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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #18: ultime strenne e Giorgio Caproni

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 18, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi

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      Più passa il tempo, più mi sembra che sul Natale si sia già detto tutto. C’è chi lo ama, chi lo detesta, chi lo attende per mesi, chi ci crede fermamente, chi lo depreca. Resta il fatto che nessuno riesce a sfuggire a questa parentesi di luce al neon e vetrine, cibo e regali.

      Non mi piace atteggiarmi a cinica di turno, ma credo da sempre che nel Natale vi sia una vena malinconica, sarà per l’imminente passaggio verso il nuovo anno, per le lucine che ci ricordano come eravamo, entusiasti e leggeri, o per qualche strano arcano che non riesco a spiegare.

      Il Natale risveglia in me quel nodo in gola invisibile che fa riaffiorare ricordi e riattiva una sorta di noia, simile a quella domenicale, elevata a potenza, implacabile e vischiosa.

      A proposito di nodi e ricordi, c’è un racconto, credo di D’Annunzio, di cui avrei voluto discutere diffusamente in questa sede ma che, per una strana coincidenza – magia del Natale? – non ho più trovato, in cui un uomo, follemente innamorato di una donna che non lo ama, seppur malato, finge allegria e sistema fino all’ultima delle strenne natalizie dell’amata, per poi scomparire, del tutto, in silenzio, con discrezione. “Era uno di quegli uomini che preferiscono morire in piedi”, si dice a un certo punto. Lo lessi prima di un Natale di un po’ di anni fa, e pensai, con rabbia tipicamente giovanile, a questi pacchi ricolmi di fiocchi senza significato.

      In quel periodo ero una studentessa universitaria pendolare, amante della poesia e senza un soldo per acquistare regali.

      In un giorno più malinconico di altri, poco prima delle feste, con il grigio sulla testa e dentro, mi trovavo alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Stavo contemporaneamente preparando un esame di letteratura – il programma prevedeva quel racconto sulle “ultime strenne” – e la tesi sulla poesia di Giorgio Caproni, autore che amo. Piena di libri, e di ansia, aspettavo.

      Gli alberi di Natale, accesi in pieno giorno, ammiccavano dall’atrio, quando arrivò il treno.

      Ero così presa dal panico e da un piccolo dolore, affilato, da non accorgermi che io e una mia cara amica eravamo salite sul convoglio sbagliato. Destinazione: “Livorno”. (Livorno, caso vuole città fondamentale per Giorgio Caproni, luogo natìo della madre Anna Picchi).

      Guardando il cielo plumbeo dal finestrino, solo dopo alcune fermate mi resi conto che ci stavamo pericolosamente allontanando da casa.

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      Raccolsi i miei libri in fretta e cercammo il controllore, per scendere alla prima fermata utile.

      Nel viaggio di ritorno mi sedetti vicino a una donna e ai suoi pacchi giganti, colorati, eccessivi. Non riuscivo a muovermi con disinvoltura.

      La forza ingombrante delle feste.

      Sfilai il libro di poesie di Caproni su cui stavo lavorando, ricordandomi vagamente alcuni versi dedicati al Natale.

      Li cercai.

      Nella mia mente risuonavano due o tre parole: “Gesù, portami via…bugia”. Cercavo e ricercavo, dubitando persino della reale esistenza di quelle frasi.

      Ad un certo punto, la rivelazione. Trovata.

      La poesia è “Petit Noël”.

      “S’avvicina il Natale.

      Gesù, portami via.

      La tua è la più bella bugia

      che possa allettare un mortale”.[1]

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      Portami via, sì, pensai in quel momento, porta via me da questo Natale, da questo treno e porta via anche l’uomo delle ulltime strenne, liberalo dal suo amore funesto, dal suo orgoglio e soprattutto dai pacchi natalizi.

      Il treno dondolava piano, i doni della signora rischiavano di cadermi addosso da un minuto all’altro.

      In quei quattro versi c’era tutto.

      Chi conosce la poesia di Caproni sa che il suo agnosticismo lo porta a ragionamenti estremi e spesso tautologici sull’esistenza/inesistenza di Dio e questa poesia, con qualche eco gozzaniana, non fa che ribadire la sua posizione, ricamata qui con la musicalità tipica dei suoi componimenti.

      Caproni affronta il tema Natalizio anche in un altro testo, in cui è insita una critica sociale forte all’emarginazione degli ultimi da parte della società consumistica: “Nel gelo del disamore… / senza asinello né bue… / quanti, con le stesse Sue / fragili membra, quanti / Suoi simili, in tremore, / nascono ogni giorno in questa / Terra guasta!… […]” anche se è in Petit Noël che sembra riassumere meglio i miei sentimenti rispetto a questi giorni gonfi e così distanti da tutto il resto dell’anno.

      Così, “la bella bugia”, allora, fu un tuffo istantaneo nell’infanzia, nel calore di quei giorni lontani a casa da scuola attesi per mesi, di pigiami felpati e mattini luminosi.

      L’ansia si era allentata, rimaneva la malinconia.

      Quando scesi dal treno, il sapore di quei giorni era tutto nella poesia che danzava nella mia testa, come un ritmo impazzito.

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      S’avvicina il Natale, di nuovo. Sono passati anni, ma a volte mi torna in mente quel giorno, i pacchi, il treno sbagliato, l’uomo delle ultime strenne e l’illusione di quel “Petit Noël” che mi fa sempre un po’ sorridere.

      E, per dirla ancora con una poesia di Caproni :“Rullano lontani tamburi. / Auguri Auguri Auguri.”

      (Leggete questo splendido poeta, fatevi un regalo, davvero.)

      E buona “bella bugia” a tutti.

      [1] L’opera in versi, Mondadori, Milano, 1998, p. 859.

      Posted in Letteratura e dintorni | 3 Comments | Tagged Gabriele D'Annunzio, Giorgio Caproni, Manuela Bosio, Parole senza rimedi, poesia, Poesia Italiana
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario: un po’ di Natale, dove meno te l’aspetti

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 25, 2015

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      Nota di Ophelinha: prima di passare la parola a Francesca di Tegamini, che vi offre questo speciale natalizio, vorrei fermarmi un attimo a ringraziare tutti voi che avete partecipato all’#AvventoLetterario, arricchendolo ogni giorni di spunti, curiosità, parole, storie. Questo calendario non sarebbe esistito senza di voi, quindi grazie, di cuore.

      Vorrei anche ringraziare tutti voi che ci avete letto/condiviso/commentato ogni giorno, e augurarvi un felicissimo Natale tramite Bruce Springsteen.

       

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      Il Natale, si sa, è la festa dei buoni sentimenti, dei messaggi edificanti, degli antipasti rigorosamente a base di salmone affumicato, dei regali per forza originalissimi e dei dolcetti allo zenzero. Non capirò mai che cosa la gente ci trovi, nello zenzero, ma va così. A Natale ci sentiamo pronti ad indossare maglioni con le renne, a sorbirci centinaia di cene d’auguri di cui non sempre c’importa qualcosa, a regalare libri a chi non ne ha mai letto uno in vita sua e a decorare le nostre case con uno spropositato numero di lucette e aggeggi super garruli che, in fin dei conti, rallegrano veramente solo i nostri gatti. Nonostante tutto questo, il Natale è bello.

