Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
Impressions chosen from another time
  • Home
  • English
  • About
  • Cookie Policy
  • Tag: Miriam Toews

    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

      libri

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

      11541928_867012900036886_7110911472174065726_n

      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • Tutti i piccoli, piccolissimi dispiaceri di Miriam Toews

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 26, 2016
      74f889cb15f528d09d16072f1b146635

      Nature morte, Sophia Koegl e Robert Dziabel

      La depressione è il male del nostro tempo, eppure mi sconvolge (e mi rattrista) l’atteggiamento della maggior parte dei non depressi, di coloro che, fortunatamente, non hanno mai esperito the mean reds, per dirla con Holly Golightly e Truman Capote:

      “You know the days when you get the mean reds?
      (Paul Varjak) The mean reds. You mean like the blues?
      (Holly Golightly) No. The blues are because you’re getting fat, and maybe it’s been raining too long. You’re just sad, that’s all. The mean reds are horrible. Suddenly you’re afraid, and you don’t know what you’re afraid of.
      Do you ever get that feeling?”

      (Breakfast at Tiffany’s, Truman Capote)

      tumblr_mdajkk21WJ1rt6yhno1_500

      Secondo alcuni dei non depressi (che chiameremo negazionisti) la depressione non esiste. È la tendenza che caratterizza un manipolo di pessimisti proni a vedere il bicchiere sempre vuoto e alla disperata ricerca di attenzioni, che cercano di strascinare nel vortice della loro (incomprensibile) tristezza coloro che li circondano.

      I non negazionisti sono gli allarmisti, che considerano la depressione una pericolosa malattia mentale: chi ne soffre non può avere tutte le rotelle a posto.

      L’anno scorso la Pixar ha prodotto Inside out, un’intelligente riflessione sull’impossibilità di essere sempre felici (che poi, cos’è davvero la felicità?) nell’epoca delle timeline di Facebook, di Twitter, di Instagram, della vita Pinterest, dove la felicità perenne sembra quasi un obbligo, dove – in una sorta di contorto social-darwinismo – non c’è posto per i momenti di scoramento, per le perdite, per le mancanze, per i cuori spezzati, per i momenti bui: sei sei down, sei out.

      io_Sadness_standard

      Inside out insegna a non vivere i momenti di infelicità come una debolezza, a non vergognarsi della malinconia, a imparare a convivere con la tristezza.

      maxresdefault

      Questa lunga riflessione si inserisce tra le dinamiche familiari dei protagonisti di All My Puny Sorrows di Miriam Toews (il cui cognome si pronuncia Taves, che fa rima con saves). La Toews mi era stata consigliata e aspettavo il momento giusto per iniziare a leggerla. Questo momento è arrivato inaspettatamente a New York in un tardo pomeriggio di pioggia torrenziale: mi sono rifugiata in una libreria dalle parti di Little Italy, ho afferrato una copia di All My Puny Sorrows (in italiano I miei piccoli dispiaceri, pubblicato da Marcos y Marcos nella traduzione di M. Balmelli, con una copertina ancora più adorabile di quella dell’edizione che ho sfogliato a NYC) e ho letto le prime quaranta pagine tutte d’un fiato, per poi finire il libro sul Greyhound da New York a Philadelphia.

      Il titolo del romanzo è tratto da una poesia di Coleridge, To A Friend, With An Unfinished Poem:

      “I, too, a sister had, an only sister —
      She loved me dearly, and I doted on her;
      To her I pour’d forth all my puny sorrows.”

      Come nei versi di Coleridge, Yoli ha una sorella, Elf, talentuosa, fragile, complicata e bellissima. Le due sono legate da un legame tanto forte quanto problematico e tormentato: sono entrambe reduci, sopravvissute a una severa, intransigente educazione mennonita, vissuta all’interno di una comunità che si arroga il diritto di controllare, criticare, condannare le famiglie che ne fanno parte. Elf è la prima a ribellarsi, iniziando a suonare il pianoforte nonostante la cosa non venga vista di buon occhio dagli anziani. Giovanissima, vince una borsa di studio per la Norvegia e riesce a scappare, a viaggiare, a diventare una pianista di fama mondiale, adorata dal compagno, Nic. Al confronto, la vita di Yoli sembra molto più incasinata: due figli da due matrimoni diversi, entrambi finiti, una serie di storie che la lasciano più vuota e sola che mai.

