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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #18: versi “quasi” natalizi di Giovanni Raboni

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 18, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi

      Giovanni_Raboni_1988

      Me l’ero ripromessa. Dài, quest’anno un post felice sul Natale, da regalare al bellissimo calendario dell’avvento letterario di Manuela. Su, coraggio. Ci ho provato. Ho provato a essere allegra e lieta, ma qui sopra, per tradizione, sono la guastafeste del Natale, Manuela lo sa e spero mi perdonerà.

      Che poi sarebbe un errore dire che odi il Natale, solo la festa delle luci e della gioia spesso fa nascere in me qualcosa simile alla malinconia, forse un po’ più tenue.

      Ed eccomi qui, ancora. Come si poteva prevedere, poi, la mia casellina parlerà di poesia.

      Ho tentato di trasgredire e cercare racconti natalizi, romanzi, opere bizzarre che stuzzicassero la mia ispirazione, un po’ di colore e di allegria, e proprio mentre pensavo di averlo trovato… Ho notato che era già stato scritto!

      Allora, mentre mi arrovellavo per trovare una nuova idea, ecco, tra libri e ricordi, ho fatto un tuffo nell’universo poetico, scavando nei versi e pensando al Natale.

      Ho aperto una raccolta di Giovanni Raboni. Poeta milanese, classe 1932 (morto, troppo presto, nel 2004) amatissimo. “Non credo sia adatto”, ho pensato.

      Ma ho continuato a leggere e ho respirato i versi che sento forti, mi sono addentrata nelle pieghe di una vita d’artista al limite tra la gioia e il dolore, in continuo viaggio, lento, tra i giorni e la passione.

      Sfogliando le pagine di questo autore, tra passaggi poetici adorati e disperati, freschi a ogni lettura, anche lontana nel tempo, mi sono ricordata di qualche parola, un frammento, dedicato a dicembre e alle sue feste. Ho cercato nella memoria, nelle raccolte che avevo a disposizione. Non lo trovavo. Il testo in questione, scritto dall’autore in occasione del Natale 1997, era infatti apparso sulle pagine del “Corriere della sera” e i lacerti di testo si erano depositati nella mia mente come una traccia, un ricordo forse delle letture degli anni universitari.

      In “Versi di Natale”, Raboni rivive e reinventa nella sua mente la notte della Vigilia, immaginando l’arrivo di pastori, che riconosce a uno a uno, carne della sua carne e ossa, e spirito, in cui rispecchiarsi.

      L’ottica di tale poesia, certamente, non è quella serena del fanciullo che attende regali o s’incanta di fronte alle decorazioni, ma con lo stesso incanto si vede, tra i versi, il pensiero di un uomo e di un artista che cerca nello scorrere degli anni – il Natale inteso quasi come “confine” – la sua verità e una fonte di speranza possibile, spesso delusa.

       

      Versi di Natale

      Il mattino del mondo è nella notte

      che lo precede, nello zampettìo

      dei messaggeri di frodo sulla neve.

      Niente, si sa, succede quando deve,

      ogni cosa s’adempie in un momento

      che non è il suo. Dentro la carovana

      che s’avvicina immobile alla grotta

      vi riconosco uno per uno, spiriti

      benedicenti, mia carne, mie ossa: e

      imploro di restarvi prigioniero

      nell’amen che separa il ventiquattro

      dicembre dal venticinque dicembre.

      fiocco-neve

      “Il mattino del mondo”, l’inizio di tutto, è già racchiuso in una vigilia vissuta “di frodo”, quasi la visita dei pastori alla grotta fosse un atto di “contrabbando”, non consentito, in una vita in cui spesso l’uomo è esule dalla sua stessa esistenza. La vigilia di Natale, che si compie ogni anno come rito sempre uguale, diviene il luogo di un atto non consentito, perché “niente, si sa, succede quando deve, / ogni cosa s’adempie in un momento / che non è il suo.” E il poeta – spettatore di questa notte – sembra riconoscere ad uno ad uno i pastori, nella comunanza dell’umanità che si ritrova, nuova e uguale, ogni Natale. Li riconosce nella carne, nelle ossa, nello spirito e sogna di rimanere loro prigioniero (incantato, forse, nell’immobile e irreale magia della notte di Natale) in questo “amen” (e così sia, si va verso la fine di un altro anno e l’inizio di una nuova avventura) che separa il ventiquattro dicembre dal venticinque dicembre.

      In punta di piedi, in una notte gelata, tra lo zampettio dei messaggeri, ogni uomo può percepire i propri fantasmi e desiderare di rimanere immobile sulla loro carovana.

