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    • Tutti i piccoli, piccolissimi dispiaceri di Miriam Toews

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 26, 2016
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      Nature morte, Sophia Koegl e Robert Dziabel

      La depressione è il male del nostro tempo, eppure mi sconvolge (e mi rattrista) l’atteggiamento della maggior parte dei non depressi, di coloro che, fortunatamente, non hanno mai esperito the mean reds, per dirla con Holly Golightly e Truman Capote:

      “You know the days when you get the mean reds?
      (Paul Varjak) The mean reds. You mean like the blues?
      (Holly Golightly) No. The blues are because you’re getting fat, and maybe it’s been raining too long. You’re just sad, that’s all. The mean reds are horrible. Suddenly you’re afraid, and you don’t know what you’re afraid of.
      Do you ever get that feeling?”

      (Breakfast at Tiffany’s, Truman Capote)

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      Secondo alcuni dei non depressi (che chiameremo negazionisti) la depressione non esiste. È la tendenza che caratterizza un manipolo di pessimisti proni a vedere il bicchiere sempre vuoto e alla disperata ricerca di attenzioni, che cercano di strascinare nel vortice della loro (incomprensibile) tristezza coloro che li circondano.

      I non negazionisti sono gli allarmisti, che considerano la depressione una pericolosa malattia mentale: chi ne soffre non può avere tutte le rotelle a posto.

      L’anno scorso la Pixar ha prodotto Inside out, un’intelligente riflessione sull’impossibilità di essere sempre felici (che poi, cos’è davvero la felicità?) nell’epoca delle timeline di Facebook, di Twitter, di Instagram, della vita Pinterest, dove la felicità perenne sembra quasi un obbligo, dove – in una sorta di contorto social-darwinismo – non c’è posto per i momenti di scoramento, per le perdite, per le mancanze, per i cuori spezzati, per i momenti bui: sei sei down, sei out.

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      Inside out insegna a non vivere i momenti di infelicità come una debolezza, a non vergognarsi della malinconia, a imparare a convivere con la tristezza.

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      Questa lunga riflessione si inserisce tra le dinamiche familiari dei protagonisti di All My Puny Sorrows di Miriam Toews (il cui cognome si pronuncia Taves, che fa rima con saves). La Toews mi era stata consigliata e aspettavo il momento giusto per iniziare a leggerla. Questo momento è arrivato inaspettatamente a New York in un tardo pomeriggio di pioggia torrenziale: mi sono rifugiata in una libreria dalle parti di Little Italy, ho afferrato una copia di All My Puny Sorrows (in italiano I miei piccoli dispiaceri, pubblicato da Marcos y Marcos nella traduzione di M. Balmelli, con una copertina ancora più adorabile di quella dell’edizione che ho sfogliato a NYC) e ho letto le prime quaranta pagine tutte d’un fiato, per poi finire il libro sul Greyhound da New York a Philadelphia.

      Il titolo del romanzo è tratto da una poesia di Coleridge, To A Friend, With An Unfinished Poem:

      “I, too, a sister had, an only sister —
      She loved me dearly, and I doted on her;
      To her I pour’d forth all my puny sorrows.”

      Come nei versi di Coleridge, Yoli ha una sorella, Elf, talentuosa, fragile, complicata e bellissima. Le due sono legate da un legame tanto forte quanto problematico e tormentato: sono entrambe reduci, sopravvissute a una severa, intransigente educazione mennonita, vissuta all’interno di una comunità che si arroga il diritto di controllare, criticare, condannare le famiglie che ne fanno parte. Elf è la prima a ribellarsi, iniziando a suonare il pianoforte nonostante la cosa non venga vista di buon occhio dagli anziani. Giovanissima, vince una borsa di studio per la Norvegia e riesce a scappare, a viaggiare, a diventare una pianista di fama mondiale, adorata dal compagno, Nic. Al confronto, la vita di Yoli sembra molto più incasinata: due figli da due matrimoni diversi, entrambi finiti, una serie di storie che la lasciano più vuota e sola che mai.

      Tuttavia, c’è una differenza sostanziale tra le due sorelle; Elf non vuole vivere. Elf vuole morire, come suo padre, uscito un giorno di casa per andare a buttarsi sotto un treno. Tra un tentativo di suicidio e l’altro – ciascuno più disperato e distruttivo – Elf chiede a Yoli di aiutarla: vuole andare in Svizzera, vuole optare per l’eutanasia, vuole porre fine a quel dolore insopportabile, a quella totale incapacità di vivere. Vuole smettere di soffrire. Vuole essere salvata dalla persona che più la ama al mondo e le è complementare.

      Come si fa ad aiutare una persona amata a morire? Mi viene in mente il bellissimo, lacerante racconto di Poissant, Come aiutare tuo marito a morire: tuttavia, il marito in questione è gravemente malato di cancro, mentre Yoli spera ancora di riuscire a salvare la sua Elf adorata, portandola via con sé, a Toronto. Cercando di portarla al sicuro, al sicuro dalla vita, salvandola da se stessa.

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      Elf sente troppo: ogni emozione, ogni sentimento viene amplificato e la lascia esausta. Ogni nota va a suonare quel pianoforte di vetro che alberga dentro il suo stomaco, che potrebbe andare in pezzi ogni istante, distruggendola. Elf sente sulla sua pelle, dentro il suo stomaco quel male di vivere che Montale ha eternato nei suoi versi:

      “Spesso il male di vivere ho incontrato

       era il rivo strozzato che gorgoglia

       era l’incartocciarsi della foglia

       riarsa, era il cavallo stramazzato.

       Bene non seppi, fuori del prodigio

       che schiude la divina Indifferenza:

       era la statua nella sonnolenza

       del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”

      Tutto l’amore del mondo – quello di Yoli, quello incondizionato di Nic, quello di sua madre, che è una vera e propria fortezza, quello dei suoi nipoti, quello del suo agente, quello dei suoi ammiratori – nulla può contro il dolore e il desiderio di morte di Elf.

      Ho amato il personaggio di Nic: non ha paura della malattia di Elf, non prova nemmeno una volta il desiderio di scappare, è sempre pronto a raccogliere i pezzi e a ricominciare, grato di ogni nuovo giorno accanto alla compagna, di cui non stigmatizza né banalizza la sofferenza del corpo e dell’anima. Quando Nic vede Elf, non vede solo la sua depressione, la sua incapacità di continuare a vivere, il suo folle, esacerbato desiderio di morte: vede la luce di Elf, tutta quella luce che gli altri non riescono a vedere. La sua sensibilità di farfalla, la fragilità di chi è oppresso dalla presenza di un pianoforte di vetro nello stomaco, che soffoca le note dell’anima. Come Esther de La campana di vetro, anche Elf è una ragazza di cristallo; e la Towes è coraggiosa quanto la Plath, raccontando sotto forma di finzione la sua storia, la storia della sua famiglia, martoriata dalla depressione.

      Nic, anche nel peggiore dei momenti, anche quando la sua bellissima, complicata ragazza di cristallo gli scivola dalle mani, guarda in faccia la madre di Elf e la ringrazia di averla messa al mondo, insieme a tutti i suoi piccoli, grandi dispiaceri.

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      Miriam Toews, foto di Teri Pengilley per The Guardian

      “I don’t remember what I am. I am what I dream. I am what I hope for. I am what I don’t remember. I am what other people want me to be. I am what my kids want me to be. I am what Mom wants me to be. I am what you want me to be”.

      (All My Puny Sorrows, Faber&Faber, in italiano I miei piccoli dispiaceri, pubblicato da Marcos y Marcos nella traduzione di M. Balmelli)

       

      Soundtrack: Blue, Joni Mitchell

      Posted in Ophelinha legge | 19 Comments | Tagged All my puny sorrows, Blue, Breakfast at Tiffany's, Coleridge, David James Poissant, depressione, Esther Greenwood, Eugenio Montale, Faber & Faber, Holly Golightly, I miei piccoli dispiaceri, Il paradiso degli animali, Inside Out, Joni Mitchell, La campana di vetro, Letteratura canadese, Marcos y Marcos, Miriam Toews, New York, NN editore, non se ne parla mai abbastanza, Ossi di seppia, Robert Dziabel, Sophia Magdalena Koegl, Spesso il male di vivere ho incontrato, Sylvia Plath
    • Estate 1985

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 20, 2015

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      L’estate del 1985 è una Polaroid sbiadita.

      Lei è una bambina dai ricci scuri, il cappello da marinaretta, un costumino a balze e le scarpine di gomma per camminare sulle pietre.

      Lui è un uomo alto, allampanato, dai capelli nero inchiostro, un costume a vita alta fuori moda, e la tiene per mano.

      Entrambi guardano verso il mare – il mare trasparente della costa ionica calabrese, quel mare infinito, quel mare che è come una storia da raccontare, una promessa di cose che verranno.

      Guardo quella bambina, e immagino si senta sicura, protetta da quel gigante invincibile. E mi chiedo se abbia smesso di sentirsi al sicuro per sempre, quando è venuta meno quella mano forte, che le copriva tutto il viso; quella mano nodosa e allungata, capace di intagliare il legno come suonare la chitarra, ma anche aprire la porta di casa e dimenticarsi di tornare a chiuderla.

      Guardo quella bambina e penso che, crescendo, la vita deve averle ricamato addosso una trama di assenze, che può fungere da mantello dell’invisibilità o pesante armatura. E che, tra tutte quelle assenze, rimane il vuoto immenso di una, la più grande, la più assurda, la più inspiegabile.

      Quella di cui non si può parlare, quella a cui è meglio non pensare, quella che diventa un groppo alla gola, un nodo nello stomaco, il punto interrogativo di notti senza stelle.

      E penso che è cosi che si inizia ad avere paura: quando succede qualcosa che non ci si riesce a spiegare, e tutto cambia per sempre, restando in apparenza sempre uguale a se stesso. Tutto cambia perché si cambia, silenziosamente, inspiegabilmente, inesorabilmente. La paura attecchisce, mette radici, cresce ogni giorno di più, aspettando il momento giusto per manifestarsi, come un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.

      Ma in quella polaroid dell’estate 1985 tutto resta uguale: i colori possono sbiadire, ma il gigante e la bambina restano lì, a guardare il mare che si infrange sui sassi. E il cielo blu, e il calore del sole sulla pelle, e l’odore di sale e di brezza marina, e tutto il resto, e le note lontane di una chitarra che suona “La prima cosa bella” di Nicola di Bari e si porta via un’estate che non tornerà più, ma resterà fissa, immortalata e perfetta per sempre.

