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  • Tag: Lucy Barton

    • Il Calendario dell’avvento letterario #9: di verità perfette, crepe e comunità

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Debora di Critica letteraria

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      Quando Manuela mi ha proposto di partecipare al suo delizioso calendario dell’avvento letterario ho subito accettato con entusiasmo, felicissima di prendere parte ad un progetto che finora avevo sempre seguito da lettrice e più che lieta di avere un’ottima ragione per lanciarmi in una lunga riflessione su Natale, libri, tradizione. È quel periodo dell’anno che adoro, entro in modalità elfo con un anticipo imbarazzante e anno dopo anno mi coccolo con piccoli rituali e tradizioni che via via si arricchiscono di nuove abitudini: la maratona dei film a tema, le gite ai mercatini di Natale, la rilettura come ogni anno di A Christmas Carol di Dickens (rigorosamente sdraiata ai piedi dell’albero addobbato), le mille candele profumate che già da sole fanno atmosfera. Insomma, il più tradizionale mood natalizio ad accompagnarmi verso il 25 Dicembre. Ma se la leggerezza calviniana che mi contraddistingue non è mai venuta meno, neanche di fronte a quelle prove che certo non avrei voluto dover affrontare, non ancora, almeno, in questi ultimi anni è diventato necessario creare anche nuove tradizioni, per non perdere lo spirito del Natale e la gioia del periodo, il piacere di stare insieme alle persone che amo.

      I libri, le storie, ancora una volta sanno arrivare a noi quando più ne abbiamo bisogno, spingendoci ad osservare la realtà da un punto di vista differente, destabilizzarci, mettere in discussione le nostre certezze o scaldarci il cuore con un inaspettato messaggio di speranza. Chi mi conosce sa che ho un debole per la letteratura angloamericana e così quest’anno, sbirciando nella mia libreria per questo progetto – a rischio di non uscirne mai più, persa tra gli scaffali – e, lo ammetto, cercando tutt’altro, sono tre le storie, ognuna in qualche modo legata al Natale, che ho deciso di proporre per questo avvento letterario, un piccolissimo viaggio nella narrativa statunitense contemporanea, fra solitudini, crepe, nostalgia, senso di comunità, famiglia. E poi, come un lampo di luce abbagliante, un sentimento di speranza e possibilità, il regalo più bello di una scrittrice che amo profondamente per la grazia con cui sa guardare il mondo.

      Poche cose urlano a gran voce “Natale” come le immagini di New York innevata, le strade piene di luci, i negozi addobbati; è anche lo sguardo curioso di chi arrivato per la prima volta in città ne resta abbagliato ma ne intravede anche le crepe dietro la facciata:

      La neve avvolgeva come un drappo i cespugli, disegnando con cura tutti i rami di tutti gli alberi – una linea di bianco per ogni linea di nero. Il Madison Square Garden, enorme e fresco di inaugurazione, mi sembrava etereo e fiabesco, e la Diana di Saint Gaudens, di cui mi aveva parlato Mrs Henshawe, si stagliava libera e spavalda nell’aria grigia. Indugiai a lungo accanto alla fontana intermittente. Il suo spruzzo regolare dava voce alla piazza. Si alzava e ricadeva con un profondo, allegro sospiro, e aveva un suono musicale, che pareva uscire dalla gola della primavera. […] Mi sembrava che lì, l’inverno non portasse desolazione; era domato, come un orso polare tenuto al guinzaglio da una bella signora.

      Ogni immagine, ogni parola, nel breve romanzo “Il mio nemico mortale”, di Willa Cather, è perfettamente calibrata e lì, appena dietro l’apparenza, oltre lo scintillio delle luci di New York immersa nell’atmosfera natalizia, si avverte il peso di un matrimonio che non è all’altezza di quanto ci si aspettava. Myra, bellissima e brillante, che rinuncia all’agio e alla famiglia per fuggire con l’uomo che ama, e tutto quel che ne riceve in cambio è la realtà, soltanto questa. Non basta il Natale, l’euforia forzata, le luci, la città, a nascondere del tutto gli angoli bui di quel matrimonio, delusioni e meschinità quotidiane, le incomprensioni, le difficoltà. Quelle crepe lungo tutta la facciata, il senso di dramma imminente che pervade il romanzo-racconto in cui i silenzi, gli spazi bianchi, le porte socchiuse, pesano più delle parole sulla pagina.