      Raboni non è il classico poeta da Natale, come dicevo in precedenza, e lo scrive anche in un’altra poesia: “Ma adesso, adesso – e Cesare che vuole / una poesia di Natale, da me! con l’aria che tira / di peste, tersa, meravigliosa […]” ma proprio nella festività ritrova quella febbricitante eccitazione che è forse lo specchio dell’uomo di fronte al passare inevitabile del tempo, o solo la consapevolezza di non poterlo fermare e di poter solo constatare che l’aria di Natale è un’aria “di peste”, ma anche “tersa e meravigliosa”.

      Tale atmosfera nartalizia c’è anche in un altro componimento dell’autore, intitolato appunto “Mattino di Natale”.

       

      “Gli sguatteri del principe, amico dei miei amici,

      escono di buonora nella piazza

      già coperta di neve

      battendo i denti per il freddo nei loro bianchi grembiali

      e chiamano con grida e casseruole

      gli sparuti passanti: un venditore

      di castagne, un soldato, un suonatore

      di cornamusa, due spazzacamini…

      che s’infilino presto nell’umido portone

      del palazzo e poi giù nelle cucine soffocanti – li aiutino a servire

      nella piccola cappella indicibilmente profana

      un’anatra arrosto sul pavimento.”

      C’è sempre il freddo, la neve già presente nei “Versi di Natale”, e il senso di spaesamento, in un’atmosfera che si fa più profana che sacra, ma anche di forte collaborazione e solidarietà in un Natale povero ma molto umano.

      Così, il Natale di Raboni è una festa di gelo, sì, ma anche di comune fratellanza tra simili in carne, ossa e spirito.

      In questi versi, come possiamo notare, il Natale diventa il pretesto per una riflessione più ampia sulla vita e sulla morte, che non cambiano le tradizioni ma ci trasformano in esse.

      Un incantesimo che ci lascia sempre a bocca aperta, nella notte del mistero in cui forse, anche noi, vorremmo essere prigionieri dell’incanto dei pastori.

      E, per parafrasare i versi precedenti “E Manuela che vuole / un post di Natale, da me! con l’aria che tira” anche quest’anno si dovrà accontentare di un post su chi, il Natale, lo scrive sempre un po’ da lontano e con gli occhi chiusi.

      Ma non ne rimane mai indifferente.

      Tanti auguri a tutti.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario, Uncategorized | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, giovanni raboni, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Manuela Bosio, Natale in letteratura, Parole senza rimedi, poesie di Natale
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #18: il Natale è una spina

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 18, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi

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      (Riflessioni sparse sul Natale nelle poesie di Valerio Magrelli e Vivian Lamarque.)

      Si avvicina il Natale, di nuovo. E con lui, spesso, oltre alle luci e ai regali, il carico di un anno difficile, abbastanza pesante, gonfio di cambiamenti e di ricordi da archiviare.

      Di scadenze che, spesso, non si possono evitare.

      Nonostante, di solito, si aspettino con gioia i giorni delle feste, penso altresì che questi siano il luogo in cui, con frequenza, emergono le ansie per i progetti da portare a termine, per quelli ormai da abbandonare e si facciano sentire in modo più forte le assenze.

      Ecco, la pars destruens del calendario dell’avvento letterario è arrivata, anche quest’anno.

      Probabilmente sto invecchiando, o il mio spirito da guastafeste natalizia si fa sentire come un campanello al cui appuntamento non posso sottrarmi.

      Quest’anno avrei voluto trovare una poesia, qualche cosa che potesse riassumere che cosa è per me il Natale. Ho trovato molti spunti, soprattutto in due autori che amo, Valerio Magrelli e Vivian Lamarque, molto diversi tra di loro, che interpretano il senso del Natale in modo per me molto significativo.

      L’altro giorno, mentre cercavo tra i miei libri un foglio irrimediabilmente perduto, mi è venuta tra le mani una raccolta di poesie di Valerio Magrelli a cui sono molto affezionata, dal titolo “Il sangue amaro”, in cui c’è un componimento dedicato, appunto, al Natale e alle scadenze, all’emergere del tragico quotidiano proprio in vista delle feste imminenti.

      “Natale, credo, scada il bollino blu

      del motorino, il canone URAR TV,

      poi l’ IMU e in più il secondo

      acconto IRPEF – o era INRI?

      La password, il codice utente, PIN e PUK

      sono le nostre dolcissime metastasi.

      Ciò è bene, perché io amo i contributi,

      l’anestesia, l’anagrafe telematica,

      ma sento che qualcosa è andato perso

      e insieme che il dolore mi è rimasto

      mentre mi prende acuta nostalgia

      per una forma di vita estinta: la mia.”

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      In questa poesia, l’autore, con ironia tagliente, ricorda quanto le scadenze e i codici caratterizzino la nostra vita contemporanea, la chiudano in un orizzonte spesso cieco e alienante, quanto siano ancora più sentiti quando il Natale si avvicina.

