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  • Tag: Pip Tyler

    • Meet Jonathan Franzen

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 23, 2015

      Franzie2Franzen non riesce a stare fermo.

      Mentre Saskia De Coster, scrittrice fiamminga, lo presenta, definendolo cantore non solo della società americana, ma portavoce e censore di un intero sistema di valori (quello occidentale) di cui anche noi Europei facciamo parte, lui si agita. Si tocca i capelli in continuazione. Allunga la mano verso la ventiquattr’ore marrone, come per accertarsi che ci sia ancora. Si tocca la faccia (no, non ha il faccione). Giocherella con l’orlo della giacca, poi inizia con le gambe: le allunga, le accavalla, ondeggia nervosamente il piede destro. È adorabilmente impacciato, e appena inizia a parlare si rivela alla mano, ironico, lontanissimo dallo stereotipo di un Franzen algido e distaccato, un conservatore che vive nella sua torre d’avorio e dice no a tutto e si affaccia dalla finestra solo per rispondere alle critiche o criticare/trollare a sua volta.

      jonathan-no

      La prima domanda che gli viene rivolta riguarda il ruolo della letteratura nella sua vita, e quanto effettivamente rispecchi la sua celebre affermazione secondo la quale fiction is a way out of loneliness, una sorta di antidoto e scappatoia dalla solitudine. Franzen sottolina che c’è una differenza sostanziale tra aloneness e loneliness (mentre loneliness è una solitudine negativa, la mancanza di qualcosa o di qualcuno che provoca necessariamente dolore, aloneness è una solitudine positiva, nell’ambito della quale la persona basta a se stessa). La condizione che appartiene allo scrittore (e al lettore) è proprio quello stato di aloneness, che può però diventare alienante nella misura in cui lo scrittore perde il contatto col suo pubblico e con la gente in generale, e si ritrova a pensare che magari a nessuno importi più dei libri. Per questo eventi come i book tour (di cui questa a Bruxelles è una tappa) sono importanti per Franzen: perché si basano sull’idea di esperienza di condivisione collettiva, necessaria per una persona che scrive dalle otto del mattino fino al primo pomeriggio chiuso nel suo ufficio, senza accesso ad Internet (e questa non vuole essere una provocazione: Internet lo distrae, cosi come non riesce a leggere se c’è troppo rumore; anche se, a tal proposito, Franzie ammette di trarre godimento dal rendere la vita più difficile a chi deve scrivere su di lui…).

      Attacca a parlare di Purity, ospite d’onore della serata. Legge due estratti: le prime tre pagine, una crudele, surreale telefonata tra una coppia di ex, che lui riesce comunque a rendere così assurda da risultare divertente, e un breve brano che vede protagonista Leila Heilou, uno dei personaggi minori del romanzo che rivela essere tra i suoi preferiti: una femminista consumata da due uomini, il marito disabile che non si decide a lasciare per i sensi di colpa e l’amante, che si affeziona alla giovane Pip, intravedendo in lei quella figlia che avrebbe potuto avere. Leila gli sta simpatica perché si è incasinata la vita, e a chi non piace un personaggio che ha fatto della sua vita un disastro?

      Leila è una giornalista, e Franzen si ferma a fare un paio di osservazioni sulla categoria: cita Janet Malcolm (autrice di The Journalist and the Murderer, uno studio sull’etica del giornalismo), che parla di seduzione e tradimento. Il giornalista seduce le persone con cui parla, costruisce con loro un legame di fiducia e poi li tradisce, usando le informazioni che gli hanno fornito. Leila è diversa, non riesce a tradire, e Franzen si immedesima in lei, nella necessità di costruire un legame di fiducia col lettore.

      Parte ovviamente la provocazione: anche gli scrittori rubano e imbrogliano, no? (E mi viene in mente Steal like an artist di Austin Kleon). Franzen ha la risposta pronta: speak of yourself, parla per te. Anche se qualcuno dovesse sentirsi esposto in uno dei suoi scritti, si tratta di narrativa, di finzione, anche se poi ammette di aver praticamente stenografato, ne Le correzioni, litigi tra suo padre e suo fratello (Bob, che ha ispirato il personaggio di Gary Lambert, specie nella passione per il barbecue).