      Sull’importanza delle parole e sulle barriere, linguistiche o fisiche, un paio di anni fa Cristina Henrìquez ha pubblicato un libro molto bello – da cui si è sviluppato anche un progetto Tumblr correlato – , “Anche noi l’America”: una storia di speranza, difficoltà e sogni; di barriere da abbattere appunto, di nostalgia bruciante per quello che abbiamo perso o dovuto lasciare indietro, di desiderio di appartenenza e luoghi, persone, da poter chiamare casa. Henrìquez prova a dare voce a quegli Unknown Americans, immigrati o cittadini di seconda generazione e la difficile strada verso l’integrazione. Per molti di loro, per gli adulti soprattutto, è come essere sospesi fra due vite, tra il ricordo di ciò che era prima, di casa, famiglia, tradizioni e luoghi conosciuti, e ciò che è adesso la quotidianità, un Paese che troppo spesso guarda con diffidenza e ragiona per stereotipi, la solitudine e la nostalgia che si fa ancora più lacerante nel periodo di Natale.

      Eppure, in quella desolata e fredda cittadina del Delaware, tra problemi famigliari ed economici che difficilmente potranno essere superati, lì, in quel condominio fatiscente, nel giorno di Natale si crea la comunità: si apre la porta di casa Toro, tutti i vicini chiamati a riunirsi, festeggiare, mettere da parte per un momento differenze e problemi e ritrovarsi come comunità. Come famiglia. Messico, Panama, Nicaragua, Paraguay, Venezuela, sono tutti lì, in quell’appartamento riscaldato dalle risate, dalle voci, dal desiderio di sentirsi vicini e ritrovare un pezzetto di casa:

      […] con tanta gente stipata nel nostro appartamento, cominciammo a sentire un po’ di più lo spirito del Natale. Tutti rabbrividivano e ridevano e bevevano e parlavano. Quando finimmo il caffè mia madre preparò una pentola di cacao bollente mischiando un po’ di panna intera e delle tavolette di cioccolato che aveva trovato in fondo a un pensile e aveva squagliato sui fornelli. Il señor Rivera domandò se aveva dei bastoncini di cannella da mettere nelle tazze per fare la cioccolata alla messicana e mia madre recuperò un vasetto di cannella in polvere da un altro pensile e l’aggiunse alla pentola.

       Infine, c’è un libro, ma forse per meglio dire una scrittrice, che più di ogni altra riesce a colmare di grazia e speranza ogni pagina, anche le più dure, con il dono di una scrittura perfetta, ma soprattutto con quello ancora più straordinario di riuscire a vedere quegli “attimi di grazia” nel caos della vita. Ogni pagina che leggo – e rileggo, ancora e ancora – di Elizabeth Strout riesce in qualche modo a riappacificarmi con la scrittura e con il mondo: avevo amato “Olive Kitteridge” e “Mi chiamo Lucy Barton”, ma è nelle pagine finali di “Tutto è possibile” – un libro arrivato, come le cose migliori, esattamente nel momento in cui più ne avevo bisogno – che ho capito davvero a cosa Strout si riferisse, a quella verità perfetta e meravigliosa.