      Posted in Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Calabria, Memories, non se ne parla mai abbastanza, Racconti, storie minime
    • Making sense of suicide with Sylvia Plath: un articolo di Katie Crouch (parte seconda)

      Posted at 11:50 pm09 by ophelinhap, on September 27, 2014

       
      Avevamo lasciato Katie, Henry e Lucinda a disagio in una bettola da quattro soldi.
      Ah, per chi si fosse perso la prima parte: Katie Crouch è una scrittrice americana, autrice del best-seller Abroad, ha scritto un articolo che ho letto su BuzzFeed e, che per una serie di motivi, non riuscivo a smettere di leggere. Ne ero affascinata.
      Ho chiesto a Katie il permesso di tradurlo in Italiano, e questa è la seconda parte (qui la prima parte).
      Perché Sylvia Plath, allora, e cosa c’entrano Henry, Lucinda e Kate?
      L’articolo di Katie è una lettera a Sylvia Plath, un racconto, e una confessione.
      E’ una riflessione sul suicidio di Sylvia – della Sylvia persona, la Sylvia ragazza, quella che si nasconde dietro la maschera della poetessa tanto amata e celebrata, dalla vita romanzata.
      E’ una riflessione sul suicidio in generale, e sul suicidio di Henry.
      Henry è un amico di Katie, un suo ex collega, compagno di sbronze, sigarette e risate clandestine, nascoste dalla quattro pareti discrete del bagno unisex.
      Henry è di un’intelligenza brillante e instancabile, che gli permette di distaccarsi dalla vuotezza e dalla scarsità di stimoli dell’agenzia pubblicitaria per cui lavora insieme a Katie e di rifugiarsi nei libri, nella musica elettronica, nella cultura giapponese.

      Henry, come Sylvia, vive la vita all’estremo. Henry, come Sylvia, brucia d’amore: amore per Lucinda, la moglie che non gli apparterrà mai veramente, perché ama essere guardata dagli altri uomini, adorata, venerata mentre si spoglia in un night club.

      Mentre traducevo la storia di Henry, a un certo punto nella mia playlist è partita Pyramid song dei Radiohead, e, complice il fatto che ho da poco finito di leggere The Bell Jar, mi sono sentita estremamente coinvolta nel dramma di Henry e in quello di Sylvia, e in quello di Katie, il suo senso di colpa per non essere riuscita a salvare il suo amico, la sua insonnia.
       
      The bell jar, suspended, a few feet above my head. I was open to the circulating air. (The Bell Jar,  Sylvia Plath)
      (La campana di vetro, sospesa a qualche centimetro dalla mia testa. Ero aperta all’aria che circolava)

      E ho pensato a quanto sia facile perdersi, sentirsi soli. Perdere la speranza.
      Sentirsi quasi invisibili, in un guazzabuglio di condivisione e di “mi piace”, dove l’apparenza conta sempre di più, e ci si dimentica di guardare cosa c’è sotto la campana di vetro.

      E mi è venuta in mente la pubblicità di una macchina con navigatore incorporato, che diceva qualcosa tipo: in un mondo pieno di indicazioni, riesci ancora a perderti?
       
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      “Okay” ho detto allora”. La moglie aveva questa piccola pochette sbrilluccicosa di cui Henry si prendeva cura come se si trattasse di un cucciolo. Mi ricordo che lo osservavo – stringeva la borsetta così forte che la sue nocche erano bianchissime – e pensavo che nessuno mi avrebbe mai amato così.

      Henry e Lucinda erano diversi dal resto dei miei amici. Avevo provato a farli incontrare tutti, ma era un miscuglio troppo strano. La coppia non sciava, non amava i Wilco (gruppo rock alternativo basato a Chicago, Illinois, ndr), non viaggiava con un branco di ragazzi equipaggiati REI (marca americana di equipaggiamento e abbigliamento sportivo, ndr) dalla testa ai piedi. Uscivano di rado, e quando venivano alle feste stazionavano nell’angolo della stanza, come fantasmi. Eppure amavo questo loro separarsi dagli altri. Li trovavo affascinanti.

      Ho poi scoperto che, in realtà, non sapevo niente di Henry. Avevo una mia visione romanzata della sua vita: l’ amico musicista e la moglie spogliarellista di certo vivevano in un loft da artisti a South of Market (quartiere di San Francisco, ndr).

      Il giorno in cui sono passata da loro ho scoperto che l’appartamento di Henry altro non era che uno studio piccolo e sporco a Tenderloin (quartiere di San Francisco, ndr).

      Avevo detto a Henry che sarei passata, ma pareva se lo fosse dimenticato. Ha aperto la porta in pigiama, l’aria corrucciata.

      “Ciao” mi ha detto. Il posto era freddo e cupo. Un gatto mi osservava dal letto.

      “Ciao”.

      “Non l’hai mai chiamata”.

      “Cosa?”

      “Lucinda. Per la storia.”

      “Oh. Mi dispiace”. Gli ho dato I soldi per i miei dieci dollari di fumo (ero passata per quello). “La chiamerò, stanne certo”.

      È passato del tempo prima che la chiamassi. Sono andata a sciare; sono andata per locali con gli altri copywriter. Il mio ragazzo era un repubblicano, il che mi aveva portato, in qualche maniera misteriosa, a seguire un corso su come cucinare i soufflés. Alla fine, mossa dalla noia più che dal senso di colpa, ho chiamato Lucinda. Era dolce al telefono, la voce infantile che suonava come quella di una bimba di otto anni.

      Lucinda è arrivata in ritardo al nostro appuntamento al Café Vesuvio, vicino al locale dove lavorava.

      È arrivata arrossata e senza fiato, molto più carina nella luce del pomeriggio rispetto alla sera in cui l’avevo conosciuta. Abbiamo bevuto un paio di bicchieri e  ho acceso un piccolo registratore che ancora conservo in uno scatolone di robe vecchia a casa di mia madre, dove mi sarei trasferita qualche anno più tardi, dopo quello che alcuni hanno definito un esaurimento nervoso.

      Lucinda mi ha raccontato che aveva sempre desiderato fare la ballerina. Quando era andata a Las Vegas insieme a Henry, lui l’aveva portata a vedere delle showgirl.

      “Ma io non ero interessata a ballare”.

      “Ti piaceva solo l’idea di essere guardata?”

      “Adorata”.

      Dopo un po’ mi ha portato al club dove lavorava. Sedute nello spogliatoio, abbiamo fumato e chiacchierato con le altre ragazze. Spettegolavano e si pavoneggiavano allo specchio nelle loro vestaglie di seta. Io prendevo appunti, minuziosamente. Cambio del turno. Vestaglie. Molte sono studentesse di arte. Scarpe. Lucinda si è alzata e ha preso un paio di stivali go-go bianchi (la Go-go dancing è un tipo di danza erotica, con ballerine o ballerini spesso vestiti con abiti succinti e questi stivali, nata nei primi anni ’60 quando le donne al Peppermint Lounge di New York hanno cominciato a salire sui tavoli e ballare il twist, ndr) dallo scatolone degli oggetti di scena. Si è spogliata in silenzio e si è messa i tacchi alti, poi si è avvicinata allo specchio e ha dipinto di rosso le sue morbide labbra da geisha.

      “Dai, mettiti gli stivali” he detto, girandosi verso di me.

      La sua indifferenza. Nessuna discussione, nessun esasperante dovrei farlo, o no?

      Ho chiuso la cerniera degli stivali, poi ho seguito il bagliore delle sue spalle per il corridoio. Abbiamo messo via le sigarette e siamo passate sotto la porticina che dava sul palcoscenico. Le altre ragazze stavano già ballando. Ci hanno fatto un cenno.

      Non ho oltrepassato la tenda: sono rimasta lì a sbirciare. Faceva freddo, e l’aria sapeva di candeggina. Ma niente di tutto questo aveva importanza in presenza di Lucinda. Volteggiava, faceva piroette,  scivolava via leggera, furtiva. Le altre ragazze ci provavano, ma in confronto a lei non erano che bamboline di carta. La gamba di Lucinda arrivava fino al suo orecchio e oltre, in un’altra dimensione. Nonostante il vetro fosse unidirezionale, riuscivo a intravedere le sagome delle teste che si muovevano su e giù vicino alla sua finestra.

      Alla fine – dopo dieci minuti? Venti?  – ha fluttuato nella mia direzione.  “Dovrebbero riscaldare di più questo posto”, ha osservato. Abbiamo smezzato una sigaretta, poi è andata di nuovo a ballare. Ho pensato che non avrei mai raccontato quest’esperienza al mio ragazzo. Poi ho pensato a Henry, a dove poteva essere. Forse a casa, fatto, col suo gatto, a leggere Murakami? O forse a guardare la porta, aspettando che la sua iridescente moglie tornasse?

      Dopo qualche altra esibizione siamo tornate nei camerini, ci siamo vestite insieme, poi siamo scappate via ridendo sul marciapiede. La mia gola era intasata dal fumo delle sigarette. Lucinda ha aperto la giacca e ha tirati fuori gli stivali bianchi, facendo scivolare la borsetta di lustrini dalla spalla.

      “Li ho rubati per te” ha detto, con quella sua voce.

      E’ stato uno di quei rari momenti di purezza. Sai di cosa sto parlando, vero Sylvia? Una piccolissima pausa nel corso degli eventi; un istante che significa tutto e niente allo stesso tempo. Ho pensato a Henry in ufficio alle sei del mattino, quando fuori è ancora buio, per guadagnarsi un paio di ore insieme a sua moglie. In quel momento tutta la loro storia assumeva un senso, com’è successo a te quando hai incontrato Ted.

      Lucinda. Era impossibile non amarla.

      Conosciamo la tua storia, Sylvia, e la sua parabola. La passione soprannaturale, la pazzia, il vortice che ti ha risucchiato. Quindi sappiamo come va a finire questa storia, vero? Dopotutto, ti ho già detto che mi ricordi il mio amico Henry. Il modo in cui ti sei aperta a un’altra persona, permettendo che ti abitasse. Il fatto che tu abbia modellato la tua vita intorno a lui. Alcune femministe impazziscono per quello che tu hai fatto per Ted. Dicono che tu sei un pessimo esempio, una pessima madre. Sono una femminista e sono una mamma, ma conosco amore e pazzia. Le parole che ci hai lasciato riescono a pulire ogni macchia, per me. Forse divento più disposta al perdono col passare del tempo, a causa dei miei errori. In ogni caso, non ti critico.

      Il collasso di Henry è iniziato col disastro che ha colpito l’altra costa del Paese l’11 settembre 2001. C’è voluto circa un mese  perché l’agenzia iniziasse a risentirne il pieno impatto. Il corso di yoga è stato cancellato. C’è stata una riunione durante la quale non si è parlato più di “famiglia”. Sarebbero stati invitati dei consulenti a giudicare la nostra produttività.

      Il nostro receptionist si è sparato. La mascotte della compagnia si è ammalata di un cancro canino ed è morta. Un giorno, verso la fine di novembre, il mio computer è stato messo sotto chiave, le mie cose in uno scatolone di cartone. Henry, che doveva essere stato il primo a ricevere la notizia dato che veniva in ufficio prestissimo, se n’era già andato.