      La festa è lo scenario di una fitta rete di incombenze, in un tempo che scorre veloce.

      Un’attesa e una scadenza, più dolci, ma con un fondo quasi amaro, sono rappresentate anche in una poesia di Vivian Lamarque, in cui la ricorrenza si trasforma in una speranza d’amore che potrebbe rivelarsi illusoria. Il Natale, in questo caso, è il limite temporale dell’esperienza di cura e conservazione dell’amata da parte dell’uomo che ama.

      “Tienimi ancora un po’ preziosa

      mangiami

      a Natale.”

      Questo “mangiami | a Natale” racchiude una tenerezza che, nella semplicità tipica della poetessa, risulta quasi struggente, come i desideri più elementari. Un’attesa e un’offerta di sé che sembrano rivelare una probabile assenza.

      La stessa Lamarque affronterà il tema delle feste natalizie in altri componimenti, in cui emergerà il senso di pungente malinconia, lieve come neve. In “Camposanto”, infatti, si legge:

      “[…] la neve imbianchina

      medicava il cuore

      e la sua spina.

      (fa rima Natale

      anche con male?)”

      La “spina”, ecco, appare una sorta di pungente malessere, un tormento, relativo ai conti con l’esistenza che sembrano non tornare, nel giro di boa delle feste e del nuovo anno che arriva, insolente. Forse solo la neve la può curare, regalando lo stupore ad un Natale che, tuttavia, fa sempre rima con “male”.

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      Se per Magrelli il Natale rappresenta soprattutto la scadenza del bollino blu, del Canone Rai e altre incombenze burocratiche, in un capovolgimento radicale della sacralità della festa – ricordiamo anche un’altra poesia dal titolo emblematico “Babbo Natale gnostico”, in cui Dio è debole e impotente di fronte alle tragedie della vita umana “Quest’anno il bambinello non ha portato doni, | ma ci ha portato via un ragazzo dolce, appena di vent’anni | ucciso da un pirata della strada.”- per Vivian Lamarque nella festa si legge sempre lo scacco di una realtà dolce e amara, in cui la sconfitta assume, però, la semplicità della filastrocca.

      In “Inverno” si legge:

      ”- Le provviste sono già finite!

      – Hai calcolato male il giorno di Natale”.

      (dialogo tra due formiche)

      In “Regali di Natale”, inoltre, emerge prepotente il senso della distanza di un amore lontano, proibito, con ironica consapevolezza e l’ennesimo riferimento all’amata che si offre come cibo all’amante, irrimediabilmente, volutamente, distante.

      “Per Natale ti faccio i seguenti regali due punti

      caramelle svizzere per quando hai la tosse forte da far paura

      che non mangerai mai

      filtri per quando fumi che butterai dalla finestra

      un bicchiere piccolo per bere di meno figuriamoci

      dei gettoni per telefonarmi una sera da un bar

      una bugia di terracotta per quando avremo buio

      una piccola spada perchè sei il mio amore pericoloso

      e poi anche un pezzetto di me quale vuoi?”

      In tutti e due gli autori il Natale è il luogo in cui non è possibile trovare soluzioni definitive, rimedi assoluti, alla propria nostalgia e al senso di smarrimento.

      Tuttavia, in entrambi i casi, proprio il senso della fragilità dell’uomo è la scintilla che genera il canto.

      Ancora Magrelli in “Babbo Natale gnostico”, con una struggente disillusione, quasi cinica, spegne la speranza di un Natale salvifico:

      “Sta’ nella mangiatoia, accùcciati su un fianco,

      rimettiti a dormire, lascia perdere,

      tanto lo sanno tutti, che ti aspetta la croce,

      vittima, tu medesimo, di questa creazione malvagia

      di cui sei lo smarrito spettatore, la preda

      abbandonata sul ciglio di una curva.”

      Lamarque, in “letterina di Natale”, immagina, invece, il capovolgimento dei ruoli, con Babbo Natale che scrive una letterina a tutti i bambini del mondo:

      “[…] Cari bambini sono stato buono

      proprio buono tutto l’anno

      ecco l’elenco

      l’elenco dei doni

      grazie mille anticipate

      ecco l’elenco

      incominciate:

      Uno sciroppo

      in damigiana

      ho tanta tosse

      e le renne idem

      cento litri di latte

      e cento chili di fieno

      e uno scatolone di medicine

      per quando ho la febbre

      a trentanove

      e non posso uscire

      che nevica o piove.

      Degli stivali

      mi raccomando rossi

      e un berretto nuovo

      e… ccì! eccì!

      e un chilometro di fazzoletti

      e anche un nuovo dvd.

      Ma come?

      E niente a noi?

      «Per quest’anno

      faremo il contrario

      siete d’accordo?

