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  • Tag: Pablo Neruda

    • Gli svantaggi di un’educazione (molto) bovaristica

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 20, 2016

      La colpa è tutta di mia madre.

      Mi ha iniziato alla lettura di Prévert, Jimenez, Pablo Neruda quando ero ancora all’asilo e avrebbe dovuto nutrirmi di Fiabe sonore (ve le ricordate?)

      Mi ha regalato la sua vecchia copia di Love Story, ingiallita, consumata dall’uso (e dalle lacrime).

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      Ero giovane e naïve. Avrei dovuto rendermi conto di quello che stava succedendo e fermarmi in tempo, ma non sono stata in grado di farlo.

      Non c’è dunque da sorprendersi se ho sviluppato un’irrefrenabile dipendenza dalle eroine letterarie, sintomo di quella pericolosa infermità letteraria meglio nota col nome di bovarismo (grazie, Flaubert), trasmissibile per via testuale, praticamente impossibile da curare.

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      Questa pericolosa malattia, che ha continuato a mietere vittime a partire dall’incostante, capricciosa Emma Bovary, può essere descritta come una sorta di insopportabile irrequietezza causata dal divario (enorme) tra aspirazioni eroiche e monotono tran-tran della vita quotidiana. I soggetti più a rischio sono le aspiranti eroine con un debole per le complicazioni amorose, le situazioni difficili, quegli intrichi sentimentali pari solo a puzzle monocromi da 15000 pezzi.

      Questo post vuole essere una riflessione sulle tappe letterarie che mi hanno portato a soffrire cronicamente di quest’incurabile condizione, nella speranza che incaute lettrici possano identificarne i sintomi e curarsi per tempo. A buon intenditor, eccetera, insomma.

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      Cime Tempestose, Emily Brontë

      Grazie a Emily Brontë, ho passeggiato per le desolate brughiere dello Yorkshire con Cathy e Heathcliff, rifugiandomi in cucina nelle chiacchiere rassicuranti di Nellie e convincendomi del fatto che sì, volevo quello che aveva Cathy: volevo innamorarmi di qualcuno che fosse me più di me stessa, la cui anima fosse fatta delle stessa sostanza della mia. Ho odiato Cathy per aver sposato Linton; ho pianto fino al mal di testa, trovando consolazione solo nella Nutella, quando Cathy è morta e Heathcliff ha iniziato a sbattere la testa contro un albero, urlando al vento di non poter vivere né morire senza la sua anima.

      Per il mio inesperto cuoricino, Cime Tempestose era l’apoteosi del romanticismo, unendo in sé fuoco, passione, amori impossibili, dannazione. Da Cime tempestose in poi, la tragedia è diventata per me l’unità di misura del romanticismo, mentre mi convincevo del fatto che un amore dovesse essere ostacolato o addirittura impossibile per essere degno di essere vissuto (a mia discolpa, ero giovane e molto, molto ingenua. Quanti crepacuori avrai evitato, negli anni, se non fossi stata ciecamente invaghita di un’idea contorta e impossibile dell’amore!)

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      Emma Bovary, Gustave Flaubert

      Non ho mai sopportato le lagne di Emma Bovary, che ho sempre trovato vanitosa, indecisa, illusa, noiosa e francamente antipatica. Nonostante ciò, ero convinta di capire come si dovesse sentire, di riuscire a indentificarmi in quel suo lancinante bisogno di avere qualcosa di più, senza sapere bene cosa. Emma voleva sentirsi mancare la terra sotto i piedi; voleva qualcuno che la facesse sentire bella, unica ed insostituibile, che le mandasse lettere d’amore così appassionate da toglierle il respiro, che le dicesse di non essere in grado di vivere senza di lei. Voleva essere costantemente sorpresa, senza doversi arrendere alla vuota banalità di un’esistenza sempre uguale (l’unica esistenza che il prevedibile marito Charles sembrava in grado di assicurarle). Emma aveva semplicemente bisogno di sentirsi innamorata, ma aveva il pessimo vizio di scegliere sempre l’uomo sbagliato, incapace di donarle quella felicità così astratta alla quale ambiva un po’ alla cieca. Sapete tutti com’è andata a finire, no?

