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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Estate 1985

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 20, 2015

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      L’estate del 1985 è una Polaroid sbiadita.

      Lei è una bambina dai ricci scuri, il cappello da marinaretta, un costumino a balze e le scarpine di gomma per camminare sulle pietre.

      Lui è un uomo alto, allampanato, dai capelli nero inchiostro, un costume a vita alta fuori moda, e la tiene per mano.

      Entrambi guardano verso il mare – il mare trasparente della costa ionica calabrese, quel mare infinito, quel mare che è come una storia da raccontare, una promessa di cose che verranno.

      Guardo quella bambina, e immagino si senta sicura, protetta da quel gigante invincibile. E mi chiedo se abbia smesso di sentirsi al sicuro per sempre, quando è venuta meno quella mano forte, che le copriva tutto il viso; quella mano nodosa e allungata, capace di intagliare il legno come suonare la chitarra, ma anche aprire la porta di casa e dimenticarsi di tornare a chiuderla.

      Guardo quella bambina e penso che, crescendo, la vita deve averle ricamato addosso una trama di assenze, che può fungere da mantello dell’invisibilità o pesante armatura. E che, tra tutte quelle assenze, rimane il vuoto immenso di una, la più grande, la più assurda, la più inspiegabile.

      Quella di cui non si può parlare, quella a cui è meglio non pensare, quella che diventa un groppo alla gola, un nodo nello stomaco, il punto interrogativo di notti senza stelle.

      E penso che è cosi che si inizia ad avere paura: quando succede qualcosa che non ci si riesce a spiegare, e tutto cambia per sempre, restando in apparenza sempre uguale a se stesso. Tutto cambia perché si cambia, silenziosamente, inspiegabilmente, inesorabilmente. La paura attecchisce, mette radici, cresce ogni giorno di più, aspettando il momento giusto per manifestarsi, come un pugno nello stomaco che ti lascia senza fiato.

      Ma in quella polaroid dell’estate 1985 tutto resta uguale: i colori possono sbiadire, ma il gigante e la bambina restano lì, a guardare il mare che si infrange sui sassi. E il cielo blu, e il calore del sole sulla pelle, e l’odore di sale e di brezza marina, e tutto il resto, e le note lontane di una chitarra che suona “La prima cosa bella” di Nicola di Bari e si porta via un’estate che non tornerà più, ma resterà fissa, immortalata e perfetta per sempre.

      Posted in Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Calabria, Memories, non se ne parla mai abbastanza, Racconti, storie minime
    • L’odore acre di alcuni ricordi

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 23, 2014

       

       

       

      Un ristorante di pesce in una piccola località balneare fuori stagione, in una giornata di fine aprile straordinariamente piovosa.
      La vernice gialla sbiadita, il senso generale di abbandono. La sala delle feste chiusa, le tende tirate, l’odore acre di disinfettante dei bagni.
      Il giardino spelacchiato, il Nettuno della fontana senza naso e senza metà braccio, muschio dove un tempo zampillava l’acqua.
      E, a tradimento, dietro l’arco di rampicanti sempre più radi, spunta la testa riccioluta di un bambino taciturno, che cerca a stento di trattenere le risate e invoca la complicità della sorella perchè l’aiuti a non essere trovato dall’altro fratello, alto, allampanato, occhialetti neri e pelle olivastra.

      Era il ristorante delle Pasquette e il ristorante delle domeniche in cui la mamma non aveva voglia di cucinare, o voleva regalare loro un’avventura, una gita al mare inaspettata e immotivata. Era il ristorante di quando la nonna ritirava la sua magra pensione, e voleva celebrare offrendo ai nipoti un gelato sempre nello stesso posto, il posto che portava il nome di un pirata ed era gestito da un omone paonazzo con la barba lunga color ruggine. I tre pensavano che l’uomo doveva essere davvero stato un pirata, e doveva essere pieno di tatuaggi sotto la sua polo.
      Era il ristorante delle passeggiate al mare fuori stagione, ché il mare è più bello agli inizi di primavera, quando la brezza è ancora pungente e mi raccomando, bambini, non avvicinatevi troppo all’acqua. Ma la marea ha creato una specie di laghetto e il più piccolo non può proprio esimersi dalla tentazione di andarvi a pescare col suo bastone, finendovi dentro, costringendo la truppa a un rientro forzato, coi suoi calzoncini e calzini come vessilli sospesi dai finestrini chiusi, fatti volare via da una folata di vento dispettoso in piena statale, tra l’ilarità generale. Risate, risate fino a quando fa male la pancia, forse anche a causa dei gusti coloratissimi sperimentati nella gelateria del pirata – puffo verde, nuvola azzurra, big babol.

      Cosa resta di quei tre bambini, di quelle risate che facevano male alla pancia e bene al cuore e di quelle gite al mare fuori stagione. Della sabbia nelle scarpe, delle collezioni improbabili di conchiglie che non si potevano assolutamente buttare, dei da grande farò e da grande sarò e da grande andrò e poi.

      Cosa resta di quel ristorante in quella località balneare fuori moda, a parte le crepe nel muro, l’odore di chiuso della sala delle feste, l’odore acre di disinfettante dei bagni, l’odore pungente di una nostalgia lontana, un nodo alla gola, una lacrima solitaria per cose passate troppo in fretta e lontane, così lontane nel tempo e nello spazio – cose avvenute forse a qualcun altro, o forse semplicemente sognate, in pigre domeniche fuori stagione in oscure località balneari che forse non sono mai esistite, o forse non esistono più.