      Non c’è avere senza dare

      per un anno si può fare…»”

      L’esistenza non è un luogo sicuro e le feste, spesso, ne illuminano crepe e imperfezioni. Ma lasciano anche la scia di parole meravigliose che si fanno poesia e che vi regalo, per questo Natale.

      Tenetele strette.

      Tanti auguri a tutti.

      Bibliografia:

      Valerio Magrelli, Il sangue amaro, Einaudi, Torino, 2014.

      Vivian Lamarque, Poesie 1972-2002, Mondadori, Milano, 2002.

      Vivian Lamarque, Poesie di dicembre, con illustrazioni di Alessandro Sanna, Emme Edizioni, 2010

       

       

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #18: ultime strenne e Giorgio Caproni

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 18, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi

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      Più passa il tempo, più mi sembra che sul Natale si sia già detto tutto. C’è chi lo ama, chi lo detesta, chi lo attende per mesi, chi ci crede fermamente, chi lo depreca. Resta il fatto che nessuno riesce a sfuggire a questa parentesi di luce al neon e vetrine, cibo e regali.

      Non mi piace atteggiarmi a cinica di turno, ma credo da sempre che nel Natale vi sia una vena malinconica, sarà per l’imminente passaggio verso il nuovo anno, per le lucine che ci ricordano come eravamo, entusiasti e leggeri, o per qualche strano arcano che non riesco a spiegare.

      Il Natale risveglia in me quel nodo in gola invisibile che fa riaffiorare ricordi e riattiva una sorta di noia, simile a quella domenicale, elevata a potenza, implacabile e vischiosa.

      A proposito di nodi e ricordi, c’è un racconto, credo di D’Annunzio, di cui avrei voluto discutere diffusamente in questa sede ma che, per una strana coincidenza – magia del Natale? – non ho più trovato, in cui un uomo, follemente innamorato di una donna che non lo ama, seppur malato, finge allegria e sistema fino all’ultima delle strenne natalizie dell’amata, per poi scomparire, del tutto, in silenzio, con discrezione. “Era uno di quegli uomini che preferiscono morire in piedi”, si dice a un certo punto. Lo lessi prima di un Natale di un po’ di anni fa, e pensai, con rabbia tipicamente giovanile, a questi pacchi ricolmi di fiocchi senza significato.

      In quel periodo ero una studentessa universitaria pendolare, amante della poesia e senza un soldo per acquistare regali.

      In un giorno più malinconico di altri, poco prima delle feste, con il grigio sulla testa e dentro, mi trovavo alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Stavo contemporaneamente preparando un esame di letteratura – il programma prevedeva quel racconto sulle “ultime strenne” – e la tesi sulla poesia di Giorgio Caproni, autore che amo. Piena di libri, e di ansia, aspettavo.

      Gli alberi di Natale, accesi in pieno giorno, ammiccavano dall’atrio, quando arrivò il treno.

      Ero così presa dal panico e da un piccolo dolore, affilato, da non accorgermi che io e una mia cara amica eravamo salite sul convoglio sbagliato. Destinazione: “Livorno”. (Livorno, caso vuole città fondamentale per Giorgio Caproni, luogo natìo della madre Anna Picchi).

      Guardando il cielo plumbeo dal finestrino, solo dopo alcune fermate mi resi conto che ci stavamo pericolosamente allontanando da casa.

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      Raccolsi i miei libri in fretta e cercammo il controllore, per scendere alla prima fermata utile.

      Nel viaggio di ritorno mi sedetti vicino a una donna e ai suoi pacchi giganti, colorati, eccessivi. Non riuscivo a muovermi con disinvoltura.

      La forza ingombrante delle feste.

      Sfilai il libro di poesie di Caproni su cui stavo lavorando, ricordandomi vagamente alcuni versi dedicati al Natale.

      Li cercai.

      Nella mia mente risuonavano due o tre parole: “Gesù, portami via…bugia”. Cercavo e ricercavo, dubitando persino della reale esistenza di quelle frasi.

      Ad un certo punto, la rivelazione. Trovata.

      La poesia è “Petit Noël”.

      “S’avvicina il Natale.

      Gesù, portami via.

      La tua è la più bella bugia

      che possa allettare un mortale”.[1]

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      Portami via, sì, pensai in quel momento, porta via me da questo Natale, da questo treno e porta via anche l’uomo delle ulltime strenne, liberalo dal suo amore funesto, dal suo orgoglio e soprattutto dai pacchi natalizi.

      Il treno dondolava piano, i doni della signora rischiavano di cadermi addosso da un minuto all’altro.

      In quei quattro versi c’era tutto.

      Chi conosce la poesia di Caproni sa che il suo agnosticismo lo porta a ragionamenti estremi e spesso tautologici sull’esistenza/inesistenza di Dio e questa poesia, con qualche eco gozzaniana, non fa che ribadire la sua posizione, ricamata qui con la musicalità tipica dei suoi componimenti.

