini curiosi si era già radunato accanto a me, a distanza debita, e mia madre era già stata avvisata.

      Che bella seccatura, pensai.

      Il dottore mi disse che ero stata molto fortunata, perché il mio zaino di Barbie Hostess pieno di libri aveva protetto la colonna vertebrale dall’urto. Saresti potuta rimanere paralizzata, ma non guardi la strada? La macchina proprio non l’avevo vista, dottore.

      Dissi anche alla polizia la stessa cosa e mi rifiutai ostinatamente di sporgere denuncia. Forse mi ero distratta, la colpa non era del ragazzo, e non correva poi tanto, e tutto è bene quello che finisce bene.

      Questa storia non l’avevo raccontata mai a nessuno.

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      Questione di paure.

      Una volta mi sono innamorata.

      Lui aveva una gran bella testa, e io amavo le sue parole. Amavo il suono della sua voce.

      Ma le sue parole non erano quasi mai per me, o, almeno, non solo per me.

      Ero solo una spettatrice, e facevo parte del suo pubblico, sugli spalti. Niente tribuna d’onore.

      Io avevo bisogno di lui. Lui non aveva bisogno di me.

      I miei umori dipendevano dai suoi. Lui era sempre placido, uguale a se stesso. Lui era lo stagno, io il torrente in piena.

      Io mi sentivo perennemente a metà, con la sensazione costante che mi mancasse qualcosa, che mi avessero amputato un arto. Lui era così sicuro di sé, così indipendente da bastare totalmente a se stesso. Lui conosceva bene le sue radici, il suo posto nel mondo. Io non avevo un posto da chiamare casa, e mi sentivo come un albero sradicato da un uragano. Al suo confronto, ero così piccola, così nuda, piena di dubbi e di paure.

      Sentivo che lui non era mai veramente lì, con me. Capivo di non essere riuscita a toccarlo veramente. Lottavo con l’insinuante consapevolezza che non ci sarei mai riuscita.

      Ero gelosa di lui, in un modo che non riuscivo a piegare nemmeno a me stessa. Mi sembrava che per qualsiasi altra ragazza sarebbe stato più facile, avvicinarsi a lui, parlare con lui, stare con lui.

      Gli raccontavo spesso cose, di me. Cose che non avevo mai raccontato a nessun altro. Speravo che, in questo modo, sarebbe riuscito a capirmi. Probabilmente, l’effetto delle mie storie era allontanarlo ancora di più.

      Gli chiedevo spesso di parlarmi di sé. Non lo faceva mai.

      Poi un giorno mi stupì, raccontandomi qualcosa di sé. La sua più grande paura. Aveva paura di morire da solo.

      Lui, che bastava sempre a se stesso, che non aveva vuoti da riempire, che misurava con cura il perimetro del suo spazio, che dosava metodicamente il suo tempo. Lui, che non aveva bisogno di nessuno. Non l’ho mai amato tanto quanto in quel momento.

      Non sono stata capace di spiegarglielo, e la cosa è finita nel baule delle cose mai fatte, delle parole mai dette. E l’ho lasciato andare, come si fa con tutte quelle creature selvatiche che non si riesce poi mai ad addomesticare veramente.

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      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 5 Comments | Tagged Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller
    • Montagne russe

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 3, 2014
      I didn’t fall in love. I fell through it:
      Came out the other side moments later, hands full of matter, waking up from the dream of a bullet tearing through the middle of my body.
      I no longer understand anything for longer than a long moment, or the time it takes to receive the shot.
      This kind of gravity is like falling through a cloud, forgetting it all, and then being told about it later. On the day you fell through a cloud . . .
      (Love letter – Clouds, Sarah Manguso)
      Life is a Roller Coaster, Christine Wagner

      Questa breve, brevissima storia e’ una traduzione un po’ riadattata di una storia in Inglese che ho pubblicato qui, e che trovate sotto il testo in Italiano.

      ****************************

      Ho sempre avuto paura delle montagne russe.

      Non di quelle fobie, tipo il sangue; piuttosto quel tipo di paura che ti blocca quando sei a due passi dall’oggetto dei tuoi desideri, eppure non riesci ad allungare la mano per toccarlo.

      Le guardo, le montagne russe. Ne sono affascinata e repulsa al tempo stesso. Il momento più brutto è il prima: il dibattito interiore sui pro e i contro di salire sul trenino, la lotta tra ansia e eccitazione, le mani gelate, la nausea durante la prima parte del tragitto, breve, calma, ingannatrice, il terrore della salita.

      (Ricordarsi di respirare).

      Ma la discesa è sempre qualcosa di magico: il panico si mischia all’eccitazione e insieme formano una miscela che mi esplode nella pancia, lasciandomi libera, leggera, lontana da tutto e da tutti, così vicina al cielo da dover solo allungare la mano per toccare le stelle. Lasciandomi preda di pensieri un po’ morbosi, a desiderare che la morte sia un po’ così, come questa caduta che in realtà è un’ascesa verso le nuvole e le stelle, come lasciare le proprie paure a terra e diventare leggera come un palloncino, fino a diventare solo aria. Non un addio ma un arrivederci, non una fine ma una trasformazione.

      Ho capito di non essere mai salita sulle montagne russe quando ho conosciuto te. Il mio istinto, quello che si nasconde nella pancia, mi ha suggerito di scappare lontano a gambe levate. Ma io sono rimasta, incapace di muovermi, senza parole, quasi istupidita.

      Dovevo restare, semplicemente, anche quando il mio restare era solo un rituale vuoto a perdere, la mia autostima un agnello sacrificale immolato all’altare della tua vanità. Dovevo restare, anche quando mi centrifugavi il cuore e mi trituravi l’anima, e io ero in caduta libera.

      Non mi stavo innamorando, stavo cadendo, barcamenandomi tra panorami da mozzare il fiato e vertigini buie, fatte di solitudine (ricordarsi di respirare, far arrivare aria alla pancia, zittirne l’istinto primordiale. Si tratta sempre di respirare).

      Sei stato le mie montagne russe. È stata la corsa più spaventosa, piena di ostacoli, selvaggia della mia vita. Il triplo salto mortale dello stomaco, la vitalità nuda e cruda, la cecità, l’euforia, l’incanto, la frustrazione pura hanno conferito alla mia caduta una certa nobiltà, dignità, sobrietà. Inevitabilità.

      Ora sono rimasta con un gomitolo di parole, le nostre parole (euforica, cotta, infatuata, pazza di).

      E non posso più usarle, quelle parole, e non riesco a trovarne altre. E sono ancora senza fiato. E sto ancora cadendo.

      ***********************************

      I have always been scared of rollercoasters.

      Not scared like I am when it comes to blood: the kind of scared that makes you want something so badly, yet being afraid of reaching out and touching it.

      I would be amusingly scared when looking at them, quite preoccupied queuing for  them (after much talking and debating with myself the pros and cons of wanting something so badly, yet being so terrified), kinda anxious seating in the wagon, nauseous at the beginning, in tenterhooks after the first, tentative, easy part of the ride, utterly horrified while going up, up, up.

      But in going down the magic would happen: the fear would mingle with excitement and together they would explode, leaving me ever so light, so ethereal, so close to the sky that I would only have to stretch my arm in order to touch the stars. Leaving me with the estranged, morbid wish that death could be something like that, leaving all your fears behind and getting lighter and lighter and lighter reaching for the clouds, mingling with them, dissolving into them. Not a farewell but just a goodbye, not an ending but a transformation.

      Anyway, I found out I had never really been on a rollercoaster when I first met you, and my gut instinct (it’s always the guts) told me to run as fast as I could, but there I stayed, dumbstruck.

      I had to stay, as simple as that, even when my staying was just a redundant, empty gesture, my self-esteem a new born lamb sacrificed to the altar of your vanity. I had to stay, even when you were running my bare soul in the spin cycle, and I was freefalling.