      E’ stato l’inizio di cose molto spiacevoli, Sylvia. Le metà femminile della coppia dai pantaloni di pelle se l’è svignata con un consulente d’investimento. La metà maschile, abbandonata ed arrabbiata, ha molestato una produttrice e si è fatta licenziare dal consiglio di amministrazione.

      Un flagello istantaneo. Nessuna possibilità di tornare a lavorare. Mi sono iscritta alle liste di disoccupazione , poi ho scritto circa cinquecento parole sul mio pomeriggio con Lucinda e le ho mandate a Henry. Non mi ha mai detto niente, quindi ho dedotto (a ragione) che non fossero granché.  Tutti si affrettavano a lasciare la città: il mio ragazzo, molti dei miei amici. Tornavano sulla costa est a lavorare per le loro famiglie o si iscrivevano nuovamente all’università.

      Henry e Lucinda non se ne andavano. Quello che li differenziava dal resto dei miei amici non era, ovviamente, il loro fascino, ma il fatto che non venissero da famiglie benestanti, e non avessero una rete di sicurezza per scongiurare lo scenario peggiore. Ma Lucinda aveva ancora il suo lavoro, quindi sembravano a posto. A volte andavamo a cena insieme in ristorantini vietnamiti da quattro soldi dalle parti loro. Henry e io parlavamo di libri, Lucinda mangiucchiava distrattamente.

      Ma qualcosa stava cambiando. Henry era sempre più magro, sempre più arrabbiato.

      Una sera ci siamo incontrati per un drink, solo io e lui. Aveva due grosse ombre bluastre sotto gli occhi. Lucinda era passata dallo spogliarello al porno, mi ha detto. Ora faceva lap dance, e altre cose di cui non voleva parlarmi. Non poteva chiederle di fermarsi: lei voleva farlo. E lui viveva dei soldi che sua moglie guadagnava compiacendo altri uomini.

      Mi sembra di ricordare di aver lasciato la città senza nemmeno aver rivisto Henry. So che sembra assurdo, visti i nostri precedenti.

      Il fatto è che non mi ricordo bene questo pezzo della storia. Ero così spaventata, non avevo un piano B. Non era così strano, in quel periodo, sparire senza dire niente. Erano in così tanti a partire che le feste d’addio erano ormai diventate una barzelletta. Forse sono passata a salutarlo, forse no. È passato così tanto tempo…

      Una cosa però me la ricordo. L’ho chiamato e gli ho lasciato un messaggio. Ricordo anche che, circa un mese dopo, anche lui mi ha lasciato un messaggio, Sylvia. Me lo ricordo ancora, parola per parola.

      Mi ha detto che era disperato. Che non aveva soldi. Che Lucinda stava pensando di lasciarlo. Che stava lavorando in un negozio di alimentari.

      “Conosci qualcuno?” ha chiesto alla macchina. Qualcuno che possa aiutarmi?

      Non lo conoscevo. Era la verità. Non conoscevo nessuno che avesse bisogno di droga, o di un programmatore, o di una lap dance. Ma era il mio amico, e, nel corso degli ultimi tre anni, ero stata quella che l’aveva fatto ridere senza una ragione. Quindi si, conoscevo qualcuno che poteva aiutarlo. Io.

      Ma c’è una cosa. Ci puo’ essere una cosa, vero Sylvia? Ci puo’ essere, e c’era: mio padre.

      Quando ero piccola, a volte mio padre mi portava nel nostro gazebo per parlarmi. Avevamo una bella casa, Sylvia, simile alla casa a Winthrop dove hai vissuto quand’eri piccola.

      Il gazebo era caldo e giallo. Mettevamo cracker salati con formaggio cremoso in un vecchio piatto scheggiato, in equilibrio precario su un cuscino in mezzo a noi. Mio padre mi raccontava che alcune persone ce la facevano a superare le avversità; altre, inevitabilmente, non ci riuscivano.

      Nel secondo caso, è importante allontanarsi, anche se si tiene molto alle persone in questione. È come quando una persona sta per annegare: pur non volendolo, ti porta giù con sè.

      È una cosa istintiva, mi diceva mio padre, bevendo chissà cosa on the rocks da una tazza di tè.

      Quando ero più giovane veneravo quest’uomo, nonostante i suoi problemi  e i suoi difetti, come tu veneravi Otto.  Ti ricordi che non sei mai riuscita a riprenderti dalla sua morte? Ti quel senso di perdita, di vuoto, che ha dato origine ad Ariel?

       

      You stand at the blackboard, daddy

       In the picture I have of you

       A cleft on your chin instead of your foot

       But no less a devil, no not

       Any less the clack man who

       Bit my pretty heart in two.

      (dalla poesia Daddy, ndr)

       

      Sylvia, Henry mi ha chiamato perché aveva bisogno di me. Stavo per rispondere. Poi ho pensato a mio padre, a quello che mi aveva detto, anche se sapevo che era solo un ubriacone.

      Non posso aiutare Henry in nessun  modo, ho pensato.

      Ma era solo il piano da quattro soldi di una scrittrice che voleva essere perdonata. Da te, da Henry. Da se stessa.  Avevamo torto, io e mio padre. Henry era il mio amico. Avrei dovuto richiamarlo.

      Ieri notte ero a letto con mia figlia. Ha tre anni. Non penso alla maternità tanto quanto ci pensavi tu, Sylvia. Le tue poesie sull’essere madre non erano tra le mie preferite, Sylvia. Preferisco fare più che pensare.  Per me, la maternità non è un miracolo: è la vita, semplicemente.  Ho una bambina, e ci amiamo. E tiriamo avanti.

      Ma ieri notte lei mi ha guardato e mi ha chiesto “io, tu e papà non moriremo mai, vero? Daisy – il nostro cane rauco – potrebbe morire, ma noi no, vero?”

      Non ero pronta a parlare di morte. Era tardi. Forse non mi andava, per pigrizia. Così ho fatto qualcosa che non avrei dovuto fare: le ho mentito.

      “Esatto” le ho detto. “Non moriremo.  Andrà tutto bene. Bevi un po’ d’acqua”.

      Roviniamo le persone, Sylvia. Figli, amici. Li roviniamo anche senza infilare la testa in un forno quando loro sono nella stanza accanto.

      Quando sono tornata, San Francisco era un posto diverso, più ragionevole. La gente aveva di nuovo lavori normali. Le grandi compagnia fatte di scaldapiedi e corsi di yoga, le stesse che ora considero specialmente pericolose, si erano tutte concentrate nella Silicon Valley. Non avevo chiamato più chiamato Henry e Lucinda; nemmeno loro l’avevano fatto. Eppure a volte pensavo a loro, reliquie estratte dal mio passato, come farfalle che volteggiavano intorno allo stesso spillo.

      Nel corso di uno di quei pomeriggi californiani dorati e luminosi sono passata dalle parti del club dove lavorava Lucinda. Sono entrata e ho chiesto di lei, usando il suo nome di scena, ma l’uomo al bancone mi ha detto che se n’era andata.

      Tornata a casa, li ho chiamati. I loro numeri erano cambiati, le email tornavano indietro.

      Qualche settimana più tardi ho incontrato la curatrice della cultura aziendale del posto dove lavoravo. Era ancora più bella, ancora più nervosa, ancora single. Abbiamo ricordato i vecchi tempi, parlato degli ex-colleghi. “Devo chiamare Henry” ho detto. Sono passati anni dall’ultima volta che l’ho sentito. Devo proprio chiamarlo”.

       

      La curatrice ha sorriso, ma era quel sorriso nervoso, inappropriato. Il sorriso forzato e involontario delle cattive notizie.

      “Oh, Henry è morto. Non lo sapevi?”

      No, non lo sapevo.

      Allora mi ha raccontato quello che era successo. Lucinda l’aveva lasciato. Henry non aveva più un soldo. Quindi, dopo anni di droghe e depressione, aveva affittato un macchina, guidato fino a Land’s End, chiuso i finestrini e acceso una griglia a carbone sul sedile del passeggero.

      “Apparentemente è un metodo molto popolare per suicidarsi, in Giappone” mi ha detto.

      Quello che è successo dopo è vago, sfocato. Credo di essermi messa a piangere. Credo la curatrice abbia cercato di essere empatica, ma fosse solo a disagio.

      Dopo un po’ se n’è andata. E io ho smesso di dormire.

      Per un bel po’ sono stata ossessionata dai dettagli. La data. Il posto. Dove fosse finita la macchina.

      Ho cercato Lucinda, nei vari night club e su Internet.

      Ho chiamato di nuovo la curatrice, perche’ mi avava detto di aver sentito dire che Lucinda si fosse iscritta ad una scuola per estetisti.

      “Ma dove?” le ho chiesto. “Qui?”

      Non lo sapeva, mi ha detto, un po’ impaziente. Le dispiaceva. Era una storia davvero triste.

      “Sono andata con lei al club dove lavorava, una volta”.

      La curatrice ha riso, fingendo interesse.

      “Nient’altro che stivali bianchi” le ho detto. Ho cercato di spiegarle la storia, ma non l’ha capita.

      I blissfully succumbed to the whirling blackness that I honestly believed was eternal oblivion.

      (Mi sono abbandonata con enorme sollievo al vortice nero che credevo essere oblio eterno).

       

      Questo è quello che hai scritto del tuo primo tentativo di suicidio, Sylvia. Voglio dire la volta che hai preso le pillole e ti sei nascosta in quella sottospecie di scantinato a casa di tua madre. Immagino che Henry abbia fatto la stessa cosa, mentre il monossido di carbonio deprivava il suo cervello di ossigeno. Abbandonarsi al vortice nero. A dirlo così, sembra quasi piacevole.

      Ma ho paura, Sylvia. Probabilmente l’avrai capito: sono una fifona. E la cosa che mi spaventa di più è il sospetto che non sia poi tanto piacevole, abbandonarsi al vortice. Ho paura che a entrambi sia mancata l’aria fino a soffocare, o che il sangue sia uscito a fiotti dal naso mentre il cervello esplodeva, o, peggio ancora, che abbiate capito troppo tardi che non volevate farlo. Che volevate vivere.

      Forse questo è il mio problema. Questo mio blocco mentale per cui non riesco a concepire che essere privi di vita sia meglio di essere vivi.

      Non riesco proprio a immaginarmi il sollievo dell’oblio, Sylvia, proprio come non posso comprendere dove finisca l’universo. È come in un puzzle di Escher (incisore e grafico olandese conosciuto principalmente per le sue incisioni su legno e litografie che tendono a presentare costruzioni impossibili ed esplorazioni dell’infinito, ndr): voglio che Henry abbia il suo lieto fine; so che non può più averlo; pensando alla sua fine, torno all’inizio. Ci si mette ovviamente di mezzo anche il senso di colpa, perché forse avrei potuto fare qualcosa. Inoltre, non riesco proprio a convincermi che per Henry abbandonarsi all’oblio possa essere stato meglio delle risate con me, chiusi in bagno.