      Caproni affronta il tema Natalizio anche in un altro testo, in cui è insita una critica sociale forte all’emarginazione degli ultimi da parte della società consumistica: “Nel gelo del disamore… / senza asinello né bue… / quanti, con le stesse Sue / fragili membra, quanti / Suoi simili, in tremore, / nascono ogni giorno in questa / Terra guasta!… […]” anche se è in Petit Noël che sembra riassumere meglio i miei sentimenti rispetto a questi giorni gonfi e così distanti da tutto il resto dell’anno.

      Così, “la bella bugia”, allora, fu un tuffo istantaneo nell’infanzia, nel calore di quei giorni lontani a casa da scuola attesi per mesi, di pigiami felpati e mattini luminosi.

      L’ansia si era allentata, rimaneva la malinconia.

      Quando scesi dal treno, il sapore di quei giorni era tutto nella poesia che danzava nella mia testa, come un ritmo impazzito.

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      S’avvicina il Natale, di nuovo. Sono passati anni, ma a volte mi torna in mente quel giorno, i pacchi, il treno sbagliato, l’uomo delle ultime strenne e l’illusione di quel “Petit Noël” che mi fa sempre un po’ sorridere.

      E, per dirla ancora con una poesia di Caproni :“Rullano lontani tamburi. / Auguri Auguri Auguri.”

      (Leggete questo splendido poeta, fatevi un regalo, davvero.)

      E buona “bella bugia” a tutti.

      [1] L’opera in versi, Mondadori, Milano, 1998, p. 859.

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    • Quattro chiacchiere, due tag e consigli per gli acquisti

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 26, 2016

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      No, non sono sparita.

      Non ho vinto la lotteria, cambiato identità e comprato un’isoletta in qualche atollo sperduto e meraviglioso, dove vivere senza scarpe e coi capelli spettinati (almeno, non ancora).

      È semplicemente un periodo pieno: pieno di cose, cose che cerco di far succedere ma non arrivano; pieno di notizie da un mondo che fa sempre più rumore, e non il rumore che mi piacerebbe sentire. È insomma un periodo che mi fa desiderare silenzio, e leggerezza, mentre eventi e informazioni si accumulano così tanto da farmi perdere il filo delle cose che vorrei scrivere, mentre precipito nel delirio delle lettere motivazionali e delle gioie del precariato.

      Si parla tanto di crisi dei blog, ed è una cosa che mi fa riflettere abbastanza; tuttavia, ciò che mi ha fatto più pensare questi mesi, tra attacchi terroristici, Brexit e crisi varie, è la mancanza di figure forti di intellettuali (versus l’ipertrofia di opinionisti dell’ultima ora), che siano politicamente e socialmente impegnati e riescano ad aiutare a capire, a elaborare, ad essere meno confusi e spaventati dalle cose che ci circondano.

      Comunque, approfitto di queste quattro chiacchiere pre-vacanziere per parlare di cose totalmente diverse, di cose leggere, davanti a una limonata bella fresca, ché perfino qui al nord è arrivato qualche giorno d’estate, e rispondere velocemente a due tag: quello di Baylee de La siepe di more e quello della mia amica Alessandra di Una lettrice.

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      Il tag di Baylee si chiama I posti che tag e mi sembra più che adatto alla voglia di vacanza che ho in questo periodo – tanta, tantissima. Per entrambi i tag risponderò semplicemente alle domande e, anziché taggare a mia volta altri blog, vi consiglierò alla fine del post un po’ di blog che mi piacciono e che potreste recuperarvi durante le tanto sudate, meritatissime vacanze. Pronti?

       

      Il posto che porti nel cuore

      Londra, sempre.

      Il posto più divertente

      Porto, una minifuga con una mia carissima amica, una cena in un ristorante très chic in cui siamo finite per sbaglio, piene di sabbia dopo aver trascorso una giornata al mare. Non riuscivamo a smettere di ridere, specie dopo dosi generose di vinho verde, tanto che a un certo punto ci hanno suggerito che sarebbe stato meglio se ce ne fossimo andate. Siamo tornate in ostello alle cinque del mattino, non abbiamo sentito la sveglia e abbiamo preso l’aereo per un soffio.

      Il posto più commovente

      La casa di Anna Frank ad Amsterdam. Ho letto così tante volte il suo diario da ragazzina che non riesco a evitare di commuovermi ogni volta che ci ritorno.

      Il posto più deludente

      La porta di Brandeburgo a Berlino – me l’aspettavo immensa, non so perché. E Staten Island, dove mi è toccato scoprire, nel corso di una gita improvvisata, che c’è veramente pochissimo da fare.

