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  • Tag: Olwyn Hughes

    • Sylvia, Ted e una lettera d’addio lunga un’eternità

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2019

      ted

      C’era una volta una principessa bionda, dalle labbra rosso carminio e dall’accento squillante, dalle cadenze del New England.

      C’era una volta un principe alto, scuro, dal ciuffo perennemente scomposto e dalla voce profonda, dal forte accento dello Yorkshire. Se questa fosse una favola, i due assumerebbero sembianze animalesche: lei sarebbe un cervo, lui diventerebbe un corvo, o una snella e veloce pantera.

      There is a panther stalks me down:
      One day I’ll have my death of him;
      His greed has set the woods aflame,
      He prowls more lordly than the sun.

      (Sylvia Plath, Pursuit)

      Questa non è una favola, anche se contiene tutti gli ingredienti per una perfetta tragedia greca: questioni irrisolte col padre e con la madre, folle passione, tradimento, suicidio, in una sorta di fatale circolo chiuso che ricorda l’Edipo re pasoliniano e l’idea che la vita finisca dove comincia. Ma di vita vera si tratta, pur sempre: quella vita di due poeti, Sylvia Plath e Ted Hughes, così vicini alla loro poesia da farla diventare vita stessa, da far perdere i confini tra biografia e finzione letteraria. Da eternare il dramma biografico in testamento letterario.

      Il mio amore per la bionda poetessa del New England è cosa saputa e risaputa: la lettura di Tu l’hai detto, biografia romanzata di Connie Palmen, mi ha fatto avvicinare, incuriosita ed intimidita – e non senza un pizzico di pregiudizio, alla vita e alle opere del poeta laureato Ted Hughes. Ho scelto come punto di partenza la biografia non autorizzata, curata da Jonathan Bate, e Birthday letters, la raccolta di poesie che Hughes ha dedicato alla Plath e che è stata pubblicata trent’anni dopo la morte della Plath.

      Sbirciando tra le pagine della vita di Hughes, dalla sua infanzia nello Yorkshire al suo – fulmineo e fulminante – incontro con la Plath, dal suo amore per le donne alla passione minuziosa con cui ha studiato Shakespeare, dall’amore per la pesca alla meticolosa traduzioni delle tragedie greche, non ho potuto fare a meno di pensare una cosa: anche io avrei perso la testa per Hughes. Le foto selezionate da Bate lo immortalano col ciuffo ribelle, gli occhi scuri e profondi, l’espressione sorniona: uno sguardo che trasuda intelligenza e ironia, che sembra sfidare l’interlocutore.

      ted-hughes-bresson

      Hughes è legato alla terra, al suo Yorkshire, alla natura, alla vita all’aria aperta, ai misteri e alle necessità del corpo e dell’amore, alle belle donne. Ha un rapporto un po’complesso col fratello maggiore, Gerald, colpevole di essere il preferito della madre e di essere andato via, a vivere in Australia. Ogni volta che Ted torna a casa, ha la sensazione che, con lo sguardo, sua madre gli rimproveri di non essere Gerald. Ha un rapporto strettissimo, quasi morboso, con la sorella Olwyn, una delle principali antagoniste di Sylvia; nel tempo, Olwyn diventerà agente di Ted e curerà con lui il lascito letterario di Sylvia.

      A Cambridge, Ted tinge tutti i suoi vestiti di nero, fa un po’ di bravate, lascia la facoltà di inglese per passare ad antropologia, continua a vivere nel campus anche dopo esserne stato allontanato, ha una serie di ragazze, tra cui l’irlandese Shirley, che frequenta ancora all’epoca del suo incontro fulmineo con la Plath. I due si dichiarano scrivendosi poesie a vicenda.

      Ted racconta la loro prima notte insieme a Londra in una delle poesie di Birthday letters, 18 Rugby street: l’attesa di Sylvia, di passaggio nella capitale inglese prima di partire per Parigi; la scoperta della ragazza, del mistero delle sue labbra piene, da aborigena, del suo naso da Apache, del piccolo mento da pesce (il suo segno zodiacale), del suo viso che è come il mare, eternamente cangiante. Della piccola cicatrice, retaggio degli elettroshock subiti dopo il primo tentativo di suicidio della ragazza. Del suo corpo liscio e sinuoso, da creatura dell’acqua:

      You were a new world. My new world.

