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    • Port William, un posto al mondo

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 2, 2015

      wendellberry

      Trovare il proprio posto nel mondo è uno dei compiti più difficili da eseguire.

      Un posto da chiamare casa, che possa offrire rifugio e consolazione.

      Un posto a cui tornare, che faccia sentire sicuri, protetti.

      Un posto in cui capire chi si è, e imparare ad esserlo, giorno dopo giorno.

      Per i personaggi nati dalla penna magistrale di Wendell Berry quel luogo è Port William, cittadina immaginaria del Kentucky la cui geografia è una geografia dell’anima. Ogni famiglia che la abita ha dato qualcosa di sé a Port William, definendone i confini grazie a linee immaginarie di storie e alberi genealogici, stabilendone l’ossatura a forza di case e fattorie, casupole sul fiume e campi coltivati o abbandonati all’incuria, per caso o per una serie di sfortunati eventi.

      Port William è i suoi abitanti, quei personaggi cari all’immaginario del lettore di Berry e destinati a far breccia anche nell’immaginario del neofita: la dolce, coraggiosa, giovanissima Hannah (poi Coulter), che affronta la prima gravidanza nell’angoscia dell’attesa del marito Virgil, disperso in guerra; il barbiere Jayber Crow, mite e riflessivo, punto di riferimento di tutte le teste di Port William, in senso letterale e figurato; il vecchio zio Jack Beechum, tanto orgoglioso e testardo quanto leale nei suoi affetti e nella sua dedizione agli amici; i coniugi Crop – Ida e Gideon – devastati dalla morte della figlioletta Annie, vittima di un’alluvione; il tormentato Ernest Finley, divorato da un amore tanto silenzioso e impossibile quanto inesorabile e distruttivo.

      Tutti questi personaggi, e la stessa Port William, ruotano intorno ai coniugi Feltner, Margaret e Mat, la luna e il sole dell’intera comunità, un porto sicuro in caso di bisogno, un rifugio per tutti coloro che si sentono persi, o hanno perso la speranza. A casa Feltner tutto, anche la tragedia più inspiegabile – la scomparsa in guerra dell’amatissimo figlio Virgil, la morte della piccola Annie Crop, le sciagure provocate dall’alluvione, il dolore di Ernest, fratello di Margaret – diventa un fardello sopportabile. L’ordine, la tranquillità, la serenità nell’esecuzione di compiti e gesti quotidiani, la dignità nell’elaborazione e nella sopportazione del lutto, la disponibilità a dare una mano a chi ne ha bisogno, l’amore viscerale per la terra: queste sono le colonne portanti della vita dei Feltner, e della comunità di Port William tutta per estensione.

      Mat e Margaret incarnano lo stesso ideale di comunità delineato da Berry nei suoi scritti: il fare parte sempre e comunque di un insieme unitario, in cui nessuno viene lasciato indietro, anche quando sbaglia, anche quando è troppo debole e scoraggiato per combattere. Non esistono ultime ruote del carro, e nemmeno ruote di scorta: ogni parte dell’insieme è importante, ed è essenziale per il suo armonioso funzionamento.

      Quando Gideon Crop impazzisce per la morte della piccola Annie e scappa di casa, Mat organizza una rete di aiuti per l’orgogliosa e dignitosa moglie Ida, per fare in modo che possa mandare avanti la fattoria di famiglia. Insieme si ricordano i ragazzi partiti per la guerra e mai più tornati; insieme si resta incollati alla radio per cercare di comprendere l’indescrivibile orrore di Hiroshima; insieme si festeggia, con dolceamara e forzata, ma al tempo stesso incontenibile, euforia la fine di quella guerra che sembra sempre più priva di ogni logica e razionalità.

      “(Mat) Per tutto il pomeriggio è stato perseguitato dalla consapevolezza incompiuta della bomba e della città distrutta. Ha avvertito la propria mente che cavalcava la cresta della storia come un uomo su un guscio di noce, in una violenza di puro effetto, come se il senso della guerra, separatosi molto tempo prima dalla propria causa, ora sfuggisse a ogni comprensione e procedesse per suo conto. Ha avuto l’impressione che alla fine, senza che lui se ne accorgesse, quegli anni di violenza sono arrivati dov’erano diretti non per ragioni o motivi o desideri umani, ma per la logica della violenza stessa. E tutti gli eventi della guerra sono di colpo trasformati dal loro risultato, anche se non sa ancora dire come e quanto”.