      E ci piace un casino. Il Natale ci piace così tanto che abbiamo sviluppato un nuovo dovere morale: essere incredibilmente felici a Natale. Se il Natale non ti mette addosso una gioia sconfinata, hai evidentemente qualcosa che non va. La gente diffida delle persone insensibili alla magia natalizia, le guarda con sospetto e vago raccapriccio. Che poi è un po’ l’atteggiamento che nutro io nei confronti degli astemi.

      Comunque.

      In nome di quei pochi folli che il mondo emargina perché “nemici” del Natale, ho deciso di andare a cercare del Natale là dove mi sembrava improbabile trovarlo: in un libro di trucide e sconvolgenti piccole poesie meravigliose di Tim Burton, The Melancholy Death of Oyster Boy (and Other Stories). E, manco a dirlo, ho scoperto che il Natale è qualcosa di universale e potentissimo, anche per i mostricciattoli senza speranza.

      Tim Burton che ti racconta il Natale è una specie di tremendo toccasana. Prima che impazzisse e ci propinasse tavanate cinematografiche a ripetizione, Tim Burton ha sempre coltivato un rapporto distorto e molto speciale con il Natale. Più che celebrarlo, ha cercato di scomporlo e di tradurlo in una manciata di concetti essenziali, puri e sinceri. E di portarne lo spirito più giocoso e tenero fin nei recessi più terrificanti dell’universo, trascinandolo alle estreme (e spesso sconfortanti) conseguenze. Potrei star qua a sfornare metafore commoventi, ma facciamo tutti prima a riguardare The Nightmare Before Christmas.

      The Melancholy Death of Oyster Boy (uscito qualche anno dopo, nel 1997) si muove su un binario parallelo. Anzi, somiglia molto al capitolo successivo di quella storia. Perché, in fin dei conti, ci fa vedere che cosa succede una volta che il Natale attecchisce veramente in un piccolo microcosmo da incubo. Perché il Natale prova a farsi amare da tutti, ma non è detto che la faccenda funzioni.

      Ecco qua una mini-rassegna di festose sventure che riusciranno a farvi rivalutare anche il più detestabile dei regali riciclati, devastando  il vostro cuore e colmandovi di mesto stupore.

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      The Boy with Nails in His Eyes

      The Boy with Nails in His Eyes

      put up his aluminium tree.

      It looked pretty strange

      because he couldn’t really see.

      *

      Stain Boy’s Special Christmas

      For Christmas, Stain Boy got a new uniform.

      It was clean and well pressed,

      comfy and warm.

      But in a few short minutes

      (no longer than ten)

      those wet, greasy stains

      started forming again.

      *

      James

      Unwisely, Santa offered a teddy bear to James, unaware that he had been mauled by a grizzly earlier that

      year.

      *

      Stick Boy’s Festive Season

      Stick Boy noticed that his Christmas tree looked healthier than he did.

      *

      Char Boy

      For Christmas, Char Boy received his usual lump of coal,

      which made him very happy.

      For Christmas, Char Boy received a small present instead of his usual lump of coal,

      which confused him very much.

      For Christmas, Char Boy was mistaken for a dirty fireplace and swept out into the street.

      *

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      Buon Natale. Se ne avrete il coraggio.

      Anzi, buona lettura!

      Speriamo che v’arrivi un pezzo di carbone.

      ❤

      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Francesca Crescentini, Il Calendario dell'Avvento Letterario, poesia, Tegamini, The Melancholy Death of Oyster Boy (and Other Stories), The Nightmare Before Christmas, Tim Burton, Xmas is all around
    • What we talk about when we talk about poetry

      Posted at 11:50 am06 by ophelinhap, on June 12, 2015

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      Vedere il Cielo d’estate è Poesia

      Anche se in nessun libro puoi trovarlo

      Le poesie vere fuggono

      scriveva Emily Dickinson, illustrando meravigliosamente la natura schiva della poesia, che elude chi non la cerca senza pregiudizi, col cuore e la mente aperta, l’anima nuda, gli occhi chiusi. Leggere una poesia significa abbandonarsi con fiducia a un flusso di parole che custodiscono significati nascosti, a immagini magiche, mitiche, nelle quali quasi tutto è un’altra cosa.

      Non per niente, Federico García Lorca scriveva che la poesia non cerca adepti, ma amanti.

      Come con ogni amante che si rispetti, il mio rapporto con la poesia non è mai stato semplice, né uguale a se stesso: ma l’intensità non è mai variata. Forse per questo sentire che così tanti lettori evitano la poesia come la peste bubbonica, spesso in base a cattive esperienze in età scolastica, mi rattrista enormemente. Nel tempo ho raccolto un po’ di pregiudizi tra i più comuni, che mi piacerebbe provare ad analizzare, e, ove possibile, a sfatare. Pronti? Via.

      1. La poesia è snob ed elitaria

      La poesia è accessibile a tutti, perché soddisfa un tipo di sete che altre forme di letteratura, o di arte in senso lato, non riescono ad estinguere. Tocca corde sensibili, sazia quel bisogno di conferme, quel sentirsi parte di qualcosa, un uno universale, ma non unico, bensì multiforme, poliedrico, dai molti splendori e sfaccettature. La poesia abbraccia un concetto di umanità secondo il quale nessun uomo è un’isola, e quando suona la campana suona per tutti, e un pezzo di questo unicum muore, per dirla con John Donne – visto che grande fetta del nostro immaginario collettivo, dei nostri modi di dire deriva dalla poesia e non dalla prosa? Un’ulteriore riprova del fatto che Calliope, Erato ed Euterpe  – muse della poesia epica, della poesia amorosa e della poesia lirica- non sono poi così distanti dai comuni mortali.

      La poesia aiuta a non sentirsi soli, a rendersi conto che qualcuno è già stato lì prima di noi, ha vissuto le stesse cose, si è sentito nello stesso modo. Stati d’animo ed esperienze non sono isolate, ma parte armonica di una trama che contribuisce a rendere il particolare universale.

      2. La poesia non vende

      Probabilmente è anche vero, ma non è un motivo per smettere di pubblicarla, no?

      Se acquistassimo tutti le stesse cose, leggessimo esattamente gli stessi libri (ah, le mode) e iniziassimo a pensarla allo stesso modo, su tutto, il mondo sarebbe un posto infinitamente meno interessante.

      3.La poesia è inutile

      Ne siete ancora convinti? Andate e rileggere il punto 1) e un vecchio post sull’utilità della poesia.