      So this is America, I marvelled.

      Beautiful, beautiful America!

      In una lettera a Sylvia dopo la loro notte a Londra, Ted scrive:

      [March 1956] Sylvia, That night was nothing but getting to know how smooth your body is. The memory of it goes through me like brandy. If you do not come to London to me, I shall come to Cambridge to you.

      (Sylvia, quella notte per me non è stata altro che la scoperta di quando il tuo corpo sia liscio. Il suo ricordo scorre in me come brandy. Se non vieni da me a Londra, verrò a Cambridge da te).

      (da Letters of Ted Hughes, edite da Christopher Reid, Faber & Faber)

      1798

      La loro storia d’amore è talmente vorticosa da togliere il respiro: pochi mesi dopo il primo incontro a Cambridge, I due si sposano segretamente (perché Sylvia teme di perdere la sua borsa di studio Fullbright) il 16 giugno, in onore di James Joyce e del suo Bloomsday. Sylvia ha un vestito di lana rosa, Ted indossa la sua giacca tinta di nero. Sotto la pioggia, nel ricordo di Ted, Sylvia diventa di nuovo una figura marina, gli occhi immensi come due gioielli offerti in dono proprio a lui, un improbabile principe azzurro:

      You were tranfigured.

      So slender and new and naked,

      A nodding spray of wet lilac,

      You shook, you sobbed with joy, you were ocean depth

      Brimming with God.

      Dopo un periodo in Inghilterra, i due si trasferiscono in America, dove Sylvia insegna e Ted è libero di dedicarsi alla scrittura. Non ama l’America, Ted, quest’America fuori dalle linee del corpo di Sylvia; brama gli spazi più ristretti e contenuti della sua Inghilterra, i contorni sfumati del suo amatissimo Yorkshire. La coppia torna in Inghilterra, prima a Londra, poi a Court Green, un cottage nel Devon acquistato su insistenza di Ted, una promessa di vita arcadica e idilliaca che preoccupa e spaventa Sylvia, amante delle luci e della vitalità di Londra. Da lì il declino, che inizia con le forme voluttuose di Assia Wewill e culmina nella notte del suicidio di Sylvia.

      L’incubo di quella notte dell’11 febbraio del 1963 viene raccontato da Hughes nei versi di Last letter, la sua ultima missiva a Sylvia, pubblicata postuma. La poesia inizia con una domanda piena d’angoscia (“What happened that night? Your final night?”) e termina col momento in cui a Hughes viene annunciata la morte di Sylvia  (“Then a voice like a selected weapon or a measured injection, coolly delivered its four words deep into my ear: ‘Your wife is dead.’”)

      Secondo Bates, la poesia sarebbe stata ispirata da un litigio della coppia durante quel fatidico fine settimana. Il venerdì mattina, Sylvia manda una lettera concitata a Ted, comunicandogli la sua decisione di lasciare l’Inghilterra e non vederlo mai più. Sylvia pensa che la lettera sarebbe arrivata a Ted solo il giorno dopo, ma, per una volta, il servizio postale la sorprende e la missiva arriva al suo destinatario il venerdì pomeriggio.

      Lettera alla mano, Ted corre a Primrose Hill, all’appartamento di Sylvia. I due litigano, e la poetessa gli strappa la lettera di mano e la brucia, dicendogli di andarsene. Sarebbe stato il loro ultimo incontro.

      Il sabato, Sylvia telefona a Ted da una cabina pubblica, sfidando il freddo glaciale. Ted è con una delle sua amanti, Carol Alliston, nel suo studio a Cleveland street. Sylvia è isterica, e gli chiede di portarla via. Lui le consiglia di stare tranquilla (take it easy, Sylvie). Quando chiude il telefono, dice a Carol che tornare da Sylvia per lui sarebbe come morire.

      Ted passa domenica con la sua amante, ma decide di portarla nello stesso appartamento in cui lui e la Plath avevano trascorso la loro prima notte insieme, sette anni prima, a Rugby street, forse per evitare le telefonate di Sylvia. Lunedì mattina scopre che Sylvia è morta.

