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  • Tag: Lev Tolstoj

    • Il Calendario dell’Avvento letterario #5: il Natale non è un affare da romanzi russi

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 5, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da me medesima

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      Nell’immaginario collettivo, il Natale è associato a distese di neve candida, caminetti accesi, tazze fumanti di cioccolata e bicchieroni speziati di vino caldo.

      Il tepore della casa, l’atmosfera festosa, il calore degli affetti si contrappongono all’ostilità degli agenti atmosferici e creano quel mix di odori, profumi, sapori e sensazioni che l’industria del Natale cerca da anni di imbottigliare in essenze, candele profumate, tè stagionali e deodoranti per gli ambienti. Tuttavia, l’essenza del Natale sfugge, salvo manifestarsi più o meno capricciosamente in luoghi, contesti e situazioni anche impensate.

      Oggi andiamo a cercare quella stessa essenza nei paesaggi innevati e nell’aria gelida della lontana Russia, con tanto di slitta trainata da husky e cappello di pelliccia alla Anna Karenina (come non amarla anche a Natale, nel suo vestito da ballo di velluto nero?).

      Cominciamo la nostra rassegna proprio dal versatile, camaleontico Tolstoj, uno dei padri fondatori della letteratura russa moderna. Allontanandoci dalla famiglia Karenin e dalle sue tragedie, passiamo a una fiaba: quella di papa Panov, che nella traduzione italiana diventa  Martin, il ciabattino.

      Si avvicina il Natale: gli odori e le luci ricordano a Martin gli anni più felici, quando sua moglie era ancora viva e i figli, ancora piccoli, vivevano a casa con loro. Malinconico e scoraggiato dalla solitudine delle feste incipienti, Martin si addormenta leggendo la Bibbia e sogna Gesù Bambino, che gli promette che gli farà visita il giorno dopo. Martin si sveglia pieno di aspettativa e tira fuori le sue scarpine da bambino più belle, da offrire in dono.  Il ciabattino aspetta tutto il giorno, ma l’illustre visitatore non arriva: nel frattempo, insicuro delle sue sembianza, Martin offre bevande calde, cibo e ospitalità a tutti i passanti, finendo per regalare le scarpette a una bambina povera, figlia di una ragazza sola e senza lavoro. Forse Martin non incontra Gesù, ma riscopre la bellezza della condivisione e della generosità che alleggeriscono e riscaldano il cuore, rendendo  il suo Natale più sereno e molto meno solitario.

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      Lasciamo la bottega di Martin e facciamoci condurre da Tolstoj a casa Rostov, tra gli irrequieti, appassionati protagonisti dell’epopea di Guerra e pace: la bella e volubile Natasha, la dolce e fedele Sonja, l’incostante principe Nicholaj, il goffo e idealista Pierre, l’affascinante, leale principe Andrej. I giovani di casa Rostov, tutti presi dall’atmosfera festosa della stagione natalizia, decidono di mettere su una pantomima. Sono così entusiasti dei loro costumi che decidono di condividere la loro allegria con una famiglia di amici, i Meljukov. La notte, gelida e stellata, si presta bene a una corsa in troika, specie per Nicholaj e Sonja, che fin da bambini hanno avuto un debole l’uno nei confronti dell’altra. Nicholaj è su di giri per la bellezza della notte e di Sonja, nonostante il suo travestimento da uomo e i baffi finti che le oscurano il bel viso; è in estasi, rapito da quello che Tolstoj definisce ‘un elisir d’amore e di giovinezza’. Il ragazzo vede Sonja in una luce nuova, e legge nei suoi occhi, più luminosi delle stelle, una promessa di amore e di felicità: preso dalla magia del momento la bacia. Le labbra di Sonja sanno di sughero bruciato per colpa dei baffi finti, i suoi capelli sono tutti scompigliati: niente ha importanza, mentre i due, consapevoli del fatto di non avere i mezzi per sposarsi, decidono comunque di promettersi amore eterno.

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      Nikolai Gogol ci porta invece in un’Ucraina pagana, rurale e magica nel suo racconto La notte di Natale. Il diavolo, indispettito per essere stato dipinto in veste troppo favorevole dal fabbro/pittore Vakoula – così favorevole da non riuscire più a trovare candidati da trascinare all’inferno – decide di rubare la luna. Il diavolo ha in realtà un altro motivo per vendicarsi di Vakoula: i due sono entrambi innamorati della bella, algida Oksana. Il signore del male spera che, lasciando il villaggio al buio, il padre di Oksana, Tchoub, sia impossibilitato ad uscire, così da impedire alla ragazza di ricevere la visita di Vakoula. La notte di Natale combina il folklore tradizionale con l’atmosfera natalizia dell’Ucraina rurale: è una storia scritta per essere raccontata davanti al fuoco, commemorando tradizioni e leggende di un tempo mai passato, mentre sullo sfondo risuonano i koliadkis (canti di Natale ucraini).

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      Lasciando l’Ucraina, seguiamo la bellissima Lara, infelice eroina de Il dottor Zivago. La seguiamo mentre si reca a una festa di Natale, col cuore in gola e una pistola nascosta nel manicotto, con uno scopo ben preciso: costringere l’ex amante Komarovskj a consegnarle una somma ingente di denaro per permetterle di coprire i debiti del fratello Rodja e di sposarsi col giovane, irruente Pasha.

      Nel frattempo, Jurij Zivago e Tonja Gromeko, sua amica d’infanzia, stanno indossando i loro primi abiti da sera per partecipare alla stessa festa di Natale, organizzata dalla famiglia Sventickij. La madre di Tonja, Anna Ivànovna, giace a letto malata. Dopo averli visti insieme, eleganti e radiosi, li incita a non indugiare oltre e ad ammettere il proprio amore reciproco, sposandosi il prima possibile, e concede loro la sua benedizione.

      Il calore e gli affetti della casa di Jurij contrastano aspramente con il ghiaccio nero che ricopre le strade, con l’aria così gelida che a Lara fa male respirare. L’atmosfera che la circonda è surreale: ondate di vapore emergono dalle sale da tè e dalle bettole; le finestre delle case, ricoperte di uno strati spesso di neve e di ghiaccio, sembrano di gesso, e rendono il riflesso delle luci opache degli alberi di Natale uno spettacolo di lanterne magiche.

      Mentre Jurij e Tonja vengono condotti subito nelle stanze private degli Sventickij, Lara si aggira per la sala da ballo pallida come un fantasma, senza un vestito da sera, danzando distrattamente, persa nei meandri del suo incubo personale. Mentre danza distrattamente, urta Jurij, che recupera fazzolettino di batista con cui Lara si era tersa il labbro sudato. Quasi senza accorgersene, Jurij si porta il fazzolettino alle labbra e viene pervaso da una strana eccitazione: il fazzoletto ha un odore pungente, intimo e sensuale, di mandarini e sudore, di segreti e innocenza, di qualcosa di nuovo e penetrante che il ragazzo non ha mai sperimentato fino a quel momento. Improvvisamente, uno sparo riecheggia nella sala da ballo, interrompendo bruscamente l’atmosfera allegra e festosa: Jurij riconosce Lara, pallida, fiera e bellissima tra la folla, prima che l’enormità del suo gesto e degli eventi che l’hanno portata a compierlo prendano il sopravvento su di lei e si accasci al suolo, priva di sensi.