      Posted in Ophelinha scrive | 5 Comments | Tagged Memories, Racconti, Si sta facendo sempre più tardi, Tales of a Surreal Urban Storyteller, Words
    • La carta è più paziente degli uomini

      Posted at 11:50 am08 by ophelinhap, on August 26, 2013

      Tornare a casa, nella casa in cui sono nata e in cui sono cresciuta, significa per me passare ore nella vecchia stanzetta con la carta da parati ormai logora e tutti i miei libri del ginnasio ordinati sugli scaffali, aprendo cassetti, leggendo vecchi temi, spolverando ricordi. La mia scatola dei ricordi di bambina mi fa sorridere: tra i miei tesori, vecchie cartoline, un Pierrot decapitato, una copia del certificato di nascita di Giacomo Leopardi (souvenir di una gita scolastica a Recanati), una copia de La sigolatrice di Sapri battuta al computer da me nell’ufficio di mia madre, tante poesie, tante lettere scritte ai primi amori e mai inviate.

      Quando ero piccola ero molto più sistematica di adesso nel mio approccio con la scrittura: ho sempre tenuto un diario, in cui appuntavo minuziosamente pensieri, emozioni, stati d’animo, piccoli e grandi avvenimenti. In cui iniziavo a mentire a me stessa per non vedere quelle cose intorno a me che mi avrebbero fatto male e riversavo sulle pagine bianche le parole tenute a freno dalla mia indole troppo timida e troppo introversa.

      Ho riletto alcune pagine che, a distanza di quasi vent’anni, mi hanno fatto riflettere. Su come alcune cose non passino mai, e alcune ansie – il passare del tempo, il mancato raggiungimento di obiettivi, piccoli o grandi che fossero, l’assegnarsi traguardi troppo alti, il senso di solitudine, di alienazione, di diversità – siano state ereditate quasi intonse dalla mia me adulta.

      E mi ritrovo a pensare alla fede – intesa non strettamente in senso religioso, ma nell’interpretazione più lata possibile. La fede può essere definita come la capacità di credere con tutto il cuore in qualcosa che non si può vedere, né sentire. La fede è un dono che si riceve da piccoli, quando si ha tutta la vita davanti –dopo il film di Virzì aborro questa espressione – e si ha il cuore aperto alle infinite possibilità della vita, e si è pronti a perdersi nel suo labirinto, alla ricerca di un lieto fine, o , quantomeno, di un finale aperto.

      Gli anni passano, e questa fede – negli altri, in se stessi, nelle proprie possibilità, nel futuro, nell’amore come forza massima capace di smuovere il mondo, come equazione suprema nelle cui regole ritrovare senso ed ordine – si affievolisce, fino a svanire, nel peggiore dei casi. In una miriade di bollicine, come nel caso della sirenetta di Andersen o della ragazza del bar di Cuba, o in polvere di stelle.

      Mi chiedo quando inizi, questo processo. Quando si smetta di credere. Quando si inizi ad aver bisogno di segni tangibili.

      Nel tentativo di trovare una risposta, rubo qualche riga a quella bambina di dieci anni, che cercava a modo suo di darsi risposte, di trovare il bandolo della matassa in un mondo di adulti che non riusciva a capire, in cui le famiglie non erano perfette e si spezzavano, in cui imparare a perdere una persona amata era obbligatorio, in cui essere accettati per quello che si era sembrava un’impresa ardua.  Facendole una carezza furtiva e ritardataria, a quella bambina che era curiosa di diventare grande ma aveva paura di crescere.

      26 ottobre 1994

      Caro diario
      non è vero che solo i bambini negli istituti non hanno una famiglia. Tu mi capisci, vero?
      Si, perché tu, come disse Anna Frank, sei l’AMICA lungamente attesa. Oh, come mi sei cara!
      Mi sei di grande conforto, anche se poi questi stupidi sfoghi non interessano né a me né a te.
      Ma si sa, la carta è più paziente degli uomini. Oggi con educazione fisica abbiamo giocato a pallavolo.
      Quando riguardo le pagine del mio diario mi sento solo una stupida ed insignificante ragazzetta.
      E tu, ti senti bene? Io così così, sia fisicamente che moralmente. Certo, non deve essere divertente restare chiuso in un cassetto, ammassato alla rinfusa con tante altre carte, eppure a te accade. Ma non è stata colpa mia: dovevo fare i compiti!
       

      6 giugno 1995

      Caro diario,

      sai, ho cominciato un libro, dove raccolgo tante storielle “mie” e spero di poter condurre anche te nella mia “rete privata” di fantasia.
       
       
       

       

      Posted in Ophelinha scrive | 6 Comments | Tagged Confessions of a Dangerous Mind, Le notti bianche, Me myself and I, Memorie di una precaria perbene, Memories, Mine vaganti, Ophelinha
    • Mad Girl’s Love Song (appunti disordinati)

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 24, 2012

       

      Oggi sono un po’ così.
      Di quel così che mi rende taciturna e antipatica, che mi fa rinchiudere a riccio (l’hérisson, c’est moi) e che mi fa venire voglia di stare per conto mio.
      Di quel così che vorrebbe far uscire le parole che non riesce a trovare scrivendo, ma vigliaccamente si rifugia nella lettura (forse si legge perchè si ha paura di scrivere, e perchè è più facile vivere le vite degli altri e veder vivere la propria vita anzichè viverla. Forse leggere è il refugium peccatorum dello scrittore mancato).
      Di quel così che ti va a cercare, nelle pieghe più recondite e nascoste della mente, del cuore, della memoria. Di quel così che ti cerca anche dove sa che non potrebbe mai trovarti.
      Di quel così che avrebbe bisogno di essere rassicurata, di avere delle piccole certezze, di sapere che anche se non è si e non è no, magari forse. Delle possibilità ci si accontenta, in fondo. Basta dirle ad alta voce e metterle per iscritto, e diventano un po’ più vere.
      Di quel così che sa che un giorno mi guarderai e mi vedrai per quello che sono, per quella pesantezza dell’essere che Kundera ha così magistralmente incarnato in Tereza in opposizione a Sabine, lieve, leggera, complice, amante, ballerina, pittrice. O forse non avrai nemmeno bisogno di guardarmi per saperlo. Non avrai nemmeno bisogno di guardarmi perchè ti sveglierai una mattina e semplicemente lo saprai, che in un salone da ballo sarei stata Anna dal velluto nero e non Kitty dalla mussolina bianca.
      Saprai che sono Nausicaa dalle bianche braccia, negli occhi l’immagine dell’affascinante straniero, irretita dalle sue parole,

