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    • L’indicibile solitudine degli eteronimi

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 27, 2013
      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

       

      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

      Cos’è un eteronimo? Dal greco héteros, diverso, altro da sé, e onoma, nome, è un personaggio fittizio, che possiede però una sua personalità e una sua biografia diversa da quella del suo “creatore”.
      È un “altro da sé” a cui si affidano aspetti del proprio carattere che non si riescono ad accettare, sogni e speranze che non si sono riuscite a concretizzare. Qualcuno che fa scelte diverse dal suo autore, che ad un incrocio sceglie una direzione diversa, che naviga tra le infinite possibilità della vita con maggiore disinvoltura e sicurezza.
      O forse, ci si crea un eteronimo quando la vita non è abbastanza, quando si hanno dentro mondi diversi da quello quotidiano, da quello che si vede. Quando si coltiva un’innata ed infinita irrequietezza. Quando non si accettano alcuni aspetti del proprio carattere che sono però i più veri, i più autentici. E si affidano all’eteronimo.
      A volte, l’eteronimo, o gli eteronimi, diventano noms de plume, e, dietro la loro maschera, si scrive, si compone, si dipinge in modo molto più spontaneo ed autentico, tirando fuori la parte più genuina e sincera di sé.

      Il più famoso creatore di eteronimi è ovviamente Fernando Pessoa, che spiega la genesi di questi suoi “altri da sé” in una lettera a Adolfo Casais Monteiro – scrittore, poeta, saggista e traduttore portoghese –  pubblicata in Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (a cura di Antonio Tabucchi) e inserita nell’appendice del libro di Luciana Stegagno Picchio Nel segno di Orfeo.

      Ecco alcuni stralci della lettera:

      Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

      Casella Postale 147
      Lisbona, 13 gennaio 1935

      Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (…) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. (…)

      Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Ala fine, in un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile.

      Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la risposta di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.

      Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e di derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. (…)

      Come scrivo col nome dei tre? … Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).

      Tabucchi, Antonio
      Un baule pieno di gente
      Feltrinelli, 1990

      La migliore definizione degli eteronimi di Pessoa è, a mio parere, quella di Luciana Stegagno Picchio, una delle massime autorità italiane di lingua e letteratura portoghese e brasiliana, che in un’intervista su RaiLibro ha dichiarato:

      (…) Queste “persone”, questi “autori altri”, non sono pseudonimi: lo pseudonimo, infatti, abbraccia l’intera personalità dello scrittore. Nel caso di Pessoa, invece, quando si parla di eteronimi, ci si riferisce a una parte della personalità, quei segmenti di sé non espressi.
      Parlare è di per sé una mutilazione: quando un essere umano si esprime, mutila, “esclude” in quello stesso momento le cose che non dice e tutti gli altri personaggi che dentro di lui direbbero altre cose.
      In Pessoa erano presenti tante voci diverse – si è arrivati a calcolare addirittura ottanta, novanta eteronimi. E mi sono sempre chiesta cosa sarebbe stato Pessoa se non fosse morto precocemente.

      E ancora:

      (…) Sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati, basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita.
      Ad ognuno di essi attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale… Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
      Eppure, al di là di questi aspetti “contingenti”, tutti loro hanno in comune il fatto di essere persone di sesso maschile, sole, della stessa età, anche simili fisicamente: caratteristiche che alla fine si riuniscono in un unico uomo, che si chiama Fernando Pessoa.

      A volte gli eteronimi smettono di essere finzione e invadono la vita reale del poeta. È il caso della sua tormentata e surreale relazione con Ophélia Queiroz, unica “fidanzata” del poeta,  ostacolata, tra le altre cose, dalla gelosia dell’eteronimo Alvaro de Campos, omosessuale e geloso della giovane.

      Come Ophélia stessa racconta nella prefazione di Lettere alla fidanzata a cura di Antonio Tabucchi (edito da Adelphi):

      Fernando era una persona molto speciale. Tutta la sua maniera di essere, perfino nel vestire, era speciale. Ma forse io allora non me ne accorgevo, perchè ero troppo innamorata. La sua sensibilità, la sua tenerezza, la sua timidezza, la sua eccentricità mi incantavano. A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Alvaro de Campos. Mi diceva: “Sai, oggi non ero io, al mio posto è venuto il mio amico Alvaro de Campos..”.

      In quei momenti si comportava in un modo completamente diverso dal suo: era sconclusionato, diceva cosa senza senso. Un giorno mi disse: “Gentile signorina, ho una commissione per lei: dovrebbe buttare l’abietta immagine di quel tale Fernando Pessoa in un secchio pieno d’acqua, a testa in giù”.

      Io gli obiettai: “Detesto Alvaro de Campos, mi piace solo Fernando Pessoa”.

      “Chissà poi perchè”, riprese lui, “guarda che invece a Campos piaci molto”.

      Raramente parlava di Caeiro, di Reis o di Soares.

      Da queste pagine, dalle loro lettere, dalla loro tormentata storia è nata la mia curiosità per Ophélia Queiroz, minuta e vivace fanciulla della media borghesia lisbonese, che, diciannovenne, viene assunta come segretaria dal Diàrio de Notícias e si innamora di questo ometto strambo, che si dichiara a lei con le stesse parole che Amleto usa per promettere amore eterno alla sua Ofelia. Seguono mesi di namoro tormentato, fatto di bigliettini segreti, baci rubati negli androni dei portoni, dato che Fernando non vuole rendere il fidanzamento ufficiale presentandosi a casa sua (Sai, devi capire che è una cosa da persone comuni, e io non sono una persona comune).

      E Ophélia lo accetta, e lo ama per quello che è, per tutti i suoi io, per le promesse mai mantenute di sposarla. Lo ama nonostante il malcontento della famiglia, nonostante quella lettera del 29 novembre del 1920 con la quale Fernando mette fine alla loro storia:

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?  

      Ophélia non si sposerà mai. E mi piace credere che sia rimasta sempre innamorata del suo Nininho, che, pochi giorni prima di morire, chiedendo sue notizie al nipote Mario, con gli occhi pieni di lacrime esclama Che anima bella! Che anima bella!

      Ophelinha diventa così per me la regina degli amori mai realizzati, degli amori impossibili, di quelli sognati e accarezzati col pensiero ma mai vissuti. La destinataria di lettere d’amore che fanno ridere, ma farebbero ridere ancora di più se non venissero mai scritte. Diventa una piccola donna anticonformista, forte e indipendente, capace di amare un uomo geniale e imprevedibile come il suo Nininho, d’un amore tenero e capriccioso, ma sempre costante.

      Nel corso dell’ultimo anno, Ophelinha è diventata la mia maschera, il mio naturale eteronimo che mi aderisce come una seconda pelle.

      Perchè preferisco Ophelinha a me stessa? Perchè Ophelinha non ha paura di parlare in prima persona.
      Perchè la vedo così, uno scricciolo controcorrente, del tutto incurante delle tradizioni, a cui non importa un fico secco del matrimonio borghese e si innamora del poeta da strapazzo che le declama i versi con cui Amleto si dichiara a Ofelia, e le ruba un bacio.
      Perché a lei non importa nulla del parere della gente. Perché gioca a nascondino con Nininho dentro anditi e portoni sotto la pioggia. Perché è orgogliosa di essere chi è, di essere quello che è, e non fa nulla per nascondersi o per conformarsi.
      Ophelinha non ha paura. Non ha paura di piangere. Non ha paura di mettersi in gioco, anche se potrebbe significare perdere, e ha il terrore dell’abbandono, e ogni schiena che si allontana le spezza il cuore.
      Non si astiene dall’indulgere nel piacere masochista dei ricordi, degli amori passati, delle cose che erano e non sono più.

      E Ophelinha scrive d’amore, anche se fa ridere. Anche quando l’ha perso, e non può fare nulla per riaverlo indietro.