      Probabilmente non ti sarei piaciuta, Sylvia. Tendo a semplificare le cose. Ricordi? Le uova.

      Henry non l’avrebbe mai fatto, semplificare le cose. E, considerando quello che hai scritto, nemmeno tu, credo.

      La differenza principale tra Henry, me e te l’ho capita solo dopo tutti questi anni. Io non vivo la vita con la passione e la profondità con cui voi l’avete vissuta. Non “sento” così tanto, e questo mi fa sopravvivere.

      Quando vago per casa la notte non vado dall’altra parte del precipizio. Svuoto la mente, e spero.

      Quindi questo è quello che auguro a te, poetessa, genio. Questo è quello che auguro a Henry, l’amico che non ho salvato. Spero che voi abbiate avuto ragione a proposito del vortice nero. Spero che l’oblio sia stato una benedizione. E spero che, in quel posto oscuro, i vostri cuori rinsecchiti, appassiti a causa del troppo amore, abbiano finalmente trovato il sangue che cercavate. Così, mentre l’aria abbandonava i vostri polmoni, il resto del vostro corpo sarà stato finalmente in grado di fiorire, di esplodere, di  incendiarsi.
       
       
      Posted in Letteratura americana, Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 8 Comments | Tagged American literature, Guestpost, Literature and Beyond, non se ne parla mai abbastanza, Poetry, Storie dietro la storia, Sylvia Plath
    • Making sense of suicide with Sylvia Plath: un articolo di Katie Crouch (parte prima)

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 22, 2014

       
      Preamble: I have stumbled upon an incredible essay written by Katie Crouch, author of Abroad, and published on BuzzFeed. I just couldn’t stop reading it, and Katie, being a terrific person, as kindly agreed to let me translate her essay in Italian for this article. Check out her work on her website…..

      And again, thanks a lot, Katie!
                 
                            ***************************************************************

      Qualche tempo fa ho letto su BuzzFeed questa bellissima riflessione sul suicidio. Sul suicidio letterario e letterale, se vogliamo. Su Sylvia Plath, e non solo.

      L’autrice, Katie Crouch, è stata così gentile da permettermi di tradurlo e vi consiglio di leggerlo.
      In questo post trovate la prima parte  – è lunghetto, quindi ho preferito dividerlo in due episodi.

      Leggetelo, perché non se ne parla mai abbastanza.

      Il 12 settembre scorso ha marcato l’anniversario della scomparsa di David Foster Wallace, celebrato da Paolo Cognetti in questa bellissima eulogia.

      Qualche settimana fa si è tolto la vita Robin Williams, che nel mio immaginario resterà sempre John Keating, il capitano, mio capitano de L’attimo fuggente, che ha impartito una delle lezioni più belle sul significato universale della letteratura:

      We don’t read and write poetry because it’s cute. We read and write poetry because we are members of the human race. And the human race is filled with passion. And medicine, law, business, engineering, these are noble pursuits and necessary to sustain life. But poetry, beauty, romance, love, these are what we stay alive for. To quote from Whitman, “O me! O life!… of the questions of these recurring; of the endless trains of the faithless… of cities filled with the foolish; what good amid these, O me, O life?” Answer. That you are here – that life exists, and identity; that the powerful play goes on and you may contribute a verse. That the powerful play *goes on* and you may contribute a verse. What will your verse be?

      Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore: sono queste le cose che ci tengono in vita! Citando Walt Whitman: O me, o vita! domande come queste mi perseguitano: infiniti cortei d’infedeli, città gremite di stolti. Che v’è di nuovo in tutto questo? O me, o vita?” Risposta: Che tu sei qui! Che la Vita esiste! E l’identità! Che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.Quale sarà il tuo verso?

      E poi c’è lei, Sylvia. Sylvia è morta l’11 febbraio, qualche giorno prima della mia data di nascita.

      Sylvia aveva la mia stessa età quando ha deciso di chiudere il sipario sul suo dramma. E non era la prima volta, e c’era un sacco di disperata premeditazione, come Paolo Cognetti ha scritto a proposito di DFW: il latte e il pane sul comodino di Nicholas e Frieda – i suoi bambini , la stanza destinata a diventare una camera a gas isolata da asciugamani infilati sotto le porte, la tata assunta a partire dal mattino successivo (il cappio, la sedia, il punto del soffitto di DFW).

      Insieme alla premeditazione, tanta disperazione  (forse un desiderio tacito di salvezza?): il biglietto con il numero del suo dottore, la richiesta ai vicini di passare a controllare come stessero, lei e i suoi bimbi, i figli di Ted..

      Il problema è forse quell’interpretazione romantica, eroica e romanzata del suicidio, ereditata dai giovani Werther e Jacopo Ortis, dalle Emma Bovary e dalle Anna Karenina: arsenico, colpi di pistola e binari del treno, finzioni letterarie che straripano nella realtà. Il problema è che spesso – e volentieri – ci si dimentica che dietro il poeta, lo scrittore, il pittore, l’artista maledetto c’è la persona: in questo caso la persona Sylvia, che rivela tanto di sé nel suo unico romanzo pubblicato – The Bell Jar -, nelle sue poesie e nei suoi diari, nei quali è impossibile non identificarsi, a tratti, nella ragazza esuberante affamata di vita e spaventata dalla vita al tempo stesso. La ragazza bella, sana e abbronzata, eppure tanto ammalata, perseguitata da demoni che la divorano dentro, fino a consumarla. La ragazza affascinante che non ha mai beaux  a sufficienza (un po’ una Rossella O’Hara del New England), che vuole essere adorata, ma al tempo stesso non riesce ad avere un buon rapporto col suo corpo e con la sua sessualità, sentendosi in qualche modo limitata dal fatto di essere donna, soggetta a un’infinità di regole di buona condotta, restrizioni e giudizi morali. La ragazza dall’intelligenza brillante e vivissima, dalla creatività inarrestabile, dalla sensibilità ipertrofica, schiacciata sotto il peso di quel perfezionismo stakanovista – impartitole parzialmente da Aurelia, la madre-vampiro –  che la porta a credere che niente sia abbastanza, che nessuna borsa di studio o nessun premio possa estinguere quella sete perenne e insaziabile, e la porta ad avere un esaurimento nervoso quando non viene accettata alla scuola estiva di Harvard.

      Dietro Sylvia Plath c’è Sylvia, una ragazza che non sa cucinare e si sente impacciata quando balla, che non ha soldi per comprarsi bei vestiti e imitare le mode del momento, che guarda con desiderio alle luci di New York, per poi sentirsi terribilmente fuori posto durante il suo prestigioso stage presso la popolare rivista Mademoiselle (a job a million girls would die for, citando The Devil Wears Prada).

      Una ragazza che non ha mai superato la perdita prematura dell’amato padre Otto e cerca di definire il suo rapporto con gli uomini e i sentimenti con tutta se stessa, per poi innamorarsi a prima vista di Ted Hughes, e sposarlo solo quattro mesi più tardi, e il resto..beh, è storia, chè i fuochi bruciano (and it burns burns burns, the ring of fire, canta Johnny Cash).

      Vi lascio all’articolo di Katie. Leggetelo. Leggetelo, perché non se ne parla mai abbastanza.

      Leggetelo, e tenete bene a mente che dietro ogni Plath c’è una Sylvia e dietro ogni Hemingway c’è un Ernest e dietro ogni FW c’e’ un David e dietro ogni Sexton c’è una Anne e dietro ogni Woolf una Virginia. Storie dietro la storia.

                         *******************************************

      Sto pensando al suicidio. No, non al mio – niente del genere. Di certo sto messa maluccio. So qualcosa di quell’abisso spalancato. Parlatemene alle tre del mattino quando giro per casa, inseguita dall’insonnia. Vedo Il Grande Nulla nelle luci intermittenti della televisione; sento gli ululati dei coyote dei campi dei vicini.

      Posso effettivamente avvertire un senso di morte, freddo come lo specchio del bagno, mentre la mia famiglia dorme, a pochi passi da me.

      Ho sofferto di terrori mattutini dall’età di ventinove anni – problema diagnosticatomi da diversi dottori. Ne soffro se bevo e se non bevo, se rinuncio al caffè o mi faccio il bagno nella caffeina, se mi sottopongo all’agopuntura o prendo medicine. Ha nomi diversi: ansia acuta, attacchi di panico, ma il punto è questo: non riesco a dormire, dannazione.

      Eppure torno in me al mattino. Se posso far scivolare le gambe sul pavimento, allora: uova. Sto parlando di routine. Morte di un amico, morte della speranza, morte, punto. Nonostante tutto, quando arriva il mattino, uova.

      No, la cosa a cui sto pensando ultimamente è il suicidio di altre persone. Come saranno stati quegli ultimi momenti. Quanto coraggio ci sia voluto per tirare il grilletto o buttarsi già da un ponte. E quali saranno stati gli ultimi pensieri?

      Quali ultime, delicate poesie erano nella mente di Anne Sexton quando chiudeva la porta del garage? Quali erano le incredibili farneticazioni di Virginia Woolf mentre camminava nell’acqua con quella pietra?

      A volte immagino come sarebbe, arrivare lì giusto in tempo. Questa è la caratteristica dei sogni, vero? Possiamo sistemare tutto. Allora immagino di remare fino a Virginia prima che la sua testa scompaia sotto l’acqua, o di passare a trovare Anne per un drink proprio mentre sta per entrare in macchina. Hey, cosa stai…? Dai, non farlo. Andiamo a guardare un film, o qualcos’altro. O, ancora meglio, uova.

      Sylvia Plath, 1932 – 1962. Genio della poesia morta con la testa nel forno. E’ lei quella a cui penso di più, se devo dire la verità. Dopotutto, insieme a migliaia di fanciulle – topi di biblioteca dalla disposizione malinconia, ho venerato ogni sua parola dopo aver trovato The Bell Jar nella biblioteca della scuola quando avevo quindici anni. Ovviamente, The Bell  Jar è stato solo l’inizio, e ogni serio ammiratore della Plath lo sa bene. Si passa ad Ariel (la versione senza Ted, naturalmente), poi ci si avventura ne Il colosso; il tocco finale – se si è veramente seri – è lo studio dei diari integrali.

      Sylvia! invochiamo tutte. Ci sono stati interi eserciti di noi, ragazze dai gomiti nodosi  che leggevano attentamente la sua prosa intricata soffrendo silenziosamente sui nostri lettini.

      Siamo così simili!

      Anch’io ho perso la testa per un ragazzo

      No, trenta ragazzi!!!

      Anch’io idolatro chi non si accorge nemmeno che esisto.

      Serata indimenticabile, in cui ho sgraffignato stuzzicadenti e noccioli d’oliva dai tavoli degli dei d’ambrosia!
      scrive Sylvia nel suo diario nel 1956, dopo aver bevuto nello stesso bar di Auden .