      Mi inchino a te, signora: sei una dea o una donna mortale?
      Se infatti sei una dea di quelle che abitano l’ampio cielo,
      Artemide sembri, figlia del grande Zeus,
      per l’aspetto e la figura slanciata;
      ma se sei una donna mortale, di quante abitano la terra,
      tre volte beati il padre e la madre veneranda,
      tre volte beati i fratelli: molto il loro cuore
      sempre si colma di gioia grazie a te,
      quando vedono un simile bocciolo intrecciare movenze di danza.
      Ma felice in cuore più di ogni altro
      chi, portando più doni, ti condurrà alla sua casa in sposa. (l.VI, vv.149-159)

      gli occhi pieni di quello straniero che deve ripartire, che deve andare per mare per far ritorno ad Itaca Itaca Itaca, che la sua casa ce l’ha solo là, dove l’algida e perfetta Penelope tesse e distrugge la sua tela nella sua attesa paziente e sicura di sè. Dell’arrivo di Odisseo.

      Saprai che ero Calipso, e una mattina ti sveglierai e scoprirai che non sarò stata capace di averti irretito con la mia bellezza di ninfa né con le mie promesse di immortalità.

      Ti sveglierai e lo saprai, semplicemente. E quella mattina inizierò a ricominciare a perderti. Per poi ritrovarti, se riuscirai ad accettare che le mie ombre spesso prevalgano sulle luci, la pesantezza sulla leggerezza. Se smetterai di rimproverarmi che non rido mai e imparerai ad accontentarti dei miei sorrisi.
      Altrimenti.
      Altrimenti ti avrò solo immaginato. Sarai stato solo una creazione della mia mente. Avrai vissuto solo nei miei pensieri.
      O forse, sarò stata io ad essere solo l’idea di me stessa, per te.

      “I shut my eyes and all the world drops dead;

      I lift my lids and all is born again.

      (I think I made you up inside my head.)

      The stars go waltzing out in blue and red,

      And arbitrary darkness gallops in:

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      I dreamed that you bewitched me into bed

      And sung me moon-struck, kissed me quite insane.

      (I think I made you up inside my head.)

      God topples from the sky, hell’s fires fade:

      Exit seraphim and Satan’s men:

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      I fancied you’d return the way you said,

      But I grow old and I forget your name.

      (I think I made you up inside my head.)

      I should have loved a thunderbird instead;

      At least when spring comes they roar back again.

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      (I think I made you up inside my head.)”

      Sylvia Plath

       

      Soundtrack

      Ain’t no cure for love (Leonard Cohen)
      Walk the line (Johnny Cash e June Carter)
      Itaca (Lucio Dalla)

      Posted in Frammenti di poesia, Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Anna Karenina, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, Greyville, In the mood for love, Lettere d'amore, Me myself and I, Memories, Mine vaganti, Ophelinha, Poetry, Sylvia Plath
    • Il mio primo e-book (ovvero da grande volevo fare la scrittrice)

      Posted at 11:50 pm07 by ophelinhap, on July 25, 2012

      C’era una volta, nemmeno tantissimo tempo fa, una ragazzina timida e abbastanza chiusa, di quelle con gli occhialoni rotondi e le codine cicciotte, tanto per intenderci.
      Viveva in un mondo tutto suo, sempre con la testa per aria, convinta che la realtà non fosse quella che si vede, ma quella che si crede, e che sui libri si potesse sempre fare affidamento. Perchè non ti deludono mai. Non ti lasciano mai sola. Non ti prendono in giro o ti ostracizzano perchè sei “diversa”, perchè a saltare l’elastico o a giocare con la corda e l’hoola-hop preferisci allestire piccoli spettacoli teatrali, come in Piccole Donne della Alcott, libro che la ragazzina tanto amava.
      C’era una volta una ragazzina che sognava di diventare scrittrice e, ogni volta che si sentiva strana, o triste, o sola, o scoraggiata, o particolarmente euforica, riempiva pagine e pagine di diari.
      E poi delle sue prime poesie. E poi della sue prime storie.
      E in quelle pagine ancora oggi vede scorrere tutto il suo mondo, dalle crisi adolescenziali e familiari alle prime cotte, dai primi amori alle prime delusioni amorose, dai primi temi ai primi esami. Dal primo curriculum all’ultima lettera di rifiuto.

      Tutto questo per dire, in maniera contorta come sempre, che è difficile avere un sogno. E’ difficile coltivarlo, quando il mondo ti insegna giorno per giorno a diventare miscredente, sussurrandoti all’orecchio che non ce la puoi fare, che non ce la farai, che non sei l’eccezione ma la regola, che sei solo una tra tanti, che se uno su mille ce la fa tu fai parte degli altri novecentonovantanove.
      E’difficile continuare ad allevare un sogno quando la vita ti cambia, ti marchia a fuoco, ti fa invecchiare precocemente, ti fa chiudere nel dimenticatoio quei progetti per cui ti eri preparata con tanta cura, quelle speranze che avevi coltivato con tanto amore.

