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    • Barbara, che cazzata la guerra

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 24, 2015

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      Willy Ronis, Place Vendôme sous la pluie, Paris, 1947

      Questo fine settimana non ho letto, non ho scritto, non ho studiato.

      Non sono nemmeno andata a mangiare le crêpes in un locale bretone, come avevo previsto. Sono stata invece incollata giorno e notte ai social media e a un flusso continuo ma incostante di notizie, espresse in lingue che conosco ma che improvvisamente mi sono diventate sconosciute: allerta quattro, codice giallo, minaccia terroristica, coprifuoco.
      Vi scrivo da una Bruxelles che si prepara ad affrontare il suo quarto giorno di blocco: scuole chiuse, metro chiusa, centri commerciali chiusi, trasporti pubblici che funzionano solo parzialmente. Scrivo, e cerco di rielaborare settantadue ore di insonnia e inquietudine: si consiglia di non uscire di casa, di evitare luoghi affollati, di evitare il centro, di evitare i mercati, di evitare i trasporti pubblici, di evitare i luoghi chiusi. Il cielo sopra Bruxelles è gravido non solo del primo, grande freddo e della prima neve, ma di una minaccia costante, indefinibile, impronunciabile.
      Dieci giorni dopo il massacro di Parigi, Bruxelles è una città sospesa, un animale nascosto nell’ombra che ansima, spaventato, e spera di riuscire a sfuggire ai colpi del cacciatore.
      È una città confusa, stanca, spaventata. E ho paura anch’io.
      Una paura, del tutto folle e insensata, che le cose non tornino più come prima, che la routine fin troppo monotona delle mie giornate diventi ancora più soffocante tra questre quattro mura. Paura che questo Paese che non è il mio – e che probabilmente non sentirò mai mio – ma che mi ospita da quasi sei anni, non sia in grado di proteggere me e le persone a me care, specie quelle piccole.
      Ho un nodo allo stomaco, una stretta al cuore davanti a queste strade desolate, bagnate di pioggia e di silenzio. Non voglio ricevere una telefonata come quelle madri, quelle figlie, quelle mogli di Parigi. Non voglio dover scrivere una di quelle lettere piene di dolore e di compassione e di perdono che persone più grandi, più mature e più forti di me sono riuscite a scrivere dopo quel maledetto tredici novembre, perché non sono grande, né forte, né matura, e non ho confidenza con la paura, né col dolore.
      Vorrei ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine queste settantadue ore. Le mie amiche dell’università, che mi hanno tenuto compagnia fino a tardi su whatsapp, mi hanno spronata a parlare su BBC radio 2 di quello che sta succedendo, mi hanno suggerito di scrivere.
      Tutte quelle bellissime persone che ho conosciuto attraverso il blog, che mi hanno scritto email e messaggi, preoccupandosi per me. Vi ringrazio di cuore, e spero di poterlo fare di persona, un giorno, presto, davanti a un pacco gigante di cioccolatini belgi.
      Non ho letto questi giorni, ma ho una poesia che mi gira in testa. Una poesia di Jacques Prévert, che amava Parigi e amava la vita e amava l’amore. Una poesia che parla di una ragazza – Barbara – che corre incontro all’uomo che ama, incurante della pioggia parigina, e sorride, grondante rapita raggiante, in una città felice. Prévert le dà del tu, perché dà del tu a tutti quelli che ama e perchè la felicità della ragazza gli si trasmette, per osmosi.
      Prévert le dà del tu, perché tutto quello che resta è il ricordo di una pioggia buona e felice, che diventa pioggia di sangue e lacrime e metallo e proiettili: una pioggia di paura, come dev’essere stata quella del maledetto tredici novembre. Una pioggia crudele, una pioggia di mancanze. Poi il nulla.

      Oh Barbara
      che cazzata la guerra.

      Che cazzata la guerra, che cazzata ogni guerra, specie una guerra che mi sembra così estranea, che non riesco a comprendere, di cui non so abbastanza.
      Che spreco, tutta quella vita, tutta quell’energia, tutta quella giovinezza, tutto quell’amore.
      Quanto dovrebbe essere superfluo, tutto quel dolore, tutta quella mancanza.
      Ma io non trovo le parole giuste, anzi, non trovo più parole. Vi lascio quelle di Prévert, nella traduzione di R. Cortiana.