      La mia personalissima esperienza è che la poesia ha una funzione consolatoria, alla quale non sempre la prosa riesce ad assurgere. Nel periodo un po’ complicato che sto vivendo, che giustifica la mia latitanza dal blog e dai social media, mi rifugio spesso e volentieri tra i versi, e mi fa un gran bene

      4. La poesia è difficile

      Può esserlo anche la prosa. E, comunque, spesso le cose più belle sono le più difficili.

      Oltre la metrica, oltre lo stile, oltre le infrastrutture, oltre il suo “abito” più o meno pesante, più o meno intricato, la poesia si presenta nuda, semplice, schietta agli occhi del lettore, offrendogli verità individuali e universali.

      4. La poesia è per depressi

      Surreale ma vero, me lo sono sentito ripetere più e più volte. Rieccheggia nelle mie orecchie quel giocherellone di Gozzano ne La Signorina Felicita, ovvero la Felicità:

      Oh! questa vita sterile, di sogno!

      Meglio la vita ruvida concreta

      del buon mercante inteso alla moneta,

      meglio andare sferzati dal bisogno,

      ma vivere di vita! Io mi vergogno,

      sì, mi vergogno d’essere un poeta!

      E penso ai versi pieni di vita e di passione di Pablo Neruda, alle linee di luna e ai sentieri di mela, alla notte azzurra di Cuba e ai rampicanti di stelle tra i capelli.

      E mi vengono in mente alcune poesie di ee cummings, i suoi versi giocosi, i suoi elefanti, uccelli e alberi, le sue metafore ardite, la sua celebrazione della vita e di quel sì che è la chiave di un mondo di parole arricciate. E i gatti e i libri sempre aperti a metà di Wislawa Szymborska, i ragazzi che si amano di Jacques Prévert, la speranza piumata e i poeti che accendono lampade di Emily Dickinson.

      E resto in ammirata soggezione davanti all’incanto e alla meraviglia della poesia, antica come il mondo e sempre nuova, piena di significati cangiati, sempre diversi, che si adattano alla sensibilità e ai bisogni del lettore.

      E ammiro sempre di più il coraggio spavaldo dei poeti, le loro timide rivoluzioni.

      C’è bisogno di poesia, e c’è bisogno di silenzio.

      C’è bisogno di lentezza, e di tempo.

      C’è bisogno di aria, di luce naturale, di ricordarsi di respirare.

      C’è bisogno di un posto da chiamare proprio.

      Fortuna che c’è Wendell Berry coi suoi versi a ricordarcelo (potete leggere il testo originale qui).

      Come essere un poeta

      (un promemoria)

      Trova un posto dove sederti.

      Siediti. Osserva il silenzio.

      Affidati con fiducia

      agli affetti, alle letture, alle conoscenze

      alle capacità – più di quelle che possiedi –

      all’ispirazione, al lavoro, alla maturità, alla pazienza,

      perché la pazienza unisce tempo

      ed eternità. Metti in dubbio il giudizio

      dei lettori che amano le tue poesie.

       

      Respira incondizionatamente

      l’aria non condizionata.

      Evita l’elettricità.

      prenditi tempo per comunicare. Vivi

      una vita a tre dimensioni;

      rifuggi dagli schermi.

      Sta’ lontano da tutto quello

      che oscura il posto dove si trova.

      Non ci sono luoghi profani;

      ci sono solo luoghi sacri

      e luoghi sconsacrati.

      Accetta quello che arriva dal silenzio.

      Cerca di trarne il meglio.

      Di quelle semplici parole che provengono

      dal silenzio, come preghiere

      restituite a chi prega,

      fanne una poesia che non disturbi

      il silenzio da cui è arrivata.

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      Soundtrack: Pour toi mon amour, Thomas Fersen (dall’omonima poesia di Jacques Prévert)

      Posted in Frammenti di poesia | 7 Comments | Tagged Edward Estlin Cummings, ee cummings, Emily Dickinson, Federico García Lorca, Guido Gozzano, Jacques Prévert, Pablo Neruda, poesia, Poetry, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • Dev’esserci un posto.

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 18, 2015
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      William Eggleston

       

      In questo periodo non ho molta voglia di scrivere.

      Prima bugia del caso: ne ho, e molta, anche. Ma, se iniziassi, non scriverei di libri, o di letteratura: darei libero sfogo al turbinio di pensieri e impressioni che mi abita, rendendomi sempre più simile a una casa infestata dagli spiriti. Una di quelle case tristi, che non fanno nemmeno paura; semplicemente, una di quelle case vecchie, trascurate, abbandonate, il cui destino è poi essere dimenticate.

      Se dovessi scrivere, scriverei di paura. Quella paura che prima o poi capita a tutti di incontrare, e che precede solitamente un cambiamento, un tuffo nell’ignoto. Quella paura che si presenta al cospetto delle grandi decisioni, e si siede e resta lì, tra una pioggia fredda di punti interrogativi ed esclamativi.

      Quella paura che paralizza proprio quando ci sarebbe bisogno di agire, di andare, di muoversi per tenere le cose insieme, come ci ricorda Mark Strand. Quella paura che è come una domanda, e si interroga incessantemente – e senza risposte- sulla possibilità che esista un limite al numero di volte per reinventarsi, al numero di case in cui abitare, al numero di lingue da imparare, al numero di persone da amare.

      Per fortuna ci sono persone che l’hanno scritto infinitamente meglio di quanto potrei mai fare io, tipo Bukowski, che, in questa poesia – che vi propongo in traduzione; potete leggere il testo originale qui – cerca disperatamente un posto dove rifugiarsi per scappare da se stesso, al di là della possibilità della morte e dell’insostenibile leggerezza dell’amore.

       

      un finale plausibile

       

      Dev’esserci un posto dove andare

      quando non riesci a dormire

      o non ne puoi più di ubriacarti

      e l’erba non funziona più,

      e non parlo di passare

      all’hashish o alla cocaina,

      parlo di un posto dove andare

      al di là della morte che ci aspetta

      e un amore che non funziona più

       

      dev’esserci un posto dove andare

      quando non riesci a dormire

      che non sia la televisione o un film

      o un giornale

      o un romanzo su una donna

      col clitoride in gola

       

      è non avere un posto come quello

      che fa finire la gente al manicomio

      e causa i suicidi.

      Credo che la maggior parte delle persone

      in mancanza di un posto dove andare

      si rifugi in luoghi o cose

      che soddisfano a malapena,

      e questo rituale tende a consumare

      riducendo a uno stato apatico

      in cui rilassarsi senza speranza

       

      quelle facce che vedi ogni giorno per strada

      non sono venute fuori

      totalmente a caso:

      sii gentile con loro:

      sono riuscite a scappare

       

      Soundtrack: Sink to the bottom, Fountains of wayne

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      William Eggleston

       

       

       

      Posted in Frammenti di poesia, Letteratura americana | 6 Comments | Tagged Charles Bukowski, Confessions of a Dangerous Mind, moods, poesia, Poesia americana, traduzioni
    • Il vino è poesia in bottiglia

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 4, 2015

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      Credit: Matt Taylor-Gross

      Non so voi, ma la cosa che mi rilassa di più dopo una giornata lavorativa lunga e storta (ultimamente, l’80% delle mie giornate) è prendere in mano un libro di poesie.