      Nel contesto di una comunità così unita da sembrare indissolubile, da assumere i contorni di una rete di solidarietà che attenua la caduta di tutti, il silenzioso, solitario suicidio di Ernest Finley assume un’eco ancora più tragica, rivestendosi di un’incomprensibile, drammatica assurdità.

      Ernest, tornato dalla guerra con un piede mutilato, investe tutte le sue energie nel lavoro di falegname e nel tentativo di andare avanti come se niente fosse successo e non avesse nessuna disabilità.

      “All’inizio dell’estate del 1919, quando Ernest alla fine era tornato a casa dopo la guerra, i genitori erano ormai morti e la loro casa era stata venduta. Port William si era abituata alla sua assenza e lui era tornato a casa diverso.

      Aveva subito una grave ferita complicata fin all’inizio da un’infezione, e la guarigione era stata lenta e dolorosa. Dopo il congedo aveva passato quasi un anno intero in ospedale. Alla fine, gli avevano riaggiustato il piede alla meglio e quella era stata la cosa più difficile da accettare, una volta guarito: per lui essere curato significava soltanto che sarebbe rimasto storpio. Le ossa e i tendini sbriciolati erano stati rimessi insieme in una mutilazione irreparabile per consentirgli di guarire e vivere. Non c’era ragione, gli dissero, perché non potesse condurre una vita normale. Naturalmente sarebbero stati necessari alcuni aggiustamenti.

      Eppure, quando si era apprestato a lasciare l’ospedale, mentre cercava di recuperare la perdita servendosi delle stampelle come in un impossibile problema di meccanica, era consapevole di aver subito una sconfitta. E sapeva che si trattava di una sconfitta evidente e definitiva che non ammetteva guarigione o rivincita, che non contemplava illusioni che ne mitigassero l’immutabilità. E più che da qualsiasi altro luogo in cui era stato, aveva fatto ritorno a Port William soprattutto da quella sconfitta”.

      Mentre Ernest lavora a casa di Ida Crop, coinvolto nella rete assistenziale stesa da Mat, si innamora di lei, anelando ossessivamente ogni giorno di più alla vicinanza della bella, dignitosa, riservata Ida. Tuttavia, Ernest si rende presto conto del fatto che la sua dirompente, assoluta passione non può essere ricambiata: Ida non ha occhi che per il marito, di cui attende il ritorno con una fede incrollabile. Quando Gideon le scrive di essere pronto a tornare a casa, Ernest non riesce a tollerare il pensiero di quella rinnovata prossimità e si toglie la vita.

      I coniugi Feltner riescono a superare il vuoto immenso di una perdita continua, come un’emorragia grazie al loro reciproco esserci l’uno per l’altra, quel noi che hanno costruito e cementato nei decenni, con fatica e con amore.

      “Le parole di Margaret gocciolano su di lui come acqua e luce. Dolente e illuminato, ora si sente pronto a riavvicinarsi a lei. Scuote la testa.

      Adesso lei lo invita chiaramente e lui si alza e si siede al suo fianco. Le posa il braccio sulle spalle.

      ‘E Mat – aggiunge lei – noi ci apparteniamo. Dopo tutti questi anni, non pensi che significhi qualcosa?’

      (….) ‘Che cosa significhi non lo so’, risponde alla fine. ‘Ma so quanto vale’.

      Mat Feltner, la voce narrante più forte di questa collezione di vite, riesce a superare il buio che minaccia di inghiottirlo dopo la perdita di Virgil, allontanandolo inesorabilmente dalla paziente Margaret, grazie alla sua simbiosi con la Terra, moglie e amante, confidente e nemica.

      Solo rispettando l’inestimabile valore della terra su cui poggia i piedi e dalla quale trae nutrimento e vita, Port William può continuare a esistere come comunità, più forte di guerre, inondazioni e siccità, piantando i semi di quelle che sarà la sua eredità: la comunità di domani.

      “Mentre osserva le cataste di pietre e cerca di indovinare quel poco che è possibile intuire, Mat avverte la consapevolezza di un passato perduto e morto, di un passato remoto privo persino della forza della memoria. E se prima ha resistito a quel pensiero temendo di esserne addolorato, ora non prova nessuna tristezza. Là, in presenza del bosco, nei suoni dell’acqua e delle foglie che piovono, ora non avverte la perdita del passato.