      It wasn’t falling in love, it was falling from it and through it, far away from any possible state of grace, sailing through tough days and breath taking moments, loneliness and completeness, utter misery and thorough bliss. (Breath and guts, it was always a question of breath and guts)

      You were my own rollercoaster. It was by far the scariest, the bumpiest, the wildest ride of all. The triple jump of my guts, the sheer vitality, the blindness, the elation, the enchantment, the sheer frustration gave my fall from grace a certain dignity, a sobriety, a solemnity, a feeling of unavoidability.

      Now I am left with a ball of thread made of words, our words (elated, smitten, besotted. Who knew the English language could be so enthralling).

      And I am still lost for words, and I am still catching my breath. And I am still falling.

      Cecily Brown, Shadow burn, Gagosian gallery

       

      Cecily Brown, Combing the Hair (Côte d’Azur), Gagosian gallery

       

       

       
      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 0 Comments | Tagged In the mood for love, Poetry, Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Things we forget, What we talk about when we talk about love
    • L’odore acre di alcuni ricordi

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 23, 2014

       

       

       

      Un ristorante di pesce in una piccola località balneare fuori stagione, in una giornata di fine aprile straordinariamente piovosa.
      La vernice gialla sbiadita, il senso generale di abbandono. La sala delle feste chiusa, le tende tirate, l’odore acre di disinfettante dei bagni.
      Il giardino spelacchiato, il Nettuno della fontana senza naso e senza metà braccio, muschio dove un tempo zampillava l’acqua.
      E, a tradimento, dietro l’arco di rampicanti sempre più radi, spunta la testa riccioluta di un bambino taciturno, che cerca a stento di trattenere le risate e invoca la complicità della sorella perchè l’aiuti a non essere trovato dall’altro fratello, alto, allampanato, occhialetti neri e pelle olivastra.

      Era il ristorante delle Pasquette e il ristorante delle domeniche in cui la mamma non aveva voglia di cucinare, o voleva regalare loro un’avventura, una gita al mare inaspettata e immotivata. Era il ristorante di quando la nonna ritirava la sua magra pensione, e voleva celebrare offrendo ai nipoti un gelato sempre nello stesso posto, il posto che portava il nome di un pirata ed era gestito da un omone paonazzo con la barba lunga color ruggine. I tre pensavano che l’uomo doveva essere davvero stato un pirata, e doveva essere pieno di tatuaggi sotto la sua polo.
      Era il ristorante delle passeggiate al mare fuori stagione, ché il mare è più bello agli inizi di primavera, quando la brezza è ancora pungente e mi raccomando, bambini, non avvicinatevi troppo all’acqua. Ma la marea ha creato una specie di laghetto e il più piccolo non può proprio esimersi dalla tentazione di andarvi a pescare col suo bastone, finendovi dentro, costringendo la truppa a un rientro forzato, coi suoi calzoncini e calzini come vessilli sospesi dai finestrini chiusi, fatti volare via da una folata di vento dispettoso in piena statale, tra l’ilarità generale. Risate, risate fino a quando fa male la pancia, forse anche a causa dei gusti coloratissimi sperimentati nella gelateria del pirata – puffo verde, nuvola azzurra, big babol.

      Cosa resta di quei tre bambini, di quelle risate che facevano male alla pancia e bene al cuore e di quelle gite al mare fuori stagione. Della sabbia nelle scarpe, delle collezioni improbabili di conchiglie che non si potevano assolutamente buttare, dei da grande farò e da grande sarò e da grande andrò e poi.

      Cosa resta di quel ristorante in quella località balneare fuori moda, a parte le crepe nel muro, l’odore di chiuso della sala delle feste, l’odore acre di disinfettante dei bagni, l’odore pungente di una nostalgia lontana, un nodo alla gola, una lacrima solitaria per cose passate troppo in fretta e lontane, così lontane nel tempo e nello spazio – cose avvenute forse a qualcun altro, o forse semplicemente sognate, in pigre domeniche fuori stagione in oscure località balneari che forse non sono mai esistite, o forse non esistono più.

      Posted in Ophelinha scrive | 5 Comments | Tagged Memories, Racconti, Si sta facendo sempre più tardi, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Words
    • Le piaceva scrivere.

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 14, 2014
      “I write because you exist.” – Michael Faudet”

      Le piaceva scrivere.

      Non è del tutto esatto: scrivere per lei era un imperativo categorico, un diktat morale, un appuntamento ineluttabile con la sua coscienza, un tête-à-tête col suo introverso e bizzarro mondo interiore.

      Scriveva storie tenui, dai colori sfumati – spiagge bianche da lungo tempo dimenticate, occasioni perdute, momenti spezzati.

      Scriveva del panico che spesso l’attanagliava, dell’insonnia che la teneva sveglia a combattere coi suoi demoni, delle persone che aveva perduto, della se stessa che aveva dimenticato.

      Scriveva perché in fondo non era capace di viverla, la vita, e allora preferiva osservarla da fuori, da dietro il finestrino polveroso di un treno senza nessuna destinazione. Scriveva perché in fondo non era capace di viverlo, l’amore, un concetto astratto e intellettuale troppo elevato e ideale per potersi far sfiorare dalla prosa della quotidianità. E allora lo ritrovava nei romanzi russi, e lo relegava nelle poesie e nelle storie senza lieto fine.

      Si sentiva in colpa quando non scriveva, perché evitava di guardarsi allo specchio, e quando lo faceva, perché non aveva il coraggio di scrivere tutta la verità. Perché la verità faceva male, spesso, e metteva a nudo, sempre, lasciandola inerme e indifesa come un pulcino bagnato.

      Scriveva per raccontare storie.

      Scriveva per raccontarsi storie (a volte, le proprie).

      Scriveva per immaginare finali diversi.

      Scriveva perchè mettere pensieri, emozioni, eventi nero su bianco svolgeva una funzione catartica, e la aiutava a mettere ordine.

      D’altro canto, mettere le cose nero su bianco le faceva paura. Perchè diventavano reali. Perchè cominciavano a vivere di vita propria. Perché non si potevano piu’ ignorare: per quanto facessero male erano lì, indesiderate, incontrovertibili. Ineluttabili.

      Non era facile scrivere di sè (c’era sempre l’imbarazzo delle prime persone) e scrivere di quelle poche, pochissime cose che le stavano veramente a cuore.

      Non era facile scrivere di persone che l’avevano toccata fino a marchiarla, di eventi che la trascinavano verso il passato anzichè proiettarla verso il futuro (So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past: così Fitzgerald conclude il suo Gatsby).

      Sempre Fitzgerald aveva scritto: what people are ashamed of usually makes a good story. Le cose di cui si vergognava, di cui non riusciva a parlare, né tantomeno a scrivere, erano solitamente le storie più interessanti, più sofferte. Più autentiche. Più oneste. Più sincere. Più vere.

      Scriveva senza perché e senza però, senza aspettarsi che qualcuno fosse interessato alle sue parole, ne’che le leggesse mai. Scriveva messaggi in bottiglia, affidandoli a maree nascoste, invisibili, misteriose.

      Sperando qualcuno li trovasse, prima o poi.