       

      E non si vergogna della natura malinconica del suo carattere, del bovarismo accentuato, del bisogno di frequentare personaggi fittizi più di quelli reali. Non adotta maschere per fingersi sempre allegra e superficialmente spensierata. Per cercare di piacere agli altri, e di essere accettata.
      È incapace di vivere a pieno il presente, e vive nel passato, crogiolandosi nei ricordi, annaspando tra i se e i forse.

      Così, protetta da questo schermo virtuale, divento Ophelinha e scrivo di quei mondi che nessuno vede e in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore della vita quotidiana.

      Ci sono anche eteronimi che non funzionano, che si provano e poi si mettono da parte per sempre, come un vestito troppo stretto e troppo corto. È il caso della frivola contessina Aspasia, un tentativo di trovare un eteronimo più leggero e civettuolo, più frivolo, per l’appunto.

      Ma no, non è andata. E allora, che Ophelinha sia. In questo strano mondo di eteronimi fin troppo soli.

       

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    • Giocando con la poesia: Sogno in seppia

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 14, 2012

      Cose belle. Che succedono anche in queste notti bianche, vuote e infinite.
      Succede che in una di queste notti scrivo una poesia, Sogno in Seppia.

      Le lunghe nottate insonni
      stese davanti a me come lenzuola inamidate
      fredde e distanti come un risveglio solitario
      a cercare i tuoi occhi da gatto
      nel fondo del bicchiere di vino ambrato.
      Il rincorrersi senza mai raggiungersi
      il cercarsi senza mai trovarsi
      la consapevolezza della tua assenza
      lontana come il tuo riflesso colpevole nello specchio
      mentre chiudevo la porta guardandoti con la coda dell’occhio.
      Di tutto questo
      non resta altro che un calice vuoto
      un libro in brossura
      l’eco ovattata della tua voce
      e il ritratto in seppia di una notte mai vissuta.
      Di tutto questo
      forse ho solo sognato.
      Forse non sono stata.
      Forse non sei stato.

       

      La stanza di Emily Dickinson (Amherst, MA)

       

      Succede che conosco un’anima bella, come fortunatamente mi accade ultimamente, con la quale condivido l’amore per la poesia e la passione sfegatata per Anna Karenina: la bravissima poetessa Titta Schiraldi.
      Succede che decidiamo di giocare con le parole e i versi, i sentimenti e le emozioni e di scrivere una poesia a quattro mani. E da quei versi, scritti di getto in una notte insonne come questa, è nata un’altra poesia.

      Le lunghe notti insonni
      stese davanti a me come lenzuola inamidate
      fredde e distanti
      come un risveglio solitario
      a cercare i tuoi occhi cangianti
      nel fondo del bicchiere di vino ambrato.

      Il rincorrersi senza mai raggiungersi
      il cercarsi senza mai trovarsi.

      Di tutto questo
      non resta altro che un calice vuoto
      un libro in brossura
      l’eco ovattata della tua voce
      e il ritratto in seppia di una notte mai vissuta.

      Avrei voluto raccogliere il libro
      sul quale stai lavorando,
      fino a tarda notte, é caduto a terra.

      E toglierti gli occhiali, pianissimo
      sei stanco,
      ti sei addormentato così,
      senza difese.

      Solo parole, conosco solo parole di te.
      Mi resta
      la consapevolezza della tua mancanza
      e mentre chiudo la porta
      sul tuo riflesso colpevole nello specchio
      siamo già come oggetti desueti
      lontani
      inservibili.

      Di tutto questo
      forse ho solo sognato.
      Forse non sono stata.
      Forse non sei stato.

      Ma se deve essere assenza
      che sia almeno la nostra.

      (@OphelinhaP & Titta Schiraldi) 

       

      Cose belle, che succedono in notti bianche come questa. Che ti fanno sentire infinitamente meno sola.
      Che ti fanno capire che sei circondata di poesia, e che se ti impegni riesci a trovarla anche dove meno te l’aspetti.
      Che catturano e cristallizzano per un attimo istanti di pura bellezza. I sempre nei mai, come li chiamerebbe la Burbery ne L’Eleganza del Riccio.

      Posted in Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 11 Comments | Tagged Anna Karenina, Guestpost, In the mood for love, Le notti bianche, Nininho, Poetry
    • Cartoline da Lisbona: a casa di Fernando Pessoa per il suo compleanno

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 13, 2012

      Fotopost sull’amore per Pessoa e l’amore per Lisbona

       

      Aniversário

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu era feliz e ninguém estava morto.
      Na casa antiga, até eu fazer anos era uma tradição de há séculos,
      E a alegria de todos, e a minha, estava certa com uma religião qualquer.

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu tinha a grande saúde de não perceber coisa nenhuma,
      De ser inteligente para entre a família,
      E de não ter as esperanças que os outros tinham por mim.
      Quando vim a ter esperanças, já não sabia ter esperanças.
      Quando vim a olhar para a vida, perdera o sentido da vida.

      Sim, o que fui de suposto a mim-mesmo,
      O que fui de coração e parentesco.
      O que fui de serões de meia-província,
      O que fui de amarem-me e eu ser menino,
      O que fui — ai, meu Deus!, o que só hoje sei que fui…
      A que distância!…
      (Nem o acho…)
      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!

      O que eu sou hoje é como a umidade no corredor do fim da casa,
      Pondo grelado nas paredes…
      O que eu sou hoje (e a casa dos que me amaram treme através das minhas
      lágrimas),
      O que eu sou hoje é terem vendido a casa,
      É terem morrido todos,
      É estar eu sobrevivente a mim-mesmo como um fósforo frio…

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…
      Que meu amor, como uma pessoa, esse tempo!
      Desejo físico da alma de se encontrar ali outra vez,
      Por uma viagem metafísica e carnal,
      Com uma dualidade de eu para mim…
      Comer o passado como pão de fome, sem tempo de manteiga nos dentes!

      Vejo tudo outra vez com uma nitidez que me cega para o que há aqui…
      A mesa posta com mais lugares, com melhores desenhos na loiça, com mais copos,
      O aparador com muitas coisas — doces, frutas o resto na sombra debaixo do alçado —,
      As tias velhas, os primos diferentes, e tudo era por minha causa,
      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…

      Pára, meu coração!
      Não penses! Deixa o pensar na cabeça!
      Ó meu Deus, meu Deus, meu Deus!
      Hoje já não faço anos.
      Duro.
      Somam-se-me dias.
      Serei velho quando o for.
      Mais nada.
      Raiva de não ter trazido o passado roubado na algibeira!…

      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!…

      ANNIVERSARIO

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      io ero felice e nessuno era morto.
      Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
      e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      avevo la grande salute di non capire alcunché,
      di essere intelligente per quelli della famiglia,
      e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
      Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
      Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

      Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
      quello che fui di cuore e famiglia,
      quello che fui di veglie di semiprovincia,
      quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
      quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
      Com’è lontano!…
      (Nemmeno l’eco…)
      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

      Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
      che provoca muffa nelle pareti…
      Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
      [lacrime),
      ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
      è che tutti siano morti,
      è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
      Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
      Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
      attraverso un viaggio metafisico e carnale,
      con una dualità da me a me…
      Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

      Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
      La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
      [bicchieri in più,
      la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
      le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
      al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

      Fermati, cuore mio!
      Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
      Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
      Oggi non compio più gli anni.
      Perduro.
      I miei giorni si addizionano.
      Sarò vecchio quando lo sarò.
      Nient’altro.
      Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

      15 ottobre 1929

      Da: Fernando Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, (a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi), Adelphi, Milano 1993.

      Esattamente un anno fa ero a Lisbona. E’ stata la mia prima visita in una città già cara al mio immaginario, visitata con la fantasia attraverso le parole di Tabucchi, di Pessoa, di Saramago.
      Coincidenze astrali hanno fatto sì che mi trovassi a Lisbona proprio in corrispondenza del compleanno di Pessoa, nato il 13 giugno 1888, nello splendido panorama delle Festas de Lisboa.