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      Tra spari, demoni dispettosi, amanti infelici, infermità e gesti tragici, il Natale nei romanzi russi – come l’amore nei romanzi russi – è solenne e tragico, con improvvisi sprazzi di pace e serenità.

      Bonus extra: un quiz del Guardian sul Natale in letteratura

      Soundtrack: una canzone russa per bambini (grazie, Marga!)

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      Posted in Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, Andrej Bolkonskij, Anna Karenina, Dottor Zivago, Guerra e pace, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il Natale di Martin, La notte di Natale, Lara, Lev Tolstoj, Natasha, Nikolaj Gogol’
    • Gli svantaggi di un’educazione (molto) bovaristica

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 20, 2016

      La colpa è tutta di mia madre.

      Mi ha iniziato alla lettura di Prévert, Jimenez, Pablo Neruda quando ero ancora all’asilo e avrebbe dovuto nutrirmi di Fiabe sonore (ve le ricordate?)

      Mi ha regalato la sua vecchia copia di Love Story, ingiallita, consumata dall’uso (e dalle lacrime).

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      Ero giovane e naïve. Avrei dovuto rendermi conto di quello che stava succedendo e fermarmi in tempo, ma non sono stata in grado di farlo.

      Non c’è dunque da sorprendersi se ho sviluppato un’irrefrenabile dipendenza dalle eroine letterarie, sintomo di quella pericolosa infermità letteraria meglio nota col nome di bovarismo (grazie, Flaubert), trasmissibile per via testuale, praticamente impossibile da curare.

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      Questa pericolosa malattia, che ha continuato a mietere vittime a partire dall’incostante, capricciosa Emma Bovary, può essere descritta come una sorta di insopportabile irrequietezza causata dal divario (enorme) tra aspirazioni eroiche e monotono tran-tran della vita quotidiana. I soggetti più a rischio sono le aspiranti eroine con un debole per le complicazioni amorose, le situazioni difficili, quegli intrichi sentimentali pari solo a puzzle monocromi da 15000 pezzi.

      Questo post vuole essere una riflessione sulle tappe letterarie che mi hanno portato a soffrire cronicamente di quest’incurabile condizione, nella speranza che incaute lettrici possano identificarne i sintomi e curarsi per tempo. A buon intenditor, eccetera, insomma.

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      Cime Tempestose, Emily Brontë

      Grazie a Emily Brontë, ho passeggiato per le desolate brughiere dello Yorkshire con Cathy e Heathcliff, rifugiandomi in cucina nelle chiacchiere rassicuranti di Nellie e convincendomi del fatto che sì, volevo quello che aveva Cathy: volevo innamorarmi di qualcuno che fosse me più di me stessa, la cui anima fosse fatta delle stessa sostanza della mia. Ho odiato Cathy per aver sposato Linton; ho pianto fino al mal di testa, trovando consolazione solo nella Nutella, quando Cathy è morta e Heathcliff ha iniziato a sbattere la testa contro un albero, urlando al vento di non poter vivere né morire senza la sua anima.

      Per il mio inesperto cuoricino, Cime Tempestose era l’apoteosi del romanticismo, unendo in sé fuoco, passione, amori impossibili, dannazione. Da Cime tempestose in poi, la tragedia è diventata per me l’unità di misura del romanticismo, mentre mi convincevo del fatto che un amore dovesse essere ostacolato o addirittura impossibile per essere degno di essere vissuto (a mia discolpa, ero giovane e molto, molto ingenua. Quanti crepacuori avrai evitato, negli anni, se non fossi stata ciecamente invaghita di un’idea contorta e impossibile dell’amore!)

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      Emma Bovary, Gustave Flaubert

      Non ho mai sopportato le lagne di Emma Bovary, che ho sempre trovato vanitosa, indecisa, illusa, noiosa e francamente antipatica. Nonostante ciò, ero convinta di capire come si dovesse sentire, di riuscire a indentificarmi in quel suo lancinante bisogno di avere qualcosa di più, senza sapere bene cosa. Emma voleva sentirsi mancare la terra sotto i piedi; voleva qualcuno che la facesse sentire bella, unica ed insostituibile, che le mandasse lettere d’amore così appassionate da toglierle il respiro, che le dicesse di non essere in grado di vivere senza di lei. Voleva essere costantemente sorpresa, senza doversi arrendere alla vuota banalità di un’esistenza sempre uguale (l’unica esistenza che il prevedibile marito Charles sembrava in grado di assicurarle). Emma aveva semplicemente bisogno di sentirsi innamorata, ma aveva il pessimo vizio di scegliere sempre l’uomo sbagliato, incapace di donarle quella felicità così astratta alla quale ambiva un po’ alla cieca. Sapete tutti com’è andata a finire, no?

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      Doctor Zivago, Boris Pasternak

      Se non ho mai sopportato Emma Bovary e le sue manie di protagonismo, ho amato Lara, l’intrepida eroina de Il dottor Zivago. La Antipova è un’eroina coi piedi ben saldi per terra e sa quello che vuole – Yuri Zivago. Non è passiva, non aspetta che qualcuno la salvi: cerca di prendersi quello che vuole e di costruire una vita per lei e Yuri, nonostante siano entrambi sposati – lei col freddo, cinico Antipov/Strelnikov, che si è dimostrato privo di scrupoli e capace di efferate crudeltà; lui con Tonia, la sua migliore amica e madre dei suoi figli. Certo, Lara compie un errore imperdonabile: lasciare Varikino col crudele Komarovsky, che l’ha sedotta quando era ancora una ragazzina. Lara si lascia irretire dalle promesse di Yuri, che si impegna a raggiungerla; vuole disperatamente credergli, ben sapendo, dentro di sé, che Yuri non accetterebbe mai l’aiuto di un uomo che odia e disprezza. La sua decisione di partire senza di lui è ingenua anche un po’ stupida, considerando che aspetta la sua bambina: mi fa pensare sempre alla Ilse di Casablanca, che si reca in aeroporto convinta di partire con Rick (mentre in fondo sa bene che Rick è un uomo d’onore e non lascerebbe mai il partigiano Laszlo in mano ai tedeschi. A proposito, sono l’unica che quando guarda il film si mette a strillare non partire Ilse, non farlo? Effetti collaterali del bovarismo…)

      Anche la fine del film su Zivago di David Len mi spezza il cuore ogni volta: Yuri crede di aver visto Lara, scende dal tram e la rincorre. Mentre corre, ha un infarto e muore, senza essere mai riuscito a rivederla. E niente, sarebbe stato bello se si fossero incontrati prima, anche solo di un giorno. E qui scappa ancora la lacrimuccia.

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      Anna Karenina, Lev Tolstoj

      Con Anna Karenina la situazione è precipitata.

      Avevo quindici anni ed ero stata appena lasciata dal mio primo ragazzo. Avevo deciso di affrontare la situazione come una vera eroina letteraria: marinando scuola per la prima volta, tagliandomi i capelli, fumando la mia prima sigaretta, che doveva farmi sembrare tragica quanto basta e incredibilmente sofisticata, ma in realtà mi ha solo causato una nausea insopportabile.  Dopo il fallimento di questi primi rimedi, ho deciso di affrontare lacrime e insonnia leggendo per la prima volta il romanzone di Tolstoj. Anna mi è subito sembrata l’eroina per eccellenza: intelligente, colta e bellissima, madre affettuosa, moglie frustrata e annoiata. Mi è sembrato inevitabile che si prendesse una cotta per l’affasciante Vronskj, nonostante lui non mi sembrasse altro che un borioso damerino pieno di sé, del tutto indegno dell’amore e delle attenzioni di Anna.