      Anch’io, Sylvia! Avrei fatto esattamente la stessa cosa!
      Ma ci ha tradito. O meglio, tu ci hai tradito. Perché posso parlare con te, vero Sylvia? Parlare veramente con te? Perché no, giusto? Cosa mi dirai, no?

      Hai distrutto il seguito di seguito di The Bell Jar, bruciato in un attacco di rabbia. Hai distrutto un altro libro perfetto, pieno di storie della tua vita a Cambridge: un libro che avrei adorato. Inoltre, ci hai privato di una vita di scrittura, della tua prosa. Sei morta, Sylvia. E hai scelto di farlo.
      Oppure no? Tu, amica mia, consapevole della tua disperazione, hai assunto una tata il giorno prima perché ti desse una mano coi bambini. Una donna professionale e materna, che avrebbe iniziato la mattina seguente. Secondo alcune teorie volevi essere salvata, dato che hai chiesto ai vicini di passare a controllarvi un paio d’ore prima di fare quello che hai fatto e hai lasciato un biglietto in cui chiedevi di chiamare il tuo dottore.  Cosa sarebbe successo se la tata fosse arrivata prima? Anche un’ora sola avrebbe fatto la differenza, dicono alcune fonti. Così, durante le mie “ore no”, come le chiamavi tu, immagino di presentarmi a Fitzroy Street.
      Prendere a calci quella porta, spalancare la finestra. Svegliati, Sylvia. Dai, respira. Intervenire nella tua vicenda personale durante una mattina grigia, undici anni prima della mia nascita.
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      Ma c’è qualcosa che non ti sto dicendo, Sylvia. Veramente sarebbero un mucchio di cose, ma non voglio esagerare con la condivisione. Ti ricordi di quei critici che rifiutavano i tuoi scritti e si prendevano gioco di te? Beh, ora ti additano come una pioniera della condivisione. Che tu l’abbia voluto o meno, sei diventata il colosso. Prima la tua storia, poi la tua voce, poi il tuo ruolo nella letteruatura. Tu sei un intero genere letterario. Il primo confessore di sesso femminile.
      Anche se, a dirla tutta, quel titolo non sarebbe poi valso a granché. Non sei più da queste parti, ma ultimamente ci sono donne che esagerano nel vuotare il sacco. Tuttavia, tu sei stata la prima a farlo. Ci hai insegnato a condividere senza risultare disgustose. Spero di non essere disgustosa. Sto solo parlando, con te.
      Dunque, Sylvia, tutto è iniziato quando avevo ventisei anni – la stessa età che avevi tu quando hai sposato Ted.
      Mi ero appena trasferita a San Francisco. Penso spesso a quello che sarebbe successo se anche tu fossi venuta qui. Se, anziché diventare tutta università e Fullbright, fossi diventata un po’ Kerouac e ti fossi messa in viaggio. Probabilmente saresti ancora viva e non saresti famosa. Forse abiteresti nella mia strada, saresti ancora viva e ti saresti rifugiata a scrivere nella stessa cittadina del North Carolina che ho scelto per me.
      Ma questo non è quello che ti è successo. Questo è quello che è successo a me.
      San Francisco. Non avevo nessun motivo per andare lì, a parte il boom di Internet. Tutto il Paese sembrava andare verso ovest. Allora ho pagato un biglietto aereo con la mia carta di credito. Non sapevo ancora cosa avrei fatto, e non avevo nient’altro da offrire a parte una costosa laurea. So che la Smith ti ha fatto fare strada, ti ha fatto arrivare a New York e a Cambridge e tutto il resto. Ma ora l’università ha un peso minore.  I più intelligenti non ci vanno nemmeno più. A diciannove anni sono già imprenditori miliardari e si comprano raffinate piste da bowling. Non voglio generalizzare, ma a questi fanatici della tecnologia non importerebbe molto di te, a meno che tu non arrivassi sotto forma di una app.
      Ma allora era il 1999, ed eravamo a metà strada tra David Foster Wallace e l’ultimo Guerre stellari. Avevo paura, Sylvia. Ero seduta vicino al finestrino e, durante l’atterraggio, premevo la fronte contro il vetro. La città era ricoperta di una glassa rosa e blu, ma mi ricordava piuttosto il colore dell’ostia che il reverendo della mia parrocchia depositava sulla mia lingua.
      Nessuno scrive come te com’è sentirsi persi in città, Sylvia. Quelle scene in The Bell Jar, quando eri sola e ammalata a Manhattan e non sapevi come vestirti o come comportarti, non hanno eguali.
      Quindi ti darò solo qualche assaggio.
      Lavoricchiare in una compagnia di cibo per animali. Bere tutta la notte, addormentarsi in un materasso da campo nel ripostiglio di un’amica. Sveglia alle sette, alzarsi con l’energia di una ninfa di Dioniso. Non lo sapevo, allora, ma quelle notti di sonno erano un vero miracolo.
      Ho trovato un lavoro. A dire il vero, ho cambiato tre lavori nell’arco di un anno, uno più redditizio dell’altro. Era il 1999. Sapere quanto denaro girasse allora ti farebbe venire le vertigini. I posti in cui lavoravamo erano palazzi consacrati allo sperpero. Montagne di bagel al mattino, macchine per l’espresso, sale giochi, scaldapiedi ergonomici. Il posto dove sono arrivata alla fine, un’agenzia pubblicitaria, mi ha accolto nella sua “famiglia”. Non avevo esperienza nel settore della pubblicità, ma non importava. Promettevo bene, e mi pagavano 65000 dollari all’anno per scrivere di una catena di distribuzione. Ancora non so di cosa si tratti.
      Sylvia, avevi solo trent’anni quando sei morta. Ma invecchiare non è poi così male. Uno dei vantaggi, ad esempio, è sviluppare la capacità di dare un senso al passato. Ora che ho quarant’anni mi rendo conto di quanto fosse facile perdersi inequivocabilmente, anche semplicemente per sentirsi bene e per guadagnare. Il mio lavoro era particolarmente astratto, dal momento che non eravamo nemmeno un’azienda che non creava qualcosa di assolutamente inutile: semplicemente, ne parlavamo. L’agenzia presso cui lavoravo mi chiedeva poco in termini lavorativi, ma mi succhiava l’anima. Ogni lunedì dovevamo condividere le “nostre speranze” in un “ambiente che ci avrebbe dovuto incoraggiare”. Gli abbracci erano incoraggiati. Quasi sempre c’era qualcuno che piangeva. Avevo ventisei anni e mi facevo il bagno nel Kool-Aid, Sylvia. Allora non avevo niente di meglio in cui credere.
      Ho incontrato molte persone nel 1999. Non erano quei poeti, che ti affascinavano fino a intossicarti, di cui ti circondavi a vent’anni. Erano semplicemente uomini e donne, trapiantati dalla East Coast. Ho voglia di una birra o di un cocktail?, ponderavano.
      Consideravamo San Francisco una sorta di vacanza dalla vita reale. C’era sempre una festa, qualcosa di nuovo per incontrare le stesse persone, che fosse un evento a tema su un decennio che ci eravamo persi, o una cena multiportata a casa di qualcuno, o catalettiche spedizioni verso qualche magazzino. Forse ai tuoi tempi alcune delle feste erano chiamate eventi, ma non erano così cerebrali.  Ricordo che a volte ne emergevo con un forte cinismo nei confronti di tutta quella superficialità. Tuttavia, ero giovane, ed ero sicura che qualcosa sarebbe cambiato, prima o poi.
      Il cambiamento c’è stato, ma non quello che pensavo. Ho trovato un amico, Sylvia. Un vero amico. Se il tempo passa tutto al setaccio, lui è il sassolino che mi rimane di quel periodo, insieme ad alcune foto e a un paio di stivali bianchi che ancora oggi non oso indossare.
      Henry era piccoletto, dall’aria giovanile, dall’aspetto quasi bizzarro. Si è presentato un giorno in agenzia, con altri impiegati acquisiti da una compagnia comprata dal mio capo. Arrivava appena a un metro e cinquanta. Piccolo, ma muscoloso. Capelli gellati alla Superman. Una volta l’ho sentito descriversi come un supereroe avvolto nella pellicola per alimenti. Stava lì a gironzolare intorno alla nostra “capsula” – gergo aziendale per scrivania condivisa – e mi ha guardato.
      “Ciao” mi ha detto “sarò quello che si spacca la schiena seduto vicino a te”.
      Non sembra divertente, eppure lo era. Esilarante.
      Ne ho prese di batoste da allora. Ho trasportato vassoi di gnocchi fumanti da quattordici chili su per imponenti scalinate newyorkesi, mentre uomini in frac mi toccavano il sedere; ho pulito il vomito dei clienti dai bagni. Mi sono spaccata la schiena per davvero; ma questo non succedeva lì dove lavoravamo. Passavamo la giornata a occuparci dei gadget che ci davano finche’ qualcuno non ci chiedeva pigramente di scrivere per dieci minuti di cooperazione simbiotica e poi ci lasciava di nuovo in pace.
      Ma Henry. Henry rendeva tutto diverso. Fino al suo arrivo, aspettavo semplicemente che le giornate passassero. Con lui avevo capito che il tempo è un dono. Quando non aveva niente da fare, lui non stava semplicemente a fissare la sua pagina Yahoo inebetito. Tirava fuori un librone, solitamente sul Giappone, o si dedicava alla musica. Si era rivelato una celebrità minore nel campo della musica elettronica sperimentale. Una volta ha composto una canzone fatta interamente di starnuti. Presto ho capito che era l’unico a fare qualcosa di sostanziale, lì dentro.
      Ci sono volute un paio di settimane perché diventassimo amici. Ero abbastanza egocentrica, Sylvia. Avevo un ragazzo, e c’erano settimane bianche e cene da organizzare. Tuttavia, piano piano, ho iniziato ad apprezzare la natura quasi religiosamente seria dell’uomo alla mia destra.
      È stata un’amicizia frivola, divampante.
      Metti via quel libro! gli intimavo. Ho qualcosa da dirti. Lo buttava da qualche parte e ci chiudevamo in qualche sala conferenze a parlare di Murakami, o Zadie Smith, o degli episodi di Temptation Island, o, meglio ancora, dei nostri capi. Il nostro immediato supervisore aveva ventidue anni, un laureato di Princeton nordico e statuario come un modello che metteva tutti in riga e calcolava codici mentalmente. Il sogno di Hitler, diceva Henry.
      Poi c’erano i proprietari della compagnia, hipster trentenni con due bambini ai quali piaceva andare sull’altalena e vantarsene; ci incoraggiavano a frequentare corsi di life coaching e indossavano gilet di finta pelliccia e rumorosi pantaloni di plastica.
      C’era anche una “curatrice della cultura aziendale”, una donna adorabile, inspiegabilmente single, ossuta come una colomba denutrita, il cui unico lavoro era documentare quanto fossimo straordinari. C’era la mascotte, che a dire il vero ci piaceva, un Chihuahua salvato dal Messico che pensava di essere un Rottweiller. C’erano così tante cose da prendere in giro, Sylvia. Io e Henry stavamo sempre nel bagno unisex, piegati in due dalle risate.
      Non importava a nessuno. “Amiamo la vostra energia!”, ci gridavano i due hipster dai loro pouf. Okay! E scappavamo di nuovo in bagno a prenderli ancora in giro.
      Quando finisce quella capacità di trovare il ridicolo nei segretucci meno importanti? Mi sa che lo sto chiedendo alla persona sbagliata. Non eri una ragazza frivola. Il 10 gennaio 1953, a ventun anni, l’età più spensierata, scrivevi a proposito di una tua bellissima foto:  
      Guarda quell’orrida maschera morta e non dimenticartela. È una maschera di gesso che nasconde un veleno mortale ormai secco, come un angelo della morte.
      Non eri spensierata, Sylvia. No.
      Ma la spensieratezza non dura per sempre, S. Un giorno ti svegli e..qualcos’altro ha preso il suo posto. Chi deve portare i bambini a scuola, tassi d’interesse: non lo so. Ma io e Henry ce l’avevamo ancora, quel qualcosa. Ci lanciavamo palline di carta durante le riunioni, giocavamo all’impiccato mentre ascoltavamo il cliente parlare in quello stupido, futuristico vivavoce.
      Oh, il telefono! C’era ancora un sacco di eccitazione al riguardo nel 1999. Il telefono fisso. Il mio ragazzo mi chiamava e diceva inevitabilmente la cosa sbagliata. Non era colpa sua. Il problema era che io volevo un Ted, lo sai? Come il Ted del tuo diario:
      ..battevamo entrambi i piedi per terra, e di colpo mi ha baciato con forza sulla bocca e mi ha sfilato  la mia fascia, la mia insostituibile, adorabile fascia rossa segnata dal sole e da tanto amore e i miei orecchini d’argento preferiti: ah, li terrò, ha abbaiato. E quando mi ha baciato il collo l’ho morso forte sulla guancia, a lungo, e quando siamo usciti dalla stanza un rivolo di sangue scorreva lungo la sua guancia.
      Questo era quello che volevo. Sangue. Pestare i piedi. Questo mio ragazzo mi chiamava e mi diceva cose del tipo: “Diamine, sei così emotiva! Non possiamo semplicemente parlare del weekend?”. Diceva esattamente la cosa sbagliata. Io scoppiamo a piangere, Henry iniziava a fare piroette. Poi c’era la mia disastrata famiglia. Mia madre mi chiamava e mi diceva che mio padre, che adoravo, aveva distrutto la macchina quando era ubriaco. Mio padre mi chiamava, così pieno di antidolorifici da dimenticarsi il mio nome. Henry incrociava gli occhi, le labbra tremolanti. Cadeva e agitava i piedi in aria. Eravamo nelle nostra sit-com privata, Sylvia, nella nuvola rosa della nostra amicizia.
      Tuttavia, la spensieratezza non può durare. Non senza sfociare in un’altra zona, dall’altra parte della quale l’amico si affaccia. Una mattina Henry è arrivato di umore tetro, con la mano fasciata.
      “Che è successo?” gli ho detto. “Hai picchiato la tua signora?”
      Non sapevo nemmeno se Henry avesse una ragazza. Che cosa stupida da dire.
      “No” mi ha detto. “Ho colpito il cofano di una macchina col pugno”.
      Non riesco a ricordarmi o immaginarmi la mia risposta.
      “Una macchina è entrata in una zona pedonale, e io l’ho colpita, e mi sono rotto un dito”.
      Eravamo totalmente fuori dalla fase spensierata della nostra amicizia, raggiungendo punte di disagio.
      “Perché?”
       “Perché sono dei bastardi, quegli autisti che tagliano la strada ai pedoni. Stavo cercando di tornare a casa. Avrei dovuto colpire la sua maledetta faccia”.
      Come ti ho già detto, Sylvia, io sono figlia di un alcolizzato. Questo mi ha portato a odiare i conflitti, e a cercare di fare il possibile per risolvere i problemi delle persone che amo. Così ho parlato con quelli del design. Abbiamo fatto degli sticker per Henry, belli grandi e di un giallo fosforescente, che dicevano:
      Caro autista che odia i pedoni:
      forse non lo sai, ma sei un bastardo di proporzioni colossali. Ti auguro che qualche verme disgustoso mangi le tue viscere e poi le vomiti. O magari esca dal tuo ano. E poi torni di nuovo e si rifugi nel tuo naso…