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      Doctor Zivago, Boris Pasternak

      Se non ho mai sopportato Emma Bovary e le sue manie di protagonismo, ho amato Lara, l’intrepida eroina de Il dottor Zivago. La Antipova è un’eroina coi piedi ben saldi per terra e sa quello che vuole – Yuri Zivago. Non è passiva, non aspetta che qualcuno la salvi: cerca di prendersi quello che vuole e di costruire una vita per lei e Yuri, nonostante siano entrambi sposati – lei col freddo, cinico Antipov/Strelnikov, che si è dimostrato privo di scrupoli e capace di efferate crudeltà; lui con Tonia, la sua migliore amica e madre dei suoi figli. Certo, Lara compie un errore imperdonabile: lasciare Varikino col crudele Komarovsky, che l’ha sedotta quando era ancora una ragazzina. Lara si lascia irretire dalle promesse di Yuri, che si impegna a raggiungerla; vuole disperatamente credergli, ben sapendo, dentro di sé, che Yuri non accetterebbe mai l’aiuto di un uomo che odia e disprezza. La sua decisione di partire senza di lui è ingenua anche un po’ stupida, considerando che aspetta la sua bambina: mi fa pensare sempre alla Ilse di Casablanca, che si reca in aeroporto convinta di partire con Rick (mentre in fondo sa bene che Rick è un uomo d’onore e non lascerebbe mai il partigiano Laszlo in mano ai tedeschi. A proposito, sono l’unica che quando guarda il film si mette a strillare non partire Ilse, non farlo? Effetti collaterali del bovarismo…)

      Anche la fine del film su Zivago di David Len mi spezza il cuore ogni volta: Yuri crede di aver visto Lara, scende dal tram e la rincorre. Mentre corre, ha un infarto e muore, senza essere mai riuscito a rivederla. E niente, sarebbe stato bello se si fossero incontrati prima, anche solo di un giorno. E qui scappa ancora la lacrimuccia.

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      Anna Karenina, Lev Tolstoj

      Con Anna Karenina la situazione è precipitata.

      Avevo quindici anni ed ero stata appena lasciata dal mio primo ragazzo. Avevo deciso di affrontare la situazione come una vera eroina letteraria: marinando scuola per la prima volta, tagliandomi i capelli, fumando la mia prima sigaretta, che doveva farmi sembrare tragica quanto basta e incredibilmente sofisticata, ma in realtà mi ha solo causato una nausea insopportabile.  Dopo il fallimento di questi primi rimedi, ho deciso di affrontare lacrime e insonnia leggendo per la prima volta il romanzone di Tolstoj. Anna mi è subito sembrata l’eroina per eccellenza: intelligente, colta e bellissima, madre affettuosa, moglie frustrata e annoiata. Mi è sembrato inevitabile che si prendesse una cotta per l’affasciante Vronskj, nonostante lui non mi sembrasse altro che un borioso damerino pieno di sé, del tutto indegno dell’amore e delle attenzioni di Anna.

      Mi sembrava di riuscire a vederla, bellissima nel suo vestito nero, illuminata dalle candele della sala da ballo, le braccia bianchissime e i ricci neri, capace di eclissare senza sforzo alcuno la giovane Kitty e di sfidare coraggiosamente i pregiudizi dell’ammuffita aristocrazia russa. L’ho seguita nel tragitto da casa sua a quel treno che avrebbe spezzato la sua vita: era bella ed elegante come sempre, ma stroncata dalla delusione, da un amore tossico, dalla nostalgia per il figlio. Mi sono indignata tantissimo per le parole della madre di Vronskj, che si permette di dire che Anna ha avuto la fine che si merita, brutta come la vita che ha condotto.

      Quello che ho capito, dopo diversi anni, una rilettura del romanzo e varie delusioni sentimentali, è che Vronskj rende Anna infelice per quasi tutta la durata della loro storia, e che il vero amore di Anna è il figlio Serioza, che le manca terribilmente.  Quello che ho capito è che il vero cattivo della storia è il finto, ipocrita perbenismo dell’aristocrazia russa, pronta a condonare le scappatelle maschili con un sorrisetto compiaciuto e una pacca sulla spalla, ma inesorabile nella condanna delle donne.