      Mi sembrava di riuscire a vederla, bellissima nel suo vestito nero, illuminata dalle candele della sala da ballo, le braccia bianchissime e i ricci neri, capace di eclissare senza sforzo alcuno la giovane Kitty e di sfidare coraggiosamente i pregiudizi dell’ammuffita aristocrazia russa. L’ho seguita nel tragitto da casa sua a quel treno che avrebbe spezzato la sua vita: era bella ed elegante come sempre, ma stroncata dalla delusione, da un amore tossico, dalla nostalgia per il figlio. Mi sono indignata tantissimo per le parole della madre di Vronskj, che si permette di dire che Anna ha avuto la fine che si merita, brutta come la vita che ha condotto.

      Quello che ho capito, dopo diversi anni, una rilettura del romanzo e varie delusioni sentimentali, è che Vronskj rende Anna infelice per quasi tutta la durata della loro storia, e che il vero amore di Anna è il figlio Serioza, che le manca terribilmente.  Quello che ho capito è che il vero cattivo della storia è il finto, ipocrita perbenismo dell’aristocrazia russa, pronta a condonare le scappatelle maschili con un sorrisetto compiaciuto e una pacca sulla spalla, ma inesorabile nella condanna delle donne.

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      Nel corso di varie riletture, mi sono anche resa conto che Cathy è infantile, viziata e capricciosa e Heathcliff ossessionato da lei (un po’ stile stalker, per intenderci) ed estremamente vendicativo; che Emma Bovary è una sciocca che si sarebbe dovuta dare una bella svegliata; che Lara e Yuri sarebbero dovuti scappare insieme, senza se e senza ma; che la mia amata Anna avrebbe dovuto abbandonare sia marito che amante e iniziare una nuova vita coi figli lontana dal clima gelido (in tutti i sensi) della società russa, magari in Spagna o in Portogallo.

      Sì, sono cresciuta, ho riletto i miei amati classici, li ho guardati con occhi nuovi e più maturi: eppure, sotto sotto, rimango un’inguaribile romantica vecchio stile. Anche questo è uno di quegli antipatici effetti collaterali del bovarismo per il quale non è stata ancora trovata una cura adeguata.

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      Soundtrack: Wicked game, Chris Isaak

      PS: per gli anglofoni/anglofili, qui la versione inglese dell’articolo

      Posted in Letteratura e dintorni | 17 Comments | Tagged Anna Karenina, Boris Pasternak, Casablanca, Cathy Earnshaw, Cime tempestose, Dottor Zivago, Emily Brontë, emma bovary, Gustave Flaubert, heathcliff, Jacques Prévert, Juan Ramón Jiménez, Lara, Lev Tolstoj, Love Story, Pablo Neruda
    • Rileggendo i classici#1: Guerra e Pace di Lev Tolstoj

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 5, 2016

      Rileggendo

      Da un po’ di tempo accarezzo l’idea di rivisitare i classici, sia quelli che mi hanno accompagnato nel corso della mia vita di lettrice e fanno ormai parte di me che quelli che leggo per la prima volta o rileggo e imparo ad apprezzare.

      Avevo da mesi sul comodino (o meglio, nel Kindle che sta sul comodino) Guerra e pace, la cui lunghezza mi ha sempre spaventato un po’, specie per la mancanza di tempo, quel tempo che sembra scivolarmi tra le dita come sabbia sottilissima e diventare sempre più esiguo, sempre più rarefatto. Comunque, complice il nuovo adattamento della BBC (con una Lily James che finora non è riuscita a convincermi: mi sembra lady Rose di Downton Abbey trapiantata in Russia) ho deciso di intraprendere l’ardua impresa durante le vacanze di Natale. In realtà, tra la vacanza a New York e il colpo di fulmine per Miriam Toews, alla fine a Natale ho letto pochissimo, ma sono riuscita a recuperare grazie ai fine settimana uggiosi di questo piovosissimo gennaio.

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      Leggere Guerra e pace è un’esperienza unica: si ha la sensazione di entrare in un universo parallelo, popolato da un sacco di persone dai cognomi fin troppo simili; persone che, nel lungo arco di tempo abbracciato dal romanzo (1805 – 1820) nascono, crescono, maturano, combattono, sbagliano, si pentono, ritrovano la fede, tradiscono, spezzano il cuore a qualcuno, restano col cuore spezzato, sono incapaci di amare, imparano ad amare, abbracciano nuovi credi e nuove filosofie, ereditano titoli nobiliari, perdono i loro averi, si sposano per convenienza, si sposano per amore, si ammalano, muoiono. L’altra cosa che mi ha colpito di G&P è quella sorta di linea di demarcazione che separa le parti che parlano di guerra da quelle che parlano della vita fuori dai campi di battaglia, tra un trattato di pace e una nuova invasione francese; non sono solo le tematiche a cambiare, ma anche il modo di affrontarle, il modo di descrivere e scavare nei personaggi, e, quasi impercettibilmente, la penna di Tolstoj.

      Per agevolarvi la lettura, tre sono le principali famiglie che popolano le pagine di G&P:

      • i Rostov, con l’incantevole Natasha, l’incostante fratello Nicholaj, la docile e remissiva cugina Sonja;
      • i Bezuchov, con Pierre, goffo, idealista, bravo a dire e fare la cosa sbagliata, e la bellissima, algida moglie Helene, cacciatrice di dote, fredda e lontana come uno specchio;
      • i Bolkonskij, col mio amato principe Andrej (quando leggerete il romanzo ve ne innamorerete anche voi, non c’è scampo), la devota, paziente fino all’esasperazione sorella Maria Bolkonskija, il bilioso padre, il vecchio principe Bolkonskij, arrabbiato con tutti, anche con se stesso.

      Ci sarebbe anche una quarta famiglia da ricordare, ma sono tutti talmente antipatici che preferisco relegarli al ruolo che dovrebbero avere, quello di malvagi tessitori: il principe Vasilij  Kuragin, uomo meschino ed arrivista, determinato a fare di tutto per concludere matrimoni vantaggiosi per i figli, Anatole e Helene, nonostante sia consapevole della mancanza pressoché totale di valori, freni e inibizioni in entrambi i figli. Tolstoj accenna a un possibile rapporto incestuoso tra Anatole e Helene, e il loro comportamento non migliora con gli anni: Helene adesca il povero Pierre, figlio illegittimo del conte Bezuchov e erede improvviso della sua immensa fortuna, per poi bandirlo quasi immediatamente dall’alcova coniugale e dedicarsi apertamente alla vita di società e a una sfilza di amanti; Anatole, segretamente sposato con una ragazza polacca. spezza il cuore e rovina la reputazione all’ingenua (e annoiata) Natasha. Ma procediamo con ordine.

      La cosa che più ho amato di G&P è la straordinaria capacità di Tolstoj di descrivere l’evoluzione/involuzione dei suoi personaggi. Mi concentrerò sui tre personaggi principali: Natasha, Pierre e Andrej.