      Quella notte, il suono del telefono che dev’essere squillato a lungo nello studio di Cleveland street, l’immagine di Sylvia sola, che, avvolta nel suo cappotto nero, affronta la neve e il gelo per arrivare alla cabina telefonica: tutte immagini e suggestioni che perseguiteranno a lungo Hughes.

      Tuttavia, per la maggior parte della sua carriera, Ted mantiene la sua poesia asettica, impersonale: rifugge dall’uso della prima persona, evita materiali autobiografici, trasforma ogni esperienza, affidandola alla creatività e alle forze dell’’immaginazione. Un altro elemento che lo trattiene è la lettura femminista della vita, delle opere, della morte della Plath: una lettura in cui Hughes diventa spietato carnefice. Verso la fine, ormai ammalato, Ted si convince del fatto che il suo sviluppo creativo, e anche la sua salute mentale e fisica, siano stati danneggiati dal suo rifiuto di affrontare nei suoi versi la morte di Sylvia. Così, nel 1998, decide di pubblicare Birthday letters, una selezione di poesie scritte nell’arco di venticinque anni: il suo modo di congedarsi finalmente dal fantasma di Sylvia, di assolversi, di dirle finalmente tutte quelle cose che erano rimaste in sospeso. Una lettera d’addio lunga venticinque anni, una lettera d’addio lunga un’eternità.

      Posted in Letteratura e dintorni | 14 Comments | Tagged Birthday Letters, Letteratura americana, Letteratura inglese, Olwyn Hughes, Sylvia Plath, Ted Hughes
    • Sylvia Plath, la donna senza voce

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2016

      Sp2

      L’undici febbraio 1963, nel corso di uno degli inverni più rigidi conosciuti a Londra, Sylvia Plath si toglie la vita. Nel momento stesso in cui la Sylvia-persona smette di respirare, la testa appoggiata su un panno ordinatamente piegato in due, nasce una leggenda.

      Quando la Sylvia mamma, poetessa, moglie tradita dal cuore spezzato, figlia arrabbiata, artista tormentata tace per sempre, dalle sua ceneri emerge l’idea di Sylvia: un’idea di cui hanno cercato – e continuano a cercare – di appropriarsi studiosi, critici, storici, eserciti di femministe. Ognuno di questi gruppi cerca di alzare la voce, di gridare di più, di fare ascoltare al mondo la propria versione di Sylvia: una Sylvia che ormai non può più difendersi e cercare di raccontare la sua, di versione, mentre il suo unico romanzo – La campana di vetro – e le sue poesie vengono rivisitate e forzate ad assumere la forma, la dimensione e le sfumature imposte loro dalla mitologia imperante.

      Questo è il rischio che si corre quando si scrive della Plath: le versioni e le rappresentazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni sono così diverse tra loro che Sylvia ha perso la sua voce, intrappolata in una rete sempre più contorta di aspettative individuali e collettive, mentre i due schieramenti della tifoseria – i pro Hughes, nettamente in minoranza, e i pro Plath, agguerriti e pieni di rivendicazioni – si guardano in cagnesco. Ognuno di loro vuole un pezzo della Plath, un pezzo che corrisponda a una precisa idea e raffigurazione, tanto che non si può fare a meno di chiedersi: chi è davvero Sylvia Plath? A chi appartiene l’idea, la memoria, il ricordo della creatura mitologica che emerge dalle ceneri con i suoi capelli di fuoco e mangia gli uomini come se fossero aria?

      red hair

      Image credits: Etsy

      Di chi sono le sue parole – e non solo quelle pubbliche, ma quelle più intime, quegli spaccati di vita quotidiana racchiusi nelle lettere e nei diari?