      Ma continui a scrivere. Continui a confessare alla carta (o allo schermo) quelle cose che non oseresti mai dire a nessuno. E scrivi quando sei felice, scrivi quando sei triste, scrivi in quelle nuits blanches che sembrano non voler finire mai. Scrivi aspettando l’alba. Scrivi in lutto per la perdita di un amore. Scrivi perchè (Pereira docet) in fin dei conti continuare a frequentare il passato è molto più facile che vivere il presente e aprirsi al futuro, lasciarsi andare. Scrivi perchè a volte il passato fa male, e ce n’è così tanto, di quel passato, che non riesci proprio a lasciarlo andare.
      Scrivi per dimenticare. Scrivi perchè hai paura di non ricordare. Scrivi per fissare nero su bianco quei tratti, quelle mani, quel profumo, quella voce che il tempo si porta via con sè, oltre lo specchio, nelle nebbie dell’oblio.

      Scrivi anche quando ti rendi conto che non basta voler fare la scrittrice: ci devi nascere, con la scrittura nel sangue, nella mente. Tatuata nel cuore.

      Ma anche questa consapevolezza non basta a fermarti. E continui a scrivere.

      Continui a scrivere perchè non puoi non farlo, perchè scrivere è obbedire a un dettame della tua coscienza e, come la pioggia d’estate di Levin, ti lascia pulita. Purificata.
      Anche quando quello che resta sono solo le parole.

      Tutta questa lunga premessa per annunciarvi (che verbo solenne!) che da ieri potete trovare online il mio primo e-book, pubblicato da Errant Editions: La ragazza del bar di Cuba, una trilogia, al modico prezzo di un euro (lo trovate qui).

      Per saperne di più, vi rimando al sito di Errant Editions Small Digital Publisher, che ha recentemente lanciato una coraggiosa ed appassionante iniziativa volta alla pubblicazione in formato digitale di storie brevi scritte da autori esordienti. La mia trilogia inaugura appunto la serie Inaspettati/Unexpected Passions. I racconti brevi che parlano d’amore (per saperne di più leggete qui),

      Colgo l’occasione per ringraziare Francesca, Coralie e gli altri editori erranti per aver realizzato uno dei più grandi desideri di quella bambina.

      E, come sempre, ringrazio tutti coloro che vorrano passare da queste parti a lasciare le loro impressions.

      Ophelinha P.

      Posted in Ophelinha scrive | 8 Comments | Tagged Bookworms, Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, e-book, Errant Editions, In the mood for love, Literature and Beyond, Me myself and I, Memories, Ophelinha, Racconti
    • Cartoline da Lisbona: a casa di Fernando Pessoa per il suo compleanno

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 13, 2012

      Fotopost sull’amore per Pessoa e l’amore per Lisbona

       

      Aniversário

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu era feliz e ninguém estava morto.
      Na casa antiga, até eu fazer anos era uma tradição de há séculos,
      E a alegria de todos, e a minha, estava certa com uma religião qualquer.

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu tinha a grande saúde de não perceber coisa nenhuma,
      De ser inteligente para entre a família,
      E de não ter as esperanças que os outros tinham por mim.
      Quando vim a ter esperanças, já não sabia ter esperanças.
      Quando vim a olhar para a vida, perdera o sentido da vida.

      Sim, o que fui de suposto a mim-mesmo,
      O que fui de coração e parentesco.
      O que fui de serões de meia-província,
      O que fui de amarem-me e eu ser menino,
      O que fui — ai, meu Deus!, o que só hoje sei que fui…
      A que distância!…
      (Nem o acho…)
      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!

      O que eu sou hoje é como a umidade no corredor do fim da casa,
      Pondo grelado nas paredes…
      O que eu sou hoje (e a casa dos que me amaram treme através das minhas
      lágrimas),
      O que eu sou hoje é terem vendido a casa,
      É terem morrido todos,
      É estar eu sobrevivente a mim-mesmo como um fósforo frio…

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…
      Que meu amor, como uma pessoa, esse tempo!
      Desejo físico da alma de se encontrar ali outra vez,
      Por uma viagem metafísica e carnal,
      Com uma dualidade de eu para mim…
      Comer o passado como pão de fome, sem tempo de manteiga nos dentes!

      Vejo tudo outra vez com uma nitidez que me cega para o que há aqui…
      A mesa posta com mais lugares, com melhores desenhos na loiça, com mais copos,
      O aparador com muitas coisas — doces, frutas o resto na sombra debaixo do alçado —,
      As tias velhas, os primos diferentes, e tudo era por minha causa,
      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…

      Pára, meu coração!
      Não penses! Deixa o pensar na cabeça!
      Ó meu Deus, meu Deus, meu Deus!
      Hoje já não faço anos.
      Duro.
      Somam-se-me dias.
      Serei velho quando o for.
      Mais nada.
      Raiva de não ter trazido o passado roubado na algibeira!…

      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!…

      ANNIVERSARIO

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      io ero felice e nessuno era morto.
      Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
      e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      avevo la grande salute di non capire alcunché,
      di essere intelligente per quelli della famiglia,
      e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
      Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
      Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

      Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
      quello che fui di cuore e famiglia,
      quello che fui di veglie di semiprovincia,
      quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
      quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
      Com’è lontano!…
      (Nemmeno l’eco…)
      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

      Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
      che provoca muffa nelle pareti…
      Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
      [lacrime),
      ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
      è che tutti siano morti,
      è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
      Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
      Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
      attraverso un viaggio metafisico e carnale,
      con una dualità da me a me…
      Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

      Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
      La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
      [bicchieri in più,
      la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
      le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
      al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

      Fermati, cuore mio!
      Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
      Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
      Oggi non compio più gli anni.
      Perduro.
      I miei giorni si addizionano.
      Sarò vecchio quando lo sarò.
      Nient’altro.
      Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

      15 ottobre 1929

      Da: Fernando Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, (a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi), Adelphi, Milano 1993.