      La poesia sortisce un effetto su di me che la prosa non riesce a eguagliare: quando sono molto triste o molto scossa, stanca o con la sinusite, felice o innamorata, quando sono talmente irrequieta da non trovare pace per due minuti di seguito, i versi riescono a infondere in me calma, accettazione, prospettiva. Più semplicemente, mi regalano una boccata d’aria, un pensiero di bellezza. La stessa cosa succede quando mi metto a scribacchiare poesie.

      La seconda cosa che mi rilassa di più è un bicchiere di vino, rigorosamente bianco. Non amando la birra né i superalcolici e non potendo bere vino rosso, sono diventata incredibilmente esigente dico a te, Chablis) e sempre più interessata agli abbinamenti eno-letterari.

      In fondo, dovrebbe funzionare un po’ come con lo champagne e le fragole, no? Scegliere la poesia giusta non può che valorizzare un buon vino, e viceversa.

      Ho chiesto quindi aiuto alla mia amica Cinzia Bonfà, master sommelier e giornalista (potete leggerla su bibenda.it o Cosedellaltrogusto.it, seguirla su Twitter e su Instagram).

      Io ho scelto le poesie e l’accompagnamento musicale, Cinzia ha fatto il resto.

      Buona lettura (con moderazione).

      Ndrm (nota della redazione mia): il titolo del post è una citazione di Robert Louis Stevenson, tratta dal suo memoir di viaggio The Silverado Squatters, cronistoria del suo viaggio di nozze con Fanny Vandegrift a Napa Valley, California nel 1880.

      Patrizia Cavalli

      E se mi guardi davvero e poi mi vedi?

      Io voglio che stravedi non che vedi!

      (da Datura, Einaudi editore)

      L’abbinamento di Cinzia:

      Mi piace la destabilizzazione perché mi scuote e mi fa sentire viva e lo Champagne Franck Pascal Cuvée Emeric Extra Brut, dosato al minimo, lo ha fatto in modo prima elegante e poi impetuoso, presentando una personalità poliedrica.

      Assorta nel brillìo di un tulle dorato ne scrutavo anche gli indolenti riflessi ramati nascosti da un sottilissimo perlage.

      Un biodinamico lunatico, questa Cuvée Emeric di sole uve Pinot Meunier, perché cambia d’abito velocemente in un crescendo di profumi provocanti quali il pain grillé, la cotognata e richiami di terra umida e un che di metallico. Affascinante e ingannevole poesia dei sensi…

      Soundtrack: Joni Mitchell, A case of you

      Patrizia Valduga

      Cos’è l’amore che mi mandi intorno?

      Libido narcisistica con tanto di biglietto di ritorno.

      Cosa farfugli di fusione mistica?

      Ochetta che s’impanca…

      L’amore è in ciò che manca, è l’Io che manca.

      (da Lezione d’amore, Einaudi editore)

      L’abbinamento di Cinzia:

      Il Ruinart Blanc de Blancs è un abbraccio tra l’eleganza e la potenza dello Chardonnay in purezza.

      Dorato, brillante con perlage che si eleva al cielo ma che rimane ancora un po’ sul bordo del calice; rimane lì in attesa di finire il suo meraviglioso respiro. La cremosità e il lungo ricordo del passaggio nel palato edificano un “sì”, un sì all’attimo fuggente, a ciò che non ritorna, a quel treno che passa una volta e che con “lui ” (#Champagne) può ritornare.

      Soundtrack: Between the bars, Elliot Smith

      Edgar Lee Masters

      Sarah Brown

      Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino.

      L’aria profumata della primavera bisbiglia nell’erba dolce,

      le stelle scintillano, la civetta chiama,

      ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia

      nel nirvana beato della luce eterna!

      Va’ dal cuore buono che è mio marito,

      che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d’amore: –

      digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui,

      hanno foggiato il mio destino – che attraverso la carne

      raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace.

      Non ci sono matrimoni in cielo,

      ma c’è l’amore.

      (dall’ Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi editore)

       

      L’abbinamento di Cinzia:

      Luce 2000 di Luce della Vite, Frescobaldi.

      Il tempo addolcisce le asperità, il dolore e anche i ricordi nella vita, così fa anche con il vino dove il tempo arrotonda, leviga, ammorbidisce creando sfericità nei sapori e negli odori. Pennellate rubino con riflessi granato. Spaziatura dolce, chiodi di garofano, tabacco su una distesa di confettura di fragole. Il calore bilanciato da una bella freschezza e i tannini ammorbiditi dal tempo rendono questo vino splendido e il suo ricordo sempre vivo.

      Soundtrack: Fabrizio De André, Non al denaro non all’amore né al cielo (Si, l’intero disco, ispirato appunto all’antologia di Spoon River)

      Posted in Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Guestpost e interviste | 9 Comments | Tagged American literature, Chablis, Cinzia Bonfà, Datura, edgar lee masters, Einaudi, Enoletteratura, Fabrizio De André, Fanny Vandegrift, Fernanda Pivano, Guestpost, Joni Mitchell, Lezione d'amore, memoir, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga, poesia, Poesia americana, Poesia Italiana, Poetry, Robert Louis Stevenson, Sarah Brown, Spoon River, The Silverado squatters
    • Sylvia Plath. Solitudini e moltitudini.

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 15, 2015

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      Penso spesso alla solitudine di Sylvia Plath.

      Non in modo morbosamente curioso: succede quando leggo una sua poesia, quando sfoglio i suoi diari (ritrovando tra le sue parole tanto di me, più di quello che vorrei), quando ripercorro le tappe della sua vita attraverso le sue lettere – quasi come sfiorare una persona cara al buio, riconoscerne i tratti, colline di guance e vallate di collo.

      Penso a quanto si sia sentita sola, quella sera di febbraio del 1963. Così sola che nessuno sarebbe più riuscita a toccarla, pelle e anima, che nessuno sarebbe più riuscito a guardarla e vederla, veramente. Sola di quella solitudine che ti avviluppa tutta e diventa una seconda pelle scomoda, appiccicosa, sudaticcia. La pelle di qualcun altro.

      Così sola che nessuno sarebbe più riuscito ad ascoltarla – non sentirla, ascoltarla – e capire quella voglia di gridare e battere i denti e strapparsi vestiti e capelli di dosso ed esorcizzare tutto quel dolore, quella stanchezza di secoli, quell’impossibilità di rassegnarsi al flusso degli eventi, di vivere giorno per giorno.

      Penso a quanto debba aver lottato per anni senza mai rassegnarsi alla mediocrità, senza riuscire a cercare pace, cercando qualcosa e qualcuno da amare così tanto da farle male, da farla sentire profondamente, inesorabilmente viva. Da distruggerla.