      In quella storia che chiude il romanzo-racconto della piccola comunità di Amgash, Illinois, quel microcosmo di umanità e imperfezioni, ci sono lampi di bellezza abbaglianti. La vigilia di Natale, la recita a cui ogni anno la famiglia di Abel non manca di assistere, i piccoli significativi dettagli rivelatori che qualcosa non va come ci si aspetterebbe nella vita ordinata dei Blaine: piccole sfumature, un sorriso tirato, un tono sbrigativo, il battito del cuore un po’ troppo accelerato, il buio che improvvisamente cala nella sala a metà spettacolo e gli istanti di panico. Lì, in quella notte di Natale, il meccanismo si inceppa, ma è anche l’occasione per riflettere davvero sul tempo, su ciò che è stato, sulle parti che recitiamo. Sulle solitudini che ci portiamo dentro. E che lì, in un teatro rimasto vuoto, creano appunto quell’attimo di grazia e di umana connessione. Perché si, non smetterò mai di credere che tutto è davvero possibile.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged A Christmas Carol, Anche noi l'America, Charles Dickens, Cristina Henríquez, Critica letteraria, Elizabeth Strout, Il mio nemico mortale, Lucy Barton, Olive Kitteridge, Willa Cather
    • #libriinvaligia6: scrittrici da portare in vacanza

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 19, 2017

      strout

      Lo so, ne avete fin sopra i capelli delle liste di libri per le vacanze (e siamo solo a luglio).

      Ho però una scusa validissima: fra trasloco, cambio lavoro e mirabolanti oscillazioni umorali, contraddistinte da mille sfumature di ansia, sono riuscita a scrivere pochissimo nel corso di questi ultimi mesi. Ho invece letto tanto: sono state tutte letture molto belle, che mi hanno intrattenuto, fatto compagnia in innumerevoli viaggi in macchina e in treno, distratto nei giorni più difficili e fatto (quasi) dimenticare l’assenza di Netflix nel mese e mezzo che ho trascorso senza Internet a casa nuova.

      Di conseguenza, vi beccate un post bello lungo, pieno di letture tutte al femminile che vi consiglio senza esitazioni, sia che ve le vogliate portare sotto l’ombrellone, sia che vogliate addolcirvi la rentrée a settembre. Pronti?

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      1)   Anything is Possible, Elizabeth Strout

      Voglio iniziare partendo dall’ultimo libro che ho letto, finora la più bella lettura del mio 2017 (e ho il sospetto che sarà difficile sostituirlo). Quella della Strout è pura magia, un viaggio sola andata nella cittadina di Amgash, in Illinois, a un paio d’ore (e parecchi universi) da Chicago.

      Amgash ha un cuore rurale, conservatore, immobile. Negli anni, tutto resta uguale a se stesso: anche gli abitanti, quelli che non sono riusciti a scappare, quelli che ce l’hanno fatta ma vivono comunque intrappolati nel passato, in gabbie arrugginite di rimorsi e rimpianti. Tutti i personaggi gravitano intorno a Lucy Barton, protagonista della precedente fatica letteraria della Strout. Lucy è riuscita ad evadere dallo squallore di un’esistenza di stenti, da una situazione familiare tesa e difficile da penetrare e comprendere, sia per lei che per i suoi fratelli; ha vinto una borsa di studio, è approdata a New York, è diventata una scrittrice di successo.

      Lucy è lo standard inaccessibile in base al quale tutti i protagonisti dei racconti si misurano: che guardino a lei con soffusa ammirazione, con malcelata antipatia o indiscriminato risentimento, la sua piccola figura vestita di nero tiene insieme le fila dei loro destini, e racconta nelle sue pagine quei fantasmi che sembrano avere infestato ogni famiglia della cittadina, pulsando come la sua arteria più viva, rifiutandosi di essere messi da parte o dimenticati.

      This was the skin that protected you from the world—this loving of another person you shared your life with.

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      2)    Radio Girls, Sarah-Jane Stratford