      Uno degli episodi più macabri ed eccessivi di questa lotta per l’appropriazione della poetessa rimasta eternamente trentenne riguarda la sua lapide. Il 7 aprile 1989, due ammiratori della poetessa scrivono una lettera al Guardian per esprimere la loro indignazione per non essere riusciti a trovare la tomba di Sylvia, sepolta a Heptonstall, nel West Yorkshire. La sua lapide era infatti stata rimossa: un gruppo di femministe, offese dal fatto che l’iscrizione sulla lapide leggesse Sylvia Plath Hughes (i due non erano legalmente divorziati al momento della sua dipartita) avevano infatti grattato via il cognome del marito, e la lapide era stata rimossa per essere riparata.

      grave

      Un altro feudo degno di nota è quello nato tra i lettori, gli studiosi, i biografi e The Plath Estate, gestito con mano ferrea da Hughes (deceduto nel 1998) e da sua sorella Olwyn, agente letteraria, deceduta a gennaio. I due fratelli hanno dato filo da torcere ai biografi che, nel corso dei decenni, hanno cercato di raccontare la loro versione di Sylvia, tra querele, richieste di ritrazioni, lettere aperte, permessi non accordati: l’unica biografia approvata da Olwyn, Bitter fame, è stata praticamente scritta a quattro mani dalla stessa Olwyn e dalla poetessa Anne Stevenson, finendo per offrire un’agiografia di Ted Hughes e un’immagine alquanto negativa della Plath, mangiatrice di uomini, misogina, patologicamente gelosa del marito, offuscata dai suoi problemi mentali.

      L’intera vicenda della sfortunata biografia Bitter fame è raccontata dalla scrittrice e giornalista Janet Malcolm in The Silent Woman: Sylvia Plath e Ted Hughes. La Malcolm, oltre a  ricostruire quelle vicende che hanno cercato di erodere la potenza della voce della Plath, offre interessanti spunti di riflessione sulla natura stessa delle biografie: il biografo, scrive, è un ladro professionista che si infiltra nelle case degli altri e rovista nei loro cassetti, svuotandone il contenuto e sottraendone sia le cose di valore, sia i segreti più sordidi, in una sorta di estasi voyeuristica.

      C’è sicuramente un elemento di voyeurismo nelle vicende della famiglia Hughes-Plath, che fanno gridare Ted alla persecuzione e che vengono esasperate dalle vicende editoriali dopo la morte di Sylvia. La campana di vetro, il suo unico romanzo, era stato infatti pubblicato solo in Regno Unito e con uno pseudonimo, Victoria Lucas: Sylvia temeva infatti soprattutto di ferire i sentimenti della madre, la cui ambizione eccessiva nei confronti della figlia e la sua parziale cecità nei confronti dei suoi problemi psicologici sono incarnati dalla madre di Esther Greenwood.

      All’inizio degli anni ’70, Hughes chiede alla madre della Plath, Aurelia, il permesso di pubblicare il romanzo anche negli Stati Uniti, per una motivazione alquanto veniale che rivela in una lettera datata 24 marzo 1970: Ted racconta all’ex suocera di aver adocchiato una bellissima casa nella costa nord del Devon. Non vuole vendere la casa che ha comprato nello Yorkshire, definendola un ottimo investimento, nè Court Green, il cottage in cui aveva vissuto con Sylvia, per ragioni sentimentali:

      “Therefore I am trying to cash all my other assets and one that comes up is The Bell Jar”.

      Aurelia acconsente a malincuore, ma vuole la sua parte: il permesso di Hughes di pubblicare le lettere che Sylvia aveva scritto a lei e a fratello, ovviamente in un’edizione rivista e corretta da lei, con tutti i tagli e le omissioni necessarie.

      Anche i Diari, nei quali la voce di Sylvia può finalmente trovare libero sfogo, non sfuggono alle forbici di Hughes: il diario degli ultimi mesi di vita della poetessa viene da lui distrutto, sostenendo che fosse suo dovere risparmiare ulteriori sofferenze ai loro due figli, Frieda e Nicholas; un altro dei diari scompare misteriosamente. Tuttavia, come scrive Katharine Viner, è nei diari che ritroviamo le varie identità di Sylvia: la casalinga anni ’50, la donna sessualmente liberata anni ’60, la femminista anni ’70 e anche un tocco della Bridget Jones degli anni ’90:

      “The journals remind us that there was a time when Sylvia Plath was alive and living – angry, happy, distressed, bitchy, silly, right, wrong. In her own words, withouth the filter of biography or poetry, here, the silent woman speaks for herself” (I diari ci ricordano che c’è stato un momento in cui Silvia era viva e viveva – arrabbiata, felice, angosciata, pettegola, frivola, giusta, sbagliata. Attraverso le sue parole, senza il filtro della biografia o della poesia, qui la donna silenziosa ritrova la sua voce”.)