      Torna a parlare del primo estratto che ha letto, una lacerante, agguerrita conversazione telefonica tra gli ex coniugi Anabel e Tom Aberant che Franzen è riuscito a rendere esilarante, facendo sbellicare la platea. Confessa che uno dei punti chiave della sua scrittura è proprio questo: la capacità di allontanarsi da quello che scrive, di isolare la vergogna, che altrimenti gli renderebbe insopportabili le sue stesse pagine. L’ironia lo aiuta ad isolare esperienze biografiche e a farle diventare fiction: la distanza gli permette di controllare il materiale senza esserne controllato. Non riesce a scrivere di sofferenza se l’esperienza è troppo vicina: il dolore fittizio risveglia quello reale e va a toccare il lettore stesso. I am looking for recognition, not for simpathy (cerco riconoscimento, non compassione), dice col suo sorriso sornione.

      Cita la Ferrante come esempio di cosa intenda per riconoscimento: leggendo gli scritti della nostra illustre compatriota anonima (o anonimo, chissà) gli è sembrato di trovarsi a Napoli, nonostante la conosca pochissimo. Ed è questo il riconoscimento: ritrovare se stessi in una storia che non è la propria.

      Torna a parlare di vergogna e scrittura. Cita David Means, che gli ha consigliato di scrivere around shame, aggirando la vergogna, tendendole tranelli, cercando una formula che possa funzionare. La formula di Franzen è scavare nella vergogna fino a renderla ironica, ridicola. Lo stesso titolo di Purity vuole fare ironia sull’angosciante ricerca di un irraggiungibile stato di purezza, anche se Franzen confessa di non essere riuscito a pronunciare il titolo per mesi, accarezzando l’idea di cambiarlo in The Republic of Bad Taste: il suono della u gli dava fastidio, rendendogli il titolo icky, not wholesome (sgradevole, immorale).

      È il turno di una delle domande più provocatorie. Franzen appare chiacchierone, affabile, simpatico: perché allora si ritrova sempre nel mezzo di tempestose e controverse polemiche?

      Franzen ci riflette un attimo, poi risponde che la cosa più lusinghiera da pensare è che venga attaccato perché dice sempre la verità. Aggiunge che le sue affermazioni vengono spesso estrapolate da un contesto e presentate come citazioni che, se decontestualizzate, assumono significati molto diversi. Si ritiene un moderato, in un mondo (quello di Internet) dove pullulano gli estremismi, un campo fertile per persone piene di rabbia e di tempo. In un’economia virtuale basata sul numero di click su un link, incoraggiati da frasi forti, da titoli sensazionalistici, nel marasma di Twitter, che non permette di esprimere concetti articolati (try to use a sentence withouth using while or although, sottolinea) – in un’economia del genere non si può essere a favore di un femminismo moderato, né sostenere la necessità di affiancare la lotta contro il cambiamento climatico a quella contro l’estinzione. Franzen, sia come scrittore che come giornalista, crede che la verità stia sempre nel mezzo, e che sia necessario riconciliare gli estremi in un’aurea mediocritas.

      Passa poi ai suoi due anni da studente a Monaco. Afferma candidamente di aver nutrito la speranza to get laid, di portarsi a letto qualche europea: ma il suo proposito fallisce miseramente, e i suoi unici amici sono una coppia di mezza età di Berlino che lo ospita mentre cerca casa. L’esperienza teutonica si rivela quindi inutile a livello di scrittura, ma lo porta a imparare perfettamente il tedesco e a leggere un sacco di letteratura autoctona. Quei due anni rimangono sospesi, diventano un’esperienza sprecata. Franzen decide di tornare in Germania, dieci anni dopo: fa bird-watching, si innamora della campagna teutonica, si fa degli amici tedeschi. E inizia a pensare a Purity.