       

      Tutti i quartieri sfilano con costumi colorati danzando e cantando in competizione. Finita la sfilata si riversano nelle stradine dei vari bairros cantando e facendo baldoria, mentre chioschi in ogni angolo arrostiscono le sarde che si mangiano con le mani su una fetta di pane.

      In Portogallo, Santo Antonio è il protettore dell’amore..e del matrimonio. La notte del 12 giugno, gli innamorati si scambiano piantine di basilico come pegno di amore e di fedeltà. Secondo la tradizione, bisogna prendersi cura della propria piantina, per evitare che la passione appassisca…
      Sempre in quest’occasione vengono celebrate nella chiesa di Sant’Antonio le nozze collettive (finanziate dal comune di Lisbona), che Pessoa celebra in questi versi:

      Manjerico, manjerico,

      Manjerico que te dei,

      A tristeza com que fico

      Inda amanhã a terei.

      O manjerico comprado

      Não é melhor que o que dão.

      Põe o manjerico ao lado

      E dá-me o teu coração.

      O manjerico e a bandeira

      Que há no cravo de papel-

      Tudo isso enche a noite inteira,

      Ó boca de sangue e mel.

      O vaso do manjerico

      Caiu da janela abaixo.

      Vai buscá-lo, que aqui fico

      A ver se sem ti te acho.

      Manjerico que te deram,

      Amor que te querem dar…

      Recebeste o manjerico.

      O amor fica a esperar.

       

      A chi avrà regalato il basilico Pessoa? A chi avrà chiesto di metterlo da parte per donargli il suo cuore? Mi piace pensare che si tratti di Ophelia Queiroz, ma capirete che sono di parte…
      Tornando a Nininho: l’anno scorso, in occasione del suo compleanno, la sua casa-museo era aperta. Quale occasione migliore per passarvi l’intera mattinata, curiosando tra i suoi oggetti, cullati dal portoghese musicale di guide volontarie ed appassionate?
      Buon compleanno, Nininho, parabéns. E alla prossima visita nella tua Lisbona vieni a infestarmi, come accadde a Tabucchi nel suo Requiem.
      Magari sarà la volta buona. Sarà la volta in cui ti toglierai gli occhiali e finalmente la vedrai, lei che ti ha aspettato tutta la vita.
      Posted in Cartoline | 3 Comments | Tagged Antonio Tabucchi, Fernando Pessoa, Literature and Beyond, Me myself and I, Memories, Nininho, Ophelinha, Poetry
    • It all started like this… (post in prima persona)

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 25, 2012

      E’ iniziato tutto così…durante una giornata molto simile a questa*.
      Una giornata troppo grigia perfino per Greyville, con la pioggia gelida e il vento che ti sferza il viso e dissemina intorno a se una foresta di ombrelli rotti. La cosa più deprimente è il colore. Non è fumo di Londra, è un…non colore. E’ la completa assenza di tonalità. E’ la negazione del colore stesso.
      Guardo fuori dalla finestra del mio ufficio, questo cielo senza colore, questo palazzone dello stesso colore del cielo, and I cannot help but wonder (à la Carrie Bradshaw)…per l’ennesima volta nel corso dell’ultimo anno e mezzo…ma io, esattamente, cosa ci faccio qui? O, più precisamente, cosa sto facendo della mia vita?
      Se, circa undici anni fa, qualcuno mi avesse predetto che sarei diventata la persona che sono, che avrei abbandonato qualsiasi forma di ambizione riducendomi a vivere come l’ombra di me stessa…beh, mi sarei fatta una bella grassa sonora risata. Perché non sarebbe mai potuto accadere. Perché non ero così.
      Il problema deriva fondamentalmente da questo…non sono e non potrò mai essere diversa da quello che sono. Ma le circostanze sono cambiate, le persone intorno a me sono cambiate, c’è chi se n’è andato portandosi via pezzi di me e lasciandomi in eredità pesanti valige, chi è arrivato portando carichi di responsabilità che non ero proprio pronta ad affrontare…e ci sono giorni, come questo, in cui mi sento in bilico tra la leggerezza e la pesantezza dell’essere…non so se sono Tereza o Sabine, non so se sono Kitty o Anna Karenina**. Forse la verità è che non vedo i colori perché ho perso la capacità di vederli, insieme alla capacità di ridere, di tutto, di me stessa, di cuore.
      Tornando a noi: il trasferimento a Greyville, inizialmente accettato come un dono per evadere da una routine un po’ provinciale e da quella vocina interiore che sussurrava “you can do it better, can’t you?” (sorry ma le mie vocine interiori parlando in Inglese….)si e’ rivelato un vero disastro. Mai e poi mai avrei immaginato di finire a vivere in una città così fredda, così poco accogliente, dove gli amici e gli stimoli culturali vanno cercati col lanternino.
      Il lavoro non aiuta…così…burocratico, sempre uguale a se stesso, affatto stimolante…l’unico aggettivo che mi viene in mente è, ancora una volta, grigio…e mi chiedo…non dovrei essere da qualche altra parte a fare qualcosa di più meaningful, per me stessa e per gli altri? E mi viene in mente la dedica della mia tesi di laurea…You have to be the change you want to see in the world (Gandhi). Dov’è finita quell’idealista?
      Forse nascosta dietro una facciata di cinica poco convinta…
      Ho sempre pensato che quello che facciamo debba rispecchiare la parte migliore di quello che siamo. Che il posto in cui scegliamo di mettere radici debba essere l’Heimat.
      Bref, dovendo per il momento vivere, lavorare e respirare qui a Greyville, ho deciso di crearmi la mia Neverland, dove rifugiarmi, sognare e, perché no? Scambiare idee, racconti, storie, opinioni, poesie con altre persone sparse qui e lì nella galassia satellitare.
      Perché Impressions chosen form another time e perché Pessoa e Ophelinha.
      Perché la canzone di Brian Eno rispecchia come mi sento, attualmente, la maggior parte del tempo (oltre ad essere una bellissima canzone, dolce e malinconica al tempo stesso)

      By this river

      Here we are
      Stuck by this river,
      You and I
      Underneath a sky that’s ever falling down, down, down
      Ever falling down

      Through the day
      As if on an ocean
      Waiting here,
      Always failing to remember why we came, came, came:
      I wonder why we came

      You talk to me
      As if from a distance
      And I reply
      With impressions chosen from another time, time, time,
      From another time

      Eccoci qui

      Al fianco di questo fiume

      Tu ed io

      Sotto un cielo che continua a cadere giù, giù, giù

      Sempre più giù

      Attraverso il giorno

      Come fosse un oceano

      Fermi qui in attesa

      Non riusciamo mai a ricordarci perché ci siamo arrivati

      Mi chiedo perché ci siamo arrivati

      Mi parli

      Come da distanze remote

      E io ti rispondo

      Con impressioni provenienti da un tempo ormai lontano

      Da un tempo ormai lontano

      (Traduzione @OphelinhaPequena)