      Eccetera, eccetera. Ne abbiamo dato un mucchio a Henry, che ha riso. Dopo un po’ la benda è venuta via, e ci siamo dimenticati dell’incidente.

      Ma c’erano anche altre cose. Ogni giorno, alle cinque in punto, il mio amico raccoglieva le sue cose senza dire una parola e scappava via.

       “Eccolo che va a sniffare” diceva l’altro collega con cui dividevamo la scrivania. Ero talmente accecata dall’affetto per il mio amico, Sylvia, che non ricordo nemmeno il nome del tizio che lavorava vicino a noi.

      “Che bella vita, quello scansafatiche”, diceva il nostro collega.

      Ma non era questo il problema. Ho scoperto che Henry arrivava alle sei ogni mattina, per assicurarsi di finire in tempo tutto il lavoro che aveva da fare. Solo per assicurarsi che alle cinque e un quarto, ogni giorno, potesse essere a casa, da sua moglie.

       “Quindi arrivi in ufficio alle sei?”

      “Esatto”.

      “Per lavorare?”

      “Si”.

       “Ma tua moglie non ti può aspettare?”

      “Non voglio che debba aspettarmi”.

      “Tutto questo è così….”

      Ho cercato di immaginarmi di chiedere al mio ragazzo di tornare a casa prima, per non farmi aspettare. Non riuscivo nemmeno a immaginarmelo.

       “E cosa fa?”

      Mi ha raccontato che era una spogliarellista. Lavorava in un night club. E lui correva a casa ogni giorno, prendendo a pugni le macchine che lo intralciavano, perché lei potesse essere tutta sua per tre ore, prima che andasse al lavoro e smettesse di esserlo.

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      Penso un sacco all’amore, Sylvia. E’ un requisito essenziale per il mio lavoro. Ma tu sei famosa per questo: sei una delle autorità più studiate, citate, rimuginate quando si parla di amore. Sylvia Plath e Ted Hughes. Hai scritto più e più volte della sofferenza causata dall’amore, ad esempio nella poesia The Jailer (il carceriere):

      I have been drugged and raped
      Seven hours knocked out of my right mind
      Into a black sack
      Where I relax, foetus or cat
      Lever of his wet dreams.

      Anch’io sono stata innamorata, quando avevo ventisei anni. Ora minimizzo il tutto, soprattutto perché il tempo ne ha offuscato il ricordo. Ma era diventato così umiliante, alla fine. Non voglio entrare nil dettagli: diciamo soltanto che è finita con me su una panchina a Central Park Promenade, che lo imploravo. Era un’impetuosa giornata di Ottobre del 2002. C’erano pattini. Sono finita ad abbracciare le sue ginocchia. Non voglio parlarne.

      Ma torniamo a te. E a Henry. Vedi. il punto è che tu e Henry non siete poi così diversi. Certo, con i dovuti adattamenti. Di sicuro sulla carta sei molto più simile a Kurt Cobain che a un atletico programmatore di computer da un parcheggio per roulotte in Georgia. O forse no.

      Perché tu avevi Ted, e per lui ti sei fritta il cervello. Henry aveva Lucinda. Non mo mai visto nessuno fare le cose che lui faceva per lei.

      Alla fine si è deciso che io e Lucinda ci incontrassimo. Ero la tua nuova migliore amica, dopotutto. Ci siamo dati appuntamento tutti e tre per un drink dopo il lavoro. Era una cosa alla buona, ma più si avvicinava la data, più Henry diventava turbato. Fissava lo schermo, ignorandomi tutto il giorno, poi spariva alle 4:59.

       

      “Vieni?”

      “Vi raggiungo tra un quarto d’ora” gli go risposto, non volendo sollevare le ire della principessa del Nord, dato che ero arrivata in ufficio solo alle dieci.

      Erano in un bar a qualche isolato di distanza. Non era un bel posto. Non aveva nemmeno finestre. Riuscivo a malapena a vedere Henry, ma Lucinda – scusatemi, ma non c’è un’altra parola per descriverla – brillava. Era letteralmente iridescente; forse era per via di qualcosa che si era messa sulla pelle. I suoi capelli scuri erano tirati all’indietro, rivelando una di quelle facce che oscillano tra banalità e squisita bellezza. I suoi tratti erano perfettamente simmetrici, i suoi occhi semplici e vuoti.

      L’ho adulata, come succede a ogni amica donna che incontri la moglie, sottolineando quanto spesso Henry parlasse di lei, quante cose mi avesse raccontato. Il mio amico era silenzioso. Lucinda era piacevole, esprimeva opinioni semplici: questo bar è sporco, quella camicia è carina.

      “Katie vuole sapere del tuo lavoro” ha sbottato Henry alla fine, chiaramente impaziente.

      “No, io…”

      “Pensavo potessi scriverci qualcosa su”, ha detto Henry. “Il suo..”

      “Beh, io…”

      “Non avevi detto che volevi fare la scrittrice?”

      Ho bevuto il mio vino tutto d’un sorso, L’avevo detto, si, ma non sapevo di cosa stessi parlando. Non avrei mai potuto scrivere della moglie spogliarellista del mio amico.

      “Okay,” I said. The wife had this tiny sparkly purse that Henry looked after as if it were a pet. I remember watching him—he held the purse so tightly his knuckles burned white⎯and thinking, I will never be loved like that.

      “Ti porterò al club” mi ha detto Lucinda. “Sarà divertente”.

      Henry mi ha guardato, e ho capito. Voleva che sua moglie fosse qualcosa di più di una semplice spogliarellista. Voleva che diventasse una storie. Sapeva quello che io non sapevo ancora: a parte la nascita e la morte, le storie sono tutto.

      (….continua)
       
       
      PS: le immagini usate in questo post sono le immagini usate nell’articolo originale di Katie Crouch su Buzzfeed.
      PS2: per altre foto di Sylvia Plath consultate l’apposito board nel mio account Pinterest
      Posted in Letteratura americana, Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 9 Comments | Tagged American literature, Literature and Beyond, non se ne parla mai abbastanza, Poetry, Storie dietro la storia, Sylvia Plath
    • Pezzi di vetro

      Posted at 11:50 am06 by ophelinhap, on June 30, 2014
      Non conosce paura l’uomo che salta
      e vince sui vetri e spezza bottiglie e ride e sorride,
      perchè ferirsi non è impossibile,
      morire meno che mai e poi mai.