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      Nel corso di varie riletture, mi sono anche resa conto che Cathy è infantile, viziata e capricciosa e Heathcliff ossessionato da lei (un po’ stile stalker, per intenderci) ed estremamente vendicativo; che Emma Bovary è una sciocca che si sarebbe dovuta dare una bella svegliata; che Lara e Yuri sarebbero dovuti scappare insieme, senza se e senza ma; che la mia amata Anna avrebbe dovuto abbandonare sia marito che amante e iniziare una nuova vita coi figli lontana dal clima gelido (in tutti i sensi) della società russa, magari in Spagna o in Portogallo.

      Sì, sono cresciuta, ho riletto i miei amati classici, li ho guardati con occhi nuovi e più maturi: eppure, sotto sotto, rimango un’inguaribile romantica vecchio stile. Anche questo è uno di quegli antipatici effetti collaterali del bovarismo per il quale non è stata ancora trovata una cura adeguata.

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      Soundtrack: Wicked game, Chris Isaak

      PS: per gli anglofoni/anglofili, qui la versione inglese dell’articolo

      Posted in Letteratura e dintorni | 17 Comments | Tagged Anna Karenina, Boris Pasternak, Casablanca, Cathy Earnshaw, Cime tempestose, Dottor Zivago, Emily Brontë, emma bovary, Gustave Flaubert, heathcliff, Jacques Prévert, Juan Ramón Jiménez, Lara, Lev Tolstoj, Love Story, Pablo Neruda
    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

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      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

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      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • What we talk about when we talk about poetry

      Posted at 11:50 am06 by ophelinhap, on June 12, 2015

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      Vedere il Cielo d’estate è Poesia

      Anche se in nessun libro puoi trovarlo

      Le poesie vere fuggono

      scriveva Emily Dickinson, illustrando meravigliosamente la natura schiva della poesia, che elude chi non la cerca senza pregiudizi, col cuore e la mente aperta, l’anima nuda, gli occhi chiusi. Leggere una poesia significa abbandonarsi con fiducia a un flusso di parole che custodiscono significati nascosti, a immagini magiche, mitiche, nelle quali quasi tutto è un’altra cosa.

      Non per niente, Federico García Lorca scriveva che la poesia non cerca adepti, ma amanti.

      Come con ogni amante che si rispetti, il mio rapporto con la poesia non è mai stato semplice, né uguale a se stesso: ma l’intensità non è mai variata. Forse per questo sentire che così tanti lettori evitano la poesia come la peste bubbonica, spesso in base a cattive esperienze in età scolastica, mi rattrista enormemente. Nel tempo ho raccolto un po’ di pregiudizi tra i più comuni, che mi piacerebbe provare ad analizzare, e, ove possibile, a sfatare. Pronti? Via.

      1. La poesia è snob ed elitaria

      La poesia è accessibile a tutti, perché soddisfa un tipo di sete che altre forme di letteratura, o di arte in senso lato, non riescono ad estinguere. Tocca corde sensibili, sazia quel bisogno di conferme, quel sentirsi parte di qualcosa, un uno universale, ma non unico, bensì multiforme, poliedrico, dai molti splendori e sfaccettature. La poesia abbraccia un concetto di umanità secondo il quale nessun uomo è un’isola, e quando suona la campana suona per tutti, e un pezzo di questo unicum muore, per dirla con John Donne – visto che grande fetta del nostro immaginario collettivo, dei nostri modi di dire deriva dalla poesia e non dalla prosa? Un’ulteriore riprova del fatto che Calliope, Erato ed Euterpe  – muse della poesia epica, della poesia amorosa e della poesia lirica- non sono poi così distanti dai comuni mortali.

      La poesia aiuta a non sentirsi soli, a rendersi conto che qualcuno è già stato lì prima di noi, ha vissuto le stesse cose, si è sentito nello stesso modo. Stati d’animo ed esperienze non sono isolate, ma parte armonica di una trama che contribuisce a rendere il particolare universale.

      2. La poesia non vende

      Probabilmente è anche vero, ma non è un motivo per smettere di pubblicarla, no?

      Se acquistassimo tutti le stesse cose, leggessimo esattamente gli stessi libri (ah, le mode) e iniziassimo a pensarla allo stesso modo, su tutto, il mondo sarebbe un posto infinitamente meno interessante.