      Il posto più sorprendente

      Il campus dell’università di Harvard a Boston. Ho sempre desiderato visitarlo e, quando è finalmente successo, la realtà si è rivelata migliore delle aspettative alimentate da Gilmore Girls.

      Il posto più gustoso

      Barcellona, dove ho mangiato la zuppa di pesce più buona del mondo. Budapest, dove ho passato quattro giorni a rimpinzarmi di gnocchetti e risotto al formaggio di capra e rape rosse. Il Salento e i frutti di mare crudi e freschissimi. Casa mia in Calabria.

      Il posto che ti ha lasciato un ricordo particolare

      Sempre Londra, e i ricordi sono tanti e preziosi: un picnic col vino bianco ghiacciato a Hyde Park, un karaoke improvvisato in metro, i pomeriggi alla National Gallery e poi a cercare libri alla Waterstone’s di Trafalgar Square, la mia prima volta all’opera.

      Il posto più romantico

      Sempre Londra. Sono ripetitiva, lo so. Qui ho cercato di spiegare alcuni dei (tanti) motivi.

      Il posto che vorresti rivedere

      Boston, di cui mi sono innamorata, e New York, perche è cosi immensa che non riesci mai a scoprirla abbastanza.

      Il posto dove ti piacerebbe andare

      Mi piacerebbe visitare il New England di Sylvia Plath e di Emily Dickinson e da lì passare al Canada di Alice Munro. La Cornovaglia di Ross Poldark e tutta la mia amata Inghilterra. La Scozia, dove mi sono sentita un po’ a Hogwarts.

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      Il tag di Alessandra è il Liebster Award 2016 (grazie, Ale!). Le domande proposte da una delle mie lettrici preferite sono le seguenti:

       

      Cosa stai leggendo?

      Ross Poldark di Winston Graham (pubblicato di recente in Italia da Sonzogno, nella traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini)

      Per te qual è la storia d’amore più bella di tutti i tempi e perché? (Puoi citare libri, film ma anche raccontarmi come si sono conosciuti i tuoi nonni…vale tutto :))

      La mia inclinazione bovaristica propenderebbe per una delle mie amate storie maledette e infelici, tipo Anna Karenina, Cime tempestose o Non lasciarmi di Ishiguro. Ho da poco iniziato ad apprezzare le storie d’amore più sane e meno distruttive – tipo Elizabeth Bennet e Mr Darcy di Orgoglio e pregiudizio, per intenderci, o Hannah Coulter di Wendell Berry. Suggerirei qualcosa a metà strada, tipo Via col Vento: Rossella perde i suoi anni migliori dietro l’uomo chiaramente sbagliato (chi di noi non l’ha fatto, almeno una volta nella vita?) e perde Rhett. Non c’è lieto fine, ma l’ostinata, testarda fanciulla non si arrende, ché domani è un altro giorno.

      Passatempo preferito?

      Leggere il sabato o la domenica mattina a letto o in riva al mare. Le maratone su Netflix (ora sto guardando Orange Is The New Black). Un bel film. Un aperitivo appena fuori c’è il sole. Viaggiare appena posso. Scrivere quando ne ho voglia.

      Consiglia due libri imperdibili, due libri che secondo te tutti dovrebbero leggere. 

      Anna Karenina di Tolstoj, il mio libro preferito, e Lolita di Nabokov, scritto talmente bene che le parole si sciolgono in bocca con un retrogusto frizzantino. Leggerlo in lingua originale è un’esperienza quasi mistica.

      A cosa pensi prima di addormentarti?

      Sono una persona molto ansiosa e soffro d insonnia, quindi in realtà tendo a leggere fino ad addormentarmi ancora con gli occhiali e il Kindle in mano.

      Qual è un sogno che vorresti realizzare?

      Trascorrere un’estate a studiare a Harvard.

      Mini-vacanza. Qual è un posto in Italia che consiglieresti per trascorrere un bel weekend? 

      Consiglierei la mia Calabria, regione spesso sottovalutata che invece nasconde vere e proprie perle, come Tropea, Scilla, Capo Vaticano, il parco nazionale della Sila e quello del Pollino per gli amanti della montagna.

      Qual è un post del tuo blog che ti piace particolarmente? Linkalo.

      Parlerei più che altro di post ai quali sono particolarmente affezionata, tipo quelli su Sylvia Plath, il mio pellegrinaggio austeniano nello Hampshire o quello un cui racconto un po’ di cose su Ophelinha.

      Perché alle persone piace il tuo blog? 

      Francamente non ne ho idea, questa sarebbe più una domanda per i miei venticinque lettori di manzoniana memoria 😉

      Hai comprato qualcosa con i saldi?

