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    • Mary Oliver, una poesia e i bicchieri mezzi vuoti

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 8, 2016

      mary-oliver

      The uses of sorrow

      (In my sleep I dreamed this poem)

      Someone I loved once gave me

      a box full of darkness.

       

      It took me years to understand

      that this, too, was a gift.

       

      (Mary Oliver, The uses of sorrow)

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      L’utilità della sofferenza

      (Mentre dormivo ho sognato questi versi)

      Una persona che amavo mi ha dato una volta

      una scatola piena di buio.

       

      Ci sono voluti anni perché capissi

      che anche quello era un dono.

       

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      In quattro versi, Mary Oliver riesce a sintetizzare, con un’immediatezza che risuona in ogni sillaba di un dolore freddo e vuoto – simile al rumore che fa un centesimo che cade in una lattina vuota – una condizione di cui non siamo più bravi a parlare, uno stato d’animo che cerchiamo di abbellire costantemente, rivestendolo di una patina dorata per non vederne la ruggine. Non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, o di esercitare la tanto decantata mindfulness, di praticare più o meno complicati giochi della felicità o di cercare – solitamente per condividerli sui social – motivi per cui essere grati: Mary Oliver ricorda al lettore  – così come Elizabeth Bishop, in un’altra bellissima poesia, L’arte di perdere – che a volte si ricevono colpi talmente forti ed inaspettati che nemmeno il pugile più esperto ed allenato riuscirebbe a prevederli. Delusioni inflitte da una persona cara, che lasciano senza fiato, peggio di un pugno allo stomaco. Fallimenti professionali o personali, che stendono peggio di un pugno sui denti, tanto per rimanere nella metafora agonistica.

      Possibilità che giungono travestite da pacchi regalo, ma che, una volta aperte, si rivelano piene di vuoti, ché se fossero semplicemente vuote sarebbe più facile. E ci si ritrova, soli, a contemplare l’oscurità in fondo alla scatola. Sconfitti, almeno momentaneamente, almeno apparentemente. Perché, come la Oliver insegna, forse non ha sempre senso ricoprire il buio di glitter, chiamarlo con altri nomi per esorcizzarlo, trasformarlo, camuffarlo, evitarlo, nasconderlo. A volte bisogna semplicemente sedersi, al buio, da soli, e accettare di essere pervasi dal contenuto di quella scatola, per imparare a non averne paura, per essere pronti a riconoscerla tra mille ed evitarla. Per diventare più forti. Per imparare da un dolore che un giorno, forse, potrebbe tornare utile, per parafrasare Peter Cameron.

      Non a caso, la poesia della Oliver si intitola The uses of sorrow, l’utilità – o meglio, le molteplici utilità – della sofferenza, e il titolo della raccolta che la ospita è Thirst, sete.

      La Oliver, che cerca di affrontare la morte del partner, con cui ha condiviso quarant’anni di vita, si getta nella sofferenza a capofitto, con la voluttà del martirio immediato, con la volontà di accettare la morte come parte della vita affrontandola, e disarmandola.

      My work is loving the world, amare il mondo è il mio lavoro, dichiara la poetessa all’inizio della raccolta: i suoi versi dimostrano il coraggio nell’affrontare quello stesso mondo nella sua interezza, l’umiltà di chi riesce a fare anche dell’oscurità una lezione di vita, andando avanti, sempre, per mantenere le cose insieme, come insegna anche Mark Strand.

      Perché a volte bisogna imparare a vedere il bicchiere mezzo vuoto, per riuscire a riempirlo di nuovo.

       

      Soundtrack: The Darkness, Leonard Cohen

       

      Posted in Frammenti di poesia | 4 Comments | Tagged Elizabeth Bishop, L'arte di perdere, Leonard Cohen, mark strand, Mary Oliver, moods, Peter Cameron, Poetry, The uses of sorrow, Thirst, Un giorno questo dolore ti sarà utile
    • Effetti collaterali e istruzioni per l’uso

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 8, 2015
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      Alfred Gockel Series

       

      Niente buoni propositi per questo 2015, come si è già detto più volte.

      Solo un libro bello bello, che mi ha accarezzato l’anima e mi ha aiutato a salutare un 2014 greve, pesante, pieno di disordini indiscreti.

      E un monito, affinché per questo anno nuovo non ci si dimentichi che i cuori non saranno una cosa pratica finché non ne faranno di infrangibili, e che, come cantava De Andrè

       

      c’è un termometro del cuore
      che non rispettiamo mai
      un avviso di dolore
      un sentiero in mezzo ai guai

      cose che dimentico
      sono cose che dimentico

       

      Quindi una poesia, per ricordare che sognare costa poco, anche pochissimo, ma il risveglio può fare male, molto male (oh, qual caduta fu quella, miei compatrioti! Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi! lamentava Antonio sul corpo esangue di Giulio Cesare nell’omonima tragedia shakesperiana).

      Una poesia per ricordare che bisognerebbe vaccinarsi dalle delusioni come ci si vaccina per l’influenza. Che bisognerebbe misurare con cura lo spettro dei cambiamenti possibili, disegnare un perimetro accurato, e cercare di restarci dentro.

      Una poesia per ricordare che, se Mark Strand scrive di muoversi per tenere le cose insieme, quando non si sa dove andare e si è persa ogni direzione, bisognerebbe fermarsi per un attimo e ascoltare il rumore dell’acqua che scorre, del vento che spazzola via le ultime foglie ruggine e oro e porta eco di storie lontane.

      E sì, una poesia in Inglese, perché nella mia confederazione di anime l’Inglese è la lingua del vino e della poesia.