      Insieme visitata è la notte che dicono ha due anime
      e un letto e un tetto di capanna utile e dolce
      come ombrello teso tra la terra e il cielo.
      Lui ti offre la sua ultima carta,
      il suo ultimo prezioso tentativo di stupire,
      quando dice “È quattro giorni che ti amo,
      ti prego, non andare via, non lasciarmi ferito”.
      E non hai capito ancora come mai,
      mi hai lasciato in un minuto tutto quel che hai.
      Però stai bene dove stai….però stai bene dove stai…

      Pezzi di vetro, Francesco De Gregori
       
       
       
       
       
      Quando era molto triste, o molto arrabbiata, o molto persa, o molto, molto lontana – infinitamente lontana – andava a buttare il vetro.

       

      Niente di poetico in tutto ciò: raccoglieva bottiglie e vasetti vari e partiva alla volta del cassonetto della differenziata, solitamente di sera, solitamente in pigiama.

       

      L’azione di suddividere i colori del vetro, di sollevare la bottiglia, di lanciarla nel cassonetto, di sentirla infrangersi aveva in sé qualcosa di rassicurante e catartico al tempo stesso. Ecco infrangersi in mille pezzi la bottiglia di Chablis della cena in cui si era bevuto qualche bicchiere di troppo, la bottiglia dello sciroppo al timo per la tosse avanzata dall’ultimo raffreddore, il vasetto di marmellata di fragole bio finita durante una puntata di House of Cards, quella sera in cui sarebbe stato meglio tacere, o forse poi sarebbe stato meglio parlarsi….


      Ecco la bottiglia di latte, dopo quella notte insonne di un giugno straordinariamente freddo, dopo quella mattina in cui nemmeno un caffelatte bollente riusciva a regalare un po’ di calore. Dopo quella mattina in cui era diventato chiaro che un po’ del freddo di quel giugno straordinariamente freddo sarebbe rimasto, per sempre.
      Un giugno fatto di piumoni, di collant 30 denari e di parka verde bottiglia (il vetro, ancora una volta), in cui il mare, il sole, il profumo del sale, la sabbia bianca calda tra le dita, le orecchiette delle pagine del libro bagnate da dita impazienti, tutto sembrava lontanissimo, quasi irraggiungibile, freddo fuori freddo dentro e pezzi di vetro dove fa più male, pezzi di vetro opachi, fondi di bottiglia, biglie scheggiate e bicchieri rotti.

       

      Era il giugno della disillusione, era il giugno di quell’estate lungamente attesa che non voleva arrivare, era il giugno della rabbia e del perdono, del rancore e dell’oblio, delle bugie e delle mezze verità.

       

      Era il giugno delle strade mai prese e dei giardini dai sentieri che si biforcano, il giugno delle insonnie e delle rinunce, il giugno degli errori e dei rumori, il giugno dei gelati troppo freddi e delle tazze di te’ caldo.

       
      Era il giugno delle lettere di motivazione e delle lettere di rifiuto, dei raffreddori e delle felpe, delle mani gelate e delle ambizioni spezzate.

       
      Erano i giorni sbagliati di un mese sbagliato di una stagione sbagliata, il giugno dei raffreddori e dei crepacuori, il giugno degli incubi e degli errori. Il giugno dei rimorsi e dei timori. Giugno come sigillo ai primi sei mesi dell’anno, un semestre da archiviare, in attesa di un’estate più dolce, un frutto più maturo, da mordere coi denti, assaporare, il succo che scivola dagli angoli della bocca lungo il collo.
      Giugno come un cassetto chiuso a chiave, una lezione dura da imparare, un boccone amaro da mandare giù. Giugno come un messaggio in bottiglia mai mandato.
       
       

       

      Questo giugno autunnale si chiude oggi, con una folata di vento fresco a far cadere le foglie, con un ultimo acquazzone a smorzare gli ardori più resistenti. Si chiude insieme con una promessa e un avvertimento: una promessa, l’estate che sicuramente arriverà, con i colori prepotenti, impertinenti del cielo blu e della terra rossa – la mia terra; un avvertimento, a scapito di aspettative troppo alte, campanelli d’allarme messi a tacere, quel termometro del cuore al quale non si presta attenzione. Proprio mai. Cose che si dimenticano.

       

      «A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
      E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
      Verresti?».

      Italo Calvino, “Prima che tu dica pronto”

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    • Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati (Nietzsche)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 13, 2014

       

       

      Caro 2014, così non va bene.

       

      Sei iniziato davvero male, giocando tiri mancini, sferrando altri colpi che si vanno ad aggiungere a quelli del tuo degno compare, il 2013, che mi ha lasciato come eredità una riga profonda che solca il viso e mi fa sentire ancora più stanca, e avvilita.

       

       

       

      Caro 2014, mi sto disamorando. Delle cose che mi circondano, del quotidiano, e di me stessa.

       

       

       

      Mi sto disamorando dei miei sogni ad occhi aperti e occhi chiusi, perché tanto la realtà ci pensa sempre a sporcarli, a corromperli, a rovinarli. E allora, ne vale la pena? Sono fiori delicati, rari e inebrianti, che non possono fiorire in mezzo alla spazzatura.

       

       

       

      Caro 2014, quest’anno per me si conclude un altro decennio, e si sta facendo sempre più tardi, eccetera eccetera. E io ho bisogno di innamorarmi di tutto, ho bisogno di sentirmi viva ogni giorno, ho bisogno di passioni vaste e sconfinate, di colori sgargianti, di parole semplici, leggiadre, leggere, che siano poco pretenziose ma aprano il cuore. Ho bisogno di vivere col cuore in gola.

       

       

       

       

       

      C’è una frase di Nietzsche che da giorni mi frulla in testa, Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati.

       

       

       

      Non so, caro 2014. Spero solo di essere in grado di prendere congedo dalla vita benedicendola per tutte le cose che mi ha regalato e restandone fedelmente, malinconicamente innamorata, non di liquidarla con un freddo cenno del capo, uno svolazzo di mani di cera, oppressa dal peso dei rimpianti e delle cose che non avrò fatto e delle cose che avrei voluto fare diversamente.

       

       

       

      Caro 2014, voglio liberarmi di tutto questo grigiume che è come una seconda pelle, un profumo stantio, un sapore amaro di noia e rassegnazione.

       

       

       

      Voglio fermarmi in mezzo alla strada a guardare incantata un tramonto o un bambino paffuto che ride e mi fa ciao. Voglio svegliarmi di notte perché ho interrotto la lettura in un punto interessantissimo e devo assolutamente riprenderla. Voglio fermarmi in ogni angolo a buttare giù scarabocchi di pensieri. Voglio trovate il coraggio di raccontare le storie che mi abitano. Voglio bagnarmi di poesia.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di trovare il mio posto nel mondo, non continuare a nascondermi, con codarda rassegnazione.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di cambiare quelle cose che proprio non mi vanno giù e che si sono insediate sulla bocca dello stomaco, impedendomi di respirare.

       

       

       

      Voglio tornare a casa, in Italia, senza averlo tanto pianificato, e trovare mia nonna al suo posto vicino al fuoco, che mi sorride e mi prepara i perperoni sotto la brace e mi racconta per l’ennesima volta la storia di come ha incontrato mio nonno, quella storia magica e bellissima che non cessa mai di incantarmi.

       

       

       

      Soprattutto, voglio trovare il coraggio di essere me stessa.

       

       

       

      Ti ho chiesto un segno, e finora mi hai solo depistato. E so bene che sono passati sono 13 giorni, ma cosa ci vuoi fare? È l’entusiasmo, la rabbia, la fretta della mia ultima ondata di giovinezza a parlare.

       

       

       

      Allora sai cosa faccio, caro 2014? Esco da questo ufficio grigio e stantio e vado a comprarmi un vestito bellissimo e costoso in modo ridicolo e spropositato, che non posso assolutamente permettermi.

       

       

       

      Sarò la ragazza col rossetto rosso più intenso che tu abbia mai visto e col vestito senza maniche, che beve champagne rigorosamente all’aperto, anche se qui a Greyville è tempo di montoni e vacche grasse.

       

       

      PS: sì, l’ombrelllo rosso fa parte del piano.
      Posted in Ophelinha scrive | 1 Comment | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Great Expectations, Memorie di una precaria perbene, Mine vaganti, non se ne parla mai abbastanza, Ophelinha, Si sta facendo sempre più tardi, Words
    • Barbablù, e quella violenza di cui non si parla mai abbastanza

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 24, 2013




      Come capire se ciò che ci appare un amore forte e gioioso diventa una pena sempre più difficile da sopportare? Un qualcosa da cui dover fuggire il prima possibile? Forse, nella nostra società, in cui l’amore romantico è spesso decantato come una tappa essenziale per il raggiungimento delle felicità, manca una sorta di educazione all’amore. Una strada che possa insegnare a riconoscere i campanelli di allarme. I segnali che dovrebbero metterci in guardia. E questo vale soprattutto per noi donne, vittime di una violenza che spesso ha le chiavi di casa e che, altrettanto spesso, si conclude con il più tragico degli epiloghi. E la prima condizione necessaria per poter intraprendere questo nuovo percorso è il raggiungimento della propria indipendenza. Emotiva, psicologica ed economica. Quando capiamo di “essere in grado di dedicarci da sole amore e attenzioni” come scrive la terapeuta Robin Norwood nel suo libro “Donne che amano troppo”, non è necessario aspettare, inerti, che arrivi un uomo a dispensarceli. Essere innamorate non significa soffrire. Essere innamorate non significa giustificare tutto: le sue mancanze di attenzione, le sue ossessioni, i suoi malumori. Essere innamorate non significa essere l’ombra fedele e ossequiosa del nostro compagno. L’amore non è sempre e solo assecondare. L’amore è non è sempre restare un passo indietro. L’amore non ci fa sentire rinchiuse in una scatola nera, l’amore non ci isola psicologicamente. Amare in modo sano consiste, innanzitutto, nell’amare noi stesse, nell’accettazione di ciò che siamo, nella capacità di ascolto delle nostre più profonde esigenze. Un rapporto sano, con un compagno che faccia al caso nostro sarà solo una delle conseguenze benefiche di questo percorso. Chiaramente questa è solo una delle mille possibili chiavi di lettura su un tema cosi complesso. Ma è anche vero che i grandi percorsi iniziano sempre da un piccolo e, talvolta impercettibile, passo. Anche su questo, il racconto di Ophelinha ci fa riflettere. Buona lettura e buona marcia a tutte.

      (Anna Maria Volpe, giornalista, autrice di Déclinaison féminine, blog al femminile su LaLibre.be, nonché persona meravigliosa dal cuore enorme. Seguitela mercoledì 27 novembre su http://radioalma.eu/ durante la trasmissione radio “Indovina chi viene a cena” dedicata alla violenza sulle donne tra le mura domestiche.)