      Ho comprato alcune cose durante il periodo dei saldi ma non in saldo – vale lo stesso? – tipo questo vestitino di Mod Dolly, un piccolo brand inglese che adoro, e questa gonna handmade di emmevi loves. Ho inoltre preordinato The Cursed Child, il sequel teatrale di Harry Potter in uscita in UK il 31 luglio, e non vedo l’ora di leggerlo (potete pre-ordinarlo anche in italiano, nella traduzione di Luigi Spagnol).

      Se potessi migliorare la tua vita cosa sarebbe la prima cosa che cambieresti? 

      Ci sono diverse cose che non mi rendono felice in questo periodo, e la precarietà non aiuta. Spero di trovare il mio posticino nel mondo al più presto, e riuscire a essere meno ansiosa, più serena.

       

      Come promesso, ecco una lista non esaustiva di blog che mi piacciono e che potreste recuperarvi durante le vacanze estive:

       

      Una lettrice

      Parole senza rimedi

      Citazionisti avanguardisti

      Il soffitto si riempie di nuvole

      Interno storie

      Librofilia

      Librangolo Acuto

      Just Another Point

      Casa di ringhiera

      La McMusa

      Bellezza rara

      Il tè tostato

      Riru Mont In Glasgow

      La filosofia secondo Baby P

      Il Club dei Libri

      Zelda was a writer

      Capitano mio Capitano

      Peek A Book

      Il mondo urla dietro la porta

      The Sisters’ Room, A Brontë-inspired Blog

       

      In inglese:

       

      Brain Pickings

      Yummy Books

       

      Avete anche voi bei blog da propormi (non necessariamente book o lit blog?) In caso affermativo fatelo nei commenti, e grazie!

      Soundtrack: You’ve got time, Regina Spektor

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      Posted in Ophelinha scrive | 14 Comments | Tagged alessandra pagani, Alice Munro, Anna Karenina, Bellezza rara, Brain Pickings, capitano mio capitano, casa di ringhiera, Cime tempestose, Citazionisti avanguardisti, Emily Dickinson, Hannah Coulter, Hogwarts, Il Club dei Libri, Il mondo urla dietro la porta, Il soffitto si riempie di nuvole, Il tè tostato, interno storie, Ishiguro, Just Another Point, La filosofia secondo BabyP, la mcmusa, La siepe di more, LibrAngoloAcuto, Librofilia, Liebster Award, Lolita, Londra, New York, Non lasciarmi, Orange is the new black, Parole senza rimedi, Peek A Book, Rhett Butler, Riru Mont in Glasgow, Ross Poldark, Rossella O'Hara, Sylvia Plath, The Cursed Child, The Sisters' Room, A Brontë-inspired Blog, una lettrice, Via col vento, Margaret Mitchell, Vladimir Nabokov, Wendell Berry, Yummy Books, Zelda was a writer
    • ll Calendario dell’Avvento Letterario#17: Manganelli e l’infelicità del Natale

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 17, 2015

      bannervale

      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi, che il 20 dicembre inaugura la sua prima mostra fotografica al Castello di Monasterolo di Savigliano: in bocca al lupo!

      manuela4

      Quando ero piccola attendevo il Natale con ansia, come ogni bambino del mondo. Ero eccitata, felice, nell’attesa di quel giorno misterioso e elettrizzante che avrebbe portato – la questione era soprattutto quella – i regali che durante l’anno potevo solo sognare.
      Le mie sorelle e mia madre facevano l’albero di Natale fuori, in giardino, o sul balcone, con quelle luci che, da un anno all’altro, non si riaccendevano mai – ricordo quella volta che rischiammo quasi il cortocircuito, per esserci affidate incautamente a un elettricista adolescente che forse, sicuramente, voleva far colpo su una delle mie sorelle. Le lampadine colorate iniziarono a fumare, una esplose.
      Derivò da lì, forse, l’idea che, nonostante le grandi aspettative, nonostante l’ansia per i regali, il Natale non fosse cosa per noi, così disorganizzati e incauti.
      Una delle mie sorelle, poi, alla mia gioia per l’arrivo del Natale, rispondeva sempre, con atteggiamento sprezzante: “il Natale è la festa più malinconica che esista.”
      Lo imparai con gli anni, e mi fermai spesso a riflettere su quanto solo l’attesa fosse scintillante e quanto questi giorni di festa, in realtà, non facessero che amplificare un senso di inquietudine che, pur in forme sempre differenti, torna a visitarmi quasi ogni anno.
      Una specie di solitudine che non saprei spiegare, ma che ho ritrovato, per caso, qualche anno fa nelle pagine di quel libro di Giorgio Manganelli, intitolato “Il presepio”, edito postumo, nel 1992.
      Il primo capitolo del libro, in modo che trovo adorabile nella sua filosofica esagerazione, tratta in modo quasi catastrofico di quella “infelicità natalizia” che, a parole, non sono mai riuscita a dire:

      “Nella città in cui vivo, anzi in tutte le città in cui potrei vivere, sta arrivando il Natale. Alcuni dicono, il Santo Natale. Sebbene la mia vita sia distratta e disorientata, da molti segni, come gli animali, mi accorgo dell’imminenza del Natale. L’irrequietezza agita i miei simili; una sorta di inedita tristezza che si accompagna ad una smania, una torbida cupezza, una litigiosità capziosa, non di rado violenta, ma soprattutto aspramente angosciosa. Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la terra, invade gli interstizi, ci si sveglia il mattino con quel sentimento, discontinuo durante tutto l’anno, che vivere a questo modo pare intollerabile, forse disonesto, una bestemmia. Strano che abbia scelto questa parola, sostanzialmente pia, per descrivere l’infelicità natalizia. E infatti questo avverto, che a differenza della desolazione che direi privata, attraverso la quale passiamo in vari momenti dell’anno, questa è una tetraggine che ha dell’astronomico, come a dire che gli astri sono coinvolti, e forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’universo, e oltre, se si dà un oltre.”

      manuela1
      A casa mia, in quegli anni, non c’era posto per il presepe. Non ho mai capito se fosse per questioni di spazio o perché non interessasse a nessuno, il fatto è che per anni ho guardato con misterioso sospetto e malcelato interesse a questa rappresentazione casalinga di un momento immobile, così artefatta e meravigliosamente fasulla.
      Giorgio Manganelli scrive ‘Il presepio’; lo inizia e lo termina, senza farne parola con nessuno e, nel viaggio letterario e filosofico nella “macchinazione cosmica” che è il presepe, si fa narratore e quasi teologo, custode e indagatore di quel sentimento di vuoto che proprio nel Natale sprigiona la sua forza invasiva.
      La provocatoria affermazione per cui “Al Natale non si dà fuga, in nessun modo” accompagna un discorso sul presepe e nel Presepe, inteso come teatro del reale ai confini col nulla.
      Manganelli non si limita a osservare il Presepe, vuole entrarci dentro.
      “Io sto macchinando per entrare nel Presepe […] se io entro, io diverrò parte del Natale, capite?”

      manuela3
      Nessuno si salva dalla lente analitica manganelliana, né la Madre, né tantomeno il figlio, bambino per l’eternità. Si salva, e Manganelli ha per lui uno sguardo quasi pietoso, il padre putativo, “vittima” della macchinazione divina.
      “Ti sei trovato nel centro di una storia che non poteva fare a meno di te, che tuttavia non ti si poteva disvelare del tutto. Per questo te stai come chi tenga d’occhio, ma insieme consapevole che chiunque potrebbe sgridarlo mandare in un angolo a mangiare un pane umile e privo di interesse. […] Ti hanno ringiovanito i tecnici delle immagini, ma in realtà non mi dispiace vedere quanto sei vecchio, deciduo, un po’ malinconico.”

      manuela2

      Tutti i personaggi, che lo vogliano o no, fanno parte della commedia – o tragedia- dell’inesplicabilità dell’esistere.

      “Già ora mi chiedo, per entrare nel mondo del presepe, mi toccherà staccarmi dal mondo?”

      E si parla anche della cosiddetta “felicità Natalizia”, contraltare di tutta la dissertazione e che, per l’autore non è altro che “una finta e artata letizia”, a coprire con un telo una “smaniosa disperazione”.
      Manganelli trascina il lettore in questo ragionamento e stravolge la tradizione, andando a solleticare quella spina che nient’altro è quel senso appiccicoso di malinconia che invade molti, nell’animo, in questi ultimi giorni dell’anno.

      Lo so, forse esagero. Ma, leggendo questa prosa così ragionata, arguta, perfetta nel suo smascherare errori e orrori della farsa, in effetti, ci si lascia coinvolgere in questa “burla teologica”, per camminare sull’orlo del baratro e dimenticarci un po’ di noi, delle malinconie che, soprattutto in certi anni, pesano un po’ di più sulla bilancia.
      La fine di un lungo periodo, con tutto il suo peso di giorni, gioie e piccoli e grandi dolori; l’inizio di qualcosa di nuovo che non si sa mai.

      Quand’ero piccola attendevo il Natale con ansia. Ora, che sono grande veramente, lo vivo con un sentimento, addosso, come un vestito, che presenta sempre qualche piega, qualche nota stonata. Amo le luci e il freddo che mi gela il naso, riesco a percepire la bellezza in alcuni gesti ma no, io, scusate, quest’anno passo.
      Buona lettura e Buon Natale. A tutti.

      Posted in Letteratura e dintorni | 5 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Adelphi, Giorgio Manganelli, Il Calendario dell'Avvento Letterari, Il presepio, Letteratura italiana, Manuela Bosio, Parole senza rimedi
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