      Penso a quanto debba aver avuto freddo, quella notte, nel suo appartamentino londinese. Così freddo da essere scossa da brividi dalla testa ai piedi, lame di gelo conficcate tra le scapole, stalattiti di ghiaccio a perforare il cuore, con la convinzione recondita di non riuscire mai più a provare l’abbraccio del calore. Un abbraccio capace di liberarla da quell’inverno perpetuo e riportarla nelle sue amate spiagge della East Coast, la pelle giovane sporca di sabbia bianca e tostata dal sole, i piedi immersi nell’acqua trasparente come quando, a due anni e mezzo, la madre le aveva annunciato l’arrivo del fratello Warren, e Sylvia aveva preso coscienza di essere parte del tutto ed essere al tempo stesso un essere autonomo, con limiti e confini ben delimitati.

      Penso a quanto dovesse avere fame. Non fame di quel pane e quel latte che avrebbe lasciato per la colazione dei suoi bambini: fame di vita, così tanta da esplodere, fame di balli e vestiti che lasciavano le spalle scoperte e macchine decappottabili e ragazzi alti Ivy League e scarpe a tacco e vento tra i capelli . Fame di parole, parole partorite dal sangue e dall’inchiostro che trovavano la loro collocazione in strutture retoriche perfette, parole che messe tutte insieme avevano senso, davano un senso al dolore, all’alienazione, all’impossibilità di essere capite, a quell’amore così assoluto da tradursi nell’impossibilità di respirare. Nostalgia di un tempo in cui quelle parole, quei versi, quelle frasi si facevano ricettacolo di una rabbia muta e sorda, e sfamavano la necessità di capire, di capirsi, di riconoscersi.

      Penso a Sylvia, seduta a tavola, il capo chino sulle mani, a ripercorrere la trama dei suoi errori, di tutte le cose che avrebbe potuto fare meglio, di tutte le cose che aveva voluto fare e non aveva mai fatto. Quella lettera di rifiuto alla scuola estiva di Harvard, quell’esperienza newyorkese che sapeva di cocktail andati a male, le poesie più belle che non avrebbe mai scritto, Ted. Quella pantera che le aveva strappato la fascia dai capelli e aveva preteso di cibarsi del suo cuore. Quel poeta dal quale si era spesso sentito oscurata, e dal quale, al tempo stesso, era incoraggiata a scrivere, a fare di più, a fare meglio. Quello stesso Ted che avrebbe poi scritto Birthday Letters, uno struggente commiato in versi (che emana anche l’odore pungente di una catarsi tardiva dai sensi di colpa) dalla moglie abbandonata, ormai morta, che fa intravedere in quella stanzetta londinese anche la sua ombra: un’ombra scomoda, che non c’era quando Sylvia ne avrebbe più avuto bisogno. Too little, too late.

      Penso a Sylvia, che ha amato così tanto Ted senza forse mai conoscerlo veramente, e a Ted, che proprio non riesco a farmi stare simpatico, che forse ha amato Sylvia senza mai capirla a fondo. Senza mai vederla davvero, quella bellissima ragazza di vetro incrinata da tante, troppe fragilità.

      E penso a Sylvia e ai suoi bambini, a Nicholas e Frieda. Penso al dolore struggente di una madre che sa che non li vedrà mai crescere, che li abbraccia col cuore, con gli occhi, con la memoria, nella quale rimarranno sempre piccoli, nella quale non cresceranno mai. Sylvia non sarà con loro il primo giorno di scuola, non nasconderà i loro regali sotto l’albero di Natale, non asciugherà le lacrime delle prime delusioni d’amore, non assisterà alla loro cerimonia di laurea.

      Cerco di immaginarmi come sia stato, quando tutto è diventato troppo, quando il peso di se stessa, l’orrore di convivere con se stessa, il peso delle responsabilità e di tutte le decisioni moltiplicate per tre sono diventati semplicemente insopportabili. Ripercorro i suoi passi silenziosi, forse scalzi sul pavimento gelido, rivedo quelle azioni così semplici e quotidiane eseguite con maldestra maestria per l’ultima volta: aprire il frigo, versare il latte nei bicchieri, affettare il pane (sentire la lama fredda del coltello contro la guancia, indugiare in una voluttà momentanea, un desiderio di sangue: il sangue della ferita di Ted dopo quel morso irruento di Syvvy alla prima festa, il sangue mensile, il sangue dell’imene lacerato di Esther Greenwood; ma non è così che deve finire).

      Penso a Sylvia che prepara con cura gli asciugamani col monogramma (magari SH, non SP) e tappa ogni fessura con cura maniacale, il suo modo di accomiatarsi.

      E penso a Sylvia, sdraiata per terra sul pavimento gelido, cercando di colmare quella voragine nel cuore che, nonostante tutto l’amore e le parole e i ricordi e i successi, diventa sempre più profonda, aspettando che il suo cuore esploda, sperando con tutta la se stessa che le rimane di trovare pace.

      Tutto questo Katie Crouch l’ha raccontato molto meglio di me qui. Perché, quando quella particolare campana ha suonato, ha toccato – e continua a toccare, e a scuotere nel profondo – migliaia di non isole che abitano acque agitate, e che hanno bisogno di non sentirsi soli come Sylvia, quella notte. Hanno bisogno di dissetarsi di versi che testimonino che qualcun altro, un giorno, una notte, si è sentito esattamente nello stesso modo, e ha trasformato la rabbia e il dolore in energia creativa, in poesia immortale. La solitudine di una donna in una freddissima notte di febbraio è diventata il cuore pulsante di una moltitudine viva, vitale, vibrante: tre aggettivi che Sylvia – sia quella bionda che quella bruna – avrebbe amato.

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    • e.e. cummings, tutto minuscolo

      Posted at 11:50 pm03 by ophelinhap, on March 30, 2015

      cummingsbe of love (a little) more careful
      than of everything
      guard her perhaps only
      A trifle less (merely beyond how very)
      closely than nothing
      remember love by frequent
      anguish (imagine
      her least never with most
      memory)
      give entirely each
      forever its freedom

      (dare until a flower,
      understanding ceaselessly sunlight
      open what thousandth why
      and discover laughing)

      sta’ un po’ più attento all’amore

      più che alle altre cose

      proteggila forse soltanto

      un po’ meno

      (appena più di molto)

      vicino

      ricorda l’amore con tormento

      frequente (non immaginarla

      mai di meno

      con tutta la memoria possibile)

      le due metà per sempre libere

      (osa fino a quando un fiore,

      comprendendo la luce imperitura del sole

      sboccerà con mille perché e

      imparerà a ridere)

      Stare attenti all’amore. Prendersene cura, un po’ più di quanto facciamo col resto dei sentimenti che popolano le varie sfere del quotidiano. Il problema è che ce lo dimentichiamo troppo di sovente: allora interviene e.e, cummings (si, tutto minuscolo) a ricordarcelo. Lo fa col suo linguaggio un po’ criptico, con le sue immagini delicate di pittore di parole, con un tono leggero e scanzonato, con un verso frammentato che sembra prendere in giro il lettore, lasciandolo sospeso con la promessa di un avverbio.