      3.La poesia è inutile

      Ne siete ancora convinti? Andate e rileggere il punto 1) e un vecchio post sull’utilità della poesia.

      La mia personalissima esperienza è che la poesia ha una funzione consolatoria, alla quale non sempre la prosa riesce ad assurgere. Nel periodo un po’ complicato che sto vivendo, che giustifica la mia latitanza dal blog e dai social media, mi rifugio spesso e volentieri tra i versi, e mi fa un gran bene

      4. La poesia è difficile

      Può esserlo anche la prosa. E, comunque, spesso le cose più belle sono le più difficili.

      Oltre la metrica, oltre lo stile, oltre le infrastrutture, oltre il suo “abito” più o meno pesante, più o meno intricato, la poesia si presenta nuda, semplice, schietta agli occhi del lettore, offrendogli verità individuali e universali.

      4. La poesia è per depressi

      Surreale ma vero, me lo sono sentito ripetere più e più volte. Rieccheggia nelle mie orecchie quel giocherellone di Gozzano ne La Signorina Felicita, ovvero la Felicità:

      Oh! questa vita sterile, di sogno!

      Meglio la vita ruvida concreta

      del buon mercante inteso alla moneta,

      meglio andare sferzati dal bisogno,

      ma vivere di vita! Io mi vergogno,

      sì, mi vergogno d’essere un poeta!

      E penso ai versi pieni di vita e di passione di Pablo Neruda, alle linee di luna e ai sentieri di mela, alla notte azzurra di Cuba e ai rampicanti di stelle tra i capelli.

      E mi vengono in mente alcune poesie di ee cummings, i suoi versi giocosi, i suoi elefanti, uccelli e alberi, le sue metafore ardite, la sua celebrazione della vita e di quel sì che è la chiave di un mondo di parole arricciate. E i gatti e i libri sempre aperti a metà di Wislawa Szymborska, i ragazzi che si amano di Jacques Prévert, la speranza piumata e i poeti che accendono lampade di Emily Dickinson.

      E resto in ammirata soggezione davanti all’incanto e alla meraviglia della poesia, antica come il mondo e sempre nuova, piena di significati cangiati, sempre diversi, che si adattano alla sensibilità e ai bisogni del lettore.

      E ammiro sempre di più il coraggio spavaldo dei poeti, le loro timide rivoluzioni.

      C’è bisogno di poesia, e c’è bisogno di silenzio.

      C’è bisogno di lentezza, e di tempo.

      C’è bisogno di aria, di luce naturale, di ricordarsi di respirare.

      C’è bisogno di un posto da chiamare proprio.

      Fortuna che c’è Wendell Berry coi suoi versi a ricordarcelo (potete leggere il testo originale qui).

      Come essere un poeta

      (un promemoria)

      Trova un posto dove sederti.

      Siediti. Osserva il silenzio.

      Affidati con fiducia

      agli affetti, alle letture, alle conoscenze

      alle capacità – più di quelle che possiedi –

      all’ispirazione, al lavoro, alla maturità, alla pazienza,

      perché la pazienza unisce tempo

      ed eternità. Metti in dubbio il giudizio

      dei lettori che amano le tue poesie.

       

      Respira incondizionatamente

      l’aria non condizionata.

      Evita l’elettricità.

      prenditi tempo per comunicare. Vivi

      una vita a tre dimensioni;

      rifuggi dagli schermi.

      Sta’ lontano da tutto quello

      che oscura il posto dove si trova.

      Non ci sono luoghi profani;

      ci sono solo luoghi sacri

      e luoghi sconsacrati.

      Accetta quello che arriva dal silenzio.

      Cerca di trarne il meglio.

      Di quelle semplici parole che provengono

      dal silenzio, come preghiere

      restituite a chi prega,

      fanne una poesia che non disturbi

      il silenzio da cui è arrivata.

      wbb

      Soundtrack: Pour toi mon amour, Thomas Fersen (dall’omonima poesia di Jacques Prévert)

      Posted in Frammenti di poesia | 7 Comments | Tagged Edward Estlin Cummings, ee cummings, Emily Dickinson, Federico García Lorca, Guido Gozzano, Jacques Prévert, Pablo Neruda, poesia, Poetry, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
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