      Esattamente un anno fa ero a Lisbona. E’ stata la mia prima visita in una città già cara al mio immaginario, visitata con la fantasia attraverso le parole di Tabucchi, di Pessoa, di Saramago.
      Coincidenze astrali hanno fatto sì che mi trovassi a Lisbona proprio in corrispondenza del compleanno di Pessoa, nato il 13 giugno 1888, nello splendido panorama delle Festas de Lisboa.

       

      Tutti i quartieri sfilano con costumi colorati danzando e cantando in competizione. Finita la sfilata si riversano nelle stradine dei vari bairros cantando e facendo baldoria, mentre chioschi in ogni angolo arrostiscono le sarde che si mangiano con le mani su una fetta di pane.

      In Portogallo, Santo Antonio è il protettore dell’amore..e del matrimonio. La notte del 12 giugno, gli innamorati si scambiano piantine di basilico come pegno di amore e di fedeltà. Secondo la tradizione, bisogna prendersi cura della propria piantina, per evitare che la passione appassisca…
      Sempre in quest’occasione vengono celebrate nella chiesa di Sant’Antonio le nozze collettive (finanziate dal comune di Lisbona), che Pessoa celebra in questi versi:

      Manjerico, manjerico,

      Manjerico que te dei,

      A tristeza com que fico

      Inda amanhã a terei.

      O manjerico comprado

      Não é melhor que o que dão.

      Põe o manjerico ao lado

      E dá-me o teu coração.

      O manjerico e a bandeira

      Que há no cravo de papel-

      Tudo isso enche a noite inteira,

      Ó boca de sangue e mel.

      O vaso do manjerico

      Caiu da janela abaixo.

      Vai buscá-lo, que aqui fico

      A ver se sem ti te acho.

      Manjerico que te deram,

      Amor que te querem dar…

      Recebeste o manjerico.

      O amor fica a esperar.

       

      A chi avrà regalato il basilico Pessoa? A chi avrà chiesto di metterlo da parte per donargli il suo cuore? Mi piace pensare che si tratti di Ophelia Queiroz, ma capirete che sono di parte…
      Tornando a Nininho: l’anno scorso, in occasione del suo compleanno, la sua casa-museo era aperta. Quale occasione migliore per passarvi l’intera mattinata, curiosando tra i suoi oggetti, cullati dal portoghese musicale di guide volontarie ed appassionate?
      Buon compleanno, Nininho, parabéns. E alla prossima visita nella tua Lisbona vieni a infestarmi, come accadde a Tabucchi nel suo Requiem.
      Magari sarà la volta buona. Sarà la volta in cui ti toglierai gli occhiali e finalmente la vedrai, lei che ti ha aspettato tutta la vita.
      Posted in Cartoline | 3 Comments | Tagged Antonio Tabucchi, Fernando Pessoa, Literature and Beyond, Me myself and I, Memories, Nininho, Ophelinha, Poetry
    • It all started like this… (post in prima persona)

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 25, 2012

      E’ iniziato tutto così…durante una giornata molto simile a questa*.
      Una giornata troppo grigia perfino per Greyville, con la pioggia gelida e il vento che ti sferza il viso e dissemina intorno a se una foresta di ombrelli rotti. La cosa più deprimente è il colore. Non è fumo di Londra, è un…non colore. E’ la completa assenza di tonalità. E’ la negazione del colore stesso.
      Guardo fuori dalla finestra del mio ufficio, questo cielo senza colore, questo palazzone dello stesso colore del cielo, and I cannot help but wonder (à la Carrie Bradshaw)…per l’ennesima volta nel corso dell’ultimo anno e mezzo…ma io, esattamente, cosa ci faccio qui? O, più precisamente, cosa sto facendo della mia vita?
      Se, circa undici anni fa, qualcuno mi avesse predetto che sarei diventata la persona che sono, che avrei abbandonato qualsiasi forma di ambizione riducendomi a vivere come l’ombra di me stessa…beh, mi sarei fatta una bella grassa sonora risata. Perché non sarebbe mai potuto accadere. Perché non ero così.
      Il problema deriva fondamentalmente da questo…non sono e non potrò mai essere diversa da quello che sono. Ma le circostanze sono cambiate, le persone intorno a me sono cambiate, c’è chi se n’è andato portandosi via pezzi di me e lasciandomi in eredità pesanti valige, chi è arrivato portando carichi di responsabilità che non ero proprio pronta ad affrontare…e ci sono giorni, come questo, in cui mi sento in bilico tra la leggerezza e la pesantezza dell’essere…non so se sono Tereza o Sabine, non so se sono Kitty o Anna Karenina**. Forse la verità è che non vedo i colori perché ho perso la capacità di vederli, insieme alla capacità di ridere, di tutto, di me stessa, di cuore.
      Tornando a noi: il trasferimento a Greyville, inizialmente accettato come un dono per evadere da una routine un po’ provinciale e da quella vocina interiore che sussurrava “you can do it better, can’t you?” (sorry ma le mie vocine interiori parlando in Inglese….)si e’ rivelato un vero disastro. Mai e poi mai avrei immaginato di finire a vivere in una città così fredda, così poco accogliente, dove gli amici e gli stimoli culturali vanno cercati col lanternino.
      Il lavoro non aiuta…così…burocratico, sempre uguale a se stesso, affatto stimolante…l’unico aggettivo che mi viene in mente è, ancora una volta, grigio…e mi chiedo…non dovrei essere da qualche altra parte a fare qualcosa di più meaningful, per me stessa e per gli altri? E mi viene in mente la dedica della mia tesi di laurea…You have to be the change you want to see in the world (Gandhi). Dov’è finita quell’idealista?
      Forse nascosta dietro una facciata di cinica poco convinta…
      Ho sempre pensato che quello che facciamo debba rispecchiare la parte migliore di quello che siamo. Che il posto in cui scegliamo di mettere radici debba essere l’Heimat.
      Bref, dovendo per il momento vivere, lavorare e respirare qui a Greyville, ho deciso di crearmi la mia Neverland, dove rifugiarmi, sognare e, perché no? Scambiare idee, racconti, storie, opinioni, poesie con altre persone sparse qui e lì nella galassia satellitare.
      Perché Impressions chosen form another time e perché Pessoa e Ophelinha.
      Perché la canzone di Brian Eno rispecchia come mi sento, attualmente, la maggior parte del tempo (oltre ad essere una bellissima canzone, dolce e malinconica al tempo stesso)