      Parole come pesci guizzanti, come un torrente d’acqua mai uguale a se stesso. Parole indomabili, impossibili da acciuffare, che sfuggono a ogni tentativo di incasellarle dentro un’interpretazione ben definita. Susan Cheever, nella sua biografia di e.e., scrive:

      Modernism as Cummings and his mid-twentieth-century colleagues embraced it had three parts. The first was the exploration of using sounds instead of meanings to connect words to the reader’s feelings. The second was the idea of stripping away all unnecessary things to bring attention to form and structure: the formerly hidden skeleton of a work would now be exuberantly visible. The third facet of modernism was an embrace of adversity. In a world seduced by easy understanding, the modernists believed that difficulty enhanced the pleasures of reading. In a cummings poem the reader must often pick his way toward comprehension, which comes, when it does, in a burst of delight and recognition.  

      (Il Modernismo, così come l’hanno abbracciato cummings e I suoi colleghi intorno alla metà del XX secolo, era costituito da tre parti. La prima comprendeva gli esperimenti sonori che avevano come scopo quello di collegare le parole alla percezione del lettore. La seconda si concentrava nel tentativo di depurare tutti gli elementi superflui per soffermarsi sulla forma e sulla struttura: lo scheletro, prima nascosto, diventava così prepotentemente visibile. La terza era la volontà di abbracciare le avversità; in un mondo sedotto dalla facilità di comprensione, i modernisti credevano che la difficoltà incrementasse il piacere della lettura. Con le poesie di cummings, il lettore deve trovare la sua strada per arrivare alla comprensione, che arriva –quando arriva – in un’esplosione del piacere del riconoscimento).

      L’arte di vedere deve essere imparata, scriveva Marguerite Duras ne L’amante: cummings, il poeta bambino (aveva composto la sua prima poesia a tre anni), appassionato di disegno, aveva imparato a “vedere” e coltivato un immaginario poetico grazie alle sue fantasie infantili, popolate di elefanti, uccelli, alberi. Sviluppa un suo alfabeto e un suo stile, eliminando la presunzione delle lettere maiuscole, coltivando una punteggiatura fresca, frizzante, riducendo la lunghezza dei versi e conferendo loro un ritmo sinuoso e dinamico, in un’esplosione di sinestesie e suggestioni. La poesia di cummings è un inno al sì, consacrazione e celebrazione vitalistica di tutto quello che e.e. ama:

      yes is a world

      & in this world of yes live

      (skillfully curled)

      all words  

      sì è un mondo

      & in questo mondo di sì vivono

      (arricciate ad arte)

      tutte le parole

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      Un modo originale (e poetico, e bellissimo) di ripercorrere i passi di Edward Estlin, di rivedere il poeta bambino amorevolmente incoraggiato dalla madre, che inizia a raccogliere i suoi versi in un quadernetto intitolato Estlin’s Original Poems, mentre il padre finge di essere un elefante, in omaggio alla musa poetica del figlio, è sfogliare le pagine della biografia Enormous Smallness: A Story of e. e. cummings, a cura di Matthew Burgess, splendidamente illustrata da Kris di Giacomo.

      Una biografia apparentemente destinata a un pubblico infantile che in realtà diventa, mediante i versi e le bellissime illustrazioni che e.e. tanto avrebbe amato, una degna celebrazione di un poeta che voleva restare piccolo, ma che, volente o nolente, è diventato enorme.

      (Tutte le immagini di questo post sono tratte da quest’articolo su Brain Pickings). enormoussmallness10

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    • Wendell Berry, be my Valentine!

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 14, 2015

      Si, siamo tutti d’accordo: San Valentino è un’operazione commerciale bella e buona  (Bridget Jones docet).
      Ma il mondo non sarebbe un posto più bello se ad augurarci un buon San Valentino fosse uno dei nostri scrittori preferiti, tipo…la butto lì, Wendell Berry? (E non perché sia uno degli scrittori più amati dalla sottoscritta, eh).
      Grazie al poliedrico genio creativo degli amici di Edizioni Lindau, yes, you can!

      Preparatevi dunque a celebrare l’amore (o quello che vi pare, fate voi) con le cartoline scaricabili di Wendell Berry. Festeggiate la buona letteratura, i libri che rimangono dentro e cambiano il lettore per sempre, le storie ben raccontate, l’incanto delle parole, tasselli di un mosaico perfetto, con una selezione di frasi tratte da Hannah Coulter e Jayber Crow (e, dato che ci siete, fatevi anche un regalo: leggeteli. Ve ne innamorerete).

      Dato che siamo in vena di regali, ve ne faccio uno anch’io, piccolo piccolo: la traduzione di una poesia di Wendell Berry, Come l’acqua (Like the water). Una poesia che parla, appunto, d’amore. Da leggere mentre ascoltate Ovunque proteggi di Vinicio Capossela, magari.

      E un grazie sonoro e corale a Edizioni Lindau per la bellissima e originale iniziativa.

      Come l’acqua
      di un torrente profondo,
      l’amore è troppo, sempre.
      Non ce l’abbiamo fatta.
      Ne abbiamo bevuto fino a scoppiare,
      ma non possiamo averlo tutto
      o volerlo nella sua interezza.
      Nella sua prodigalità
      sopravvive alla nostra sete.
      La sera scendiamo verso la riva
      per bere fino a riempirci,
      e dormire
      mentre l’acqua scorre
      attraverso regioni oscure.
      Non ci trattiene,
      ma continuiamo a ritornare alle sue acque fragranti
      assetati.
      Entriamo
      nel regno della sua gioia,
      pronti a morirne.

      Like the water
      of a deep stream,
      love is always too much.
      We did not make it.
      Though we drink till we burst,
      we cannot have it all,
      or want it all.
      In its abundance
      it survives our thirst.
      In the evening we come down to the shore
      to drink our fill,
      and sleep,
      while it flows
      through the regions of the dark.
      It does not hold us,
      except we keep returning to its rich waters
      thirsty.

      We enter,
      willing to die,
      into the commonwealth of its joy.

      JCAV

      stanza HC

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    • Sylvia Plath tra poesia e mito

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 10, 2015

      I think I would like to call myself “The girl who wanted to be God”
      (Sylvia Plath, Words)

      paris

      Perché continuiamo a leggere Sylvia Plath, a cinquantadue anni dalla sua morte, e ad immedesimarci nei suoi scritti?
      Perché Sylvia Plath incarna e simboleggia la dicotomia che ogni donna (e, in una certa misura, ogni essere umano) si trova ad affrontare: l’eterna lotta tra essere e dover essere, tra io privato e io pubblico. La disperata ricerca di conformarsi allo stereotipo di ragazza americana (sana, bella, intelligente, simpatica, sportiva, competitiva) cercando di nascondere, dietro questa patina dorata, il suo essere una ragazza di vetro sotto una campana di vetro.