      Londra, 1926: la giovane Maisie è elettrizzata dalla prospettiva di iniziare a lavorare come segretaria alla BBC. è intelligente, entusiasta, timida, insicura: si ritrova improvvisamente col suo unico paio di collant e l’unico vestito buono in un ambiente smaccatamente maschilista, in cui le donne possono essere esclusivamente segretarie e stenografe e devono stare bene attente a non esprimere idee e opinioni, per non rischiare di essere immediatamente messe al loro posto dal superiore di turno. Hilda Matheson è invece una forza della natura: colta, intelligentissima, creativa, intraprendente e poco rispettosa delle convenzioni, è la prima donna manager della BBC, intenta a iniziare la conservatrice BBC alla stupefacente novità dei programmi radiofonici. Se Maisie è frutto della fantasia della Stratford, la strabiliante Hilda è invece realmente esistita: prima donna manager della BBC, ha avuto il merito di inventare il format del talk show radiofonico. Purtroppo, la Matheson viene spesso ricordata solo per le sue amanti celebri, tra cui Vita Sackville-West, che nel suo obituario la ricorda come un pony cocciuto; in Radio Girls, la Stratford vuole invece celebrarla come la straordinaria pioniera che, dopo essere stata reclutata da Lawrence D’Arabia per la celebre agenzia segreta inglese MI5, diventa la segretaria politica di Lady Astor, la prima parlamentare donna della storia del Regno Unito, e procede poi a rivoluzionare la storia della radio e della BBC.

      “Give that woman an inch and she takes the entire British Isles.”     

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      3) Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood

      Difficile sfuggire a tutte le segnalazioni che, nel corso degli ultimi mesi, hanno sottolineato il valore letterario e profetico della scrittrice canadese. Io ho letto Il racconto dell’ancella tutto d’un fiato andando in macchina da Lussemburgo a Parigi (sono una di quelle fortunata persone che riescono a leggere in macchina, bus, aereo, vasca da bagno e forse anche sommergibile), affascinata e terrorizzata. Affascinata, perché è impossibile non cedere al ritmo della narrazione della Atwood; terrorizzata, perché, tra Trump e Family Day vari, la distopia di una dittatura in cui il valore delle donne diventa unicamente la loro capacità di riprodursi (senza amore, senza consapevolezza, senza speranza, senza scelta) e la donna stessa viene ridotta a incubatrice senza sentimenti sembra tristemente più possibile di quanto dovrebbe.

      Come nel caso dell’orrore descritto da Orwell in 1984, le pagine della Atwood diventano un memento dei mostri generati dal sonno della ragione, degli incubi che si materializzano in un mondo senza amore e senza rispetto della dignità umana. Offred, Ofglen e le altre ancelle,  perennemente vestite di rosso per esaltare la loro condizione di donne fertili, hanno perso il diritto ad avere un nome, adottando una sorta di patronimico che indica la loro appartenenza a una casa, a un padrone, a una ‘famiglia’. Una frase in latino maccheronico, Nolite te bastardes carborundorum (non lasciare che i bastardi ti schiaccino) diventa il motto della protesta delle ancelle, più o meno nascosta e silenziosa, e del loro desiderio di riappropriarsi della propria identità e di amare, ancora.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate nella traduzione di Camillo Pennisi, edito da Ponte Alle Grazie. Non ho ancora guardato la tanto discussa serie tv di Hulu tratta dal romanzo (ho appena finito la nuova stagione di House of Cards e quella di Orange is The New Black, e aspetto la domenica con ansia per guardare la terza stagione del mio amato Poldark): qualcuno di voi l’ha vista? Me la consigliate?

      Se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna. È difficile resistere, credimi. Ricorda, però, che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, forse il più grande.

      Non si tratta del controllo di una persona sull’altra. Forse non si tratta di chi può stare seduto e di chi deve invece inginocchiarsi, alzarsi o sdraiarsi, a gambe divaricate. Forse si tratta del potere di fare qualcosa e poi essere perdonato.

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      4) Le cure domestiche, Marylinne Robinson

      Non avevo mai letto la Robinson prima, ed è stato amore: Le cure domestiche è una malinconica riflessione sulla perdita e sulla memoria, piena di poesia e di nostalgia.