      Avverte invece la sovrumana quiete del luogo, il suo perfetto ordine fortuito. La quiete di un luogo dove l’evento più semplice o improbabile diviene necessità e parte di un disegno, dove la morte può soltanto cedere il passo alla vita. E avverte la distanza tra quell’ordine quieto e la sua costante battaglia personale per conservare e tenere liberi i propri terreni. Anche se dentro di sé il significato di quei terreni e la sua devozione verso di loro restano saldi, capisce senza dispiacere che un giorno spariranno, che l’ordine che ha creato e mantenuto in essi sarà infine travolto dall’ordine istintivo della natura.

      Attorniato dalle foglie scintillanti che gli cadono intorno, Mat si ritrova infine al cospetto del luogo che si stende chiaro e nitido di fronte a lui, radioso come di una luce che emana dal terreno e diventa di colpo visibile. Entra in uno stato di veglia sereno come un sonno”.

      Un posto al mondo, Wendell Berry, Edizioni Lindau, trad. a cura di Vincenzo Perna

      Soundtrack: Mellon Collie and the Infinite Sadness, Smashing Pumpkins

      wb

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      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 4 Comments | Tagged American literature, Edizioni Lindau, Hannah Coulter, Jayber Crow, Letteratura americana, port william, recensioni, Un posto al mondo, Vincenzo Perna, Wendell Berry
    • Shotgun lovesongs

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 29, 2015

      Shotgun-Lovesongs-di-Nickolas-Butler-646x1024

      Mi piacerebbe farvi vedere un’alba dalla cima di un silos del grano, il nostro grattacielo della prateria. Mi piacerebbe farvi vedere quant’è tutto verde durante la primavera, quanto sono gialli i fiocchi di mais anche pochi mesi più tardi, quanto sono blu le ombre del mattino, e i torrenti che svolgono i loro percorsi lenti, la terra che rotola e rotola ancora, torchiata qui e là da orgogliosi fienili rossi, da aziende agricole bianche, da strade ciottolate pallide. Il sole che sorge a est così rosa e arancione, così grande. Nelle fosse e nelle valli, la nebbia che si addensa come un fiume lento di vapore in attesa di essere bruciata via.

      Shotgun Lovesongs, Nickolas Butler, trad. Claudia Durastanti, Marsilio editori

       

      Shotgun, nella lingua inglese, si presta a varie combinazioni e interpretazioni.

      Lo shotgun wedding è il matrimonio riparatore, così chiamato perché il padre della fanciulla violata e offesa si presenterebbe a casa dell’indegno giovine armato di pistola per convincerlo a sposare sua figlia. Se necessario, il simpatico quasi-suocero si vedrebbe costretto ad accompagnare il recalcitrante futuro genero in chiesa armato di forza di persuasione e della sempre fida pistola. Se ormai questi matrimoni forzati diventano sempre più rari negli States, stanno invece prendendo piede progressivamente in Cina, dove vengono chiamati Fèngzǐchénghūn (alla lettera “sposati per ordine del bambino”).

      La shotgun house (grazie, McMusa) è una casa stretta e lunga (solitamente, non supera i 3.5 metri di larghezza). Le stanze sono sistemate una dietro l’altra: la loro struttura è dovuta a un’assenza di spazio per la costruzione di nuovi immobili e al bisogno di offrire case a prezzi contenuti ai ceti sociali più bassi dell’America meridionale, tanto che in città come New Orleans, anche oggi, il 10% di abitazioni rientrano nella categoria shotgun.

      Nel lessico del golf, una partenza shotgun implica che i giocatori partano tutti insieme alla stessa ora da buche differenti.

      Il sequenziamento shotgun è un metodo di sequenziamento del DNA per cui un lungo tratto è fisicamente suddiviso in piccoli frammenti che vengono clonati, sequenziati, e assemblati .

      Durante le uscite di gruppo tra amici, quando giunge il momento di salire in macchina, il primo dei passeggeri che esclama shotgun! guadagna il diritto a sedere davanti, accanto all’autista. Storicamente, l’espressione riding shotgun indicava la prassi, a bordo delle diligenze, di avere una persona armata di fucile (shotgun messenger) seduta accanto al conducente per proteggere denaro o oggetti di valore in caso di rapina.