      La traduzione è un po’ libera e rispecchia esattamente come mi sento: con la testa sott’acqua, le orecchie tappate e gli occhi chiusi, e tutto quello che mi arriva sono suoni e rumori attutiti dall’acqua e…ricordi, fantasmi del passato, cose e persone che mi trattengono sott’acqua e mi impediscono di risalire in superficie e let it go. Una cosa però mi arriva, anche sott’acqua: la voglia di scappare via, via….
      Perché Nininho (Fernando Pessoa).  Un pomeriggio di tanti (ma non tantissimi J ) anni fa ero in biblioteca a studiare per l’esame di Lingua e Letteratura portoghese. Tra i vari libri, ho trovato questo libricino, Lettere alla fidanzata (a cura di Antonio Tabucchi), la corrispondenza tra Pessoa e l’unica donna della sua vita, Ophelia Queiroz (ne ho gia’ parlato qui).
      Queste lettere mi hanno colpito: per la spontaneita’, l’irruente ingenuita’, il bisogno di amore di lei, il desiderio tutto femminile di passare dalla poesia alla prosa e di vivere concretamente il sentimento per Nininho nella vita quotidiana; e quel celeste distacco di lui, geloso, poi sfuggente, preso a farsi scudo dietro i suoi eteronimi, a cercare la vera vita lì dove non c’era, la vita. C’erano tante cose; c’erano parole, c’era poesia, ma c’era anche la sua incapacita’ di amare concretamente, di smettere di nascondersi dietro tanti nomi per offrirsi nudo e semplice a lei, a Ophelia, che in un attacco di deliziosa e maliziosa ingenuita’ in una delle sue lettere si firma “Ophelia Pessoa (magari!)”.
      Il carteggio tra Nininho ed Ophelinha mi è tornato in mente al momento di aprire il blog, dopo aver letto un articolo di Tabucchi (Pessoa, Amori veri e amori ridicoli) nell’archivio storico del Corriere della Sera.
      Era un momento in cui anch’io avevo bisogno di rifugiarmi dietro un altro nome, per essere capace di osservarmi dall’esterno ed eliminare quella fastidiosa sensazione che provo ogni volta che parlo di me in prima persona. Così nasce la mia Ophelinha, una figura ibrida, mezza me mezza creatura letteraria. Una creatura libera di sottrarsi al grigiore quotidiano e sognare, sognare, sognare, rifugiandosi in conversazioni immaginarie con personaggi romanzeschi, in amori letterari ed incompiuti che rimarranno sempre e per sempre pefetti perché non verranno mai intaccati nè corrosi dalla realtà che si vede, ma vivranno solo nella realta che si crede.
      Anche il “mio” Nininho non è una persona, ma l’insieme delle persone che hanno toccato e continuano in parte a toccare la mia vita, l’hanno trasformata e mi hanno cambiata, portandosi via in alcuni casi pezzi di me. E’ l’insieme degli obiettivi mai raggiunti, la wishlist delle cose che avrei sempre voluto per me e non sono ancora riuscita ad ottenere.
      E’ la speranza di tempi migliori. E’ lo specchio che mi riflette, criticamente, naked, unveiled, al giudizio del quale non posso sottrarmi. E’ la parte più autentica e genuina di me, quella che non si vergogna di parlare in prima persona e non sente il bisogno di fingere di essere di più. Più forte, più intelligente, più indipendente, più sicura di sè.
      Sei mesi fa, ho inaugurato questo blog con una delle mie poesie, Un altro finale. Perchè è questo che desidero: per me, per Ophelinha, per tutti coloro che leggono queste righe e sono magari alla ricerca di risposte a domande che non hanno nemmeno il coraggio di formulare.
      Un finale semplice, pulito, trasparente. Che non faccia male e ridoni la capacita di sorridere.

      * strano ma vero, oggi che pubblico questo post, c’è il sole.
      ** ho riletto Anna Karenina, a dodici anni di distanza dalla prima lettura, e non ho dubbi: non potrei mai essere Kitty. I just cannot get rid of the feeling that she is kind of…settling down? Non potrei mai innamorarmi di Levin. Ma di Vronskij, si. Cosi’ come se fossi Cathy di Wuthering Heights non potrei mai prendere in considerazione l’idea di sposarmi con Linton, ma ci sarebbe Heathcliff, solo Heathcliff.

      “… A che scopo sarei io stata creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è lui. Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo si cambierebbe per me in un’immensa cosa estranea; non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco; il tempo lo muterà , ne sono sicura, come l’inverno muta gli alberi; il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più della nostra separazione: è impossibile…”

       
      E che dire di Elizabeth Bennet di Pride and Prejudice? Wickam e’ chiaramente solo una piccola infatuazione. Mr Darcy, Mr Darcy. Per questo, Nininho.
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    • Pablo e Matilde, premiazione giveaway Love Letters, Italy:Love It or Leave It

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 21, 2012

      Dopo un weekend lungo e triste, un weekend in cui troppe sono state le parole e ancora più numerose le immagini, resto ancora barricata dietro il muro di chi le parole le ha perse, da tempo, e continua a perderle, mentre guardo dall’esterno il mio Paese, a cui continuo ad essere vincolata da una sorta di cordone ombelicale, da un’appartenenza che è anche esigenza di combattere quella non appartenenza, quel senso di sradicamento che aumenta di giorno in giorno e mi rende ancora più aliena a me stessa.
      Italy:Love It or Leave It, amala o lasciala, vattene: non potevano trovare titolo più appropriato gli autori del docu-trip, il viaggio-documentario che tanto ha fatto parlare di sè nelle ultime settimane (per ulteriori riferimenti vi rimando al sito ufficiale). Ma, cari Gustav e Luca, cosa succede quando la ami ma devi lasciarla, per questo, quello o quell’altro motivo? O meglio ancora: cosa succede quando nutri nei suoi riguardi ammirazione e rancore, nostalgia e rabbia, quel binomio tanto indissolubile quanto ossimorico di amore ed odio?

      Qui le notizie arrivano come attutite da tutto questo grigio, da questo cielo biancastro che crea una sorta di tempo fuori dal tempo, in questo Paese-altro-da-me che mi rimane sempre cosi estraneo, dove esistono solo due lunghissime stagioni, autunno ed inverno. E ti ritrovi a boccheggiare per un sorso di aria primaverile, per un sussulto di primavera, per un raggio di sole che dia un senso maggiore a quelle giornate che sembrano davvero upside down, in cui il mondo – sia quello interiore che quello esterno – sembra aver perso ogni senso ed ogni logica.

      Qualche weekend fa, in una giornata di fine aprile permeata di aria frizzante e novembrina, per risollevarmi il morale mi sono regalata Cien sonetos de amor di Pablo Neruda (Seix Barral, Biblioteca Breve).

      Questa è la bellissima dedica di Pablo alla sua Matilde:

      Señora mía muy amada, gran padecimiento tuve al escribirte estos mal llamados sonetos y harto me dolieron y costaron, pero la alegría de ofrecértelos es mayor que una pradera. Al proponérmelo bien sabía que al costado de cada uno, por afición electiva y elegancia, los poetas de todo tiempo dispusieron rimas que sonaron como platería, cristal o cañonazo. Yo, con mucha humildad hice estos sonetos de madera, les di el sonido de esta opaca y pura substancia y así deben llegar a tus oidos. Tu y yo caminando por bosques y arenales, por lagos perdidos, por cenicientas latitudes, recogimos fragmentos de palo puro, de maderos sometidos al vaivén del agua y la intemperie. De tales suavizadísimos vestigios construí con hacha, cuchillo, cortaplumas, estas madererías de amor y edifiqué pequeñas casas de catorce tablas para que en ellas vivan tus ojos que adoro y canto. Así establecidas mis razones de amor te entrego esta centuria: sonetos de madera que sólo se levantaron porque tú les diste la vida.
      Octubre de 1959

      “Mia amatissima signora,
      questi sonetti – erroneamente definiti tali – mi sono costati immensa fatica e sofferenza, ma la felicità che provo nell’offrirteli è più vasta di una prateria.
      Quando ho preso questa risoluzione, sapevo bene che al fianco di ognuno, per affinità elettiva ed eleganza, i poeti di ogni tempo hanno disposto rime che suonavano come argenteria, cristallo o cannonata. Io, molto umilmente, ho fatti questi sonetti di legno, ho dato loro il suono di questa sostanza opaca e pura e tali devono giungere alle tue orecchie. Io e te, camminando per boschi e spiagge, per laghi perduti, per latitudini di cenere, abbiamo raccolto frammenti di puro albero, pezzi di legno sottomessi all’andirivieni dell’acqua e delle intemperie.
      Di queste vestigia soavi ho costruito con accetta, coltello, temperino queste legnamerie d’amore e ho edificato piccole case di quattordici tavole perché in esse vivano i tuoi occhi, che adoro e che canto.
      Così, avendoti esposto le ragioni del mio cuore, ti affido questa centuria: sonetti di madera che presero il volo solo perché tu desti loro la vita.