      Piccola curiosità: la conversazione telefonica tra Anabel e Tom è stata scritta per Freedom, ma Franzen l’ha scartata decidendo, in quell’occasione, di prendere un’altra direzione. Quasi dieci anni dopo, riprende in mano queste venti pagine e non gli sembrano male: quantomeno non deve iniziare da zero (gliene mancano solo 543, in fondo). Andreas Wolf, uno dei protagonisti, ha vissuto nella mente di Franzen come protagonista per un decennio. Franzie si dichiara ossessionato dai suoi personaggi, ma una volta finito il libro non sente più niente per loro. Paragona questo rapporto a una relazione clandestina, una vita segreta conosciuta solo dai due amanti: una volta che la storia (o la stesura di un libro) finisce, rimane una vaga nostalgia per il processo, per la situazione, non per le persone (o i personaggi) coinvolti.

      Inizia la parte dedicata alle Q&A, le domande del pubblico: la prima riguarda il progetto di girare un film tratto da Le correzioni. La domanda lo infastidisce: ribadisce che Le correzioni non è adatto a un adattamento cinematografico. Ricorda inoltre l’anno trascorso a lavorare a un adattamento televisivo dello stesso romanzo per la HBO, nonostante le perplessità della compagna (the good Californian person I live with; Kathryn Chetkovich, Ndrm*); dopo aver lavorato a ben dieci sceneggiature diverse, il pilot viene bocciato e viene invece adattata per la BBC radio.

      Arriva poi la domanda più interessante, quella che tutti avremmo segretamente voluto fare: qual è la frontiera tra recognisable and insane (riconoscibile e folle) nei romanzi di Franzen? Anche lui è entusiasta della domanda, afferma che non avrebbe saputo esprimerlo meglio e dovrebbe scriverselo. Il nesso riconoscibile/folle è cruciale in ogni suo romanzo, a partire da Le correzioni. Cita come esempio la (lunga) scena in cui Alfred Lambert parla con le sue feci: non era sicuro di come i lettori avrebbero reagito, aveva messo in conto di perderne una fetta includendo parti come questa. La sua sorpresa è stata quindi shocking quando alcuni lettori hanno iniziato a contattarlo, ringraziandolo, confessandogli di essersi rispecchiati in alcune delle esperienze raccontate, di essersi sentiti meno strambi, meno alienati, meno soli: per questo Franzen si sente quasi moralmente obbligato a spingere più in là, a espandere limiti e orizzonti.

      L’ultima domanda riguarda How to be alone, nello specifico la transizione da realismo depressivo a realismo tragico per superare la depressione. Franzen fa una faccia buffa, ammette di essere tentato di rispondere che, se non l’ha spiegato sufficientemente nei suoi saggi, non riuscirà a farlo nemmeno oralmente; si rifà invece ad Aristotele, al fatto che il legame fra tragedia e commedia sia così sottile e imprescindibile da diventare, a volte, invisibile.

      Franzen racconta di non essere mai stato clinicamente depresso, ma di aver combattuto con la bestia nera abbastanza da conoscere la sofferta litania del non piacersi, la frustrante convinzione dell’impossibilità che le cose cambino, che qualcosa migliori. Alcune delle persone più divertenti al mondo sono depresse, e si salvano perché riescono a ridere di una nichilistica verità: life is kind of bad.

      A un certo punto annuncia di essere stanco, ringrazia tutti per averlo ascoltato in inglese (in Germania ha parlato in tedesco, e ha trovato l’esperienza molto stancante) e saltella via, per mettersi in postazione per firmare i libri.

      Io e Andrea dell’archivio David Foster Wallace facciamo circa un’ora e mezza di fila (cosa non si fa per due minuti con Franzen…). Risultato: una copia autografata di Purity e qualche minuto di conversazione. E ci siamo detti… no, questo non ve lo dico. That’s a secret I’ll never tell (kudos per chi indovina il riferimento trash-pop).