      Nelle prime pagine del romanzo, Natasha è una ragazzina appena uscita dall’infanzia che si affaccia sull’adolescenza. È dotata di una vitalità e di una joie de vivre tale da illuminare tutte le pagine sulle quali si affaccia: è vivace, quasi incontenibile, ha comportamenti sbarazzini che scombinano nello sconveniente, le piace sperimentare (ad esempio, rubare un bacio al suo primo “innamorato”, il giovane Boris). Per tre quarti del romanzo è un personaggio incredibilmente affascinante, uno dei più belli della storia della letteratura: attraversa la vita in punta di piedi sulle sue scarpette da ballo, tra mussolina bianca e rosa e ricci neri; canta come una sirena, e nessuno è capace di resistere alla commovente dolcezza della sua voce; è semplicemente felice, felice di esistere, di essere viva, di rifugiarsi nel lettone della madre per i pettegolezzi e le confessioni notturne. È curiosa, ha voglia di sperimentare, di provare tutto, di succhiare il midollo della vita, per parafrasare Thoreau; mi fa pensare a una canzone degli Strokes, I’ll try everything once. Natasha ha voglia di crescere, di raccogliersi i capelli, di indossare vestiti eleganti, di iniziare a partecipare ai balli.

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      War & Peace - First Look

      Programme Name: War & Peace – TX: n/a – Episode: War & Peace – First Look (No. n/a) – Picture Shows: Natasha Rostov (LILY JAMES) – (C) BBC – Photographer: Laurie Sparham

      Il primo ballo di Natasha, durante il quale conosce – e inizia a innamorarsi -del principe Andrej, resta una delle pagine più belle della letteratura.

      “Da un pezzo io ti aspettavo, pareva che dicesse quella fanciulla spaurita e felice, col suo sorriso che spuntava fra le lacrime già pronte, alzando la mano per posarla sulla spalla del principe Andrej. Essi erano la seconda coppia che entrava nel circolo. Il principe Andrej era uno dei migliori ballerini del suo tempo. Natascia ballava mirabilmente. I suoi piedini, nelle scarpine di raso, pareva si sollevassero rapidi e leggeri, indipendentemente da lei, e il suo volto raggiava per l’entusiasmo della felicità […] Il suo collo e le  sue  braccia erano di una magrezza infantile,  non belle.  Paragonate con le spalle di Elèna,  quelle di Natascia erano gracili,  il seno non  formato,  le braccia sottili;  ma su Elèna pareva si fosse posata la patina di tutte le migliaia di sguardi che  avevano  sfiorato  il  suo  corpo,  mentre Natascia aveva l’aspetto di una bimba che per la prima volta indossava un  abito  scollato,  una bimba che si sarebbe vergognata di mostrarsi così se non l’avessero convinta che così era necessario fare. Al principe Andréj piaceva ballare e, desideroso di liberarsi al più presto sia delle conversazioni politiche e impegnate che tutti intavolavano con  lui, sia della  timidezza che lo indispettiva, cagionata dalla presenza del sovrano, si era messo a ballare e aveva scelto Natascia, perché Pierre gliel’aveva indicata e perché era stata la prima donna graziosa a cadergli sotto gli  occhi; ma non appena ebbe stretto quel busto sottile ed agile e Natascia cominciò a muoversi così presso a lui e gli sorrise così vicino, l’aroma della sua grazia gli salì alla testa; e mentre, riprendendo fiato e lasciandola, si fermava a guardare le coppie che ancora ballavano, si sentì  ringiovanito e pieno di vita”.

      (Traduzione Itala Pia Sbriziolo, UTET Torino)

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       Nel corso del suo primo ballo, che demarca il suo ingresso nell’età adulta, la brillante, vivace, inesauribile Natasha incontra il principe Andrej, reduce da un matrimonio infelice, dalla morte della giovane moglie – la graziosa principessina Lise – durante la nascita del loro primo e unico figlio, dagli obbrobri della guerra.

      Andrej, segnato in gioventù dal matrimonio infelice con la bella Lise, appare all’inizio freddo, rude, antipatico, egoista. Vuole scappare dalla sua vita, da quei giorni sempre uguali, e si arruola, affidando Lise, prossima al parto, alle cure della remissiva sorella Maria e dell’iracondo padre. Lise muore di parto, qualche ora prima che Andrej riesca a rientrare a casa dopo una brutta ferita: una ferita quasi mortale che l’ha lasciato lì per ore, a terra, a contemplare il cielo e le nuvole, ed assorbire, per la prima volta, il significato profondo e il valore intrinseco della vita. Andrej torna a casa, pronto a farsi perdonare da Lise per la sua freddezza e il suo egoismo, pronto a ricominciare con lei e col loro bambino. Trova Lise già morta, con gli occhi spalancati, negli occhi un’espressione che non dimenticherà facilmente: una condanna che contiene un’implicita domanda, “perché mi hai fatto questo?”

      Andrej conduce una vita solitaria e riservata fino al suo incontro con Natasha nella sala da ballo. La osserva, la studia, e fa una scommessa con se stesso: se la ragazza, dopo essere stata invitata a ballare, si prenderà cura anche della cugina Sonja rimasta senza cavaliere, la sposerà.

      Natasha si prende cura di Sonja, non la lascia a fare tappezzeria, e in Andrej esplode un sentimento senza precedenti e senza pari, che lo riconcilia con la vita, che lo rende per la prima volta felice. Confida la sua scoperta dell’amore all’amico Pierre, che, intrappolato nel suo matrimonio infelice e sterile con Helene e segretamente da sempre innamorato della piccola Rostova, fa del suo meglio per nascondere il sottile senso di malinconia che lo pervade. Andrej parte per un anno, in viaggio per l’Europa, cercando di ritardare l’inevitabile conflitto con l’irascibile principe Bolkonskij, che non vuole concedergli la sua benedizione: Natasha, che ha appena scoperto l’amore e ne viene altrettanto improvvisamente privata, cade in una sorta di trance. Non conosce la pazienza dell’attesa: conosce a malapena Andrej, ha appena avuto il tempo di esplorare questo sentimento tutto nuovo, ed è costretta a stare lontana da lui per un anno. È facile per Anatole, damerino provetto, strapparle un bacio, dichiararle amore eterno e costringerla a scappare con lui, che è già sposato. Sonja la salva, Andrej non la perdona, Natasha cerca di togliersi la vita e precipita in un vortice di depressione che porta via con sé la sua freschezza, la sua spontaneità, la sua innocente, accattivante giovinezza in fiore. La domanda sorge spontanea: Natasha, come hai potuto tradire l’intenso, forse un po’ troppo serioso ma maturo e con i piedi per terra principe Andrej e cercare di scappare con un damerino che hai frequentato per un paio di giorni?

      Chi sta più vicino a Natasha è Pierre, che è anche il personaggio che conosce una maggiore evoluzione nel corso del romanzo: all’inizio è un adolescente goffo e insicuro, un figlio illegittimo cresciuto in Francia, inizialmente disprezzato da tutti per la sua mancanza di cognome e titolo, poi corteggiato da tutti per il suo titolo e l’immensa ricchezza ereditata dal padre. Il giovane Pierre diventa da un giorno all’altro il ricco e influente conte Bezuchov, e non riesce a gestire la cosa: si fa convincere (costringere) a sposare Helene, vive una vita dissipata, si dedica anima e corpo alla massoneria, ha una (brevissima) esperienza sul campo di battaglia, nel quale incontra Andrej, ormai cinico, freddo e distaccato, pronto ad andare incontro al suo destino. Andrej viene gravemente ferito in guerra, e, per un’assurda casualità, si ritrova a casa di Natasha, che diventa la sua instancabile infermiera e riprende alcuni dei tratti della Natasha di un tempo: la grazia felina, il piede leggero, il passo da ballerina che trasforma ogni movimento in una danza. Andrej si riconcilia con la vita e, in una delle scene più commoventi del libro, dichiara il suo amore immutato per Natasha, che a sua volta non ha mai smesso di amarlo.