      Ottobre 1959″
      (Traduzione a cura di OphelinhaPequena)



      Tornando a noi…a giudizio insindacabile della giuria 🙂 composta da me e da Nininho, che per una volta ha interrotto le sue peregrinazioni astrali per farmi visita (o forse è stato solo un sogno..come potrei dirlo?) si aggiudicano i due premi del giveaway letterario “Love letters”:

      – Donatella (che ha commentato la lettera tratta dal film “Mine Vaganti”) vince il libro “Ti amo come l’hanno detto gli uomini famosi” di Ursula Doyle;

      – Why  (che ha commentato l’ultima lettera di Aldo Moro a sua moglie Eleonora) vince i Valentine Lollypop Earrings.

      Vorrei ringraziare tutti per i commenti e la partecipazione e ricordare alle due vincitrici di inviarmi il loro indirizzo a ophelinha.pequena[at]gmail[.]com.

      Vi auguro un buon inizio di settimana, per quanto possibile, in qualunque parte del mondo vi troviate. Sperando che dalle parti vostre ci sia almeno un raggio di sole. Perché, se è vero che i Guns’N’Roses cantavano nothing lasts forever, even cold November rain, ci sono altri tipi di pioggia che durano per sempre. O forse no.
      Io aspetto, ogni giorno un po’ meno fiduciosa.

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    • Love letters +SECOND GIVEAWAY(s)

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 2, 2012
      Fernando e Ophelinha, Casa Pessoa, Lisbona. Giugno 2011

      Ho evitato il mio piccolo spazio privato per un po’ di giorni, in parte di proposito, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per non mettere nero su bianco pensieri che ultimamente frullano nella mia testolina bacata..perchè una volta che sono messi per iscritto esistono, e forse non voglio confrontarmi con loro, non adesso, non qui. Basti sapere che ho sbagliato strada ad un incrocio e ora non riesco a trovare il modo di fare inversione di marcia.

      Qui fuori è grigio e freddo, come quel pomeriggio di sette mesi fa in cui ho iniziato a depositare in questa finestrella pensieri, impressioni, versi, appunti di passaggio. Nemmeno maggio è stato in grado di donarci un po’ di primavera, ma solo pioggia e una nebbia sottile che confonde ancora di più idee ed emozioni, ragioni della testa e ragioni del cuore. In un pomeriggio di novembre simile a questo maggio autunnale che sembra quasi inverno, nell’archivio storico del Corriere della Sera ho trovato due bellissimi articoli, che vi raccomando caldamente: Pessoa in ginocchio da Ofelia e Amori veri e amori ridicoli, a firma del grande Tabucchi. E mi sono tornate in mente tanti piccoli particolari: la biblioteca dell’università, i pomeriggi bui e polverosi, l’edizione Adelphi di Lettere alla fidanzata. Tutte le volte in cui mi sono sentita ridicola, in cui mi sono immedesimata nell’eterea Ophelinha, che rifiuta ogni pretendente e inizia a scrivere all’incostante Fernando. Entrambi sono impiegati nello stesso ufficio, e un giorno l’imprevedibile Nininho, l’Ibis della sua anima, le si dichiara con gli stessi immortali versi che Amleto aveva usato nella tragedia shakesperiana per dichiararsi alla sua Ofelia:

      Oh! Cara Ofelia! Maneggio male i miei versi, ho poca arte per misurare i miei sospiri, ma ti amo all’estremo! Oh, fino all’ultimo estremo, credilo!

      E Fernando la bacia improvvisamente, appassionatamente. E Ophelinha inizia a scrivergli. Lettere quotidiane, lettere semplici. Lettere di fuoco, lettere appassionate.
      Oggi voglio regalarvi una lettera, la mia preferita. La lettera che Fernando scrive ad Ophelia e chiusura della prima fase del loro namoro (fidanzamento), il 29 novembre 1920.
      I due riprenderanno a scriversi anni dopo, nel 1929: ma Fernando è cambiato, è totalmente ossessionato all’opera poetica alla quale si è consacrato, le interferenze di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi di Pessoa, sono sempre più ingerenti.
      Tornerò a parlare di Nininho e Ophelinha: per ora vorrei solo che ve li immaginaste così, uno scricciolo diciannovenne che insegue un amore impossibile a scapito di altri ben più reali e un ometto con cappello scuro e gli occhiali che ha paura di vivere, e si rifugia dietro altri io, dietro fogli, dietro parole di carta.

      La traduzione della lettera riportata di seguito è tratta da Lettere alla fidanzata di Antonio Tabucchi, fonte che ho usato per scrivere questo post insieme a Finzioni d’amore, a cura di Paolo Collo (Passigli Editore).

      Ophélia Queiroz all’epoca del namoro con Fernando Pessoa

      29 novembre 1920

      Ophelinha,

      la ringrazio per la sua lettera. Essa mi ha portato dolore e sollievo allo stesso tempo. Dolore, perchè queste cose addolorano sempre; sollievo perchè in verità l’unica soluzione è questa: non prolungare oltre una situazione che ormai non trova più giustificazione nell’amore, nè da una parte nè dall’altra. Da parte mia, almeno, resta una stima profonda, un’amicizia inalterabile.

      Lei non mi negherà altrettanto, vero?

      Nè lei, Ophelinha, nè io, abbiamo colpa di tutto questo. Solo il Destino ne avrebbe la colpa, se il Destino fosse una persona a cui potere attribuire delle colpe.

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?

      Nella sua lettera (nella lettera del 27 novembre Ophelina chiude il namoro con Fernando, a causa delle lettere mai arrivate, della sua presunta o vera che fosse mancanza di interesse, terminando con le parole “E’ stata fatta la sua volontà. Le auguro di essere felice”, ndr) è ingiusta con me, ma la comprendo e la scuso. Certo l’ha scritta con irritazione, forse perfino con dolore: ma la maggior parte della gente – uomini e donne – avrebbe scritto, nel suo caso, in un tono ancora più acerbo e in termini ancora più ingiusti. Ma lei, Ophelinha, ha un meraviglioso carattere, e perfino la sua irritazione non riesce ad essere cattiva. Quando si sposerà, se non avrà la felicità che merita, certamente non sarà colpa sua.

      Quanto a me…

      L’amore è passato. Ma le mantengo un affetto inalterabile,e non la dimenticherò mai – mai, lo creda – nè la sua figurina graziosa e i suoi modi di ragazzina, nè la sua tenerezza, la sua dedizione, la sua adorabile indole, può essere che mi sbagli, e che queste qualità che le attribuisco fossero una mia illusione: ma non credo lo fossero nè, se lo sono state, sarei villano ad attribuirgliele.

      Non so cosa desidera che le restituisca: lettere o che altro ancora.

      Io preferirei non restituirle niente, conservare le sue lettere come il ricordo vivo di un passato morto come ogni passato: come un qualcosa di commovente in una vita quale la mia, in cui l’avanzare negli anni va di pari passo con l’avanzare nell’infelicità e nella delusione.

      Le chiedo di non fare come la gente comune, che è sempre grossolana: che non giri la testa quando ci incontreremo; nè abbia di me un ricordo in cui ci sia spazio per il rancore.

      La prego, siamo l’uno con l’altro come due persone che si conoscono dall’infanzia, che si amarono da bambini e, sebbene nella vita adulta seguano altre strade e altri affetti, conservano sempre, in una piega dell’animo, il ricordo profondo del loro amore antico e inutile.