      È un romanzo d’acqua: uno dei protagonisti principali è il lago dell’oscura cittadina di Fingerbone, nel Midwest americano, che ha inghiottito numerose vite e permette ai fantasmi di riaffiorare in superficie, facendo in modo che il tempo diventi circolare e che sia abitanti che passanti cedano alle lusinghe del passato. È anche un romanzo sull’adolescenza, sulla ricerca di identità, sulla ricerca di risposte, sul disperato bisogno di conformarsi, di smettere di sentirsi un pesce fuor d’acqua (per rimanere nella metafora marina): le due sorelle Ruth e Lucille indossano il lutto per la perdita della madre, morta suicida nel lago, come un rivestimento coriaceo pesante e soffocante, che impedisce loro di crescere e di sbocciare nelle giovani donne che vorrebbero diventare.

      Sylvie, la stramba zia dalla vocazione errabonda alla quale le due ragazzine vengono affidate, cerca di ovviare alla loro vita disordinata e senza certezze attraverso le sue bizzarre cure domestiche, che sembrano rafforzare l’idea che tutto scorra, come l’acqua, tutto sia passeggero, e che nemmeno l’idea di casa possa arginare questa precarietà.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate in italiano nella traduzione di traduzione di Delfina Vezzoli per Einaudi.

      La forza che sta dietro il movimento del tempo è un lutto che non sarà confortato.

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      5) Lila, Marilynne Robinson

      Galvanizzata dalla lettura di Le cure domestiche, sono andata avanti con Lila, che mi sono regalata per il mio compleanno. Avrei dovuto invece rimandare la lettura: Lila è il terzo volume della trilogia di Gilead (preceduta da Gilead e Casa, tutti pubblicati da Einaudi).

      Poco male: anche questa lettura mi ha incantato. Come le sorelle di Le cure domestiche, anche Lila non ha radici né passato: viene allevata da Doll, una solitaria vagabonda con uno sfregio sul viso e la paura nel cuore. Doll le regala un nome – Lila appunto, un cognome – Dahl, che altro non è che la storpiatura del nome di Doll e che regala alla ragazzina un passato immaginario dal vago sentore scandinavo.

      Lila è intelligente, solitaria, totalmente indipendente e autosufficiente: viaggia leggera, vestitino e coltellaccio dal manico arrugginito, in compagnia dei suoi pensieri. Un giorno arriva nella sperduta Gilead, il cui nome biblico evoca la straordinaria natura dell’esperienza che Lila sta per vivere: l’amore, nella persona di un reverendo che ha il doppio dei suoi anni e porta con sé un bagaglio doloroso. E Lila, selvaggia e solitaria, si ritrova da un giorno all’altro sposata e deve imparare, per la prima volta nella vita, a condividere le sue giornate e i suoi pensieri. Soprattutto, Lila deve imparare a farsi amare. Lui la ama: di un amore intenso e silenzioso che, secondo i dettami della Bibbia, tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta: anche il passato da prostituta di Lila, anche i suoi tentativi di fuga, anche i suoi silenzi testardi. È un amore umile, che si nutre di piccole cose: il profumo di un maglione appoggiato sulle spalle; la passeggiata insieme, quando lui torna dal lavoro; le conversazioni sulle rose del giardino, e quelle sull’immortalità dell’anima.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate in italiano nella traduzione di traduzione di Delfina Eva Kampmann per Einaudi.

      Era bellissimo sentirlo camminare al suo fianco. Bello come il riposo e il silenzio, come qualcosa di cui potevi fare a meno ma di cui avevi comunque bisogno. Di cui dovevi imparare a sentire la mancanza, per poi non smettere mai di sentirla.

      Credo di avere qualcosa che non va, vecchio. Non riesco ad amarti quanto ti amo. Non riesco a essere felice quanto lo sono.

      Siete riusciti ad arrivare fino a qui? Oltre a complimentarmi con voi per l’impavido coraggio, e buone letture!

      Soundtrack: Those Lazy Crazy Hazy Days of Summer, Nat King Cole

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      Posted in Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Anything is possible, BBC, BBC radio, Elizabeth Strout, Hilda Matheson, Housekeeping, Il racconto dell'ancella, Le cure domestiche, Lila, Lucy Barton, Margaret Atwood, Marilynne Robinson, Radio Girls, Sarah Jane Stratford, The Handmaid Tale, Vita Sackville-West
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