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      Questa dicotomia viene analizzata da Ginevra Bompiani nel suo Lo spazio narrante, e viene messa in relazione con la poetica della Plath.
      Nell’estate del 1954, Sylvia cerca di dare forma concreta (e ironica) alle contraddizioni che le straziano l’anima (l’anno precedente la ragazza aveva cercato di uccidersi ed era stata ricoverata in una serie di cliniche psichiatriche, dove aveva sperimentato una delle sue più grandi paure, l’elettroshock; l’intera esperienza viene raccontata dalla Plath nel suo unico romanzo, The Bell Jar, La campana di vetro) tingendosi i capelli biondo platino.

      Il suo io biondo platino rappresenta il suo tentativo di ribellarsi all’io bruno, “…la grigio vestita, sobria, bevitrice d’acqua, presto-a-letto, economa, pratica ragazza che ero diventata…” (da una lettera alla madre del 13 ottobre 1954).
      Non stupisce dunque che Sylvia abbia scelto come argomento di tesi il tema della doppia personalità in Dostoevskij, né che elementi come lo specchio, l’acqua, il riflesso, le ombre, i gemelli diventino parte integrante dell’immaginario mitico della sua poesia. La cura rigorosa, quasi maniacale della forma e dello stile serve a contenere, a plasmare quelle poesie che “…non sono ispirate da nient’altro che un ago o un coltello o quel che sia” (da una dichiarazione per la  BBC del 1963, prima di un suo reading di poesie).

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      Non c’è tuttavia una contraddizione tra un “io vero” e un “io falso” nella Plath: la poetessa accetta il mondo per quello che è, pur vedendolo come una comunità a lei estranea in cui ha bisogno di essere riconosciuta.
      Per questo motivo Sylvia cerca di conformarsi e di accettare quelle regole che la vogliono studentessa modello, figlia affezionata, moglie innamorata, madre devota. La Sylvia delle lettere è la Sylvia pubblica, la Sylvia bruna: tutta la vita degli affetti appare nelle sue corrispondenze costante e tale da riscuotere l’approvazione dell’Americano medio. Nelle lettere, Sylvia dichiara di amare sua madre, suo fratello, le amiche, i bei ragazzi alti e sportivi.

      pinkLa Sylvia bionda, che non ha bisogno di essere riconosciuta, emerge nelle sue poesie: qui viene fuori l’odio/amore per la madre, garante della Sylvia convenzionale, che si rifiuta di accettare la confusione, i problemi mentali della figlia.

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      Le lettere di Sylvia alla madre sono sempre piene di affetto e di riconoscenza nei suoi confronti, in contraddizione con l’insofferenza e il rancore che emergono in The Bell Jar; Aurelia, la madre-vampiro, non deve, non può vedere sua figlia come quel calice di cristallo, prossimo a frantumarsi, come quella ragazza di vetro dentro una campana di vetro dopo che Ted l’ha lasciata. Silvia, spezzata dal dolore, proibisce alla madre di raggiungerla a Londra.
      Un’altra delle colpe imputate alla madre Aurelia è la morte del padre Otto. Quest’ultimo aveva deciso che sarebbe morto precocemente di malattia e si era autodiagnosticato un tumore, chiudendosi nelle sue stanze e vivendo totalmente alienato dai figli. In realtà, Otto sarebbe morto nel 1940 di diabete. Per Sylvia, il padre avrebbe rappresentato, nel suo immaginario poetico, la volontà di morte.
      Altro rapporto problematico è quello col fratello Warren. A due anni e mezzo, mentre Sylvia cammina sulla riva del mare (che identifica come il suo elemento naturale; appena in grado di gattonare, Aurelia l’aveva portata sulla spiaggia e Sylvia si era diretta con decisione verso l’onda) le viene annunciato l’arrivo del fratello.

      warrenLa bambina, mentre riflette su quest’inaspettata notizia dalle prospettive incerte, avverte per la prima volta la “separatezza” di ogni cosa:

      Avvertii  la parete della mia pelle: Io sono Io. Questa pietra è una pietra. La mia meravigliosa fusione con le cose di questo mondo era finita.
      (Ocean 1212-W)

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      Sylvia definisce quel giorno “l’orribile compleanno dell’alterità”, data in cui ha inizio il suo esilio dall’unità.
      Tutti questi elementi si ritrovano nell’immaginario poetico di Sylvia, che la Bompiani ricollega a quello che Northrop Frye in The Secular Scripture definisce “the Night World”, la terza fase di discesa negli Inferi, nell’utero della terra. Questa fase è caratterizzata da sofferti riti di passaggio, parte del ciclo della morte e della rinascita; da sacrifici umani;  da una progressiva, solitaria alienazione; da figure oracolari e dal tema del Doppelgänger, il doppio, che si ritrova in elementi quali lo specchio.
      Nella raccolta The Colossus (Il Colosso), la figura maschile è legata all’abisso e alle profondità marine. I suoi colori sono quelli dei fondali dell’abisso: il fango, il nero, il verde.
      La figura femminile appartiene invece alla superficie; è algida e fredda, pallida come la luna, bianca come il ghiaccio.

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      La sapienza di questo mondo di uomini marini e vergini lunari è oracolare: la conoscenza non arreca sollievo e non può essere salvifica, ma pura consapevolezza di un destino ineluttabile.
      Il sangue invece è la vita, il suo calore, la terra, il corpo, il sesso: non a caso il primo rapporto sessuale di Sylvia/Esther in The Bell Jar culmina in un’emorragia.

      Le nozze di Sylvia e Ted sono nozze di sangue: nella sua poesia Pursuit (Inseguimento), Sylvia scrive:

      There is a panther stalks me down:
      One day I’ll have my death of him;
      …
      I hurl my heart to halt his pace,
      To quench his thirst I squander blood;
      He eats, and still his need seeks food,
      Compels a total sacrifice.

      (C’è una pantera che m’incalza:
      un giorno me ne vorrà morte.
      …
      Scaglio il mio cuore per fermarne il passo,
      per spegnerne la sete effondo il sangue;
      lui mangia, e ancora il suo bisogno vuole cibo,
      pretende un assoluto sacrificio.)
      (da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).

      ST3Da queste nozze di sangue nasce la Sylvia, poetessa.

      Not easy to state the change you made
      If I’m alive now, then I was dead.
      Though, like a stone, unbothered by it,
      Staying put according to habit.
      You didn’t toe me just an inch, no –
      (Non è facile dire il cambiamento che operasti.
      Se adesso sono viva, allora ero morta
      anche se, come una pietra, non me ne curavo
      e me ne stavo dov’ero per abitudine.
      Tu non ti limitasti a spingere un po’ col piede, no –
      (Love Letter – Lettera d’amore, da Sylvia Plath – Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano).