      By this river

      Here we are
      Stuck by this river,
      You and I
      Underneath a sky that’s ever falling down, down, down
      Ever falling down

      Through the day
      As if on an ocean
      Waiting here,
      Always failing to remember why we came, came, came:
      I wonder why we came

      You talk to me
      As if from a distance
      And I reply
      With impressions chosen from another time, time, time,
      From another time

      Eccoci qui

      Al fianco di questo fiume

      Tu ed io

      Sotto un cielo che continua a cadere giù, giù, giù

      Sempre più giù

      Attraverso il giorno

      Come fosse un oceano

      Fermi qui in attesa

      Non riusciamo mai a ricordarci perché ci siamo arrivati

      Mi chiedo perché ci siamo arrivati

      Mi parli

      Come da distanze remote

      E io ti rispondo

      Con impressioni provenienti da un tempo ormai lontano

      Da un tempo ormai lontano

      (Traduzione @OphelinhaPequena)

      La traduzione è un po’ libera e rispecchia esattamente come mi sento: con la testa sott’acqua, le orecchie tappate e gli occhi chiusi, e tutto quello che mi arriva sono suoni e rumori attutiti dall’acqua e…ricordi, fantasmi del passato, cose e persone che mi trattengono sott’acqua e mi impediscono di risalire in superficie e let it go. Una cosa però mi arriva, anche sott’acqua: la voglia di scappare via, via….
      Perché Nininho (Fernando Pessoa).  Un pomeriggio di tanti (ma non tantissimi J ) anni fa ero in biblioteca a studiare per l’esame di Lingua e Letteratura portoghese. Tra i vari libri, ho trovato questo libricino, Lettere alla fidanzata (a cura di Antonio Tabucchi), la corrispondenza tra Pessoa e l’unica donna della sua vita, Ophelia Queiroz (ne ho gia’ parlato qui).
      Queste lettere mi hanno colpito: per la spontaneita’, l’irruente ingenuita’, il bisogno di amore di lei, il desiderio tutto femminile di passare dalla poesia alla prosa e di vivere concretamente il sentimento per Nininho nella vita quotidiana; e quel celeste distacco di lui, geloso, poi sfuggente, preso a farsi scudo dietro i suoi eteronimi, a cercare la vera vita lì dove non c’era, la vita. C’erano tante cose; c’erano parole, c’era poesia, ma c’era anche la sua incapacita’ di amare concretamente, di smettere di nascondersi dietro tanti nomi per offrirsi nudo e semplice a lei, a Ophelia, che in un attacco di deliziosa e maliziosa ingenuita’ in una delle sue lettere si firma “Ophelia Pessoa (magari!)”.
      Il carteggio tra Nininho ed Ophelinha mi è tornato in mente al momento di aprire il blog, dopo aver letto un articolo di Tabucchi (Pessoa, Amori veri e amori ridicoli) nell’archivio storico del Corriere della Sera.
      Era un momento in cui anch’io avevo bisogno di rifugiarmi dietro un altro nome, per essere capace di osservarmi dall’esterno ed eliminare quella fastidiosa sensazione che provo ogni volta che parlo di me in prima persona. Così nasce la mia Ophelinha, una figura ibrida, mezza me mezza creatura letteraria. Una creatura libera di sottrarsi al grigiore quotidiano e sognare, sognare, sognare, rifugiandosi in conversazioni immaginarie con personaggi romanzeschi, in amori letterari ed incompiuti che rimarranno sempre e per sempre pefetti perché non verranno mai intaccati nè corrosi dalla realtà che si vede, ma vivranno solo nella realta che si crede.
      Anche il “mio” Nininho non è una persona, ma l’insieme delle persone che hanno toccato e continuano in parte a toccare la mia vita, l’hanno trasformata e mi hanno cambiata, portandosi via in alcuni casi pezzi di me. E’ l’insieme degli obiettivi mai raggiunti, la wishlist delle cose che avrei sempre voluto per me e non sono ancora riuscita ad ottenere.
      E’ la speranza di tempi migliori. E’ lo specchio che mi riflette, criticamente, naked, unveiled, al giudizio del quale non posso sottrarmi. E’ la parte più autentica e genuina di me, quella che non si vergogna di parlare in prima persona e non sente il bisogno di fingere di essere di più. Più forte, più intelligente, più indipendente, più sicura di sè.
      Sei mesi fa, ho inaugurato questo blog con una delle mie poesie, Un altro finale. Perchè è questo che desidero: per me, per Ophelinha, per tutti coloro che leggono queste righe e sono magari alla ricerca di risposte a domande che non hanno nemmeno il coraggio di formulare.
      Un finale semplice, pulito, trasparente. Che non faccia male e ridoni la capacita di sorridere.

      * strano ma vero, oggi che pubblico questo post, c’è il sole.
      ** ho riletto Anna Karenina, a dodici anni di distanza dalla prima lettura, e non ho dubbi: non potrei mai essere Kitty. I just cannot get rid of the feeling that she is kind of…settling down? Non potrei mai innamorarmi di Levin. Ma di Vronskij, si. Cosi’ come se fossi Cathy di Wuthering Heights non potrei mai prendere in considerazione l’idea di sposarmi con Linton, ma ci sarebbe Heathcliff, solo Heathcliff.