      Tuttavia, c’è una differenza sostanziale tra le due sorelle; Elf non vuole vivere. Elf vuole morire, come suo padre, uscito un giorno di casa per andare a buttarsi sotto un treno. Tra un tentativo di suicidio e l’altro – ciascuno più disperato e distruttivo – Elf chiede a Yoli di aiutarla: vuole andare in Svizzera, vuole optare per l’eutanasia, vuole porre fine a quel dolore insopportabile, a quella totale incapacità di vivere. Vuole smettere di soffrire. Vuole essere salvata dalla persona che più la ama al mondo e le è complementare.

      Come si fa ad aiutare una persona amata a morire? Mi viene in mente il bellissimo, lacerante racconto di Poissant, Come aiutare tuo marito a morire: tuttavia, il marito in questione è gravemente malato di cancro, mentre Yoli spera ancora di riuscire a salvare la sua Elf adorata, portandola via con sé, a Toronto. Cercando di portarla al sicuro, al sicuro dalla vita, salvandola da se stessa.

      dispiaceri1

      Elf sente troppo: ogni emozione, ogni sentimento viene amplificato e la lascia esausta. Ogni nota va a suonare quel pianoforte di vetro che alberga dentro il suo stomaco, che potrebbe andare in pezzi ogni istante, distruggendola. Elf sente sulla sua pelle, dentro il suo stomaco quel male di vivere che Montale ha eternato nei suoi versi:

      “Spesso il male di vivere ho incontrato

       era il rivo strozzato che gorgoglia

       era l’incartocciarsi della foglia

       riarsa, era il cavallo stramazzato.

       Bene non seppi, fuori del prodigio

       che schiude la divina Indifferenza:

       era la statua nella sonnolenza

       del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”

      Tutto l’amore del mondo – quello di Yoli, quello incondizionato di Nic, quello di sua madre, che è una vera e propria fortezza, quello dei suoi nipoti, quello del suo agente, quello dei suoi ammiratori – nulla può contro il dolore e il desiderio di morte di Elf.

      Ho amato il personaggio di Nic: non ha paura della malattia di Elf, non prova nemmeno una volta il desiderio di scappare, è sempre pronto a raccogliere i pezzi e a ricominciare, grato di ogni nuovo giorno accanto alla compagna, di cui non stigmatizza né banalizza la sofferenza del corpo e dell’anima. Quando Nic vede Elf, non vede solo la sua depressione, la sua incapacità di continuare a vivere, il suo folle, esacerbato desiderio di morte: vede la luce di Elf, tutta quella luce che gli altri non riescono a vedere. La sua sensibilità di farfalla, la fragilità di chi è oppresso dalla presenza di un pianoforte di vetro nello stomaco, che soffoca le note dell’anima. Come Esther de La campana di vetro, anche Elf è una ragazza di cristallo; e la Towes è coraggiosa quanto la Plath, raccontando sotto forma di finzione la sua storia, la storia della sua famiglia, martoriata dalla depressione.

      Nic, anche nel peggiore dei momenti, anche quando la sua bellissima, complicata ragazza di cristallo gli scivola dalle mani, guarda in faccia la madre di Elf e la ringrazia di averla messa al mondo, insieme a tutti i suoi piccoli, grandi dispiaceri.

      Miriam-Toews-009

      Miriam Toews, foto di Teri Pengilley per The Guardian

      “I don’t remember what I am. I am what I dream. I am what I hope for. I am what I don’t remember. I am what other people want me to be. I am what my kids want me to be. I am what Mom wants me to be. I am what you want me to be”.