       

      Posted in Ophelinha scrive | 2 Comments | Tagged Confessions of a Dangerous Mind, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Words
    • So we bid farewell to the arms (a short story)

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 4, 2013
      Budapest, Feb 2013

      (scroll down for the Italian version)

                                                     ************************************

      I am getting used at dressing for myself only. Here, in my hotel room in Budapest, time passes slowly, according to my own caprices. I am an awful sleeper, even more in a bed that is not mine; even more on my first holiday alone – without you, without the idea of you.
      Getting dressed for myself is trickier and easier at the same time. On the one hand, I can follow my gut instinct, my mood swings. I can be vintage one day, sporty the following, classy when I feel like it.
      On the other hand, the temptation to avoid looking at any mirror and just tossing out of my wardrobe the first thing I find is huge. Picking clothes was  – with you, for you – a religious act: I’d go shopping and, more or less consciously, I’d look at stuff that I knew you would have loved: mostly, romantic, vintage dresses. Every morning, every evening, while dressing and undressing, I’d see myself in your eyes. I could spot the sparkle, the tiny glittery speckles at the corner of your wide, luminous, ambiguous eyes.
      Every single garment was lovingly picked, nothing was left to the fate. For I never knew when I would see you, and my hours would stretch achingly into the agony and ecstasy of waiting, waiting, waiting. The endless waiting. For I knew that, the exact moment you spotted me, I would become something liquid and frail, breathing you, living you, existing into you.
      I stroll carelessly along the Danube, admiring the way the Duma falls in love with itself in the water, timeless, elegant, majestic Narcissus promenading the river. Trying to recall the moment I broke in one thousand pieces, the moment when I had to give everything up and get away from you. The moment where I left the city where I met you and all the safe little world I had built around me.
      It was a weird late winter day. I should have sussed out something was going to happen. I had indeed been dressing again, for a couple of days, as if you were to see me. It was a weird Wednesday, the sun was shining and I felt compelled to go out in the terrace, in the sun – compelled the way you only feel when you are living in Northern countries and you know that a lukewarm, sunny, spotless day it is indeed a luxury and something to treasure, to seize – and do something I hadn’t been doing for a long time: having a fag. Just one, for old times’ sake. And there you were, indeed, in the last place I expected to meet you, sitting on the steps of our broken rendez-vous, drinking your coke, your eyes closed, sun stroking your golden hair. I saw your look – that look – carefully assessing my outfit, lovingly assembled against my own conscience, just hoping, just waiting for this moment to come: layers of carefully mismatched t-shirts, a funky gipsy skirt, colorful tights, cowboy boots. And confusion, and my heart beating savagely as I slowly approached you. You didn’t even look up; you just said “You are doing your hair differently; I liked it better before”.
      I sat down and we talked – it was books, as always: our safe haven, our curfew. As we were talking, you stopped all of a sudden and said: “so we bid farewell to the arms”.
      When we started our “thing” (you never wanted labels) you once asked me which book I would pick if I was supposed to die in a couple of hours. Instinctively, I skipped my classic faves, like Pride and Prejudice or Wuthering Heights, and also my beloved Anna Karenina: I went straight to Farewell to arms by Hemingway, because I kind of thought it made sense to read about the wild beauty of life and the everlasting battle fought between eros and thanatos in a moment like that.
      However, when you mentioned the title I sat there, frozen, because I knew you weren’t recalling that moment: you had simply realized I had given up on fighting for you. I was wasted, I was tired. I was empty.
      I felt nothing, I wanted nothing but oblivion.
      There I sat, your shoulder brushing casually against mine – the first physical contact we had in months – and I couldn’t help but wonder: that was the chest upon which I used to sleep. Those were your insolent, provocative, cat eyes I had fallen in love with, at first side. Those were the tiny wrinkles I used to kiss, one by one. You were saying something, but I wasn’t listening anymore: I was listening instead to a tune in my head, our favorite singer, Leonard Cohen, or, as you put it, “the patron saint of unhappy endings”:

      I loved you in the morning, our kisses deep and warm,
      your hair upon the pillow like a sleepy golden storm

      That was your golden maze, that used to end up tangles in my long dark curls. There was the flesh, the skin, the blood I had worshipped and loved drop by drop – because we where one. Together, we were better, we created a sort of third entity that was us. And “Us” used to be freer and happier and more careless and more adventurous. And astonishingly beautiful. You used to lead me to the mirror and say: “Look at us: don’t we just look better together? Don’t we just feel better together?”
      How I wish those were not just empty, shallow words.
      I go back to my hotel room. I feel tired, tired of myself, tired of everything. Of this endless waiting for someone who is not going to show up.
      This whole trip idea was a mistake. Begging my boss for a sabbatical, leaving my flat in a rush, planning haphazardly a trip across Eastern Europe, since I had stuck mostly to the Western part.
      As I lay in my bed, I do something I had sworn not to do: I open up my pc and go through my emails. Sure as hell, your name pops up. Something about a poem you hated, and then one question: when will you come back? And my heart stops, because you are not asking me what’s next, or when will I go back; but when will I  come back.
      I know it is preposterous and stupid. I know you don’t mean coming back to you. But all of a sudden, I cannot stand being here anymore. I start packing, tossing stuff without really looking at it. Packing for Romania, as I planned to do, or packing for coming back to you?
      Words are a powerful – and dangerous –  tool. A single verb can change everything.
      I stop packing and undress slowly, and, in front of my mirror, start getting dressed, putting the same clothes I had on the first time I met you – your transparent eyes, your baby blue shirt, your tousled hair. The first time I stopped existing an individual entity and started existing as a third part. And in the moment, in this moment, you are mine again. More than ever.

      (scroll up for the English version)
                                                *********************************

      Così diciamo addio alle armi

      Mi sto abituando a vestirmi solo per me stessa. Qui, nella mia stanza d’albergo a Budapest, il tempo passa lentamente, secondo il mio capriccio. Ho sempre avuto problemi di insonnia, ancora di più in un letto che non sia il mio; ancora di più durante la mia prima vacanza da sola – senza te, senza l’idea di te.
      Vestirmi per me soltanto è semplice e al tempo stesso immensamente difficile. Il vantaggio è che posso seguire il mio istinto, le mie oscillazioni d’umore. Posso essere vintage per un giorno, sportiva il successivo, elegante quando mi va di esserlo.
      Tuttavia, la tentazione di ignorare lo specchio e tirare fuori dall’armadio la prima cosa che capita è forte. Scegliere cosa indossare era – con te, per te – un rituale sacro: andavo a fare spese e, in modo più o meno consapevole, guardavo solo quei vestiti che sapevo tu avresti amato, per lo più romantici vestiti vintage. Ogni mattina, ogni sera, mentre mi vestivo e mi spogliavo, mi vedevo riflessa nei tuoi occhi. Mi vedevo attraverso i tuoi occhi. Potevo intravedere quella scintilla, quei puntini luminosi agli angoli dei tuoi larghi occhi, ambigui, luminosi.
      Ogni singolo indumento veniva scelto con amore: nulla veniva lasciato al destino. Perché non sapevo mai quando ti avrei visto, e le mie ore sofferte si allungavano nell’agonia e nell’estasi dell’attesa. Un’attesa infinita. Ma sapevo che, nel momento esatto in cui mi avresti intravista, sarei diventata liquida e fragile, senza contorni, diluita in te, nel tuo respiro.
      Mi trascino svogliatamente lungo il Danubio, ammirando il modo in cui la Duma si innamora del suo riflesso nell’acqua, elegante e maestoso Narciso sempiterno che passeggia lungo la riva del fiume. Cercando di ricordare il momento in cui mi sono rotta in mille pezzi, il momento in cui ho dovuto abbandonare tutto e andare via da te. Il momento in cui ho lasciato quella città in cui ti avevo incontrato, il piccolo mondo sicuro che avevo costruito intorno a me.
      Era uno strano giorno di fine inverno. Avrei dovuto capire che qualcosa stava per succedere. Avevo ripreso, da un paio di giorni, a vestirmi per te. Era uno strano mercoledì, il sole brillava luminoso e avevo sentito il bisogno di uscire in terrazza – quel bisogno impellente che ti coglie solo quando vivi in paesi del Nord Europa e sai vene che una giornata di sole, tiepida e senza nuvole, è un lusso, un’opportunità da cogliere, da conservare nella memoria come un tesoro – e fare qualcosa che non facevo da tempo: fumare.
      Solo una, in ricordo dei bei vecchi tempi. Avrei dovuto dare retta al mio sesto senso: eri lì, nell’ultimo posto in cui mi sarei aspettata di incontrarti, seduto sul gradino dei nostri incontri spezzati, una Coca in mano, gli occhi chiusi, il sole che accarezzava i tuoi capelli dorati. Hai socchiuso gli occhi, e ho intravisto il tuo sguardo – quello sguardo – studiare con cura il mio abbigliamento, inconsciamente studiato con cura, come se per giorni mi fossi preparata a quel momento, a quell’incontro: strati di T-shirt accuratamente scoordinate, un’eccentrica gonna da zingara, calze colorate, stivali da cowboy. Ma indossavo anche confusione, e il mio cuore che batteva selvaggiamente mentre mi avvicinavo a le, lentamente. Non hai nemmeno sollevato lo sguardo; hai detto soltanto: “Hai un taglio diverso; mi piacevano più prima, i tuoi capelli”.
      Mi sono seduta e abbiamo parlato – di libri, come sempre; il nostro porto sicuro, il nostro coprifuoco. Mentre parlavamo, ti sei fermato di scatto e hai detto: “e così diciamo addio alle armi”.
      Ai tempi di me e te (non saprei che definizione usare; non avevi mai voluto etichette) mi avevi chiesto una volta che libro avessi scelto se mi fosse rimasta una manciata di ore da vivere. Avevo istintivamente saltato i miei amato classici, come Orgoglio e Pregiudizio o Cime tempestose, e anche la mia amata Anna Karenina: avevo scelto Addio alle armi di Hemingway, pensando che, in un momento come quello, avrebbe avuto senso leggere della bellezza selvaggia della vita, della lotta sempiterna tra eros e thanatos.
      Tuttavia, quando hai menzionato quel titolo sono rimasta seduta sul gradino, immobile, perché sapevo non stavi ripensando alla nostra conversazione: avevi semplicemente capito che avevo smesso di lottare per te. Ero esausta, allo stremo delle mie forze. Ero vuota.
      Non sentivo niente. Non volevo niente al di fuori dell’oblio.
      Sedevo lì, e mentre la tua spalla sfiorava casualmente la mia – il primo contatto dopo mesi – non potevo impedirmi di pensare al fatto che quello era il petto sul quale ero solita dormire. Quelli erano gli stessi occhi da gatto, insolenti e provocatori, dei quali mi ero innamorata, a prima vista. Quelle erano le rughe sottili che ero solita baciate, una ad una. Continuavi a parlare, ma non ti ascoltavo più: ero persa nel ricordo di una canzone del nostro cantante preferito, Leonard Cohen, o, come ti piaceva definirlo, “il santo patrono dei finali tristi”:

      I loved you in the morning, our kisses deep and warm,
      your hair upon the pillow like a sleepy golden storm
      Ti ho amato al mattino, i nostri baci caldi e profondi,
      i tuoi capelli sul cuscino come una tempesta d’oro insonnolita

      Quello era il labirinto dei tuoi capelli d’oro, che finivano per intrecciarsi ai miei lunghi ricci scuri. Quella era la carne, la pelle, il sangue che avevo venerato, che avevo amato, goccia a goccia  -perché eravamo uno. Insieme eravamo migliori, finivamo per creare una sorta di entità terza, un noi esterno, estraneo alle nostre individualità. E noi eravamo più liberi e più felici e più distratti e più avventurosi. E belli, di una bellezza commovente. Mi portavi davanti allo specchio e mi dicevi: “Guardaci: non siamo più belli insieme? Non ci sentiamo migliori insieme?”
      Vorrei che queste non fossero state soltanto parole vuote, sterile.
      Torno alla mia stanza d’albergo, nauseata, stanca, stanca di me stessa, stanca di tutto. Dell’attesa perenne di qualcuno che non arriverà mai.
      Questo viaggio è stato un errore. Scongiurare il mio capo per un anno sabbatico, lasciare il mio appartamento in fretta e furia, pianificare a caso un viaggio attraverso l’Europa dell’est, dato che mi ero sempre limitata ad ovest.
      Mentre sono sdraiata a letto, faccio qualcosa che mi ero ripromessa di non fare: apro il mio computer e guardo le mie email. Ovviamente, il tuo nome. Un’email sconclusionata su una poesia che avevi odiato, e una domanda, quella domanda: quando torni? E il mio cuore si ferma, perché non mi chiedi quali sono i miei progetti futuri, né “quando vieni”, ma “quando torni?”
      So che è presuntuoso e stupido. So che non intendi chiedermi quando torno da te. Ma, improvvisamente, non posso sopportare un minuto di più il pensiero di essere qui. Mi manca l’aria. Inizio a fare le valigie, lanciandovi cose a caso, senza nemmeno guardarle. Fare le valigie per andare in Romania, secondo i piani, o per tornare, tornare da te?
      Le parole sono un’arma pericolosa. Un singolo verbo può cambiare un intero corso di azioni.
      Smetto di fare le valigie e mi spoglio lentamente, e, davanti allo specchio, mi rivesto, indossando gli stessi vestiti che avevo la prima volta che mi hai visto – i tuoi occhi trasparenti, la camicia azzurra, i capelli spettinati, il sorriso sornione. La prima volta che ho smesso di esistere come entità individuale e ho iniziato a vivere come terza parte. E nel momento, in questo momento, sei mio, di nuovo. Più che mai.

      Budapest, Feb 2013
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    • Incontri spezzati

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 16, 2013
      L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché è cominciare, sempre, ad ogni istante
      Cesare Pavese
       
      Non ricordo più di chi fosse stata l’idea.

      Entrambi amavamo immensamente Lost in Translation di Sofia Coppola: me l’avevi fatto conoscere tu, allora.

      Forse ci immedesimammo nei personaggi: io ero giovane, fresca di università e francamente un po’ sperduta. Cercavo di capire chi fossi, e quale strada dovessi seguire.

      Tu la tua l’avevi persa, di strada: quel lavoro che tanto amavi si era trasformato in un inerte esercizio di vuoti a perdere. La tua vita, apparentemente  perfetta, ti stava tanto stretta da toglierti il respiro.

      Avevamo trascorso insieme mesi resi fin troppo intensi da quel sentimento ambiguo, offuscato, che sfuggiva a qualsiasi tentativo di definizione. Mesi resi difficili dalla mia fragilità, dalla mia precarietà, dai segreti, dagli abbracci spezzati, dalla tua famiglia, dal tuo imminente trasferimento. Un altro continente. Oceani e fusi orari tra noi.

      Avevamo cercato un modo di cristallizzare il tempo, di fermare quei pochi mesi, mettendoli in stand-by, solo per noi, e andare avanti. Continuare a vivere.

      Aspettando un appuntamento: dieci anni dopo, in un anonimo hotel nel centro di Tokyo.

                                                                     *************** 

      Tra qualche ora ti incontrerò. Scruto ansiosamente il mio volto allo specchio, le rughe sottili che iniziano a delinearsi intorno agli occhi, agli angoli della bocca. Le borse, perenne eredità e silenziosa testimonianza delle mie notti insonni. Il pallore trasparente.

      Mi chiedo se rintraccerai in questo viso quella ragazza spensierata, sconsiderata, spaventata della quale ti eri innamorato. Se sarai capace di ritracciarne i tratti, sepolti nella geografia della memoria.

      Mi chiedo se ritroverai i miei ricci ribelli nella messa in piega ordinata, se le parole riusciranno a riallacciare quel tenue filo invisibile, mantenutosi in vita per dieci anni attraverso lettere, fotografie, cartoline, email, film, libri, canzoni, poesie.

      Sei l’unica persona di fronte alla quale ho paura di tirare le somme degli ultimi dieci anni.

      Volevo fare la scrittrice, e non ci ho nemmeno provato.

      Volevo un grande amore, e ne ho trovato solo surrogati, pallide imitazioni.

      Volevo continuare a vivere lì, nella città dove ti ho conosciuto, e dove strade, parchi, musei e teatri potevano parlarmi di te, e sono scappata.