       

      Lieto fine? Troppo facile. Tolstoj fa morire Andrej un paio di giorni dopo, affidando l’inconsolabile Natasha alle cure di Maria, sorella di Andrej, che, sorprendentemente (e convenientemente, dato che i Rostov hanno perso quasi tutto e lei è una ricca ereditiera) sposa Nicholaj, fratello di Natasha, da sempre innamorato della povera Sonja.

      E Natasha? Non solo sposa Pierre, cosa già di per sé incomprensibile, almeno per me, ma, nel primo dei due epiloghi, diventa una donna grassa e sciatta, che non ha più voglia di pettinarsi né di scegliere un vestito decente. Dove sono finite la sua bellezza, la sua grazie, l’irresistibile luce dei suoi occhi neri, l’irresistibile vitalità? Tolstoj sembra suggerire che tutte queste amabili doti fossero semplicemente funzionali a trovare marito: ora che ha Pierre e i loro bambini, l’unica cosa che le interessa è parlare col marito, stare attaccata al marito, essere al centro dei suoi pensieri e del suo mondo. Ogni assenza di Pierre la getta in un vortice di depressione e malumore che finisce solo quando sente il rumore della sua slitta nel cortile. Per un personaggio così complesso, così delicato, così poliedrico, è un epilogo un po’ riduttivo: ma ricordiamoci anche la fine che Tolstoj ha fatto fare alla mia amatissima Anna Karenina, mentre il fratello Stiva si prendeva una strigliata e una pacca sulle spalle per le sue scappatelle extraconiugali.

      E la povera Sonja, vi chiederete voi? Non solo, dopo aver amato Nicholaj tutta la vita, deve assistere col cuore pesante al suo matrimonio con Maria, ma va anche a vivere con loro! Tolstoj, ma che fine fai fare a queste povere eroine?

      Per invogliarvi alla lettura del romanzo (il Guardian lo mette nella sua lista dei venti romanzi che tutti fanno finta di aver letto – a voi quanti ne mancano?), vi consiglio di guardare il nuovo adattamento della BBC, in onda su BBC 1 la domenica alle 21.

      Se poi volete sbizzarrirvi e dare libero sfogo al nerd che c’è in voi, qui trovate un test per mettere alla prova la vostra conoscenza delle vicende storiche narrate in G&P, mentre qui trovate dei consigli di stile per emulare il look delle immortali eroine tolstojane.

      Buona lettura!

       

      Soundtrack: Take this waltz di Leonard Cohen, in onore del primo ballo di Natasha e Andrej

       

      PS: io ho letto G&P in inglese, nell’edizione Wordsworth Classics. Ho usato per la citazione in italiano la traduzione di Itala Pia Sbriziolo, pubblicata da UTET). Tutte le immagini che ho usate nel post sono scene dell’adattamento BBC.

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      Posted in Rileggendo i classici | 13 Comments | Tagged Anatole Kuragin, Andrej Bolkonskij, BBC, Bezuchov, Bolkonskij, Downton Abbey, Guerra e pace, Helene Kuragina, Itala Pia Sbriziolo, Lady Rose, Lev Tolstoj, Lily James, Maria Bolkonskija, Natasha, Natasha Rostova, Nicholaj, Pierre, Rostov, Sonja, UTET
    • Anch’io volevo un Nobel – i celebri esclusi

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 9, 2015

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      Anche quest’anno l’attesa da TotoNobel è passata, e le congratulazioni di turno spettano alla bielorussa Svetlana Alexievich (di cui onestamente non ho mai letto nulla).

      Se, come me, anche voi aspettate questo periodo dell’anno per ridere con i post del mitico Tumblr Philip Roth rosica, e, in fondo in fondo, a ogni giro sperate che vinca un autore che amate, o almeno conoscete (la mia doppietta del cuore è rappresentata da Wisława Szymborska nel 1996 e dalla mia amatissima Alice Munro nel 2013), ecco a voi una lista di celebri (e, a parer mio, meritevolissimi) autori snobbati dall’algida Accademia svedese.

      Tra l’altro, si vocifera che l’Accademia sia un filino (no, non c’è un modo politicamente corretto di dirlo, o se c’è mi sfugge) antiamericana: nel 2008 il segretario permanente della giuria dell’Accademia, Horace Engdahl, in una dichiarazione all’Associated Press, affermò quanto segue:

      There is powerful literature in all big cultures, but you can’t get away from the fact that Europe still is the centre of the literary world … not the United States.The US is too isolated, too insular. They don’t translate enough and don’t really participate in the big dialogue of literature …That ignorance is restraining.

      (C’è della grande letteratura in tutte le grandi culture, ma non si può negare che l’Europa continui a rappresentare l’ombelico del mondo letterario..non gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono troppo isolati, troppo insulari. Non traducono abbastanza e non partecipano realmente al dialogo letterario in senso lato…Quell’ignoranza li limita).

      Quindi, caro Roth, mi sa che ti tocca rassegnarti. Tuttavia, non disperare: sei in ottima compagnia.

      tolstoj1) Leo Tolstoj. Se qualcuno di voi riesce a trovare un solo buon motivo (letterario, non politico, ovvio) per cui l’autore di opere immortali come Guerra e pace e Anna Karenina (tra parentesi, il mio libro preferito) non possa essere giudicato meritevole del premio Nobel me lo comunichi, per favore.

      E non solo la sola a pensarla così: nel 1901, anno di rodaggio del Nobel, quarantadue autori svedesi scrissero un’accorata lettera a Tolstoj, esprimendo tutto il loro dispiacere per la sua esclusione dal premio, assegnato a Sully Prudhomme (Wikipedia può esservi più utile di me, dato che non ho idea di cos’abbia scritto). Il buon vecchio Leo la prese molto sportivamente: si dichiarò sollevato, scrivendo ai quarantadue svedesi di essere certo che quel denaro non gli avrebbe portato che male. Ricorderete che, a un certo punto, Tolstoj inizia a soffrire di acuta depressione, abbandona gradualmente la famiglia e la pretesa di possedere beni materiali e si rifugia nella religione.

      1311162-Marcel_Proust2) Marcel Proust. Forse il suo Alla ricerca del tempo perduto era troppo sperimentale e innovativo per i gusti dell’Accademia? La butto lì.

      3) James Joyce. L’esclusione di Joyce sorprende un po’ di meno: non fu apprezzato in vita, e la famosa scena dell’Ulisse in cui Leopold Bloom si masturba su una panchina guardando un gruppo di scolarette non aiutò di certo la sua causa presso l’Accademia svedese (Ulisse, d’altro canto, ha fatto parte dei banned books negli States fino al 1930).

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      4) John Updike. Che dire? Troppo bianco, troppo Americano, troppo sessualmente esplicito?