      “… A che scopo sarei io stata creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è lui. Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo si cambierebbe per me in un’immensa cosa estranea; non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco; il tempo lo muterà , ne sono sicura, come l’inverno muta gli alberi; il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più della nostra separazione: è impossibile…”

       
      E che dire di Elizabeth Bennet di Pride and Prejudice? Wickam e’ chiaramente solo una piccola infatuazione. Mr Darcy, Mr Darcy. Per questo, Nininho.
      Posted in Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged Anna Karenina, Antonio Tabucchi, Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Emily Brontë, Fernando Pessoa, Literature and Beyond, Me myself and I, Memorie di una precaria perbene, Memories, Nininho, Ophelinha, Poetry
    • If that’s all there is…let’s keep dancing

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 7, 2012

      Succede che un giorno ti rendi conto di esserti persa.
      Succede che ci si mette anche il destino, che trova il tempo e l’energia di tessere intorno a te una rete…e tutto ciò che leggi, tutto ciò che scrivi, la canzone partita randomly dalla tua playlist, stralci di conversazioni tra sconosciuti, ti riportano lì. A quel crocevia a cui non ti vorresti ritrovare, perchè non vuoi affrontare di nuovo tutto da capo, perchè hai paura, because you’ve screwed it already more than once.
      E poi c’è la notte, e ci sono i sogni. E lì non puoi mascherarti dietro niente, sei nuda davanti a te stessa. E capisci che non puoi continuare ad essere Ophelia di notte e qualcuno di totalmente diverso di giorno. Qualcuno che non sei tu. Che ha perso la tavolozza dei colori con i quali dipingere giornate grigie, grigie, grigie.
      Succede che continui ad essere spaventata dalla tua non-appartenenza, ma alla fine dentro di te sai qual è il tuo posto. E sai quanto è lontano, e quanta fatica ti costerebbe tornarci. Quante rinunce, quante battaglie quante concessioni. Il prezzo? Sentirsi viva, di nuovo, forse. Lo scotto? Alto, troppo.

      Face it: here’s your lost road. Davanti a te c’è il pezzo di te che hai perduto, il cammino che hai percorso e dal quale sei fuggita, lungo il quale sei caduta. Davanti a te c’è la te stessa che hai rinnegato, ma con la quale devi convivere ogni giorno. Volente o nolente.
      Qual è la tua scelta? Far finta di niente, e andare avanti con un buco dentro (ogni persona è un abisso, ti vengono le vertigini a guardarci dentro  – La tigre e la neve). O avere il coraggio di andarla a cercare, quella te stessa che ti manca. Con annessi e connessi. Con la premessa che, stavolta, se si cade di nuovo lungo the road less travelled, non ci sarà nessun Nininho a tendere la mano. Nessuno.

      Notes to self: 

      “Imparare a vivere significa accettare l’attesa, la sospensione, l’incertezza. Integrare lentamente l’idea che, nonostante tutto, il vuoto che ci portiamo dentro non potrà mai essere del tutto colmato. Che ci sarà sempre qualcosa che ci manca. E che è proprio questa assenza che caratterizza il nostro rapporto con il tempo, con lo spazio, con l’amore… E che gli altri non sono ‘cattivi’ se non sono sempre lì, pronti a intervenire, pronti a fare qualcosa perché il vuoto faccia meno male”

      Volevo essere una farfalla, Michela Marzano

      Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa.

      “Fred” a Holly Golightly, Breakfast at Tiffany’s

      Here’s your lost road. Go on, face the music.

      Is that all there is, is that all there is
      If that’s all there is my friends, then let’s keep dancing
      Let’s break out the booze and have a ball
      If that’s all there is

      Is that all there is? Peggy Lee

      Preghiera in Luglio

      Mi sono persa.

      Bambina persa,

      figlia persa,

      madre persa,

      donna amante persa,

      anima persa.

      Non ci sono cammini, né sentieri.

      Nebbia.

      Fa’

      che mi perda in lui,

      che

      almeno sia

      perdermi in lui

      questo non ritrovarmi.

      Non cercatemi.

      Non ci provate.

      Prayer in July

      I got lost.

      Lost child,

      lost daughter,

      lost mother,

      lost woman lover,

      lost soul.

      No paths,

      No ways.

      Let me

      Lose myself

      In him.

      Fog.

      At least

      Let it be,

      Let me

      Lose myself in him,

      In order not to find myself.

      Do not look for me.

      Do not dare.

      (OphelinhaPequena)

      Soundtrack:

       Is that all there is?  Peggy Lee

       Unica Rosa  Ivano Fossati

       Cara  Lucio Dalla

       A waltz for a night  Julie Delpy

       For always  Lara Fabian

       Contigo en la distancia  Luis Miguel

       Quizas, quizas  Nat King Cole

      Posted in Ophelinha scrive | 12 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, London, Me myself and I, Memorie di una precaria perbene, Memories, Poetry
    • Ciao Lucio

      Posted at 11:50 pm03 by ophelinhap, on March 1, 2012

      Te ne sei andato all’improvviso, quasi cantando, durante una tua tournée.
      Te ne sei andato ma le tue parole, la tua musica, rimangono con noi.
      Te ne sei andato ma lasci un vuoto. Te ne sei andato e porti via qualcosa di tutti quelli che hanno sognato con le tue canzoni, che si sono innamorati con la tua musica, che hanno riso e hanno pianto avendo come colonna sonora le tue parole.
      Te ne vai e porti via una parte di me.
      Voglio salutarti con quella che preferisco tra le tue canzoni, che racchiude in sè un pezzo della mia vita, una canzone che non riesco ad ascoltare senza farmi travolgere dalla nostalgia e dalla commozione, e poco importa che anch’io abbia tanti capelli che non si riesce a contare, e poco importa se ci sia stato o ci sia qualcuno che abbia spostato la bottiglia di vino tra di noi per constatare se di tanti capelli ci si potesse fidare. Poco importa, perchè quella me, quel qualcuno se ne vanno via con te. Rimane la loro memoria, così come rimane quel posto in mezzo al cuore dove tira sempre il vento per i miei pochi anni che forse invece sono cento e non c’è niente da capire, basta sedersi ad ascoltare.