      Ricordati Barbara
      Pioveva senza tregua quel giorno su Brest
      E tu camminavi sorridente
      Raggiante rapita grondante
      Sotto la pioggia
      Ricordati Barbara
      Pioveva senza tregua su Brest
      E t’ho incontrata in rue de Siam
      Tu sorridevi
      E sorridevo anch’io
      Ricordati Barbara
      Tu che io non conoscevo
      Tu che non mi conoscevi
      Ricordati
      Ricordati comunque di quel giorno
      Non dimenticare
      Un uomo si riparava sotto un portico
      E ha gridato il tuo nome
      Barbara
      E tu sei corsa incontro a lui sotto la pioggia
      Grondante rapita raggiante
      Gettandoti tra le sue braccia
      Ricordati di questo Barbara
      E non volermene se ti do del tu
      Io do del tu a tutti quelli che amo
      Anche se non li ho visti che una sola volta
      Io do del tu a tutti quelli che si amano
      Anche se non li conosco
      Ricordati Barbara
      Non dimenticare
      Questa pioggia buona e felice
      Sul tuo viso felice
      Su questa città felice
      Questa pioggia sul mare
      Sull’arsenale
      Sul battello d’Ouessant
      Oh Barbara
      Che cazzata la guerra
      E cosa sei diventata adesso
      Sotto questa pioggia di ferro
      Di fuoco acciaio sangue
      E lui che ti stringeva fra le braccia
      Amorosamente
      È forse morto disperso o invece
      Vive ancora
      Oh Barbara
      Piove senza tregua su Brest
      Come pioveva prima
      Ma non è più così e tutto si è guastato
      È una pioggia di morte desolata e crudele
      Non è nemmeno più bufera
      Di ferro acciaio sangue
      Ma solamente nuvole
      Che schiattano come cani
      Come cani che spariscono
      Seguendo la corrente su Brest
      E scappano lontano a imputridire
      Lontano lontano da Brest
      Dove non c’è più niente.
      (Traduzione di R. Cortiana)
      da “Poesie d’amore”, Guanda, Parma, 1991

      Posted in Frammenti di poesia, Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged Barbara, Bruxelles, Guanda, Jacques Prévert, Parigi, R. Cortiana, Willy Ronis
    • Love Stories (sui pericoli di innamorarsi delle parole)

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 12, 2015

      love

      L’amore mi sfugge.
      Un tempo scrivevo racconti e tante, tantissime poesie d’amore. Mi piaceva pensare all’amore, analizzarlo, osservarlo, metterlo in discussione, cercare di capire il suo rapporto con la felicità e col dolore. Trovarlo ovunque, re-inventarlo, celebrarlo, accusarlo, cercare di comprenderlo.
      Ora mi sfugge, letteralmente, e non riesco a riacciuffarlo. Elude il mio comprendonio e la mia immaginazione, rimanendo quel mistero così difficile da afferrare e da raccontare, come insegna anche Carver. Pessoa scrive (e Vecchioni canta) che più ridicolo di colui che scrive d’amore è colui che non ne scrive, mai. Non pensavo sarei mai rientrata in questa seconda categoria e invece ci sono finita. Sarà l’età, sarà la timidezza, sarà la mancanza di coraggio o di onestà con me stessa.
      Continuo a cercarlo in quello che leggo, come in quest’articolo della Paris Review scritto da Phoebe Connelly. È il genere di storia d’amore che preferisco: eterea, surreale, nata sui libri, condannata fin dall’inizio da un’estrema difficoltà, quasi impossibilità di concretizzarsi.
      Cosa succede quando ci si innamora delle parole? Una volta il mio motto era “le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire”: me l’aveva scritto una persona che, pur conoscendomi pochissimo, è riuscita a vedere in me e a capire quanto bisogno avessi di credere nel potere taumaturgico delle parole. Ho perso un po’ di vista questa fede cieca dei vent’anni, così come ho perso di vista la persona che ero a vent’anni: mi capita di intravederla, di incrociarla, ogni tanto, col suo disordine discreto dentro al cuore, per parafrasare De Andrè, in mezzo a un marasma di dubbi, di scelte, di confusione. Ma dove hai lasciato il tuo cuore?
      Anche Phoebe, come la me ventenne, è affascinata dal potere delle parole, e racconta in questa storia – che mi ha gentilmente concesso di tradurre – le conseguenze dell’amore. Quell’amore nato sui libri, in un vortice di parole, personaggi, storie.
      Buona lettura.