      Per quanto forse “altri affetti” e “altre strade” possano concernere lei, Ophelinha, non cero me stesso. Il mio destino appartiene ad altra Legge (la Poesia, ndr), della cui esistenza lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre di più all’obbedienza a Maestri (gli eteronimi? ndr) che non permettono e non perdonano.

      Ma non è necessario che capisca quanto dico. Basta che mi conservi affettuosamente nel suo ricordo come io, sempre, la conserverò nel mio.

      Fernando

      Come si sarà sentita dopo questa lettera, la nostra virgoletta graziosa che, il 23 marzo 1920, si firmava “molto tua Ofélia Pessoa (fosse vero)”?
      E come si sarà sentito lui, Fernando, che tirava Ophelia per il braccio per baciarla negli anditi e nei portoni, ma non è stato mai capace di uscire fuori da quelle pagine e di vivere una vita vera, con lei? Come avrebbe cantato Roberto Vecchioni in Le lettere d’amore

      …dimenticando Ophelia
      per cercare un senso che non c’è
      e alla fine chiederle “scusa
      se ho lasciato le tue mani,
      ma io dovevo solo scrivere, scrivere
      e scrivere di me”…

       E ora la parola a voi. Vi chiedo di scegliere una delle lettere d’amore presentate tra l’1 e il 14 febbraio (ad eccezione della giornata di silenzio per la scomparsa di Wislawa Szymborska) o la lettera di cui abbiamo appena parlato. Basta un commento, un’emozione, un’impressione.

      I giveaway(s) in palio sono due:

      – primo classificato: la raccolta di lettere d’amore “Ti amo come l’hanno detto gli uomini famosi” di Ursula Doyle ( di cui abbiamo già parlato qui)

      – secondo classificato: gli orecchini Valentine’s Lollipop Earrings gentilmente offerti dalla mia cara The Italian Girlfriend ( il cui shop su etsy è semplicemente delizioso)…

      Le regole, come al solito, sono poche e semplici:

      – essere follower di Impressions chosen from another time su Blogger, Facebook o Twitter;
      – come al solito, il punto summenzionato è opzionale…what really matters are your impressions. Quindi passate da qui e commentate, criticate, emozionatevi, lasciate le vostre impressioni.
      Avete tempo fino al 20 maggio!

      Boa noite,

      Ophelinha

      NB: ho deciso di prolungare il giveway di qualche altro giorno..aspetto i vostri commenti!!!Share some love, leave your impressions! 🙂

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 29 Comments | Tagged Antonio Tabucchi, Confessions of a Dangerous Mind, Fernando Pessoa, Giveaway, In the mood for love, Lettere d'amore, Literature and Beyond, Me myself and I, Nininho, Ophelinha
    • La ragazza del bar di Cuba. Un racconto breve

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 5, 2012

                                                                           Para o meu Nininho
                                                                           musa custosque mentis et cordis mei

      La ragazza del bar di Cuba ha lunghi capelli sciolti, schiariti dal sole, e piedi perennemente scalzi. Veste sempre di giallo, perché è il colore che indossava la prima volta che ha incontrato Lui.
      Lui sa che è il suo colore preferito, ed è per questo che lei lo aspetta sempre vestita di giallo per essere pronta ad accoglierlo quando arriverà.

      Perché Lui arriverà, gliel’ha promesso, ed arriverà per mare, è ovvio, perché ama l’amore dei marinai, che seminano promesse e vanno via.
      Per questo lei lo aspetta lì, nel suo chioschetto sulla spiaggia, seduta sul suo alto sgabello, la lunga schiena scoperta ed abbronzata, e scruta il mare coi suoi occhi autunnali.

      La ragazza aveva una vita, o perlomeno una sorta di esistenza. Aveva un lavoro – anche se non lo amava. Aveva un piccolo appartamento pieno di piante – che puntualmente riusciva a far morire – e di girasoli. Aveva un gatto, qualche amico, un gruppo di lettura, un corso di flamenco da seguire.

      Fino a quella sera.
      Fino alla sera in cui improvvisamente si era resa conto di non avere più niente. Fino alla sera in cui ogni cosa aveva smesso di avere senso.

      Perché aveva conosciuto Lui, in una sala piena di gente. Ebbra di rumore, si era persa in un lungo gioco di sguardi liquidi. Galeotto lo champagne, si era dimenticata un guanto, e se n’era accorta solo dopo aver camminato a lungo nella gelida notte londinese.

      Da quel giorno la ragazza aveva cercato accuratamente di perdere ogni giorno qualcosa, per essere sicura di rivederlo, mentre in realtà l’unica cosa che perdeva era ogni volta un pezzetto di se stessa.

      Fino alla sera in cui l’aveva rivisto, ancora una volta in una sala piena di gente, chiacchiere e musica, odori e profumi, e aveva intercettato, con la coda dell’occhio, il suo sguardo. Il rumore era cessato, la musica si era attutita, tutti erano diventati statue di pietra in una frazione di secondo. C’erano Lui, e lei.

      Ogni cosa aveva di nuovo un senso.

      La ragazza del bar di Cuba ha tanti capelli, lunghi, e mossi, e ribelli. Ogni riccio un capriccio, scherzava Lui. Porta sempre un fiore rosso tra i suoi ricci, per essere visibile anche da lontano.
      Attira lo sguardo di molti passanti, che si voltano con ammirazione, accarezzandola con gli occhi.
      Lei è sempre indifferente: i suoi occhi di foglia non hanno luce, mentre serve pescado y mariscos, ma un’indifferenza che taglia come una lama. I suoi occhi sembrano pozze d’acqua perfettamente immobili, nelle quali si specchia il fogliame autunnale in una giornata di nebbia, senza luce, senza nemmeno la speranza di un raggio di sole. Un giorno quegli occhi si illumineranno ancora, di quella luce speciale che la illuminerà dall’interni, come quella sera – la sera in cui tutto aveva trovato di nuovo un senso. In cui Lui l’aveva presa per mano e avevano bevuto vino bianco ghiacciato e, come nella canzone di Dalla, Lui aveva cercato la bottiglia per cercare di contare i suoi capelli, per poi prenderla per mano e volare sopra i tetti e perdersi in Lei, nell’immensità liquida dei suoi grandi occhi luminosi.

      Ogni mattina, all’alba, la ragazza del bar di Cuba siede lì, nel suo chioschetto sulla spiaggia bianca, e guarda il mare. I suoi grandi occhi assenti color foglia morta sono pozzi senza fondo, che prendono vita e si aguzzano solo quando scruta l’orizzonte, quando intravede una vela bianca in lontananza, quando raccoglie una bottiglia tra i flutti sperando di trovarvi un messaggio, destinato solo a lei.
      Ogni sera, al tramonto, raccoglie le sue cose e se ne va, un po’ più sconfitta. Nessuno sa dove vada. Nessuno sa dove viva.
      Molti pensano che sia pazza. Molti ridono di lei, ma lo fanno sotto i baffi, I bambini la deridono, la chiamano la testa matta, la mina vagante. Gli adulti invece non ne hanno il coraggio, soggiogati da uno strano rispetto per l’aura che la circonda, per quella strana e surreale bellezza. Che, se da una parte attira gli sguardi come un magnete, dall’altra la protegge come un’invisibile corazza. Lei non si cura di niente, non si accorge delle occhiate, che le scivolano addosso come pioggia su tela cerata. Aspetta, semplicemente.

      Lui le ha detto che sarebbe arrivato. E’ stato tanto tempo fa, è vero. Ma ha promesso.
      Non potevano vivere insieme. Non quando si erano conosciuti, non dove si erano amati.
      Era stato lui ad escogitare quella soluzione. Un posto lontano, un luogo isolato, poco frequentato, vicino al mare, dove la ragazza l’avrebbe aspettato, e lui un giorno l’avrebbe raggiunta.
      E lei aveva lasciato tutto in un attimo, senza neanche pensarci su, perché l’idea di perderlo per sempre le risultava insopportabile. Perché l’idea di vivere senza di lui era inconcepibile. Ed era partita.