      Buon anno dispari, e non trascurate la profilassi di cuore e anima.

       

      Side effects (istruzioni per l’uso)

      Be frozen

      my heart.

      Be still

      as a star.

      Stay algid

      don’t beat

      forget

      the rise and the fall.

       

      Stay gone,

      my heart.

      Be remorseful

      and forgetful

      and never come back.

      Shine

      – albeit modestly

      without trying too hard.

       

      Stay put,

      my heart.

      Never let go

      of what’s holding you behind.

      Don’t fret.

      Those are just memories

      of rails,

      tales of pale blades.

       

      Be quiet

      my heart.

      Bite your tongue

      forget that haunting tune

      rewrite the lyrics

      – no reason, nor rhyme.

       

      Stay strong,

      my heart

      for the tide is too high

      the chains are too heavy

      the moon shies away.

      The wind will blow you off.

       

      Stay cold,

      my heart.

      Don’t let the warmth

      melt you down

      for too much tenderness,

      too much longing,

      too much desire.

       

      Be a stranger,

      my heart.

      Lock yourself in a tower

      far away as a nightmare

      cold as clean cut glass.

      Toss the keys away

      and hire an unemployed dragon.

       

      Be frozen

      Be quiet

      Be a stranger.

       

      Stay gone

      Stay put

      Stay strong

      Stay cold

       

      like a mirror

      like a stone

      like a sharp blade

       

      just as ice would

       

      or else

      you’ll be broken

       

      or else

      you’ll melt away

       

      or else

      you’ll beat yourself to exhaustion

       

      or else

      you’ll be smashed – yet again.

      Posted in Anglophilia, Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso | 4 Comments | Tagged Confessions of a Dangerous Mind, mark strand, Poetry
    • Keeping things whole (l’arte di tenere le cose insieme)

      Posted at 11:50 pm12 by ophelinhap, on December 2, 2014

      images In a field

      I am the absence of field.

      This is always the case.

      Wherever I am

      I am what is missing.

      When I walk

      I part the air

      and always

      the air moves in

      to fill the spaces

      where my body’s been.

      We all have reasons

      for moving.

      I move

      to keep things whole.

      (Keeping things whole, Mark Strand, from Reasons for Moving: Poems, 1968)

      In un campo

      io sono l’assenza

      del campo.

      E’ sempre così.

      Ovunque io sia

      io sono ciò che manca.

      Quando cammino

      divido l’aria

      e sempre

      l’aria rifluisce

      a riempire gli spazi

      in cui era stato il mio corpo.

      Abbiamo tutti motivi

      per muoverci.

      Io mi muovo

      per tenere insieme le cose.

      – da “L’uomo che cammina un passo avanti al buio” Poesie 1964-2006, traduzioni di Damiano Abeni (Mondadori, 2011)

      Respirare per sentirsi interi. Inspirare a fondo l’aria fredda fino a che brucia la bocca dello stomaco. Riempirsi i polmoni e buttarla giù, tutta d’un tiro, per non pensarci più, per togliersi di torno l’ennesimo obbligo del giorno. Respirare a pieni polmoni. Respirare con la pancia. Inspirare. Aspirare. Contare fino a trentatré.

      Camminare veloci tagliando la nebbia, fendendola col proprio corpo, per poi sorprendersi del fatto che il movimento della massa d’aria sia effettivamente causato dalla massa corporea (braccia, gambe, avanti, indietro) che continua ad esistere nonostante la spinta gravitazionale dei pensieri. Pensieri che sono tanti, vorticosi, disordinati. Un mare color del vino, in cui annegare. E quel muoversi diventa un non essere, una questione di vuoti pieni e di pieni vuoti, le parentesi lasciate dal corpo in movimento immediatamente farcite dall’aria, quel tutto che scorre, quell’impossibilità di essere uguali a se stessi per due secondi di fila.

      Quel mancarsi. Quel perdersi. Quel ritrovarsi, interi, che evidentemente è necessario prima perdersi, a pezzi. Lasciare pezzi di sè alle spalle e ritrovarli diversi. Migliori, peggiori, non importa: mai uguali a se stessi. Vite come castelli di carte da gioco, che c’è bisogno di far crollare tutto per poter ricominciare. Vite come disordini discreti che hanno bisogno di caos devastante per ritrovare una loro forma, una loro ragione d’essere, un loro equilibrio. Si, bisogna restare in movimento per sentirsi vivi, anche se il movimento in questione dovesse includere un paio di aerei e di treni e pochissime ore di sonno e una babele linguistica in testa. Si spera sempre di ritrovarsi interi, prima o poi.

      Mark Strand, poeta canadese scomparso pochi giorni fa, è celebrato come il poeta dell’assenza. Nei suoi versi si interroga sulla morte, sul senso d’identità, sul senso del ritorno, sulla perdita.

      Personalmente, la cosa che mi fa impazzire è questo suo essere profeta del futuro anteriore, cantore di cose che potevano essere, ma non sono state e non saranno più (e, anche se fossero state, sarebbero state diverse. Cose da tenere insieme, lievemente, respirando).

      Ha vinto il MacArthur Fellowship (1987), il Premio Pulitzer per la Poesia (1999) e il Wallace Stevens Award (2004); ma, anche se non avesse vinto un fico secco, ci sarebbe piaciuto lo stesso.

      Fissare il nulla è imparare a memoria quello in cui noi tutti verremo spazzati, e spogliarsi al vento è sentire l’inafferrabile “qualche luogo” farsi vicino. Strand

      Posted in Anglophilia, Frammenti di poesia | 14 Comments | Tagged mark strand
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