      Conoscerete tutti Barbablù, il cattivo delle favole, l’orco uxoricida che chiude a chiave i sogni di fanciulle troppo ingenue e troppo curiose. Sarebbe bello pensare che una storia del genere, con tutto il suo dramma e il suo orrore, potesse essere confinata al mondo della finzione.
      Non è così, purtroppo, e il mondo è popolato da tanti, troppi Barbablù, che sviliscono la dignità delle donne, nascondendo dietro l’etichetta “amore” mesi, anni di abusi e soprusi. Giustificando la gelosia, la possessività, l’aggressività, i lividi, il controllo continuo, chiamandoli troppo amore.
      Non esiste il troppo amore: non c’è unità di misura che possa quantificarlo o contenerlo. Esiste, tuttavia, un amore sano, un amore pieno di risate, di voglia di costruire, di voglia di andare avanti, di voglia di sorprendersi e di sorprendere; esiste, purtroppo, anche un amore malato, fatto di eccessi, di capri espiatori.
      Come scrive nella sua introduzione al racconto la mia carissima Anna, ci vorrebbe una sorta di educazione all’amore, per evitare storie come quella che sto per raccontarvi. Perché la violenza sulle donne non è fatta di statistiche: è fatta delle persone dietro ogni storia.
      Con l’augurio che tutti i Barbablù del mondo spariscano, al più presto.



      Barbablù

      Oggi avrei compiuto trent’anni.

      Ho sempre pensato che ogni decennio fosse un giro di boa, un evento memorabile, da celebrare senza ritegno, da immortalare in una quantità infinita di scatti.

      Solitamente non do molto peso ai miei compleanni; tuttavia, mi sono preparata religiosamente ai miei dieci e ai miei vent’anni, per celebrare la nuova me, il passaggio ai numeri a due cifre prima, agli –enti poi.

      Ricordo i miei dieci anni, la torta paradiso preparata da mia madre, il mio maglione con la rosa ricamatami da mia nonna, i compagni di classe e i figli dei vicini, quel caos ordinato che è solo preludio di tutte le cose che verranno. Cose sicuramente magiche: le scuole medie, nuovi amici, la gita di classe più lunga. Mete sempre più lontane. E, un giorno, un primo bacio, un primo amore.

      Ricordo i miei vent’anni, le amiche dell’università, i capelli lunghi sulle spalle magre e abbronzate, il prosecco da quattro soldi bevuto tiepido direttamente dalla bottiglia, le chiacchiere concitate, l’eccitazione, le guance arrossate. Ci sentivamo bellissime ed invincibili, ed eravamo ormai a pochi passi dall’inizio di quella che sarebbe stata la nostra vita vera: una vita senza libri e senza esami, un lavoro interessante, possibilmente all’estero, un armadio pieno di quei vestiti davanti ai quali potevamo solo sospirare di desiderio, tutti i viaggi che avevamo sempre desiderato fare. Il futuro era un labirinto intricato pieno di infinite possibilità, un giardino dio sentieri che si biforcano (Borges era nel programma di letteratura comparata).

      E un giorno, percorrendo le strade deliziosamente sconosciute di quel mappamondo infinito, avremmo incontrato quella persona speciale, capace di far venire fuori la parte migliore di noi stesse. Qualcuno da cui imparare e a cui insegnare. Qualcuno con cui correre, parafrasando Grossman. Qualcuno a cui sorridere appena svegliate, con gli occhi gonfi di sonno e i capelli spettinati, con la consapevolezza di restare comunque le più belle del mondo. Ma non avevamo fretta: avevamo tutta la vita davanti, e un mondo da scartare come un pacco trovato sotto l’albero di Natale.

      Ho incontrato Barbablù la notte del mio venticinquesimo compleanno. Non è del tutto esatto: l’avevo già visto più volte nella mensa della multinazionale che mi aveva assunta per uno stage. Aveva dieci anni più di me, una carriera stellare e un ciuffo scuro e ribelle. Ero affascinata dal suo accento strascicato, dalla sua vivace intelligenza, dalla sua parlantina brillante, dalla capacità di trovare sempre la cosa giusta da dire, dall’incapacità di stare fermo più di qualche minuto, dai suoi grandi occhi scuri come due succose olive nere, profondi come pozzi senza fondo.

      La serata aveva già assunto una qualità liquida, al gusto di bollicine e cocktail troppo dolci fino ad essere nauseanti. Il solo fatto che i suoi occhi si fossero posati proprio su di me in quella folla di ragazze belle, ben vestite e sicure di sé, sicure del loro posto nel mondo, mi faceva sentire unica, diversa. Speciale. Ero intossicata da lui, dai toni di velluto della sua voce, dal tocco delle sue mani sui miei fianchi – quelle mani, grandi, nodose, pesanti; quelle mani – mentre mi guidava fuori dal locale “per prendere un po’ d’aria, che non si respira”, mi avviluppava tra le sue braccia forti e mi baciava in modo affamato, urgente.

      Ero completamente alla sua mercé. Completamente persa.

      In quel periodo dividevo un appartamento con le amiche dell’università. I soldi erano pochi ma le aspettative erano tante, come tante erano le notti che passavamo in terrazza in quella calda estate romana, fumando Diana blu e analizzando ogni singola parola e comportamento di Barbablù. Le sue telefonate erano frequenti e non mancava mai di augurarmi la buonanotte, di accertarsi che fossi a casa, che stessi per andare a letto. Uscivamo insieme un paio di volte a settimana e mi fermavo a dormire nel suo appartamento dalle pareti bianche, luminoso, moderno, minimalista. Il giorno in cui mi aveva sorpreso con un armadio nuovo di zecca tutto per me, per lasciarvi alcune delle mie cose, il cuore mi si era gonfiato di felicità e di aspettative per tutte le cose belle che avremmo vissuto insieme; e le parole che custodivo ormai da mesi erano affiorate sulle mie labbra, quasi dotate di una vita propria: lo amavo.

      L’unica ombra in quei mesi soleggiati era il suo nervosismo ogni volta che mi accompagnava a casa, quella sua necessità di controllarmi dal momento in cui mi svegliavo al momento in cui andavo a dormire, quei suoi scoppi d’ira improvvisi quando in ufficio mi vedeva chiacchierare con qualche collega, quando il mio telefonino squillava, quando i ragazzi delle mie coinquiline, i loro fratelli, qualche vecchio amico di università si fermavano per cena.

      Una notte uno dei nostri più cari amici si accampò sul nostro divano, complice qualche bicchiere di troppo e l’inaffidabilità dell’autobus notturno. Quando Barbablù venne a prendermi per andare in ufficio e salì per un caffè veloce si rabbuiò tutto alla vista del ragazzo, ma non disse niente. Quella sera stessa, a casa sua, gridò che ero una bugiarda, che sicuramente lo tradivo, che era stato fin troppo paziente con me, che per quasi due anni avevo abusato della sua buona fede. Gridava e gridava, mentre rompeva metodicamente il suo bellissimo servizio di piatti asimmetrici, uno ad uno, mentre io scappavo via, sconvolta, in uno tsunami di urla e di schegge.

      Il giorno dopo Barbablù si era presentato sotto casa con un enorme mazzo di rose rosse e un’espressione contrita, invitandomi a cena per quella sera in un costoso ristorante francese, dove mi aveva regalato un cuore di Tiffany e mi aveva chiesto di andare a vivere con lui, dicendomi che mi avrebbe trattata come una principessa, che meritavo molto di più di una stanzetta in un vecchio appartamento condiviso, che casa sua era casa mia, che non poteva sopportare di non svegliarsi ogni giorno con me al suo fianco e che l’episodio della sera prima era legato semplicemente ad alcuni problemi sul lavoro. Che non si sarebbe ripetuto mai più. Che gli dispiaceva.

      Tutti quei dubbi che mi avevano attanagliato il cuore in una morsa di ghiaccio, opprimendomi il petto, si erano sciolti in quell’istante. Ero pronta alla nostra vita insieme, pronta a dividere tutto con lui.

      Non ero pronta ad iniziare a mentire a tutti.

      A nascondere uno zigomo violaceo con una caduta dalla vasca da bagno, un occhio pesto con uno sportello della credenza in cucina dimenticato aperto, un polso slogato con una caduta sul ghiaccio mentre pattinavo ((che stupida, che distratta, sempre con la testa tra le nuvole, e poi da quando avevo iniziato a pattinare? com’era possibile che un’anta della credenza mi avesse provocato una tale ecchimosi?)

      Come, come rispondere a tutte quelle domande, quei punti interrogativi sospesi sulla mia testa come una spada di Damocle?

      Come spiegare quella serie continua di incidenti, quella collezione di cicatrici, graffi e lividi, quel pallore estremo, quegli scatti ogni volta che squillava il telefono, quel senso di alienazione e di paura costante?

      Tutte queste domande erano seguite da interrogatori costanti, la sera, a casa: perché mi ero fermata più a lungo del dovuto a parlare col mio collega? perché il mio telefono era occupato? perché la mia gonna era così corta? Perché ero distante, perché ero assente, a chi pensavo, perché non lo guardavo in faccia, perché scappavo a dormire sul divano, perché, perché?

      E poi tabulati, password, account violati, e quel dolore costante alle ossa e al petto, la perenne paura di tutto e di tutti, la difficoltà a respirare, quella greve pesantezza che mi si era appiccicata addosso come una seconda pelle.

      Il desiderio di essere invisibili.

      I giorni e le notti trascorsi tra analgesici e sonniferi.

      Le amiche rifiutate, la famiglia allontanata. La stanchezza perenne, la convinzione che ci fosse in me qualcosa di sbagliato, che non riuscissi a rapportarmi bene a lui e agli altri uomini, che in un modo o nell’altro dessi sempre l’impressione sbagliata. C’era evidentemente qualcosa, nel mio modo di parlare, di comportarmi, di vestire, che provocava la sua ira, il suo disprezzo.

      E il senso di vergogna, quell’ombra pesante sempre al mio fianco.

      A volte avrei voluto parlare di quello che mi stava succedendo con la prima persona che mi fosse capitata a tiro  – uno sconosciuto nell’autobus, l’anziana signora col barboncino che incontravo ogni giorno sotto casa – ma un cocktail letale di paura, vergogna e senso di colpa me l’aveva sempre impedito. Per questo lo racconto solo adesso, con gli ultimi pensieri, con gli ultimi respiri, mentre osservo da fuori Barbablù che continua a gridare e a colpire, colpire, colpire un vuoto manichino che un tempo ero io, a terra petali e boccioli mozzati di un mazzo di rose rosse regalatomi da un mio collega per i miei trent’anni che scivolano via insieme ai miei ultimi istanti di vita.
       
       
       
       
       

       
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