      Dopo il matrimonio con Ted, la maternità diventa un altro elemento essenziale della poesia di Sylvia: è per la poetessa un’esperienza profondamente simbolica e salvifica, perché trasmette la vita. La madre si rigenera nel figlio, mentre il padre scompare (come Otto era scomparso per la sua volontà di morte, come Ted scompare per inseguire Assia).
      Nel suo poemetto a tre voci Three Women (Tre donne), trasmesso dalla BBC nell’agosto del 1962, la maternità viene rappresentata in tutti i suoi aspetti e tutti i suoi contrasti, senza idilli né idealizzazioni. Le protagoniste sono tre donne: una ragazza madre che abbandona il bambino (il rifiuto); una donna che lo perde (l’incapacità; Sylvia stessa perde un bambino, tra Frieda e Nicholas); la donna che abbraccia la sua nuova condizione di madre (l’accettazione).

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      La Bompiani osserva che il viaggio poetico di Sylvia coincide anche col suo viaggio esistenziale: la maturità poetica coincide con la fine del viaggio.
      Al  Alvarez, saggista inglese che era anche stato amico della Plath, nel suo The Savage God, una riflessione sul suicidio, osserva che “la poesia di quest’ordine è un’arte omicida”: la poesia succhia a Sylvia la vita che le è rimasta, taglia i suoi ultimi legami col mondo, traduce in morte il desiderio di morte. I versi sono specchio ed emulazione di una tragedia per attrice sola, un monologo che vede come protagonista Sylvia, chiusa nella sua campana di vetro, in un freddissimo inverno londinese.
      La poesia, non l’amore, ha fatto nascere e rinascere Sylvia Plath.
      Attraverso la poesia Sylvia Plath conosce e riconosce la realtà, quella stessa realtà che non riesce ad accettare.
      Di quella stessa poesia la ragazza di vetro, la ragazza che voleva essere Dio, muore.

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      Letture consigliate:
      – Ginevra Bompiani, Lo spazio narrante. Jane Austen, Emily Brontë, Sylvia Plath, et al. edizioni
      – Katie Crouch, Making sense of suicide with Sylvia Plath (trovate l’articolo in traduzione qui sul blog)
      – Sylvia Plath, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, trad. Anna Ravano, prefazione a cura di Seamus Heaney
      – Northrop Frye, The Secular Scripture: A Study of the Structure of Romance, Harvard University Press
      – Sylvia Plath, La campana di vetro, Mondadori, trad. Adriana Bottini, Anna Ravano
      – Al Alvarez, The Savage God, Bloomsbury Publishing PLC

      – Andrew Wilson, Mad Girl’s Love Song. Sylvia Plath and Life before Ted, Scribner

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    • The Ophelinha Gazette#3 – articoli, segnalazioni, aneddoti e curiosità letterarie

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 5, 2015

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      È  stata una delle settimane più lunghe della storia (credo di non dormire da 48 ore). Ma non si può saltare un numero della Gazzetta quando Harper Lee decide (di sua spontanea volontà?) di fare un graditissimo quanto inaspettato (e leggermente sospetto) ritorno.

      Che poi la cosa strana è che abbiamo parlato de Il buio oltre la siepe appena una settimana fa a casa di Holden (probabilmente il suo The Quoted American ha qualche potere evocativo che sfugge all’umana comprensione).

      Bando alle ciance, che lo Chablis è quasi finito e i link da spulciare sono tanti. Buon fine settimana di palle di neve (leggo che anche il Bel Paese ha ricevuto una spolverata: così capirete cosa significa vivere Su Al Nord).

      1. Il ritorno di Harper Lee, annunciato dalla Associated Press, ha risvegliato l’entusiasmo di orde di fan di Atticus Finch e della giovane Scout Louise. Quante volte capita che una scrittrice del calibro della Lee torni alla carica, 55 anni dopo la pubblicazione di un classico senza tempo come Il buio oltre la siepe, con un romanzo scritto prima del suo best seller? Il titolo, Go set a Watchman, è di per sé evocativo: potrebbe alludere alla celeberrima scena in cui Atticus passa la notte sotto la cella di Tom, l’uomo di colore che ha deciso di difendere in tribunale, per evitare che venga linciato dalla folla inferocita; o potrebbe alludere a Boo Radley, il taciturno, invisibile vicino di casa (oltre la siepe, appunto) che salva la vita a Scout. Tuttavia, qualche ora dopo gli entusiasmi vengono smorzati da articoli allarmisti che gridano al complotto: l’editor della Lee, in un’intervista rilasciata a Vulture, dichiara di non aver mai avuto tra le mani questa sorta di prequel, che vedrebbe come protagonista Scout adulta; inoltre, la Lee sarebbe praticamente cieca e sorda e soffrirebbe di frequenti vuoti di memoria, e il manoscritto sarebbe stato ritrovato dalla sua legale, Tonja Carter, appena tre mesi dopo la morte della sorella Alice (su Jezebel), strenua paladina della privacy di casa Lee (anche a causa del carattere semi-autobiografico de Il buio oltre la siepe). BuzzFeed Books raccoglie in un articolo gli elementi più controversi del ritorno della Lee. Non so voi, ma io sarò tra quelli che pre-ordineranno il libro e attenderanno con ansia il 14 Luglio (data annunciata dalla Harper Collins per la sua pubblicazione).

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      2. Siete veri book nerd? Scopritelo grazie a questo test.

      lit nerd

      3. Dato che l’11 Febbraio ricorre l’anniversario della scomparsa della mia amatissima Sylvia (Plath: trovate un estratto dei suoi diari qui e un po’ di cenni biografici qui), vi propongo una riflessione sui “nessi infami” tra genialità e suicidio in chiave femminile (su Oubliette magazine).

      sylvia-plath14.  Angolo Joan Didion:

      – un articolo di Ho un libro in testa su Joan Didion e i social media;
      – Joan Didion sulla nostra beneamata The Paris Review;
      – una magistrale recensione di Prendila così dell’ottima McMusa;
      – L’anno del pensiero magico secondo Tegamini.

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      5. Si, San Valentino è solo un’operazione commerciale, come direbbe Bridget Jones, e, diciamocela tutta,  pure abbastanza fastidiosa. Ma, se potessimo regalare/ricevere tre copie vintage de The Paris Review sarebbe un po’ meglio, no? (Purtroppo consegnano solo ai fortunati che vivono negli USA…)

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      6. Una bellissima lettera d’amore vintage indirizzata..ai libri. Su Brain Pickings, ovviamente

      A Vintage Illustrated Love Letter to Books: What They Are, How They’re Made, and Why They Matter to Us, Maria Popova

      Che sia un fine settimana di vin chaud e parole leggere.

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      Posted in Uncategorized | 8 Comments | Tagged American literature, Atticus Finch, Bookworms, Brain Pickings, Buzz Feed, Go set a Watchman, Harper Lee, holden & company, Joan Didion, LaMcMusa, lit-nerd, Literature and Beyond, poesia, Poetry, Scout Finch, Sylvia Plath, Tegamini, The Paris Review
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