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      Vediamo se individuate i miei ricci…

      Dettagli dell’evento: Meet The Writer! Jonathan Franzen @ BOZAR, 18 ottobre 2015
      Presentazione e tributo a Franzen a cura di Saskia De Coster, scrittrice fiamminga
      Moderazione a cura di Annelies Beck, scrittrice e giornalista, che lo porta anche a spasso per Bruxelles

      Le foto venute peggio sono mie, quelle venute bene sono della pagina Facebook del Bozar

      Soundtrack: Reading Purity, la playlist che ho creato mentre leggevo il romanzo

      *Ndrm: Nota Della Redazione Mia

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      Posted in Letteratura americana | 23 Comments | Tagged #franzethon, Andreas Wolf, Annelies Beck, Austin Kleon, BBC radio, book tour, Bozar, David Means, Freedom, Gary Lambert, How to be alone, Internet, Jonathan Franzen, Kathryn Chetkovich, Le correzioni, Meet the writer, Pip Tyler, Purity, Saskia De Coster, Steal like an artist, Strong Motion, The Republic of Bad Taste, Tom Aberant, Twitter
    • E se Purity non l’avesse scritto Franzen? (Impressioni di lettura alternative)

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 6, 2015

      purity

      Avete intenzione di leggere Purity, l’ultima fatica letteraria del tanto discusso Jonathan Franzen (per gli amici Franzie)?

      Vi darò lo stesso consiglio che vi ho dato quest’estate per l’altrettanto dibattuto Go Set A Watchman di Harper Lee: spegnete il computer, disattivate il 4G, mantenetevi lontani da Twitter, evitate come la peste Goodreads. Rifuggite dal flusso apocalittico di recensioni che stanno infestando il web, e, se ne avete letta qualcuna, dimenticatevela. Insomma, sospendete il giudizio, onde evitare di corrompere la vostra lettura con visioni preconcette e distorte.

      Già che ci siete, mettete anche un attimo da parte l’annosa questione dell’Internet e dei social media: ci ritorniamo, eh. Nel frattempo, mettetevi comodi e godetevi quello che Purity è veramente: un romanzo meravigliosamente scritto. Non rischiate che l’autore diventi più grande dell’opera: immaginate che lo scrittore sia un anonimo esordiente, un Pinco Pallo qualunque.

      peek

      Il segnalibro è un regalo di Peekabook.it

      Se mi seguite su Twitter, saprete che da settembre mi sono imbarcata in un personalissimo triathlon letterario (ribattezzato #franzethon): Le correzioni, Purity e Freedom (si, in quest’ordine). I motivi sono due: avevo solo letto estratti e articoli di Franzie, e già da tempo volevo rimediare; la tempistica era poi particolarmente opportuna, dato che il 18 ottobre Franzie sarà qui a parlare di Purity (e io, ovviamente, sarò tra le prime file, pronta a lanciargli il mio bigliettino da visita e a dichiarargli la mia infatuazione per lui). Sì, perché durante il mio franzethon (ho da poco cominciato Freedom) mi sono innamorata di Franzie, e della sua incredibile abilità di tratteggiare i suoi personaggi, di scavare dentro di essi ed estrapolarne i segreti più reconditi e impensabili, per far arrivare il lettore, in maniera quasi maieutica, a capire le ragioni dietro comportamenti anaffettivi, irrazionali, apparentemente privi di fondamento o di logica.

      Tanto per cominciare, Purity è questo: una collezione di umanità spezzata, sofferente, esacerbata dalla ricerca di onestà, dall’ambizione alla purezza, e dalla frustrante impossibilità di raggiungere entrambe le condizioni.

      C’è Purity (Pip) Tyler: una ragazza mediamente carina, mediamente intelligente, mediamente interessante, cresciuta in California con una madre misteriosa e iperprotettiva, innamorata di un uomo sposato, più grande di lei, col quale vive in una squallida casa condivisa di proprietà dell’instabile Dreyfuss. Pip ha sulla coscienza $130,000 di debiti studenteschi e il desiderio irrinunciabile di scoprire l’identità di suo padre. Si lascia così convincere da Annagret, un’affascinante tedesca, a partire per la Bolivia e fare uno stage per il Sunlight Project, una fosca organizzazione dedicata alla trasparenza dell’informazione che potrebbe aiutarla a ritrovare suo padre. Conosce così Lui, l’uomo del momento, il carismatico leader del Sunlight, l’uomo più onesto del mondo che lotta per la verità e solo per la verità, uno degli esseri più puri mai esistiti: Andreas Wolf. Anche se allo stesso Andreas e al suo esercito di groupie, rigorosamente donne, fa comodo credere all’irreprensibile reputazione di questo cavaliere senza macchia e senza paura, la realtà non è (quasi) mai quella che si vede: Andreas è un uomo tormentato, che ha costruito la sua carriera di dissidente e la sua fama mediatica quasi per caso, nel tentativo di liberarsi del legame semi-incestuoso con sua madre, che l’ha legato per bene alle sue gonne grazie a una fitta rete di menzogne, nascondendogli la sua infermità mentale e la vera identità di suo padre. Andreas diventa un adolescente arrabbiato, ossessionato dalla masturbazione e dai suoi disegni di donne bellissime e sensuali che elimina subito dopo l’atto, nel tentativo di esorcizzare sua madre e al tempo stesso di mantenerne intatta la purezza genitoriale.