      Tutte queste espressioni, o quasi, mi trasmettono un’idea di urgenza, un senso di impellente necessità, un’ impressione di velocità; quella stessa urgenza e velocità che hanno spinto Lee, uno dei protagonisti del romanzo di Butler, a scrivere le canzoni del suo primo disco, Shotgun lovesongs. Lee lavora in un vecchio pollaio adattato alla bell’e meglio a studio di registrazione, combattendo il freddo del Wisconsin con un fuoco improvvisato e la fame con le tortillas dei suoi coinquilini messicani. Decide di dargli quel titolo perché si è sentito quasi costretto a scrivere quelle canzoni, a comporre quella musica, come se, per tutto il tempo, qualcuno gli avesse premuto la canna di una pistola contro la schiena. La vera pistola puntata contro Lee è il suo terrore di fallire come musicista, la sua ansia di dimostrare a tutti a Little Wing, il paesino del Wisconsin da cui proviene, che può farcela davvero, il suo desiderio spasmodico di conquistare Beth, la ragazza (poi moglie) del suo migliore amico Henry, con la quale Lee ha trascorso una notte che gli è rimasta appiccicata addosso, quasi una seconda pelle.

      Beth è un po’ il trait d’union del romanzo, narrato a quattro voci (Beth stessa e i tre protagonisti, Henry, Lee, Ronny e Kip, amici d’infanzia, spesso anche rivali). Le loro vite si intrecciano nuovamente quando si ritrovano tutti a Little Wing in occasione del matrimonio di Kip; rivedersi significherà gettare sale su antiche ferite non del tutto risanate e far riemergere prepotentemente i sentimenti di Lee per Beth, portando così la sua amicizia con Henry (quasi) al punto di rottura.

      Lee è ormai ricco e famoso, e apparentemente ha tutto dalla vita: eppure, dopo il rapidissimo fallimento del suo matrimonio con una famosa attrice, il musicista sente il bisogno di tornare a casa, a Little Wing. Essere conosciuto in tutto il mondo non è niente in confronto alla sensazione di essere riconosciuto tra quelle strade che l’hanno visto crescere: durante il matrimonio di Kip, mentre tutti ballano, allegramente brilli, Lee si sente abbracciato dalla sua comunità, quella stessa comunità dalla quale si è allontanato, e vuole tornare a tutti i costi ad appartenere. Lì, tra alcool e sudore, Lee intravede il cuore pulsante e nascosto dell’America come potrebbe essere: una comunità di gente semplice che condivide musica e danza e cibo, anche – e soprattutto – quando le cose vanno così male che la condivisione di questi piaceri essenziali sembra diventare impossibile.

      Quando non ho nessun posto dove andare, torno qui. Torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche. E ogni volta che ritorno sono circondato da persone che mi amano, che si occupano di me. Qui riesco a sentire le cose, il mondo pulsa in maniera diversa, il silenzio vibra come una corda pizzicata milioni di anni fa; c’è musica tra i pioppi tremuli e gli abeti e le querce e persino tra i campi di mais essiccato. Come fai a spiegarlo a qualcuno? Come fai a spiegarlo a qualcuno che ami? Cosa succede, se poi non capisce?

      Butler offre così al lettore un ritratto alternativo del Paese a stelle e strisce: niente capitalismo, né sogno americano. L’America è di coloro che hanno poco – o niente – e lottano ogni giorno per sopravvivere. Solo l’unione e l’appartenenza possono salvare l’individuo: il vero fallimento è restare fuori dalla comunità alla quale si vuole appartenere. Sembra quasi di passeggiare nella Port William di Wendell Berry insieme a Hannah Coulter e Jayber Crow, a ricordare che, una volta che si è parte di un ecosistema, si continua a esserne parte per sempre, condividendone gioie e dolori, lutti e vittorie.

      Shotgun lovesongs è una canzone d’amore all’America come potrebbe essere, come dovrebbe essere, e un inno all’amicizia, quella vera, che resiste alle insidie del tempo e alle prove peggiori a cui la vita può sottoporla.

      Soundtrack: Dancing in the dark, Bruce Springsteen

      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 12 Comments | Tagged Claudia Durastanti, Dreaming USA, Hannah Coulter, Jayber Crow, la mcmusa, Marsilio editori, Nickolas Butler, port william, recensioni, Shotgun lovesongs, Wendell Berry
    • The Ophelinha Gazette#2 – articoli, segnalazioni, aneddoti e curiosità letterarie

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 29, 2015

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      Non so dalle parti vostre, ma qui si preannuncia un weekend di neve e gelo. Quale occasione migliore per rimettersi al passo con tutti quegli articoli e post deliziosamente nerd che avreste sempre voluto leggere, ma non ne avete mai trovato il tempo?