      (All My Puny Sorrows, Faber&Faber, in italiano I miei piccoli dispiaceri, pubblicato da Marcos y Marcos nella traduzione di M. Balmelli)

       

      Soundtrack: Blue, Joni Mitchell

      Posted in Ophelinha legge | 19 Comments | Tagged All my puny sorrows, Blue, Breakfast at Tiffany's, Coleridge, David James Poissant, depressione, Esther Greenwood, Eugenio Montale, Faber & Faber, Holly Golightly, I miei piccoli dispiaceri, Il paradiso degli animali, Inside Out, Joni Mitchell, La campana di vetro, Letteratura canadese, Marcos y Marcos, Miriam Toews, New York, NN editore, non se ne parla mai abbastanza, Ossi di seppia, Robert Dziabel, Sophia Magdalena Koegl, Spesso il male di vivere ho incontrato, Sylvia Plath
    • Cartoline da New York: passeggiate letterarie

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 20, 2016

      Ho un rapporto un po’ strano con New York. Nel senso, non è stato amore a prima vista, anzi. Ci sono andata per la prima volta tre anni e mezzo fa. Arrivavo da Boston, dal mio New England, dal verdissimo campus di Harvard: New York mi era sembrata troppo. C’è anche da dire che in ogni viaggio cerco qualcosa di quella Albione che possiede il mio cuore da decenni ormai: in questo sono un po’ come Henry James, lo scrittore sospeso tra due continenti, che viveva a Washington Square (che sembra quasi londinese), sostenendo che fosse la parte “più squisita” di New York, più quieta, più ricca, più onorevole. Oggi al posto della casa di Henry James c’è una delle facoltà della NYU, ma Washington Square (dove abitavano anche Edith Warthon, la regina dei salotti newyorchesi, e Edward Hopper) mantiene quell’aspetto un po’ romantico, un po’ decadente, un po’ demodé che mi fa sempre sognare ad occhi aperti.

      IMG_1131

      Washington Square

       

      IMG_1134

      Qui ha vissuto Edith Wharton

       

       

      IMG_1135

      Qui ha vissuto Edward Hopper

      Comunque, avevo cercato di mettere nero su bianco i miei alti e bassi con New York in un racconto (che trovate qui) ispirato ad una canzone di Leonard Cohen.
      Questa volta, la mia esperienza con New York è stata diversa: sarà stato il Natale, sarà stata la ferrea volontà di cercare di non fare la turista e di andare semplicemente alla ricerca delle cose che mi piacciono, senza orari né programmi.

      Rockefeller2

      Rockefeller Center

      Attraversando a piedi il Brooklyn bridge la sera del ventisei dicembre ho capito finalmente cosa intendesse Joan Didion quando scriveva che a New York “tutto sarebbe potuto accadere, ogni minuto, ogni mese”: lasciandomi alle spalle la (relativa) oscurità di Brooklyn per farmi abbracciare dalle sfavillanti luci di Manhattan, ho pensato che in fondo la cosa che rende New York un posto assolutamente unico al mondo non sono gli sgargianti billboard di Times Square, né la silhouette dell’Empire State Building (o dell’elegante Chrysler, il mio preferito, o del buffo Flatiron). La cosa che rende New York unica al mondo è questo senso di possibilità, questa certezza quasi matematica (che magari dura solo mezz’ora, come nel caso della mia traversata) che tutto possa cambiare, che nella Grande Mela sia possibile lasciarsi tutto alle spalle, liberarsi dei fardelli del passato e respirare a pieni polmoni, reinventandosi, imparando di nuovo ad essere felice.

      IMG_0809

      IMG_0843

      IMG_0808

      Con questa nuova sicurezza in tasca ho smesso di pianificare e, affidandomi semplicemente alle mie mappe letterarie di NYC, sono andata alla ricerca di librerie indipendenti e non, mostre, angoli meno popolati ma non per questo meno affascinanti. Ho camminato per ore per il Village sotto la pioggia, ritrovandomi poi a Little Italy e trovando rifugio nella McNally Jackson Books, dove ho afferrato una copia di All My Puny Sorrows (in italiano I miei piccoli dispiaceri, edito da Marcos y Marcos) di Miriam Toews e ne ho letto d’un fiato le prime quaranta pagine, per poi finire il libro nel Greyhound da New York a Philadelphia.