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      Per questo The Silent Woman della Malcolm rimane uno studio più interessante dei diversi tentativi biografici: è infatti un’analisi delle analisi, un’interpretazione delle interpretazioni dell’immenso baraccone sorto intorno al connubio Plath-Hughes. Secondo la Malcolm, in questo marasma di articoli, libri, studi, biografie, parole, la voce della Plath è stata totalmente soffocata, e non sarà mai in grado di raccontare il freddo, la tristezza, la solitudine, l’angoscia, l’alienante disperazione di quegli ultimi mesi. Tutti si arrogano il diritto di parlare al posto suo, in suo nome: ma la sua voce, diventata sempre più fievole fino a svanire del tutto quel gelido 11 febbraio, è stata così sottoposta a interventi esegetici e di alterazione che bisogna essere in grado di scavare sotto tutti gli strati per cercare di ritrovarla.

      Bisogna approcciarsi alla Plath, sia alla sua prosa che alla sua poesia, cercando di non leggere tutto attraverso il mito della sua vicenda biografica: solo così, libere dal peso di decenni di tentativi di appropriazione, le sue parole riacquisteranno un senso perlomeno simile a quello originale, e Sylvia Plath, la ragazza di vetro andata a pezzi poi incollati alla meno peggio e messi a prendere polvere nel buio di una credenza scura, riacquisterà la sua propria voce.

      Tesoro, è tutta la notte

      che vacillo, spenta, accesa, spenta, accesa.

      Le lenzuola si fanno grevi come il bacio di un vizioso.

      Tre giorni. Tre notti.

      Acqua e limone, acqua

      di pollo, acqua mi fanno vomitare.

      Sono troppo pura per te o per chiunque.

      Il tuo corpo

      mi fa male come il mondo fa male a Dio. Sono una lanterna_______

      la mia testa una luna

      di carta giapponese, la mia pelle oro in foglia

      infinitamente delicata e infinitamente costosa.

      Non ti sbalordisce il mio calore? È la mia luce.

      Tutta sola, sono un’enorme camelia

      che arde e viene e va, vampa su vampa.

      Sto sollevandomi, credo.

      Credo che salirò______

      I grani di metallo bollente volano e io, amore, io

      sono una pura

      vergine

      di acetilene, scortata da rose,

      da baci e cherubini,

      da tutte queste strane cose rosa.

      Non tu, né lui,

      non lui, né lui

      (i miei io che si dissolvono, vecchie gonnelle di puttana)________

      verso il Paradiso.

      (Da Febbre a 40 gradi, trad. a cura di Anna Ravano)

      Consigli di lettura:

      • Sylvia Plath. Tutte le poesie, a cura di Anna Ravano, Oscar Mondadori

      • The Silent Woman: Sylvia Plath & Ted Hughes, Janet Malcolm, Granta Publications

      • Sylvia Plath. A life reviewed, Guardian Shorts Book 54, a cura di Lauren Niland

      • Mad girl’s love song. Sylvia Plath and life before Ted, Andrew Wilson, Scribner

      • Making sense of suicide with Sylvia Plath, Katie Crouch (in traduzione italiana)

      Soundtrack: Celebrity skin, Hole (You want a part of me? Well I’m not selling cheap, no, I’m not selling cheap)

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      Posted in Letteratura americana | 5 Comments | Tagged Anna Ravano, Anne Stevenson, biografie, Bitter fame, Celebrity skin, Febbre a 40 gradi, Hole, Janet Malcolm, Katharine Viner, Letteratura americana, Olwyn Hughes, Oscar Mondadori, Storie dietro la storia, Sylvia Plath, Ted Hughes, The Plath Estate, The Silent Woman: Sylvia Plath e Ted Hughes
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