      John Updike in 1986

      5) Virginia Woolf. Su 112 Nobel per la letteratura, solo 13 (14 con la Alexievich) sono stati assegnati a autrici donne (ma in Svezia non esistono le quote rosa?). Comunque, la leonessa del Bloomsbury group non è stata tra le scrittrici insignite. Troppo avant-garde, troppo depressa? Il suo flusso di coscienza è rimasto sul groppone dell’Accademia, come quello di Joyce? AI posteri l’ardua sentenza.

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      borges6) Jorge Luis Borges. Ancora una volta, l’unica spiegazione plausibile per giustificare il mancato riconoscimento all’autore dell’Aleph o de Il giardino dei sentieri che si biforcano sono le sue simpatie per regimi dittatoriali (Pinochet, Franco) e le sue critiche rivolte all’Accademia stessa.

      Borges, candidato per trent’anni al Nobel senza averlo mai vinto, affermava – non senza una certa amarezza – che “quelle persone in Svezia” dovevano essersi dimenticate di lui, o essere convinte di avergli già assegnato il premio in passato. Povero Jorge.

      nabokov7) Vladimir Nabokov. Se iniziassi ad elencare tutti i motivi per cui Nabokov avrebbe dovuto vincere il Nobel, non la finirei più. Già il fatto di essere un grande scrittore in due lingue (russo, la sua madre lingua, e inglese) e aver regalato al mondo un capolavoro come Lolita dovrebbero bastare. D’altro canto, proprio l’autore di un libro come Lolita non poteva essere scelto come Nobel laureate. Tra l’altro, sapete chi vinse il premio l’anno in cui Nabokov venne nominato (1974?) Due Svedesi, Eyvind Johnson and Harry Martinson (se vi state chiedendo chi siano, la risposta è: non ne ho idea). Piccola curiosità: i premi Nobel svedesi sono stati sette, numero superiore a quello di ogni altra nazionalità. Sorpresi?

      Henry-James8) Henry James. Soprannominato The Master dai suoi contemporanei per la dedizione assoluta alla revisione e alla limatura dei suoi scritti, ci ha lasciato indubbiamente alcuni dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – Ritratto di signora in prima linea.

      Perché allora i sommi accademici l’avrebbero escluso? Apparentemente, durante i suoi primi anni di vita, il comitato di selezione scartava autori considerati esplicitamente “idealisti” (anche Kipling è stato scartato per lo stesso motivo). Inoltre, ai suoi albori, il Nobel per la letteratura veniva assegnato prevalentemente ad autori europei (quasi tutti svedesi, sorpresa sorpresa). Bisogna aspettare il 1923 per assistere al trionfo di William Butler Yeats.

      9) Philip Roth. Niente, non riesco a rimanere seria e a parlare del valore letterario dell’autore di Pastorale americana, specie in questo periodo. Visitate il tumblr Philip Roth rosica e capitere perché. Comunque Philip, non disperare: finché c’è vita c’è speranza. Ci rivediamo l’anno prossimo!

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      10) E. L. Doctorow. Anche lo scrittore americano, deceduto quest’anno, si sarebbe meritato un viaggetto nella capitale svedese.

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      Niente, io continuerò a fare il mio eterno tifo per Ismail Kadaré, autore di meraviglie quali Il palazzo dei sogni e Il ponte a tre archi, purtroppo poco apprezzato in Italia, Milan Kundera e Leonard Cohen (per i profani: Cohen, oltre ad essere un grandissimo musicista, è un incredibile poeta).

      Vi lascio con una lettura per il fine settimana: una bellissima intervista della Paris Review ad Ismail Kadaré. Buona lettura, e buon weekend.

      Soundtrack: The winner takes it all, Abba

      Posted in Letteratura e dintorni | 24 Comments | Tagged Aleph, Anna Karenina, Bloomsbury group, E. L. Doctorow, Henry James, Il giardino dei sentieri che si biforcano, Ismail Kadaré, James Joyce, John Updike, Jorge Luis Borges, Kipling, Leonard Cohen, Leopold Bloom, Lev Tolstoj, Lolita, Marcel Proust, Milan Kundera, Nobel per la letteratura, Philip Roth, Philip Roth rosica, Ritratto di Signora, Svetlana Alexievich, Ulisse, Virginia Woolf, Vladimir Nabokov, William Butler Yeats
    • Cartoline da Riga: il Globuss bookstore

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 21, 2015

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      I carry my love

      As a child, a one year old,

      Carries a chestnut leaf:

      So seriously holds the outstretched hand –

      It is so difficult to balance the tiny step

      With giant autumn all around.

      From the trees

      Fall and fall

      Rustling golden secrets

      And confuse his steps.

      But the little one does not slip.

      He holds on to his leaf

      And elegantly walks into the blizzard of leaves.

      Vizma Belševica (1931-2005) Translation from the Latvian by Astrida Stahnke

      (Porto il io amore

      come il mio bambino, di un anno,

      porta una foglia di castagno:

      è così serio quando tiene la mano tesa –

      È così difficile bilanciare i suoi piccoli passi

      circondati dall’immensità dell’autunno.

      Dagli alberi

      fruscianti segreti dorati

      continuano a cadere

      confondendo i suoi passi.

      Ma il piccolo non scivola.

      Regge saldamente la sua foglia

      e incede elegantemente nella tempesta di foglie).

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      Latito, lo so.

      Sono stata un po’ in giro, ho fatto un po’ di cose, che non sono andate esattamente come volevo, ma anche questo fa parte del gioco (almeno così mi sforzo di credere).

      Conto di tornare in maniera un po’ più stabile, o manifestarmi in alti luoghi (tipo qui): ma sapete già che programmazione e costanza sono il mio tallone d’Achille, quindi abbiate pazienza, e continuate a sopportarmi.

      Nel frattempo, vi mando qualche cartolina virtuale da Riga, dove, tra una coincidenza presa al volo, una valigia persa e un impegno di lavoro, sono riuscita a fare una passeggiata e a fare un giro al bellissimo Globuss bookstore, libreria internazionale che propone titoli in lettone, inglese e russo, con una vasta selezione di classici e testi scolastici. Tra una copia di Anna Karenina (che è un po’ la reginetta della sezione classici, con mio immenso gaudio) e un tè ai mirtilli nel caffè Kafka, al piano superiore della libreria, sono anche riuscita a scattare qualche foto.

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      Ho intravisto anche la suggestiva libreria nazionale lettone, dal battello sul fiume Daugava. Il gioco di luci al tramonto sulla piramide è particolarmente suggestivo.

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      Se capitate a Riga, passate dal Folkklubs ala pagrabs pub, per un paio di pancake alle patate, un bicchiere di birra locale (la Užavas ha conquistato perfino me, che solitamente vado di Chablis) e una sosta nella biblioteca del pub (la foto è molto scura, ma il pub è una sorta di caverna).

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      Buona passeggiata!