      IMG_0844

      IMG_0839

      IMG_0835

      IMG_0836

      IMG_0837

      Tra un pretzel e un sidro di mele dello Union Square Farmers Marker, sono arrivata al mitico Strand Bookstore, che ospita 18 miglia di libri, un piano dedicato a magnifiche edizioni antiche, prime edizioni e edizioni per collezionisti e una sorta di immensa caverna sotterranea di libri usati. Quest’ultima mi ha però deluso: nella sezione saggistica e critica letteraria i libri non erano disposti in ordine alfabetico, ma un po’ a caso. La polvere e il gran numero di persone non aiutano poi a cercare con calma libri interessanti, e i prezzi dell’usato non sono molto bassi. Poco male: sulla Fifth Avenue ho trovato uno stand dello Strand Bookstore, di fronte all’elegante Plaza Hotel, dove ho potuto spulciare libri a piacimento (e all’aperto), nonostante l’aria frizzantina di un tardo pomeriggio dicembrino.

      IMG_1014

      IMG_1009

      IMG_1033

      IMG_1017

      IMG_1040

      IMG_1027

      IMG_1038

      IMG_1023

      IMG_1035

      IMG_1189

      IMG_1032

      IMG_1016

      IMG_1034

      IMG_1025

      Copia di “Little failure” autografata da Gary Shteyngart

      IMG_1026

      Copia di “Invisible Monsters” con autografo e dedica di Chuck Palahniuk

      IMG_1187

      IMG_1190

       

      Sempre alla ricerca di libri usati e edizioni varie, sono finita al Brooklyn Flea Market (che durante i mesi invernali si tiene al chiuso), una vera chicca per gli amanti del vintage.

      IMG_0841

      IMG_1021

      IMG_0782

      IMG_0778

      IMG_0784

      Amo i campus delle università americane. Sono così eleganti, così ordinati, dall’architettura raffinata e dalle biblioteche così accoglienti che ti fanno venire voglia di mollare tutto e sederti su una poltrona di pelle e avvicinarti a un tavolo di mogano, alla luce fioca di una lampada, e leggere fino all’orario di chiusura. Non potevo non visitare la Columbia University, dove hanno studiato Isaac Asimov, Paul Auster, Federico García Lorca, Allen Ginsberg, Langston Hughes, Jack Kerouac (che ha abbandonato gli studi prima di laurearsi), Ursula K. Le Guin, Carson McCullers, J.D. Salinger, Hunter S. Thompson, Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt e Madeline Albright, per citare un paio di nomi.
      La Columbia è famosa per la sua scuola di giornalismo, fondata da Joseph Pulitzer – sì, quello del premio, che è stato creato appunto dall’università e viene assegnato ogni anno ai fortunati vincitori nella Low Library.

      IMG_1045

       

      IMG_1057

      IMG_0988

      Columbia University Bookstore

      IMG_0985

      Columbia University Bookstore

      IMG_0987

      Columbia University Bookstore

      IMG_0995

      Columbia University Bookstore

      IMG_0993

      Columbia University Bookstore

      IMG_0996

      Wendell Berry 🙂

      IMG_0965

      Dalla Columbia sono passata a Central Park e sono andata alla ricerca delle anatre di Holden Caulfield (confermo che il lago era pieno di pennuti, probabilmente perchè è stato un Natale caldissimo a New York). Di Central Park amo le panchine: mi piace fermarmi a leggere le dediche sulle targhe, immaginare le vite delle persone che si sono intrecciate magari proprio tra gli alberi, le foglie e i sentieri del parco, i loro volti, le loro storie.

      IMG_1079

      IMG_1093

      IMG_1075

      IMG_1067

      IMG_1074

      Pensando a Walt Whitman e alla sua Crossing Brooklyn Ferry, ho preso il traghetto per Staten Island nel corso di una mattinata azzurra e freddissima, contemplando lo skyline di Manhattan e la Statua della Libertà.

      What is it, then, between us?

      What is the count of the scores or hundreds of years between us?

      Whatever it is, it avails not—distance avails not, and place avails not.

      Cosa c’è da fare a Staten Island? Poco e niente, come ho avuto modo di appurare. Nell’isola c’è una cittadina storica, Richmond, che avrei voluto visitare, ma dista una cinquantina di minuti dal porto e, nella città che non dorme mai, il tempo è tiranno. Mi sono rifatta con uno stupendo tramonto su Wall Street e una passeggiata a Williamsbourg.