      Ciao Lucio, buon viaggio. La gente del porto continuerà a chiamarti Gesù Bambino, e forse anche tu te ne sarai semplicemente andato via per mare, o finalmente sarai riuscito a prendere la sua mano e a saltare su quel tetto.

      Cara (Lucio Dalla)

      Cosa ho davanti, non riesco più a parlare
      dimmi cosa ti piace, non riesco a capire, dove vorresti andare
      vuoi andare a dormire.
      Quanti capelli che hai, non si riesce a contare
      sposta la bottiglia e lasciami guardare
      se di tanti capelli, ci si può fidare.

      Conosco un posto nel mio cuore
      dove tira sempre il vento
      per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento
      non c’è niente da capire, basta sedersi ed ascoltare.
      Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento
      e debbo stare attento a non cadere nel vino
      o finir dentro ai tuoi occhi, se mi vieni più vicino………

      La notte ha il suo profumo e puoi cascarci dentro
      che non ti vede nessuno
      ma per uno come me, poveretto, che voleva prenderti per mano
      e cascare dentro un letto…..
      che pena…che nostalgia
      non guardarti negli occhi e dirti un’altra bugia
      Almeno non ti avessi incontrato
      io che qui sto morendo e tu che mangi il gelato.

      Tu corri dietro al vento e sembri una farfalla
      e con quanto sentimento ti blocchi e guardi la mia spalla
      se hai paura a andar lontano, puoi volarmi nella mano
      ma so già cosa pensi, tu vorresti partire
      come se andare lontano fosse uguale a morire
      e non c’e’ niente di strano ma non posso venire

      Così come una farfalla ti sei alzata per scappare
      ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare
      se non fossi uscito fuori per provare anch’io a volare
      e la notte cominciava a gelare la mia pelle
      una notte madre che cercava di contare le sue stelle
      io li sotto ero uno sputo e ho detto “OLE'” sono perduto.

      La notte sta morendo
      ed e’ cretino cercare di fermare le lacrime ridendo
      ma per uno come me l’ ho gia detto
      che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto.

      Lontano si ferma un treno
      ma che bella mattina, il cielo e’ sereno
      Buonanotte, anima mia
      adesso spengo la luce e così sia

      Posted in Uncategorized | 7 Comments | Tagged Me myself and I, Memories
    • There was a time (but it was already some time ago)

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 24, 2012

      Magritte

      There was a time, but it was already some time ago.
      There was a time when we were younger, and we thought we were going to be real changemakers, and we could have an impact on the world we lived in. There was a time we collected speeches, articles, we subscribed to petitions, we supported everything was green, was fair, was in line with our values.
      And yes, we had great values. And we were sure we were going to make something big out of them, something important, like writing a novel or writing poetry, because our words were our swords.
      Or we were going to become war reporters, and write about the atrocities of conflicts. Whatever we were going to become, we were going to be proud of ourselves. We were going to be able to look at our image in the mirror every morning and feel good about ourselves.
      There was a time, but this was really long time ago, when we fell in love. Falling in love was simple and complicated at the same time. We could fall in love with a movie and cry our eyes out. With a book. With a line. With a rhyme.
      We could fall in love one summer evening in the Coliseum with an American guy who was going to leave in two days, spend the night thinking about him and spend the following day looking frantically for him in every hotel in the area he had mentioned he lived. But oh, the moment we found him. That kiss. How many buses we let go before letting him go.
      We could fall in love with someone we had never seen, living far away from us, for his writing, because we wanted to be the woman he was so clearly – or had been  – in love with. We could fall in love out of curiosity. We could write to him, holding our breath for his reply. He could surprise him by coming to visit us. But oh, the moment we first laid eyes on him, under the Cupid statue in Piccadilly. That moment. And the loss, afterwards. The sense of loss. The excruciating pain.
      We could fall in love while stile at uni, with someone who was preparing his speech for his simulation of a UN Security Council meeting. He would repeat his speech by whispering it in our ear, while holding our hand, at the Christmas market.
      And there was a time when we really fell in love, and that was really it. When we were in the same room, the two of us, a room crowded with people, full of noise and music, our eyes would lock, and everything else wouldn’t make sense anymore. No more noise, no more people. Ignore he or she who is talking to you. Just the two of us. Except that it was horribly wrong, and it couldn’t be, and it broke our heart. It really hurt, like hell. And that was it, folks. We lost a big piece of ourselves and we are still engaged in a neverending quest to find it. Do we still fall in love? Yes we do. Does it fell the same??? Does it???
      There was a time we felt pretty. There was a time we felt free. There was a time in which even making the wrong things made sense.

      There was a time we didn’t know our place in the world, and we were afraid, but this made sense too, because we were confident we were going to get there, and, once there, we would just know. Love at first sight.
      And now? Now we are plain scared, because we are older but none the wiser, we still are helpless and clueless and we don’t belong anywhere. We just don’t belong.

      I have used “we” because I really hope that, in all this ranting, some of you have felt the same…at least once..at least a little bit..that I am not tha scary odd bugger out of a mad, but still comfortably homogeneous, crowd.

      Have you ever felt the same? Have you?

      There was a time, Guns N’ Roses

      Posted in Anglophilia, Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, Great Expectations, Greyville, Me myself and I, Memories
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