      Per saperne di più: ho scovato questa bella antologia di poesia lettone, pubblicata dalla University of Iowa Press (purtroppo solo in inglese)

      Soundtrack: Liszt – Balada No.2, eseguita dal pianista lettone Armands Abols

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      Posted in Cartoline | 6 Comments | Tagged Anna Karenina, biblioteche, bookstores, Globuss bookstore, Guerra e pace, letteratura lettone, Lev Tolstoj, Librerie bellissime, poesia lettone, Riga, University of Iowa Press, viaggi e altri viaggi, Vizma Belševica
    • #libriinvaligia5: per un pugno di classici

      Posted at 11:50 am08 by ophelinhap, on August 6, 2015

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      Finalmente anche il conto alla rovescia per le mie vacanze si è attivato, quindi, dopo due settimane trascorse a preparare pacchi e valigie per un trasloco… mi rimetto a preparare le valigie per tornare in Italia, affrontando il dilemma di ogni anno: quali libri portare con me, oltre al mio amatissimo Kindle?

      Come l’anno scorso, colgo la palla al balzo e vi suggerisco un pugno di classici da scoprire/riscoprire durante le vacanze. Che siate al mare, in viaggio, in montagna, in città o in ufficio (sigh!), buone letture!

      1) Il buio oltre la siepe, Harper Lee

      Di Harper Lee si è parlato tanto, tantissimo negli ultimi mesi, causa la riscoperta e la pubblicazione del suo inedito Go set a watchman. Io l’ho letto, ne ho parlato qui, e approfitto dell’occasione per sottolineare ancora una volta che – a prescindere da operazioni pubblicitarie più o meno infelici – GSAW non è Il buio oltre la siepe. Quindi, se aspettate l’edizione italiana per leggere un prequel/sequel dell’amatissimo classico, resterete estremamente delusi: sono due romanzi diversissimi, che affrontano tematiche più o meno simili da due prospettive estremamente diverse.

      Ergo, approfittate dell’estate per scoprire/riscoprire la Maycomb dell’adorabile Scout Finch, maschiaccio perennemente scalzo e in salopette che odia vestitini e scarpe di vernice, suo fratello Jem e l’inseparabile amico Dill (controparte romanzata di Truman Capote, amico d’infanzia della Lee). I tre si trovano a crescere in un momento storico pieno di cambiamenti per la società americana degli stati del Sud, con la fortuna di avere una vera e propria bussola morale: il mitico papà Atticus, che ha il vizio di giocare con l’orologio da taschino e l’inestimabile pregio di fare sempre ciò che ritiene giusto, a scapito delle conseguenze.

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      Feltrinelli editore, trad. a cura di Amalia D’Agostino Schanzer

      2) Effie Briest, Theodor Fontane

      Ho letto questo romanzo molto recentemente, incuriosita da un tweet di Oxford World’s Classics che lo definiva la controparte teutonica di Anna Karenina, il mio romanzo preferito, per me vera e propria Bibbia della letteratura di tutti i tempi.

      Se nella prima metà del romanzo ho rischiato di cadere vittima della lentezza delle narrazione, nella seconda ho ceduto alla malia dell’innocenza e del candore con cui viene raccontata la storia di Effie, fanciulla diciassettenne data in sposa in quattro e quattr’otto a un ex pretendente di sua madre che ha più del doppio dei suoi anni. L’unica colpa di Effie è quella di essere sostanzialmente una bambina, che non si conosce, non conosce il suo posto nel mondo, e in mezzo alla sua tranquilla confusione cade preda delle avances del maggiore Crampas. Ovviamente, Effie è destinata a non vedere più la figlia Annuccia e a morire di tubercolosi lontano da lei e dal marito, il rigido barone Von Instetten, che vorrebbe perdonarla, ma attribuisce all’onore e alle apparenze un ruolo molto più importante di quello giocato dall’amore.

      Se Thomas Mann avesse dovuto scegliere solo sei libri, Effie Briest di Fontane sarebbe stato uno di quelli. Fidatevi del buon vecchio Thomas, e lasciatevi conquistare dalla sua apparente semplicità e dal candore di tempi andati: caratteristiche che, più o meno inconsapevolmente, sono tra quelle che cerco in un buon classico.

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      Oscar Mondadori, trad. a cura di S. Bortoli

      3) Ritratto di signora, Henry James

      Isabel Archer è una delle eroine più belle e sfortunate della storia della letteratura. Affascinante, indipendente, intelligente, si ritrova ad ereditare un’ingente fortuna, e a compiere uno sbaglio di proporzioni colossali in ambito sentimentale, sposando un inquietante omuncolo interessato solo ai suoi soldi, l’insopportabile, pomposo Gilbert Osmond. La vera tragedia di Isabel è essere stata amata tanto, da tanti, e non essere mai riuscita a capire le persone, e a leggere davvero nel suo cuore.

      È uno dei miei libri preferiti, che rileggo volentieri a cadenza irregolare. Da affiancare all’omonimo film di Jane Campion, con una splendida Nicole Kidman e un cast di tutto rispetto, che include John Malkovich e Viggo Morgensen.

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      Edizioni BUR, trad. a cura di B. Boffito Serra

      4) L’età dell’innocenza, Edith Wharton

      Con L’età dell’innocenza, il suo dodicesimo romanzo, la Wharton diventa la prima donna ad essere insignita del premio Pulitzer (1921). Basta leggere L’età dell’innocenza per rendersi conto che il suo successo è più che meritato: la penna della Wharton attacca senza pietà l’ipocrita alta borghesia newyorchese della fine del XIX secolo, svelandone il volto nascosto da una maschera dorata.

      In questo contesto, Newland Archer, avvocato di belle speranze, si trova costretto a sposare May, scialba ma di buona famiglia, pur essendo perdutamente innamorato della cugina, la misteriosa e perduta contessa Ellen Olenska, colpevole di avere “un passato” (una vita scandalosa in Europa! Il divorzio da un dissoluto conte polacco!). Da affiancare all’omonimo film di Scorsese, che vede Michelle Pfeiffer nei panni della contessa Olenska e Winona Ryder in quelli di May Welland.

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      eNewton classici, trad. a cura di P. Negri

      5. Via dalla pazza folla, Thomas Hardy

      Confessione: ho iniziato a leggere il celeberrimo romanzo di Hardy da pochissimo, dopo aver visto il nuovo adattamento cinematografico con una splendida Carey Mulligan nei panni della protagonista, la bellissima, indipendente e sfortunata (avete notato quanto spesso questi aggettivi vadano insieme nella descrizione delle eroine dei classici?) Bathsheba Everdene. Anche Bathsheba, come Isabel Archer, ha la tendenza a far innamorare di sé un po’ tutti, dal leale fattore Oak al ricco Boldwood, che si rivela uno stalker della peggior specie. Ovviamente, si innamora dell’unico uomo che non la ricambia, il vanesio, sprezzante sergente Francis Troy, che la rende molto, molto infelice.

      Ah, è anche un romanzo pieno di pecore. Ci sono pecore ovunque. Anche molte mucche. Arcadia pura, insomma.

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      Garzanti, traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman

      6) Camera con vista, E. M. Forster

      Lucy Honeychurch è un’altra delle mie eroine preferite in assoluto. Di lei, il pastore Beebe dice che, se si arrischiasse a vivere come suona, sarebbe una delle persone più interessanti del mondo. E lo fa: lascia l’insignificante, freddo fidanzato Cecil per una vita di avventure con l’inappropriato, imprevedibile George, conosciuto durante un viaggio in Italia, complice uno scambio di camere.

      Da affiancare alla visione del film di James Ivory, con un’intensa Helena Bonham Carter nei panni della protagonista.