      Vivo la mia vita scappando, dal dolore, dalla gioia, dalle opportunità, dalle delusioni. Vivo come una passeggera con un biglietto aperto sul compartimento di seconda classe di un vecchio treno, e guardo la vita vivermi intorno dal finestrino sporco e polveroso. Ma non ho il coraggio di scegliere una stazione e scendere, e vivere per raccontarla. Un po’ come Novecento, il pianista sull’oceano, che non scende dalla nave perché non può scegliere una casa una strada un lavoro una donna una vita che siano sue, perché ci sono semplicemente troppe possibilità e il rischio di sbagliare è immenso.

      Vorrei scappare anche ora, mentre mi controllo per l’ennesima volta il trucco in uno specchietto, sprofondata in una poltrona di pelle al bar dell’hotel, in attesa del tuo arrivo. Lo champagne che ho ordinato non riesce a stemperare l’attesa, non riesce a sciogliere il groppo alla gola né il nodo allo stomaco. Prima di rendermene conto, sei seduto davanti a me.

      Non parliamo: non c’è bisogno di parole, dopo dieci anni di assenza e e-mail e messaggi e lettere.

      Qui, protetti, nell’utero di una lingua che ci è del tutto estranea, possiamo semplicemente perderci nella meraviglia. Esisti. Sei reale.

      Non sei più solo un ricordo i cui tratti sono stati sfumati dal tocco inesorabile del tempo. Non sei più un indirizzo di posta elettronica, un numero nella mia rubrica.

      Sei qui. Sei vero. Sei reale.

      O, almeno, in questo momento lo sei, in questa realtà, nella mia realtà, e sei mio.

      Mi accarezzi la mano, timido, incerto.

      Il viso tanto amato è abbronzato, e il colorito mette in risalto la trama sottile delle rughe, i capelli più radi, appena brizzolati.

      Sembri più sicuro di sé e al tempo stesso infinitamente più malinconico, e stanco. Vedo me stessa riflessa nei tuoi occhi, un fantasma, la sagoma opaca di qualcosa che potrebbe essere stato, ma non si è mai realizzato per davvero.

      E quei ricordi, così tangibili, così vivi nella memoria del cuore, diventano improvvisamente così lontani, come se non fossero mai stati. Lontani come le luci di Tokyo. Lontani come le stelle spente di questo cielo straniero.

      Restiamo seduti per attimi, o forse per ore. Poi ti alzi, senza far rumore, e mi fai scivolare in mano una busta di carta. Mi baci sulle labbra, leggermente, tracciandomi con la punta delle dita i contorni del viso, le labbra, il collo. Sfiorandomi i capelli, leggero, già quasi assente. Un attimo, e non ci sei più.

      In camera giaccio sul letto per ore, incapace di stabilire se si è trattato di un incontro reale o se ho solo visto un fantasma. Improvvisamente, mi ricordo della busta bianca.

      La apro, e mi scivola in grembo una foto di me e te, dieci anni fa, in una giornata di pioggia, di addii e di sorrisi incerti, buoni solo per mascherare le lacrime. Insieme alla foto, un dvd , In the mood for love di Wong Kar-wai.

      Dovevo saperlo. D’altro canto, è iniziata con un film sulla solitudine, sull’incomunicabilità e sugli addii spezzati, non poteva che finire allo stesso modo.

      Sul dvd, un post-it giallo: Singapore, tra dieci anni.

      Spengo la luce e mi infilo a letto vestita, il post-it appiccicato sul cuscino accanto al mio.

      Gli amori impossibili sono gli unici che possono durare per sempre.

                                                           **********************
       

       
       
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    • Confessioni del triste e solitario scrittore Telemaco Storti (un breve, brevissimo racconto)

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2013
      A tutte le cose che potevano essere, e non sono state

      Una vita sola non è sufficiente a contenere tutte le vite che vorremmo vivere, tutte le persone che vorremmo essere.
      Una vita sola è un tempo così lungo che pare tendere all’infinito, un labirinto di scelte obbligate una volta intrapreso il cammino in una direzione, un contenitore troppo piccolo che si riempie troppo in fretta di delusioni e di rimpianti, non lasciando spazio a sufficienza a sogni, speranze, illusioni, che soffocano per mancanza d’aria.
      Quand’ero piccolo il mio gioco preferito era farmi portare in macchina per ore attraverso l’intrico di strade della città – oh, se mi sembrava immensa – e osservare la gente, studiare le persone, cercare di abbinare ad ogni volto un nome, una storia, immaginare se assomigliasse di più al padre o se avesse il naso e gli occhi della madre. Guardare dentro le finestre e cercare di immaginare come vivessero quelle persone, quelle famiglie, immaginare di far parte della loro vita, di essere loro, tutti loro, sul divano di pelle bianca a guardare la televisione, in balcone a mangiare anguria su un tavolo di plastica bianco coperto da una tovaglia a scacchi, nella finestra dell’appartamento di universitari a cantare accompagnati da una chitarra, in una piccola stanza dalle pareti verde oliva a studiare di notte, o a scrivere lettere d’amore, sospirando.
      Mi chiedo cosa sarei stato – cosa avrei scelto di essere – se non fossi divenuto quello che sono, uno scrittore scorbutico e solitario – nemmeno tanto di successo, eh.
      Un uomo chiuso e orgoglioso che dorme di giorno e sogna ad occhi aperti di notte. Un inetto, così spaventato di aver scelto la strada sbagliata da accontentarsi di vivere attraverso le vite degli altri, personaggi fittizi attraverso i cui occhi filtro il mondo.
      Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se fossi riuscito ad evadere da quell’oscurità, da quello schermo, da quei mugugni e avessi invece abitato il mondo, vestendomi a festa, adobbandomi di un sorriso. Per te.
      Ma non posso fare altro che nascondermi tra le poltroncine dell’ultima fila e guardarti danzare.
      Nella danza si svolge la vera essenza di te: quella bellezza algida e fredda come un diamante, quella maniacale tendenza al perfezionismo, quell’ossessiva attenzione alla forma, quell’instancabile cura dei particolari.
      Un occhio estraneo e poco allenato si soffermerebbe ad osservare soltanto la linea elegante del tuo collo di cigno, quell’incavo tra spalla e attaccatura del collo suddetto su cui fermarsi a sospirare fino a morirne.
      Si lascerebbe trascinare dall’indescrivibile grazia del tuo corpo allungato, annegando le pene dell’anima nell’armonia fluida dei tuoi movimenti liquidi. Quando danzi non sei della terra: sei d’aria e d’acqua, eterea, divina, eterna. Il tuo corpo non ha contorni nè confini: è infinita poesia di pennellate di colore, sfumate.
      Solo questo osserverebbe l’occhio acerbo e distratto, la rosea, ingenua conchiglia da bimba delle tue orecchie, la tenera attaccatura dei tuoi capelli di miele scuro raccolti nel perfetto ed impassibile chignon di rito. E si perderebbe la luce incredibile dei tuoi occhi, quella luce così chiara, quasi trasparente, che si infiamma di un entusiasmo quasi infantile quando parli delle cose che ami, che splende di un’estasi ebbra quando danzi.
      Eri un mistero troppo semplice, una poesia troppo piena di prosa per un orso come me. Incarnavi ed impersonavi paure ataviche, le stesse che vengono a stanarmi nelle mie notti da vampiro, che scaricano velate minacce nelle mie orecchie stanche, che stendono l’ennesima pennellata di grigiore, disegnano l’ennesima ruga, marcano i contorni delle borse sotto i miei occhi vitrei.
      E, quando alla tua perentoria  richiesta, in contrasto col tono di voce timido, sussurrato – portami a ballare – ho grugnito no, io non ballo mai, i tuoi occhi grigiazzurri hanno riassunto in un istante quel freddo distacco, frutto di un’antica abitudine, e mi hanno licenziato con un impercettibile ma imperioso scrollare delle tue spalle sottili, con un’ombra di sorriso tirato.
      Così ora non posso che eternarti a musa, cercarti in ogni personaggio, rincorrerti tra le parole, farti malinconica eroina di tutti i miei racconti, alla ricerca di un altro finale. Cantarti in ogni poesia, celebrarti in ogni verso, accarezzarti i capelli sottili in ogni rima, cercare di raggiungerti tra un enjambement e l’altro.
      Così ora non posso che nascondermi tra le poltrone dell’ultima fila, mentre interpreti una Giselle o un’Aurora o un’Odile o un’Odette o una Clara dagli occhi incredibilmente, straordinariamente luminosi, ed essere il primo a lasciare la scena, quando le luci si accendono ad illuminare questa perenne ed imperitura imitazione di vita, sempre uguale a se stessa.