      E quindi sotto a chi tocca!

      ******

      raboni1) Ultimamente abbiamo parlato tanto di poesia, da queste parti, e del suo ruolo. Ecco un articolo che vi spiega perché la poesia dovrebbe piacervi (o, almeno, dovreste provare a leggerla; non esistono scuse tipo: “Ma io la poesia non la capisco”):

      Non vi piace la poesia? Leggete Raboni

      2) Chi mi legge sa che ho scoperto da qualche mese lo scrittore americano Wendell Berry (ad esempio, qui e qui) , ed è stato amore a prima, ultima, eterna vista (come direbbe Nabokov). Siete curiosi di conoscerlo? Qui un po’ di link che potrebbero aiutarvi:

      – il sito della Fondazione Wendell Berry (The Berry Center);

      – un incontro tra Berry e il prof. Greg Hillis, che hanno parlato un po’ di Port William e di Trinità (lo trovate in traduzione sul mio blog qui);

      – il board Pinterest della casa editrice Lindau (al quale contribuisco anch’io);

      – Berry e il suo Kentucky rurale;

      – un macro-blog che raccoglie tutti gli articoli e i post su Berry (ce ne sono anche due miei – qui e qui – purtroppo tradotti con Google Translate (non da me, eh)… per ora.

      berry

      3) Quaranta scrittori dicono la loro sul tema della felicità:

      40 Authors On How To Be Happy

      4) Venti aneddoti e curiosità da lit-nerd da sfoggiare a piacimento a drink e apericena (o magari da tenere per voi, che è meglio):

      20 Literary Facts To Impress Your Friends With

      5) Per tutti coloro che stanno sognando l’Illinois insieme ai Bookriders de La McMusa, imprescindibile la lettura dell’intervista fittizia di Fernanda Pivano a Edgar Lee Masters:

      Pseudo-intervista di Fernanda Pivano a Edgar Lee Masters

      austen6) Momento Jane Austen: come sapete, ieri Orgoglio e Pregiudizio ha compiuto 202 anni. Non potevano quindi mancare un po’ di articoli di austeniana memoria, dedicati a tutte le Janeite (e a tutti i lettori maschi che criticano Jane Austen, etichettandola come “scrittrice rosa” o “scrittrice da femmine”, mentre in realtà non hanno mai aperto nemmeno uno dei suoi libri, perdendosi così le sue macchiette e il suo senso dello humor, nonché la critica feroce alla società inglese dell’epoca e a una certa idea di matrimonio… ma tergiverso):

      – Dieci curiosità su Orgoglio e Pregiudizio (per gli amici P&P);

      – Perché, perché Mr Darcy è così dannatamente affascinante? Borioso, pomposo, permaloso, ma… la sua dichiarazione d’amore a Lizzie (la seconda, eh) farebbe sciogliere anche Olaf di Frozen;

      – Un articolo di ‪Pietro Citati, apparso sul Corriere della Sera lo scorso 8 gennaio, dedicato alle eventuali analogie tra ‪Anne Elliot, protagonista di Persuasione, e Aunt Jane.

      7) Dieci parole coniate da quel simpaticone di PG Wodehouse (grazie a nepente per la segnalazione):

      10 Great Words Coined by P. G. Wodehouse

      brainard8) Un po’ di cose su Joe Brainard:

      – Brainard è adatto anche ai misantropi, apparentemente. Electric Literature dixit:

      On the Stories (Or Lack Thereof) of Joe Brainard

      – Un’ottima recensione di Holden & Company, che è già un tuffo nel suo Mi ricordo.

      E con questo è tutto: la redazione di The Ophelinha Gazette (eteronimi inclusi) vi augura un eccellente fine settimana nerd.

      Posted in Uncategorized | 2 Comments | Tagged American literature, anne elliot, aunt jane, edgar lee masters, electric literature, fernando pivano, giovanni raboni, greg hillis, holden & company, Jane Austen, Janeite, joe brainard, kentucky, la mcmusa, lindau, lit-nerd, mi ricordo, Mr Darcy, nepente, orgoglio e pregiudizio, persuasione, pg wodehouse, pietro citati, poesia, Poetry, port william, pride and prejudice, scrittori e felicità, the berry center, Wendell Berry
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