      Ora si è liberata del pallore cittadino, delle occhiaie, della messa in piega, e aspetta. Aspetta e continuerà ad aspettare, fino a quando al tempo già passato si sommerà altro tempo e poi ancora altro tempo. E quando le ore saranno diventati giorni che saranno diventati mesi che saranno diventati anni, e tutto sarà diventato troppo, lei sparirà.

      Si dissolverà, semplicemente, come la sirenetta di Andersen, portando con sé il suo chioschetto, l’acqua trasparente e la spiaggia bianca, perché la ragazza del bar di Cuba esiste solo in quanto Lui esiste, è un’emanazione, una rappresentazione della parte migliore di Lui e lei insieme.
      Il cuore della ragazza smetterà di battere nel momento esatto in cui lui smetterà di sognare di poterla raggiungere, un giorno.

      Ragazza triste, Vito Labianca
      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 7 Comments | Tagged In the mood for love, Me myself and I, Mine vaganti, Nininho, Racconti
    • E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare.

      Posted at 11:50 pm03 by ophelinhap, on March 25, 2012

      E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare.
      E per addormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda.

      Antonio Tabucchi, Si Sta Facendo Sempre Più Tardi

      La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro

      Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira

      Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di metter su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo.

      Quanto non vorrei aver letto i giornali, tardi, con un’emicrania battente, e aver letto della scomparsa di Tabucchi.

      Ho letto Sostiene Pereira per la prima volta tanti anni fa. La prima cosa che mi ha colpito del romanzo sono state le parole di Lalla Romano, sul retro della mia edizione economica: “E’ possibile che un libro, un romanzo metta a disagio perchè sembra troppo bello?Troppo, non perchè sospetto di voler piacere, ma proprio nel senso che si fa amare senza riserve”.
      Incuriosita, ho cominciato a leggere. Ed è stato amore a prima lettura. Attraverso Tabucchi e il suo Requiem ho scoperto Pessoa, ho scoperto le sue Lettere alla fidanzata, ho scoperto Ophelinha.
      E’ iniziato così il mio amore per il Portogallo e la letteratura portoghese.
      Un po’ di mesi fa, ho trovato due suoi articoli negli archivi storici del Corriere: Pessoa in ginocchio da Ofelia e Amori veri e amori ridicoli. E mi sono tornate in mente tante cose: i pomeriggi bui in biblioteca, il viaggio a Lisbona accuratamente pianificato, quella storia d’amore che mi aveva tanto colpito. Avevo bisogno di scrivere. Avevo bisogno di evadere. Ed è nata Ophelinha, e la mia Neverland è diventata una Lisbona assolata e decadente, infestata dal fantasma di un ometto pallido con gli occhiali rotondi ed il cappello nero a falde. Un ometto dalla personalità a dir poco ingombrante, dato che, a seconda dei giorni e dell’uomore, poteva essere il dottor Reis, o il poeta bucolico Alberto Caeiro, o scrivere di desassossego nelle vesti del modesto impiegato Bernardo Soares.
      Gli scrittori continuano a vivere finchè li leggiamo, ha dichiarato Ines Pedrosa, direttrice della Fondazione Pessoa, in occasione della scomparsa dello scrittore italiano che tanto amava il Portogallo.
      Mi sembra la dichiarazione d’amore più bella tra le tante – a volte troppe – parole scritte oggi.


      “le ragioni del cuore sono le più importanti,bisogna sempre seguire le ragioni del cuore, questo i dieci comandamenti non lo dicono, ma glielo dico io, comunque bisogna stare con gli occhi aperti,
      nonostante tutto, cuore, sì, sono d’accordo, ma anche gli occhi bene aperti…”
      (Pereira a Monteiro Rossi, Sostiene Pereira) 

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni, Ophelinha scrive | 2 Comments | Tagged Antonio Tabucchi, Fernando Pessoa, Literature and Beyond, Nininho, Si sta facendo sempre più tardi
    • Di compleanni…e di nuvole

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 22, 2012

      Rieccomi tra queste pagine virtuali…in un periodo un po’ strano e un po’ confuso, un po’ dolce e un po’ amaro…dopo altre candeline appena soffiate, che fanno sempre venire in mente altri compleanni… in cui tutto era meno complicato, in cui si mangiavano le chiacchiere, che saranno per sempre associate alla mia infanzia ed al mio compleanno, che cade quasi sempre durante il carnevale.

      Altri compleanni in cui tutto era semplice, in cui si poteva essere più egoisti e avere una torta tutta rosa… ed esprimere qualsiasi desiderio dopo aver soffiato le candeline, perchè  tanto c’era tutta una vita davanti, e le possibilità erano semplicemente infinite…si poteva essere tutto, si poteva diventare tutto, non c’erano limiti…It was my party and I could really cry out loud if I wanted to.

      Erano tempi in cui le responsabilità erano molto minori, in cui non si doveva moltiplicare tutto per tre e in cui si poteva perdere una buona ora e mezzo solo per decidere cosa indossare e un’altra ora e mezzo per truccarsi e pettinarsi. In cui si era più leggeri, il cuore era più leggero e si poteva avanzare lungo il percorso dei giorni, attraverso il percorso della vita pattinando, danzando, canticchiando a cuor leggero.
      Erano tempi in cui si poteva passare tutta la giornata in spiaggia o in veranda a prendere il sole e a leggere o a scrivere, fantasticando di diventare una giornalista o una scrittrice, di vivere a Londra e di viaggiare, viaggiare.

      Anni che passano, nuvole..e una lettera d’amore.
      Una lettera sull’amore trascorso, rivissuto in una memoria labile perché ovattata dalla sensazione di stordimento, nella mancanza.
      Il ricordo di una relazione amorosa appena conclusa è un cadere lento attraverso le nuvole, un passaggio e ricordo del passaggio, in una realtà nella quale ricordi vivi ma incerti si confondono con il presente perché il vissuto del cuore non procede nel tempo lineare, passato-presente-futuro. Il cuore è senza tempo e così si cade senza sosta nelle nuvole e oltre di esse; mentre la mente cerca di ancorarsi ai ricordi e di ritornare al proprio vissuto, la caduta non trova un’isola sulla quale arrestare il proprio moto. Gli oggetti intorno, reali e emozionali, sono influenzati dagli effetti combinati della forza gravitazionale e della forza centrifuga e costituiscono una corona, un anello, tutt’intorno mentre si cade (“Falling through the ring means falling through the spaces between the objects that together make the ring” – “Cadere attraverso la corona circolare significa cadere attraverso lo spazio fra gli oggetti che insieme formano l’anello” – Sarah Manguso, Lettera d’amore, che riporto in seguito).

      Anche il cuore, come la mente, cerca ancora la persona amata e gli oggetti condivisi nel vissuto; ma la forza della caduta e la potenza delle emozioni ci obbligano alla presenza, così la caduta non si arresta.
      Prendo in prestito le parole del mio Nininho:

       Nuvole… Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa.

      Nuvole… Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino.

      Nuvole… Corrono dall’imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all’avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l’ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati.

      Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente più il niente di me stesso.

      Nuvole… Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!

      Nuvole… Continuano a passare,alcune così enormi ( poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione ) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento fredde.

      Nuvole… Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né faro niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l’ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo mio l’universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto.

      Nuvole… Esse sono tutto,crolli dell’altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili del tedio che loro attribuisco: nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti.

      Nuvole… Sono come me un passaggio figurato tra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l’oscurità, finzioni dell’intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo.

      Nuvole… Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto

      E la discesa non si arresta….