      Photo credits: le fotografie che accompagnano il racconto sono opera della talentuosa Chiara Maria Lenzini, ballerina, fotografa, lettrice e molto di più. Grazie 🙂

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    • Dicono di Ofelia

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 1, 2013
      Quando la sera colora di stanco dorato tramonto le torri di guardia,
      la piccola Ophelia vestita di bianco va incontro alla notte dolcissima e scalza,
      nelle sue mani ghirlande di fiori e nei suoi capelli riflessi di sogni,
      nei suoi pensieri mille colori di vita e di morte, di veglia e di sonno…
      Francesco Guccini, Ophelia
      Silvia Camporesi, Dreams are like a white flower

      Dicono che Ofelia fosse bella.
      Non di una bellezza appariscente: di una bellezza lacustre, opalescente, lunare, di pallidi bagliori e trasparenze.
      Dicono che Ofelia avesse la pelle talmente bianca e sottile e fragile che attraverso di essa si poteva vedere la sua anima. E la sua anima era fatta d’aria, e il suo corpo era di muschio fragrante e terra umida della foresta, foglie autunnali d’oro e di rame e acqua. Acqua quieta e immota di un lago metallico, senza tempo; acqua torbida e inquieta, scroscio argentino di una sorgente segreta, nascosta.

      Dicono che Ofelia avesse gli occhi di stelle spente e foglie morte, e lunghi capelli scuri di salici piangenti intrecciati con crisantemi.

      Dicono Ofelia portasse con sé, ovunque andasse, un profumo di assenza, un presagio della sua precarietà e fragilità. Dicono che, sotto il battito delle sue lunghe ciglia scure e arcuate, si celasse un senso di inesorabile addio.

      Dicono Ofelia amasse. Ma non come amano le persone comuni: dicono che amasse dolorosamente, come se l’inevitabile conseguenza dell’amare fosse il perdere. Dicono che amasse così intensamente e disperatemente che un giorno il cuore le scoppiò in petto – un istante, giusto il tempo di un sospiro – lasciandola inerte, per sempre addormentata, per sempre, cullata dall’acqua, per sempre.

      Dicono fosse una piccola ninfa dei boschi, e che sia semplicemente tornata a far parte di quegli elementi – l’aria, l’acqua, la terra – ai quali apparteneva. Un’inevitabile restituzione, un cerchio che si chiude, un ciclo che si completa.

      Dicono che Ofelia vestisse sempre di bianco e non legasse mai i capelli, avesse l’anima trasparente e nel cuore un dolore nero.

      Dicono che Ofelia vivesse di passato, che ignorasse il presente e non credesse nel futuro. Dicono che attraversasse la vita sfiorandola appena, in punta di piedi, tanto che quando camminava sembrava quasi levitasse, senza far rumore. La più terrena e la più celeste delle creature.

      Dicono che Ofelia non credesse nelle cose reali, ma riponesse una fede cieca ed incrollabile negli amori impossibili, nei se e nei forse, nelle strade mai percorse, nei fiori mai colti, nei baci rubati, negli abbracci spezzati.

      Dicono che Ofelia parlasse spesso da sola, e cantasse ai cristantemi e alle foglie d’autunno dolci e malinconiche nenie sul suo amore impossibile, su quell’illusione portatale via, su quel suo povero cuore maciullato a colpi di machete. Sulla sua solitudine eterna.

      Dicono che Ofelia fosse pazza. D’amore e di dolore.
      Il vento della foresta narra che era rara e preziosa, troppo fragile per vivere.

      Dicono che Ofelia, prima di abbandonarsi con ingenua, infantile e cieca fiducia all’abbraccio estremo dell’acqua verde di foglie e di alberi e di boschi e di muschio, avesse cercato di gridare.
      Ma, come nei peggiori incubi, aveva perso la voce, dicono.

      Silvia Camporesi
      Silvia Camporesi
      Kirsten Dunst in Melancholia, Lars Von Trier

       

      John Everett Millais

       

      Nadav Kander, Erin O’Connor posing as Ophelia, 2004
      Tom Hunter, The way home, 2000
      Saoirse Ronan: The Cult of Beauty – Vogue US photographed by Steven Meisel, December 2011
      “Ophelia” remake by Elena Ayllon

       

      Silvia Camporesi

      Photography by Sanchez and Mongiello

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    • Diverso da chi? (un racconto breve)