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      F. mi è stato presentato da un amico comune durante un viaggio a Los Angeles. Vivevo a D.C., ero da poco single e lavoravo per una rivista di politica. Mi ero data una regola ferrea: mai uscire con giornalisti. In una sonnolente cittadina aziendale* dove, per motivi etici, dovevo evitare coinvolgimenti romantici con le mie fonti, iniziavo a credere di essermi condannata a restare da sola.
      F. era uno scrittore che aveva appena finito il suo primo film e si occupava di rubriche di spettacoli per passare il tempo. A volte giocava a tennis con la mia migliore amica. “Ti piacerà” mi aveva promesso mandandogli un messaggio, mentre io ficcavo la mia borsa nel sedile posteriore della sua macchina all’aereoporto internazionale di Los Angeles (LAX). “Gli dirò di incontrarci per bere qualcosa insieme in questo locale tedesco all’aperto”. Ci siamo piaciuti subito.
      Tutto è iniziato con una sfida. Quella prima sera, gli ho detto che avevo trovato Il verificazionista di Donald Antrim troppo affettato, così ha fatto scivolare I cento fratelli nel mio bagaglio a mano per il volo notturno che mi avrebbe riportato ad est. La moltiplicazione costante dei fratelli di Antrim e la sua prosa claustrofobica si addicevano benissimo ai monotonia degli spazi del LAX. Il mio profumo si è aperto in valigia durante il volo, ma gli ho restituito lo stesso la sua copia insieme a un biglietto scritto a mano, con lo stesso odore della mia nuca.
      Abbiamo passato i due anni successivi a corteggiarci con le parole – le nostre, ma anche quelle di qualsiasi scrittore per mezzo del quale pensavamo di fare colpo. Non eravamo di certo i primi a intraprendere questo cammino; tuttavia, come in ogni storia d’amore – e lista di libri da leggere- che si rispetti, ci sembrava di essere gli unici. La domanda “cosa stai leggendo?” diventava una scusa molto conveniente per iniziare a parlare ogni volta che eravamo tutt’e due online, per mandarci link, per scriverci lettere lunghe e complicate il cui messaggio subliminale era il desiderio.
      Per lui ho letto Sportwriter di Richard Ford, che avevo scartato, etichettandolo come troppo sessista, prima ancora di leggerlo. (La mia opinione non è migliorata di molto dopo la lettura, ma lui sosteneva che il protagonista offrisse una rappresentazione fedele del maschio scrittore). Gli ho mandato La talpa di John le Carré, dopo avergli citato una descrizione della moglie di Smiley fuori contesto. Mi ha detto che il fatto che la citazione non arrivasse fino alla penultima scena del libro l’aveva fatto quasi uscire fuori di testa.
      Ho iniziato a leggere compulsivamente libri ambientati nella West Coast. Ho passato un luglio umido ad appiccicoso a completare la mia serie di Lew Archer; ho fatto scorta di malconci libri in brossura di James M. Cain, sognando pomeriggi all’insegna dello smog e inverni senza neve. Mi stavo innamorando di F. o dell’idea di una città che si prestava così facilmente alla narrazione? All’epoca non me lo sono chiesto. Ero grata di avere un posto nuovo da abitare, anche se questo avveniva solo in weekend rubati e nei titoli della Library of Congress.
      Un paio di mesi dopo il nostro incontro, Farrar, Straus e Giroux ha pubblicato la corrispondenza completa tra Elizabeth Bishop e Robert Lowell. Abbiamo studiato attentamente i dettagli delle loro rispettive esperienza a D.C. come poeti insigni e consulenti di poesia presso la Library of Congress; gli ho scritto una lettera durante una noiosa lezione sulla politica del deficit presso il Cosmos Club, dove Lowell aveva vissuto nel 1947 e nel 1948. “Il clima invernale di Washington è come quello di Parigi, ma senza compensazioni” osservava seccamente la Bishop in una lettera a Lowell nel dicembre 1949.
      Thomas Travisano scrive nell’introduzione che “quelle lettere erano diventate parte della loro persistenza: parte di quell’enorme pezzo di vita che avevano condiviso, vicini e lontani, attraverso trent’anni di corrispondenza intima e acuta”
      Quando arrivavo a casa, mi sdraiavo in un letto solitario con quel volume, trovando nelle loro poesie un mezzo per esprimere tutto ciò che io e F. esitavamo a dirci.
      “A volte/ sorprendo la mia mente/ ruotare intorno a te con occhi di vetro-/ il mio amore perduto a caccia/ del tuo viso perduto”. La nostra corrispondenza manteneva un tono stranamente cortese e formale, nonostante il flirt. I romanzi spediti dall’altra parte del continente, le caustiche osservazioni dei due poeti: tutto ciò ci permetteva di fingere che si trattasse di un gioco letterario, che non coinvolgesse i nostri cuori pulsanti, ad alto rischio di spezzarsi.
      Dimmi perchè ami questo libro, gli chiedevo, e lui me lo spiegava.
      I libri sostituivano il sesso, reso impossibile dalla distanza. Gli avevo mandato La biblioteca della piscina di Alan Hollinghurst; durante una delle mie puntatine a L.A., ci siamo infiltrati nel Los Angeles Athletic Club, prossimo alla chiusura, e abbiamo trascorso un’ora di felicità a galla nella piscina circondata da colonne del 1910, scambiandoci baci al cloro. Avevamo una sorta di romantico riflesso condizionato: immergerci in quegli scenari che avevamo condiviso attraverso la lettura. Mi aveva mandato Dieci giorni sulle colline di Jane Smiley, ambientato a L.A., che ho abbandonato più o meno alla metà del Quarto Giorno. “Leggere di politica per me è come lavorare”, gli ho confessato. “Magari leggo solo le parti sexy”.
      Dopo un anno di libri spediti, occasionali fine settimana insieme, e molte lacrimevoli telefonate su quanto difficile stesse diventando stare lontani, F. ha fatto le valigie e si è trasferito ad est. Era impaziente di sperimentare un’altra città: la superficialità di L.A. lo stava logorando, diceva. Invidiava il fatto che ogni notte passata in un bar di D.C. sfociasse in infiniti dibattiti. Aveva iniziato a lavorare nella mia libreria preferita e a dedicarsi seriamente alla scrittura. Io continuavo a dedicarmi al giornalismo politico.
      Ma il nostro circospetto corteggiamento letterario continuava. Lui mi aveva trovato una copia del 1997 della rivista Granta, dedicata alla Francia, in previsione del mio primo viaggio a Parigi, e al mio ritorno mi aveva aspettato a Dulles con una copia di Il flâneur. Vagabondando tra i paradossi di Parigi di Edmund White, che avevo letto durante il mio viaggio. Appoggiati al cofano della sua macchina, nel parcheggio dell’aeroporto avvolto dal crepuscolo rosa di una sera di fine marzo, avevamo fumato sigarette e ripercorso i nostri rispettivi viaggi a Parigi – il mio effettivo, il suo letterario.