      IMG_1242

      IMG_1216

      IMG_1273

      IMG_1274

      IMG_1265

      Una delle tappe più piacevoli della mia vacanza newyorchese è stata la visita alla mostra dedicata a Hemingway, Ernest Hemingway: Between Two Wars, ospitata dalla Morgan Library & Museum. Sfortunatamente non si potevano scattare foto all’interno, ma era ricca di tesori per gli amanti di good ol’Ernest: lettere all’ultima moglie Mary, la lettera che Salinger gli scrisse nel 1945 e che rimane una testimonianza dell’amicizia tra i due scrittori, i divertenti carteggi tra Hemingway e Fitzgerald, le lettere di Dorothy Parker, che si preoccupava alquanto del giudizio di Hemingway. E poi ancora quaderni manoscrittti, progetti di scrittura, appunti: una vera e propria immersione nel mondo di Hemingway e nel ruolo che le due guerre mondiali e la guerra civile spagnola hanno giocato nel suo immaginario di scrittore. Nello shop del museo mi sono regalata Hemingway in love, un memoir su Ernest e le sue donne scritto dall’amico A.E. Hotchner, e una raccolta di racconti di Hemingway.

      IMG_1302

      IMG_1295

      IMG_1300

       

      IMG_1297

      La notte del 31 dicembre mi sono ritrovata in mezzo a un milione di persone a Times Square, ad aspettare la caduta della palla. Non amo particolarmente l’ultimo dell’anno: arriva sempre col suo carico di rimpianti, di malinconia e di bilanci, di propositi per l’anno nuovo che verranno puntualmente riscritti o abbandonati nel corso delle prime due settimane di gennaio. Mi sono ritrovata ad osservare le persone intorno a me, armate di fischietti e di incontenibile entusiasmo, e mi sono ritrovata a chiedermi a cosa pensassero, cosa causasse quell’incontenibile allegria. Con la mezzanotte è arrivata anche la mia risposta: festeggiavano semplicemente il fatto di essere vivi, di essere riusciti a rimanere a galla per un altro anno, di essere circondati dalle persone che amavano, di avere la possibilità di dare il benvenuto al 2016 tra le luci sfavillanti di Times Square, nella città in cui ogni strada sembra una possibilità e nessun obiettivo sembra irraggiungibile. Nella città in cui sembra possibile lasciar andare gli errori del passato e ricominciare da zero, abbracciando con fiducioso entusiasmo tutto il futuro che ci sarà.

      1918468_10153769009962457_6131338518207591238_n

      Soundtrack: New York, New York,  Frank Sinatra

      Posted in Cartoline | 22 Comments | Tagged A.E. Hotchner, All my puny sorrows, Brooklyn Bridge, Carson McCullers, Columbia University, Crossing Brooklyn Ferry, Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Federico García Lorca, Francis Scott Fitzgerald, Frank Sinatra, Franklin Delano Roosevelt, Hemingway in Love, Henry James, Hunter S. Thompson, I miei piccoli dispiaceri, Il giovane Holden, Isaac Asimov, J.D. Salinger, Jack Kerouac, JD Salinger, Joan Didion, La lettrice rampante, Langston Hughes, Letteratura americana, Little Italy, Madeline Albright, Manhattan, Marcos y Marcos, McNally Jackson Books, Miriam Toews, Morgan Library, Paul Auster, Philadelphia, Premio Pulitzer, Staten Island, Strand Bookstore, Theodore Roosevelt, travelling, Turismo letterario, Ursula K. Le Guin, viaggi e altri viaggi, Walt Whitman, Washington Square
    • Chasing Impressions

    • Categories

      • Anglophilia
      • Cartoline
      • Frammenti di poesia
      • Frammenti di un discorso amoroso
      • Guestpost e interviste
      • Il Calendario dell'Avvento Letterario
      • Letteratura americana
      • Letteratura e dintorni
      • Ophelinha legge
      • Ophelinha scrive
      • Rileggendo i classici
      • Uncategorized
    • Goodreads

Blog at WordPress.com.

Cancel

 
Loading Comments...
Comment
    ×
  • Nel rispetto del provvedimento emanato in data 8 maggio 2014 dall'Autorità garante per la protezione dei dati personali, si avvisano i lettori che questo blog usa dei cookie per fornire servizi e per effettuare analisi statistiche completamente anonime. Pertanto proseguendo con la navigazione si accetta l'uso dei cookie. Per un maggiore approfondimento clicca qui.