      Posted at 11:50 pm09 by ophelinhap, on September 25, 2012

      Dal mio punto di vista sembra tutto grande.
      Forse perchè la mia casa segreta è costruita sotto il grande tavolo di legno scuro del salotto. Ho tanti rifugi segreti – uno l’ho costruito sotto un vecchio stendipanni nella stanza che mamma, o meglio Ana, la signora che aiuta la mamma a pulire e cucinare, usa come lavanderia. L’ho ricoperto di vecchi asciugamani e il tetto l’ho ricavato da un lenzuolo strappato. Mi rifugio lì sotto ogni volta che voglio riflettere su qualcosa che è successo e non riesco a capire, o disegnare, o scrivere il mio diario.
      Ma non mi sono ancora presentato, e mamma dice che bisogna sempre presentarsi educatamente porgendo la mano, e non iniziare mai le frasi con “ma”, anche se io l’ho appena fatto…
      Mi chiamo Leo e ho otto anni. A casa tutti mi chiamano Boo, perchè la mamma un giorno, sorridendo con gli occhi tristi, mi ha detto che le ricordo tanto uno dei personaggi del suo libro preferito – però devo copiare il libro dalla copertina, perchè è in Inglese e non lo so scrivere, anche se in Inglese so dire come mi chiamo, i numeri fino a trenta e i colori. Ecco, l’ho trovato: To Kill A Mockingbird di Harper Lee.
      Comunque, questo Boo è un uomo proprio strano, nè giovane nè vecchio, che sta sempre chiuso in casa e non si fa mai vedere da nessuno – mamma dice che io faccio esattamente la stessa cosa quando mi nascondo per ore nelle mie case segrete.
      Quando le ho chiesto perchè Boo si nasconde, mi ha risposto che lui preferisce il suo mondo al mondo esterno, con tutte le ingiustizie, la cattiveria e l’ignoranza delle persone – non tutte ma alcune, molte forse.
      Probabilmente in parte questo è il motivo per cui mi nascondo: non capisco il mondo che mi circonda, e non sono sicuro che mi piaccia.
      La mia casa ha tutti mobili di legno scuro. A mia madre piace tenere le tende chiuse, così non c’è mai molta luce, “la polvere non si vede e i mobili non si rovinano”, dice. A me il buio non piace: anche la notte dormo con la mia lampada magica, che riflette sul soffitto e sulle pareti stelle e pianeti, che mi fanno compagnia.
      A casa mia c’è sempre tanto silenzio. Ho una sorella, Aurora. Lei è più grande di me ma sembra sempre più piccola. Io non ci posso mai giocare.
      Una sera mamma e papà parlavano e non si sono accorti che ero nella mia casa sotto il tavolo a giocare con il Lego, coperto dalla lunga tovaglia ricamata.
      Mamma diceva a papà, piangendo, che forse era per colpa delle cure che aveva fatto perchè non riusciva ad avere bambini che Aurora era nata così. Papà diceva invece che non era vero, altrimenti poi non sarei nato io, che sono “normale”.
      Mamma allora si è messa a piangere e ripeteva mi sento in colpa mi sento in colpa mi sento in colpa è colpa mia è colpa mia devo prestarle più attenzioni.
      Papà lavora tutto il giorno, esce presto e torna tardi, sempre più tardi, nemmeno in tempo per la mia buonanotte. A volte lavora anche il fine settimana o parte per viaggi di lavoro. Devono essere viaggi strani, dove la gente non si diverte, con aerei e treni pieni di papà con l’abito scuro e il portatile con la mela mangiucchiata. Non come la crociera che ho fatto quand’ero più piccolo con i nonni, in cui io stavo tutto il giorno al miniclub, la nonna si abbronzava a bordo piscina e il nonno giocava a minigolf.
      La mamma lavorava prima che Aurora nascesse. Non so bene cosa facesse, ma penso un lavoro importante. Una volta ho trovato una foto di lei tutta bella, elegante e truccata che parlava al microfono.
      Ora sta tutto il giorno con Aurora. La porta alla sua scuola speciale e la va a prendere. Poi la porta da tanti dottori: una dottoressa che si chiama Lafisioterapista, anche se non so se è proprio il suo cognome; un’altra che l’aiuta a parlare meglio e si chiama la signora Logopedista.
      Ana mi accompagna a scuola e mi viene a prendere, mi prepara la merenda, mi stira la divisa e controlla che faccia tutti i compiti.
      Due volte a settimana viene miss Susan ad insegnarmi l’Inglese, e sono le mie ore preferite. Con lei mi diverto tanto perchè inventa sempre tanti giochi per farmi imparare le parole e mi racconta storie. Una volta abbiamo preparato insieme i cookies, dei biscotti grandi con le gocce di cioccolato. Abbiamo sporcato tutta la cucina, ma miss Susan non si è arrabbiata, anzi ha sorriso. Volevo dare un biscotto ad Aurora, ma mamma non ha voluto.
      Una volta a settimana viene il Signor Verruca, anche se non è il suo vero nome. E’ il mio maestro di piano e, anche se suonare mi piace, lui non mi piace per niente, perchè ha l’alito cattivo e la faccia sempre severa. Non sorride mai, e quando si arrabbia con me perchè sbaglio o mi distraggo (gli insetti mi affascinano tantissimo) gli spunta una brutta ruga in mezzo alla fronte.
      Per il resto, non posso invitare i miei compagni di scuola a casa. Comunque, non penso di piacergli granchè, perchè nessuno vuole mai sedersi vicino a me in classe, e ormai sono pochi quelli che mi invitano alle loro feste di compleanno.
      Io non festeggio mai il mio. Quando frequentavo la prima elementare tutti mi invitavano, allora ho insistito tanto con mamma e papà perchè anch’io volevo una festa vera, con i cappellini di carta e i regali e la torta al cioccolato con le candeline e i sacchetti di caramelle per gli invitati.
      Dopo tanti giorni in cui ho rifiutato di mangiare frutta e verdura e di leggere la sera prima di andare a letto, mio padre è crollato e ha convinto la mamma.
      La casa era bellissima il giorno del mio compleanno, quasi come se si fosse vestita a festa anche lei: le tendine erano tirate su e decorate con coccarde, c’erano ovunque palloncini colorati e festoni col mio nome e il numero sette.
      Quel giorno mamma mi ha permesso di stare senza occhiali e di scegliere insieme all’animatrice i giochi che mi piacevano di più. Anche Aurora indossava il suo vestito più bello e un fiocco rosa tra i lunghi capelli scuri.
      Alla prima scampanellata il cuore mi è schizzato in gola e sono corso subito ad aprire. Uno ad uno i miei compagni di classe sono arrivati tutti. Abbiamo giocato, riso, ballato, rotto la pignatta, versato a terra la coca-cola, aperto i regali. Poi è arrivato il momento del taglio della torta e mamma ha portato anche Aurora per la foto. Appena l’ha vista, tutta nervosa che balbettava, Pietro, uno dei miei compagni di classe che mi prende sempre in giro per gli occhiali e per il mio taglio di capelli “anni sessanta”, si è messo a gridare: “Ma tua sorella è handicappata! Leo Quattrocchi ha una sorella handicappata! Handicappata! Handicappata!”. Questa parola sconosciuta, dal suono vagamente minaccioso, continuava a risuonarmi nelle orecchie. Aurora si è messa a gridare e, tutta tremante, si è coperta le orecchie con le mani e si è accasciata su se stessa, come fa sempre quando si spaventa o ci sono estranei. Mamma l’ha portata via tutta preocupata, l’animatrice ha iniziato un torneo di sciarade e la mia torta, la mia bellissima torta al cioccolato, col mio nome e coi miei anni, è rimasta tutta sola, lì, sul tavolo, sulla tovaglia bianca, quella buona, in salotto, dimenticata da tutti, con le candeline mai accese. E io non riuscivo a concentrarmi sul gioco: continuavo a pensare al suono di quella parola misteriosa e proibita – handicappata – e alla mia bellissima torta. Volevo che tutti tornassero di là, anche mamma e papà, e si dimenticassero per una volta di Aurora, e mi facessero spegnere le mie candeline. Volevo cancellare quel suono orribile, quella strana parola dal potere malefico – handicappata.

      Quella sera, mamma e papà sono venuti in camera mia, con la faccia tutta seria, e mi hanno spiegato, abbassando la voce come se qualcuno ci potesse sentire – ma se non c’era nessuno! – che Aurora è “diversa”.
      “Diversa come?” ho chiesto. “Diversa da chi?”
      Mio padre si è stropicciato gli occhi e se n’è andato. Sembrava molto stanco, quasi sconfitto.
      Mia madre mi ha spiegato che Aurora è nata con la sindrome di Down. Per questo sembra piccola come me, anche se ha quattordici anni. Per questo va alla sua scuola speciale. Per questo gli altri bambini la prendono in giro. Io mi sono messo a piangere, perchè non è vero, così gridavo, perchè Aurora è mia sorella ed è bellissima e speciale, perchè loro – lui e lei – devono lasciarla giocare con me di più, portarla fuori, all’aria aperta, farle venire le gote rosee. Farla sorridere.
      Mia madre mi ha guardato con la faccia triste e mi ha dato la buonanotte.

      Dal giorno del mio compleanno ho smesso di giocare con Pietro e con quasi tutti i bambini della mia classe. La mia unica amica è Simona, che si siede sempre con me e passa ogni ricreazione con me. A volte ci scambiamo la merenda, perchè sua madre le fa portare pane e Nutella, mentre la mia mi fa portare sempre e solo cose salutari e bio – anche se non so cosa significa – come le mini carote.

      Simona ha i genitori divorziati, che significa che ha due case diverse e il doppio dei regali a Natale e al suo compleanno, ma significa anche che deve vivere quindici giorni nella casa della mamma e quindici in quella del papà, con la sua nuova moglie e il nuovo fratellino.
      A volte Simona è molto triste, specie quando sta dal papà, perchè le manca la mamma. Pietro e gli altri dicono che è “strana”, è “diversa”, perchè a volte piange in classe e perchè sta tutto il tempo con me, che sono un quattrocchi, con una sorella handicappata, e parlo poco e non gioco mai a calcio.
      Che sono “diverso”.

      Ci chiamano Morticia e Gomez Fester, ma a me non importa, perchè un giorno forse la sposerò, così non dovrà più vivere in due case diverse, e Aurora potrà vivere con noi, e le compreremo un unicorno, e avrà una stanza con un arcobaleno dipinto sulla parete, e il suo parco giochi personale.