      Ai suoi primi tentativi di ribellione, Andreas, il cui padre/patrigno è una personalità di spicco nella Repubblica Democratica Tedesca, viene allontanato da casa e, dopo la pubblicazione di un paio di poesie pornografiche e un’intervista davanti agli archivi segreti della Stasi, presi d’assalto da un gruppo di dissidenti, viene etichettato come loro leader e raggiunge un’improvvisa – e indesiderata – fama mediatica. Il suo sopralluogo negli archivi della Stasi, la sua determinata ostinazione a far venire fuori la verità, nasce dalla necessità di proteggersi, di proteggere il suo segreto: ha ucciso un uomo, apparentemente per proteggere la bella Annagret, di cui è infatuato, ma di cui si stufa ben presto, perché incapace di amare; la verità è che la sua sete di uccidere risponde al desiderio di sangue del suo alter ego, The Killer, un concentrato di rabbia ancestrale e di desideri incontrollabili che a tratti si impossessa di Andreas, condannandolo a un’eterna lotta col desiderio di morte, con la voglia di uccidere sua madre, le donne che gli stanno intorno, la stessa Purity. Andreas è l’incarnazione di questo rapporto di amore-odio con Internet e i social media di cui si è tanto parlato: si avvicina al web per la pornografia, ma poi scopre che la sua persona pubblica – e social – è migliore del suo se stesso tridimensionale; quello che è un labirinto di dolore, sofferenza, rabbia, bugie e follia diventa, nei social e nella rete, il filo d’Arianna che lo conduce a un Andreas Wolf leader carismatico, paladino della verità tutta la verità nient’altro che la verità, fondatore del Sunlight project, che gli procura anche un bel po’ di denaro e svariate ammiratrici/finanziatrici con cui andare a letto.

      Fino all’arrivo di Pip, l’unica che sembra capace di redimerlo attraverso un legame di sottomissione assoluta a lui; ma Pip, che pure si rivela misteriosamente attratta dalla parte più torbida di Andreas, dalle sue mani di assassino, alla fine scappa, e diventa solo una pedina per disinnescare un’altra di quelle bombe ad orologeria che rischiano di profanare la santità di Andreas.

      franzie 2Tom Aberant (il cui cognome è tutto un programma) è un giornalista vecchio stampo dall’etica professionale integerrima. Crede nei reportage fatti sul campo, nel giornalismo vecchio stile, nelle nottate insonni passate a scrivere pezzi per essere certi che diventino scoop; non crede invece che i social e i vari WikiLeaks e i blogger e gli influencer possano del tutto sostituire questo tipo di giornalismo. Anche l’incorrotto e incorruttibile Tom nasconde un paio di segreti: ha aiutato Andreas ad occultare le prove del suo omicidio. Non ha mai smesso di amare, o meglio, di essere ossessionato dall’ex moglie, l’eccentrica, instabile Anabel, scomparsa da più di vent’anni senza lasciare traccia. Ha una figlia che non conosce, ma che è molto più vicina a lui di quanto potrebbe immaginare. Il pilastro della sua vita, la sua collega e compagna Leila, è sposata con un alcolizzato disabile che non ha il coraggio di abbandonare, anche perché abbandonarlo significherebbe rassegnarsi a essere la seconda donna nella vita di Tom dopo l’eterna, eterea Anabel.