      Aveva imparato a memoria il contenuto della mia libreria. “Quello ce l’hai già, Connelly. Stessa copertina, ma edizione anni ’80” mi ha avvertito quando ho preso in mano una copia di La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. Le Guin. Sono andata alla ricerca di un memoir sulla manifattura tessile nel Sud per un articolo che aveva pensato di scrivere. Ma continuava a rimandare; gli spunti per una nuova sceneggiatura erano in continua revisione, e la routine lavorativa faceva a pezzi il resto. Nonostante vivessimo ora nella stessa città, la nostra storia necessitava di manutenzione.
      Ognuno di noi aveva il suo appartamento. Quando passavo il weekend da lui, cercavo qualcosa da leggere tra i suoi scaffali. Ho pescato da lì uno dei primi Ian McEwan che non avevo mai letto, e, nel corso dei mesi, ho riletto Territori londinesi di Martin Amis. Teneva una copia del Decameron in bagno, e la mattina mi ritrovavo appollaiata sul davanzale della finestra a leggere anzichè prepararmi per andare a lavorare.
      F. sapeva quanto mi mancassero i libri che non mi ero portata dietro quando mi ero trasferita a D.C. Per il mio ventinovesimo compleanno, dopo aver festeggiato in un bar invaso da un’orda di miei amici, arrivati a casa mi aveva passato una pila di tascabili Pocket Press di Joan Didion. In cima troneggiava una prima edizione di The White Album. La sua dedica, “A Phoebe, per il suo trentesimo compleanno”, voleva prendermi in giro per la mia abitudine di aggiungere un anno o due alla mia età effettiva.

      Avevamo tutte le carte in regola: se potevo parlare di libri con lui, se capiva perchè piangevo su un romanzo, perchè sognavo rubriche, tutto il resto doveva venire da sè. Ma le parole, da sole, non ci sono bastate. Dopo due anni e un trasferimento dall’altra parte del continente, ci siamo lasciati.
      “Mi dispiace non averti risposto prima” mi ha confessato nella sua ultima lettera. “Ci ho provato un paio di volte, ma non ho mai trovato le parole giuste. Anzi, non le ho trovate proprio, le parole”

      *(Ndrm – nota della redazione mia : le company town sono città in cui la maggior parte o tutti gli immobili, sia residenziali che commerciali, sono di proprietà di una singola azienda che provvede, in genere, anche alla pianificazione urbana)

      Soundtrack: Half the world away, Aurora (cover della celeberrima canzone degli Oasis)

      love bis

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 11 Comments | Tagged Alan Hollinghurst, D.C., Donald Antrim, Edmund White, Elizabeth Bishop, Fabrizio De André, Farrar, Fernando Pessoa, Granta, Ian McEwan, Il Decamerone, In the mood for love, James M. Cain, Jane Smiley, Joan Didion, John le Carré, le conseguenze dell'amore, Letteratura americana, Lettere d'amore, Lew Archer, Library of Congress, Los Angeles, Martin Amis, Parigi, Phoebe Connelly, Raymond Carver, Richard Ford, Robert Lowell, The Paris Review, The White Album, Thomas Travisano, Ursula K. Le Guin, Washington, What we talk about when we talk about love
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