      (Nuvole, Fernando Pessoa)

       

      Love Letter (Clouds)

      By Sarah Manguso

       

      for B. H.

      I didn’t fall in love. I fell through it:

       

      Came out the other side moments later, hands full of matter, waking up from the dream of a bullet tearing through the middle of my body.

       

      I no longer understand anything for longer than a long moment, or the time it takes to receive the shot.

       

      This kind of gravity is like falling through a cloud, forgetting it all, and then being told about it later. On the day you fell through a cloud . . .

       

      It must be true. If it were not, then when did these strands of silver netting attach to my hair?

       

      The problem was finding that you were real and not just a dream of clouds.

       

      If you weren’t real, I would address this letter to one of two entities: myself, or everyone else. The effect would be equivalent.

       

      The act of falling happens in time. That is, it takes long enough for the falling to shear away from the moments before and the moments after, long enough for one to have thought I am falling. I have been falling. I continue to fall.

       

      Falling through a ring, in this case, would not mean falling through the center of the annulus—a planet floats there. Falling through the ring means falling through the spaces between the objects that together make the ring.

       

      On the way through, clasp your fists around the universe:

       

      Nothing but ice-gravel.

       

      But open your hands when you reach the other side. Quickly, before it melts.

       

      What did I leave you?



      Lettera d’amore (Nuvole)
      per B.H.

      Non mi sono innamorata. La mia è stata una caduta.
      Sono riemersa dall’altra parte qualche minuto dopo, le mani piene di materia, risvegliandomi dal sogno di un proiettile
      che lacerava il mio corpo a metà.
      Non capisco più niente se non per un lungo momento, o per il tempo necessario a ricevere il colpo.
      Questo tipo di gravità è simile al cadere attraverso una nuvola, dimenticando tutto, per poi sentirselo raccontare un momento dopo.
      Nel giorno in cui sei caduto attraverso una nuvola.
      Deve essere vero. Se non lo fosse, allora quando si sarebbero attaccati ai miei capelli questi fili di tulle argentato?
      Il problema è stato scoprire che eri tu ad essere vero e non un sogno di nuvole.
      Se tu non fossi reale, indirizzerei questa missiva a una di queste entità: me stessa, o chiunque altro.
      L’effetto sarebbe lo stesso.

      Cadere è un atto puntuale. Vale a dire, ci vuole abbastanza tempo perchè la caduta si stacchi dal momento anteriore e da quello successivo, abbastanza tempo perchè qualcuno pensi che io sto cadendo. Stavo cadendo. Continuo a cadere.

      Cadere attraveso un cerchio, in questo caso, non significherebbe cadere attraverso il centro dell’anello – un pianeta vi galleggia.
      Cadere attraverso un cerchio significa cadere attraverso lo spazio tra gli oggetti che insieme formano l’anello.
      Durante il percorso, afferrati all’universo coi pugni ben stretti:

      Null’altro che ghiaia gelata.
      Ma apri le tue mani quando arrivi dall’altra parte. Velocemente, prima che si sciolga.

      Che cosa ti ho lasciato?
      (Traduzione @OphelinhaPequena)

       

      Sarah Manguso, scrittrice e poetessa americana nata nel 1974, durante il suo primo anno ad Harvard inizia a soffrire della sindrome di Guillain-Barrè, una malattia molto rara che porta alla paralisi progressiva degli arti – nei casi peggiori entro ventiquattro ore.

      Racconta della sua tragica esperienza, così come del taumaturgico potere dell’amore e del sesso, nel suo libro Two kinds of decay.

      Per saperne di più:

      Una malattia mi ha rubato la giovinezza (La Repubblica, Dmemory)

      Sarah Manguso on The Bat Segundo Show

      Posted in Anglophilia, Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura americana | 7 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Fernando Pessoa, Lettere d'amore, Me myself and I, Memories, Nininho, Poetry, sarah manguso, Storie dietro la storia
    • In the mood for love

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 1, 2012

      fi1

       

      Che pensiate si tratti solo di una vuota e sterile operazione commerciale o che lo vediate invece come un momento per fermarvi, per astrarvi un attimo dalla corsa frenetica di tutti i giorni e dedicare le vostre attenzioni alle persone che occupano un posto speciale nella vostra vita e nel vostro cuore… in ogni caso, fra tredici giorni è San Valentino.

      Ragion per cui, di qui al 14, vi proporrò una lettera d’amore “celebre” al giorno. Va da sé che aspetto vostri suggerimenti: se avete scovato una bella lettera mentre leggevate un romanzo o mentre guardavate un film o, perché no? (anzi ancora meglio) se avete scritto una lettera d’amore…mandate, mandate, mandate. Di qui al 14 farò le veci delle segretarie di Giulietta 🙂

      La prima lettera è tratta da un film che amo molto e di cui ho già parlato in uno dei post precedenti: La finestra di fronte di Ozpetek.

      Non tutti gli amori sono felici; probabilmente la maggior parte di essi sono destinati a essere stroncati sul nascere, non sono ricambiati o non possono realizzarsi.

       

      La protagonista, Giovanna sogna una vita migliore spiando di nascosto Lorenzo, il vicino che abita nel palazzo di fronte; sarà grazie al suo aiuto che Giovanna riuscirà a scoprire l’identità e il triste segreto del passato di Simone. Simone in realtà è Davide Veroli, omosessuale ed ebreo scampato al rastrellamento e alla deportazione del 1943, in cui dovette scegliere se avvertire il maggior numero di persone o l’amato (il vero Simone): scelse di avvisare la sua gente, e Simone non si salvò.

      Davide trascorre l’intera esistenza a rimpiangerlo, e insegue i fantasmi del passato tra vuoti di memoria e sprazzi di lucidità, confondendo presente e passato. La sua vicenda induce Giovanna a guardarsi dentro, capendo di aver perso i suoi sogni e passioni.

      Una delle sue passioni si rivela essere proprio Lorenzo, che a sua volta la ama a distanza, guardandola dalla finestra di fronte.

       

      Nonostante Davide la esorti a non accontentarsi di sopravvivere, a pretendere di vivere in un mondo migliore, non limitarsi a sognarlo, Giovanna non ce la fa ad abbandonare marito e figli e ad andarsene con Lorenzo. Sembra che sia Giovanna che Davide abbiano dovuto imparare quella che la Bishop ha definito “l’arte di perdere“…

       

      fi

      Ecco la lettera:

       

      Mio caro Simone,

      dopo di te, il rosso non è più rosso. L’azzurro del cielo non è più azzurro. Gli alberi non sono più verdi.

      Dopo di te, devo cercare i colori dentro la nostalgia che ho di noi. Dopo di te, rimpiango persino il dolore che ci faceva timidi e clandestini.

      Rimpiango le attese, le rinunce, i messaggi cifrati, i nostri sguardi rubati in mezzo a un mondo di ciechi, che non volevano vedere perché, se avessero visto, saremmo stati la loro vergogna, il loro odio, la loro crudeltà.

      Rimpiango di non aver avuto ancora il coraggio di chiederti perdono. Per questo, non posso più nemmeno guardare dentro la tua finestra. Era lì che ti vedevo sempre, quando ancora non sapevo il tuo nome.

      E tu sognavi un mondo migliore, in cui non si può proibire ad un albero di essere albero, e all’azzurro… di diventare cielo.

      Non so se questo è un mondo migliore… ora che nessuno mi chiama più Davide… ora che mi sento chiamare soltanto signor Veroli, come posso dire che questo è un mondo migliore?

      Come posso dirlo senza di te?

      fi3

      fi2

       

       

      Soundtrack:
      Insieme a te non ci sto più (Caterina Caselli)
      Settembre  (Ivano Fossati)
      Conversazione con una triste signora blu  (Vecchioni)
      Quizas, quizas  (Nat King Cole)
      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 5 Comments | Tagged In the mood for love, Lettere d'amore, Nininho
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