      C’è la madre di Pip, che afferma di chiamarsi Penelope Tyler ed essere povera in canna. O forse è una ricca ereditiera, e la vita che si è costruita è una gigantesca menzogna? In ogni caso, la madre di Pip è uno dei personaggi più affascinanti del romanzo. Si rifiuta ostinatamente di riconoscere (e di vivere) la realtà e vive nel suo mondo di finzioni, una bambina intrappolata in un corpo da grande, che concepisce Purity con un unico scopo: creare un essere perfettamente puro (da qui il nome) da amare in maniera perfetta, assoluta e continua, e da cui essere amata allo stesso modo. Cosa che Pip fa, fino a un certo punto, come viene fuori da uno dei pezzi più belli del romanzo:

      The cabin was dark. Inside it was the sound of her childhood, the patter of rain on a roof that consisted only of shingle and bare boards, no insulation or ceiling. She associated the sound with her mother’s love, which had been as reliable as the rain in its season. Waking up in the night and hearing the rain still pattering the same way it had when she’d fallen asleep, hearing it night after night, had felt so much like being loved that the rain might have been love itself.

      (Il bungalow era buio. Dentro c’erano i suoni della sua infanzia, il picchiettio della pioggia su un tetto fatto solo di tegole e travi nude, senza isolamento o soffitto. Associava quel suono all’amore di sua madre, affidabile come la pioggia durante la sua stagione, Svegliarsi nel corso della notte e ascoltare quel ticchettio continuo, identico al suono che l’aveva fatta addormentare, notte dopo notte, le faceva sentire così tanto di essere amata che la pioggia avrebbe potuto identificarsi con l’amore stesso).

      A un certo punto, tuttavia, le bambine crescono e giunge il momento di affrontare la realtà. Pip chiede alla madre di demolire la loro vita di finzioni e bugie e di ricominciare da zero, costruendo un rapporto paritario; Franzen la ricompensa con un finale degno di Grandi speranze, un trust fund e un ragazzo -James – che per una volta non ha il doppio dei suoi anni, con cui camminare verso il tramonto (o sotto le torrenziali piogge californiane, in questo caso).

      Avete capito allora qual è il fascino di Purity? Ogni parte è dedicata a un personaggio, e sta al lettore mettere insieme i pezzi del puzzle. Ogni parte è uno straordinario affresco di umanità deforme e sconsolata, destina all’annullamento del sé finché costretta a vivere nella negazione del sé.

      La geografia si sposta dalla Germania dell’Est alla Berlino pre e post caduta muro, dalla California a Denver, dal Belize alla Bolivia. Franzen abbraccia un’incredibile varietà di tematiche, dalla doppia faccia dei social media all’onestà intellettuale, dalla persona virtuale alla persona reale, dal sottilissimo confine tra verità e menzogna alla pazzia, dal suicidio agli istinti più brutali nascosti nella parte oscura di ognuno di noi, dalla famiglia all’amore, dal sesso alla morte, dall’ossessione alla fama. Da questo punto di vista, credo possa dirsi il suo romanzo più compiuto, che spazia dalla storia del crollo dell’ex-URSS a WikiLeaks e Assange, filtrando il vissuto storico e i cambiamenti sociali attraverso gli occhi di un’incredibile, variegatissima galleria di personaggi.

      Durante la lettura mi sono creata una playlist di accompagnamento: la condivido con voi, e aspetto i vostri suggerimenti per migliorarla ed arricchirla.

      Ve l’ho già detto che mi sono innamorata di Franzen, vero?

      franzie1

      putiry

      Consiglio di lettura: un buon Pouilly-Fumé

      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 21 Comments | Tagged #franzethon, Andreas Wolf, Assange, Bozar, Dickens, Franzie, Freedom, Go set a Watchman, Grandi speranze, Harper Lee, Internet, Jonathan Franzen, Le correzioni, Letteratura americana, Libertà, Pip Tyler, Purity, Repubblica Democratica Tedesca, social media, Stasi, Sunlight Project, WikiLeaks
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