      Così mamma potrà riposarsi un po’, perchè passa tutto il suo tempo con Aurora, che sembra sempre più piccola e nervosa. Mamma passa il pomeriggio a leggerle storie, a parlarle con quel tono di voce dolce che vorrei usasse con me, a farle ascoltare musica e spesso dorme anche con lei, perchè mio padre non torna quasi mai a casa. Nemmeno la notte.
      L’altra notte mi sono alzato per andare a bere un bicchiere d’acqua e ho sentito mamma piangere, nella sua stanza, dietro la porta. Parlava al telefono, e diceva cose strane, frammentate tra i singhiozzi: “lei così giovane..ormai lui non può più nascondersi..l’hanno visto..li hanno visti..non torna più nemmeno a casa..lui e lei insieme..non pensa ad Aurora…povera figlia mia, sfortunata e dimenticata…”.
      Mi sono chiesto perchè papà – perchè ho capito parlavano di papà, mica sono stupido – dovesse pensare solo ad Aurora e non a me.
      Ora sono un po’ arrabbiato con mia madre, perchè sta sempre con lei, e tanto con mio padre, perchè avrà fatto qualche cosa di terribile per far piangere mamma e per non tornare mai.
      Non sono venuti nemmeno alla mia recita di Natale, dove io facevo la renna e Simona la piccola aiutante di Babbo Natale. Nessuno dei due.
      Ma ho Simona, e Ana, e Miss Susan, e i miei libri di avventure, con tutti i loro personaggi fantastici.

      La mia maestra ha chiamato mia madre e le ha chiesto di parlare “della mia situazione”.
      Io ho aspettato fuori dalla stanza dei professori.
      Le ha chiesto se mi stesse succedendo qualcosa in questo periodo, se avessi qualche problema, perchè, anche se a scuola sono sempre sono sempre molto bravo, ultimamente sono troppo distratto, silenzioso, assente, triste. La maestra ha detto: “E’ sempre stato un bambino particolare…ma ultimamente è ancora più silenzioso e assente. E’ un caro bambino, ma è pur sempre un bambino speciale…un bambino diverso”.
      Mi sono allontanato, perchè non volevo sentire la risposta di mamma, e perchè in quel momento ho capito che l’opinione dei bambini, per quel che vale, sta meglio relegata nelle case immaginarie, sotto il tavolo del salotto o sotto lo stendino della biancheria, in ogni caso ben nascosta, perchè nessuno la percepisca. Perchè nessuno si accorga che ci sia.

      E ho pensato: Aurora è diversa. Simona è diversa. La sua famiglia è diversa. Io sono diverso. Ma siamo diversi da chi? E chi è normale?

      Posted in Ophelinha scrive | 2 Comments | Tagged Caos calmo, Le notti bianche, Racconti, Storie dietro la storia, Tales of a Surreal Urban Storyteller
    • Soledad (racconto breve)

      Posted at 11:50 pm09 by ophelinhap, on September 8, 2012

      “C’è una candela nel tuo cuore, pronta per essere accesa.
      C’è un vuoto nella tua anima, pronto per essere riempito.
      Lo senti, o no?”

      Rumi

      Il mio nome è Soledad. In spagnolo significa solitudine.
      Mi chiamo così perché mia madre è ispano-americana, e perché sono nata con una maledizione cucita addosso: sarò sempre sola.
      Non sarò mai madre nè moglie, a meno di non voler soffrire tutta la vita. Non sarò neanche semplicemente la donna di qualcuno. Tutti gli uomini che amerò se ne andranno sempre via da me, nel momento esatto in cui avrò iniziato ad amarli e ad avere bisogno di loro.
      La mia è una famiglia matriarcale, e questa sorta di maledizione si tramanda di donna in donna. Forse, come sostiene mi abuela, se mamá avesse pregato di più perchè io fossi un maschio e non una femmina, o se non si fosse sposata con quel gringo da quattro soldi di mio padre, come lo chiama abuela, il mio destino sarebbe stato diverso.
      Per ora sono condannata ad ereditare il passato della mia famiglia: mi bisabuela morta di parto, mi abuela, giovanissima vedova, mamá abbandonata per una gringa molto più giovane di lei e morta di crepacuore.
      La cosa peggiore è che sono molto bella, o almeno così sostiene abuela. Ma io cammino sempre per strada con la testa bassa, e penso solo ai miei studi di medicina. Così potrò essere una donna forte ed indipendente, lasciarmi alle spalle questa terra rossa, arida, bruciata dal sole e, forse, chiudere per sempre questo circolo crudele, una volta per tutte, un giorno.
      Soprattutto, lasciarmi alle spalle Esteban.
      Esteban studia alla facoltà di Filosofia della mia università. È alto e abbronzato, e mi guarda sempre a lungo, senza parlare, coi suoi occhi liquidi d’ambra, da gatto, quasi gialli, che mi fanno sudare freddo anche quando ci sono quaranta gradi.

      Esteban ha le mani allungate, da pianista, e le unghie piccole, rotonde, pulite, da bambino. Da qualcuno che non ha mai lavorato questa terra rossa, che si infila nella pelle, nei polmoni, nel naso. nel cuore.
      Esteban profuma di mandorle amare. Il suo odore mi fa girare la testa, se mi viene troppo vicino.
      Esteban mi guarda sempre da sotto le sue ciglia lunghe, con muto e rispettoso stupore.
      Ma il suo sguardo non mi scioglie le ginocchia e non mi fa battere il cuore. Il suo sguardo scorre nelle mie vene come un fiume d’orrore, mi fa gelare il sangue, mi ottenebra la mente col suo profumo e con la consapevolezza che con lui sarei dannata, dannata, dannata, condannata ad una vita di delirio, crepacuore e lacrime, condannata al destino più antico del mondo che rimane il peggiore destino per una donna: perdere tutto per non ritrovarlo mai più, perdere me stessa e spegnermi in un lento stillicidio.
      Abuela me l’aveva predetto, così come mi aveva avvertita di non avvicinarmi a quella facoltà maledetta, piena di gringos dagli occhi liquidi che fanno tremare le gambe come le foglie del nostro brevissimo autunno.
      Ma io non sono abuela e non sono nemmeno mia madre, di cui resta solo una foto sul comodino della nonna. Da lì mi ammonisce ogni giorno, col suo sguardo giovane e innocente perso nel vuoto, quel mezzo sorriso che non arriva agli occhi, quegli occhi persi nel suo viso di bimba, fissati per sempre nell’espressione stupefatta di chi non ha compreso la sua vita, e il suo destino, e li ha accettati passivamente, lasciandosi morire di inerzia.
      No, io non sono e non sarò mai così: io mi sono spezzata il cuore da sola, giorno dopo giorno, fin da quando ero piccola, per non provare più dolore.
      Un esercizio lento, costante, ma inesorabile ed ineluttabile.
      Ora studierò medicina, diventerò cardiologa e curerò i cuori degli altri perchè non sono riuscita a salvare il mio. Ma salverò la mia vita dal dolore e non affogherò in quegli occhi liquidi. Andrò lontano, lontano da lui, lontano da questa terra maledetta, cotta dal sole, da questa terra di polvere rossa, da questa terra di scarafaggi e iguane, da questa terra senza futuro, senza speranza, da questa terra di stracci e di povertà.
      Vivrò in una grande città, in un appartamento bianco, pulito, asettico, senza macchie, in un appartamento disinfettato e disinfestato dagli spiriti e dal dolore, in un appartamento in cui entrare senza scarpe e lasciare la polvere e lo sporco sul tappetino d’ingresso (non mi libererò mai da quella polvere rossa, me la porterò dietro per sempre, lo so, a ricordarmi chi sono).
      Un appartamento anestetizzato, senza sentimenti, dove bere ogni giorno tisane di cicuta e dormire lunghi sonni senza sogni, senza incubi, senza chupacabras che minacciano di succhiare la mia anima, senza occhi liquidi e torbidi come pantani in cui rischiare di affogare.

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 8 Comments | Tagged Caos calmo, Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller
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