      Newton Compton, trad. a cura di  P. Meneghelli

      Newton Compton, trad. a cura di P. Meneghelli

      Ultimo consiglio libresco: dopo aver tanto parlato di eroine, vi suggerisco la lettura di un libro che ho amato molto (purtroppo non disponibile in traduzione italiana): How To Be A Heroine: Or, what I’ve learned from reading too much, di Samantha Ellis (di cui ho parlato qui).

      se

      Dalla redazione è tutto: vi auguro delle bellissime vacanze, piene di avventure, di parole, di storie.

      Soundtrack: Summertime, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong

      Posted in Ophelinha legge | 3 Comments | Tagged Anna Karenina, Atticus Finch, Bathsheba Everdene, Bur, Camera con vista, E. M. Forster, Edith Wharton, Effie Briest, Feltrinelli, Garzanti, Go set a Watchman, GSAW, Harper Lee, Henry James, Il buio oltre la siepe, Isabel Archer, Jane Campion, L’età dell’innocenza, Lev Tolstoj, libriinvaligia, Lucy Honeychurch, Movies, Newton Compton, Oscar Mondadori, Oxford World's Classics, Pulitzer, Ritratto di Signora, Scout Finch, Theodor Fontane, Thomas Hardy, Thomas Mann, Truman Capote, un classico è per sempre, Via dalla pazza folla
    • Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo: Sembrava una felicità di Jenny Offill

      Posted at 11:50 pm08 by ophelinhap, on August 4, 2015

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      Era una buona moglie?

      Be’, no.

      Ho iniziato a leggere Sembrava una felicità di Jenny Offill nel bel mezzo di un trasloco, in una casa ancora estranea, tra valigie e scatoloni. L’ho trovato un momento particolarmente adatto a questo tipo di lettura: in fondo, cos’è un trasloco se non sovvertimento dell’ordine naturale della quotidianità, una domesticità alterata, tirata fuori dalla norma e forzata fino agli estremi dell’ignoto?

      Quando si svuota una casa, ogni suo singolo pezzo è un punto interrogativo. Ogni singolo pezzo è un riassunto delle scelte fatte fino a quel momento, che hanno portato a questo particolare risultato e non a un altro. Ci si mette in dubbio, e il risultato di queste conversazioni con se stessi riflette in molti casi lo stato d’animo della protagonista della Offill:

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      Lei è Moglie. Non sappiamo il suo nome, perché quando si è innamorata e sposata con Lui e ha avuto una Bambina ha iniziato a fare compromessi con se stessa, col suo sogno di diventare un mostro d’arte, scrivere un Romanzo, trovare un compagno che potesse essere per lei quello che Vera era per Nabokov: un’ancora alla realtà quotidiana per le cose.

      Alcune donne lo fanno così facile, quel modo di scrollarsi l’ambizione di dosso come se fosse un cappotto costoso che non va più bene.

      Ci si mette in mezzo l’Amore, e sconvolge i piani, e porta alla creazione di una famiglia, alla nascita di una bambina dagli occhi nerissimi e dall’intelligenza vivissima.

      Allora perché Lei non è felice? Perché le aspettative sono una cosa, la realtà è ben diversa. Perché è facile – fin troppo – farsi delle promesse: promesse bellissime, di prendersi sempre cura dell’altro e non lasciarsi mai, e sconfiggere insieme la solitudine. Altra cosa è mantenerle, quelle promesse, e fare in modo che, in quel laborioso laboratorio di compromessi che è la costruzione della vita di coppia, non ci si dimentichi dell’Io. Non si perda di vista chi si è, che cosa si vuole, da dove si è partiti, dove si vuole arrivare. Lei si è persa di vista, e sperimenta sulla sua pelle assottigliata un nuovo tipo di solitudine.

      Qualche sera dopo spero segretamente di essere un genio. Perché altrimenti com’è che non esiste un sonnifero che riesca a piegare la mia testa? Ma al mattino mia figlia chiede cos’è una nuvola e io non so rispondere.

      A complicare i tasselli di una quotidianità piena di vuoti ci si mette l’amante di Lui, una ragazza giovane e coi capelli rossi – dello stesso colore dei capelli di Lei, prima che smettesse di tingerseli durante la gravidanza per non riprendere mai più, e ritrovarsi striata di grigio.

      Se costruire un amore, una casa, una famiglia non è facile, ricostruire è ancora più difficile. Una vocina segreta e nascosta suggerisce che tutto potrebbe essere più semplice, che dalla frantumazione di quel Noi potrebbe riemergere quell’Io troppo a lungo dimenticato. Tuttavia, nemmeno considerazioni di questo genere possono arginare le ondate di rabbia, dolore, delusione, nostalgia per quella cosa così delicata nelle sue imperfezioni, ormai rotta, forse per sempre.

      Un esperimento per gentile concessione degli stoici. Se sei stufo di tutto ciò che possiedi, immagina di averlo perso.

      Ci sono collanti più forti di ogni rottura. C’è la memoria di coppia, un contenitore di Polaroid di due Io che si incontrano in un tempo in cui tutto era più leggero. C’è una figlia dagli occhi liquidi pieni di domande. C’è l’amore, che cambia, si trasforma, viene attaccato da ogni fronte, ma lotta per l’evoluzione e la sopravvivenza. L’amore che sopravvive grazie alle piccole cose: Lui che sbuccia la mela della bambina in una spirale perfetta e ne ricava un racconto che nasconde tra i fogli di Lei, per vedere se è abbastanza attenta. L’amore che sta sveglio la notte e sorveglia l’insonnia dell’altro. L’amore che è cura e attenzione: dei sentimenti, degli stati d’animo, dell’individualità (propria e altrui), dei piccolissimi, insignificanti tasselli che compongono una vita. L’amore dei piccoli gesti, delle carezze furtive. L’amore invisibile, nascosto in un piatto cucinato con cura o in una corsa alla fermata dello scuolabus sotto la neve.

      Una volta un visitatore chiese al maestro Zen Ikkyu di scrivere un distillato della massima saggezza. Lui scrisse una sola parola: Attenzione.

      Il visitatore rimase deluso: “Solo questo?”

      E così Ikkyu lo accontentò. Due parole.

      Attenzione, attenzione.

       

      La Offill racconta una storia apparentemente semplice, già sentita tante, forse troppe volte, ma lo fa in modo rivoluzionario, attraverso i pensieri disordinati di Lei, attraverso il cambiamento quasi impercettibile di prospettiva e di persona – la prima, la terza, un Noi sbagliato, un Noi che finalmente suona più giusto e pieno di piccole, sottili promesse, che si vuole provare a rispettare, stavolta.

      Come diceva il rabbino, “Tre cose hanno il sapore del mondo che verrà: il sabato, il sole e l’amore coniugale”.

      Sembrava una felicità è una piccola bomba ad orologeria, in attesa di esplodere. Attiva meccanismi segreti e nascosti, che erano lì, da sempre, e aspettavano di essere messi in moto dall’introspezione, dalla consapevolezza, dal coraggio. Le parole della Offill fanno male. I pensieri di Lei, tutti da sottolineare, sono destinati a infilarsi sotto le pelle del lettore, e rimanerci. Un monito, un memento mori, una speranza.

      marc-chagall

      Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, scriveva Tolstoj in uno degli incipit più abrasivi della storia, quello della sua Anna Karenina. La ricetta della Offill per combattere le forzature di una quotidianità appassita è il coraggio: di cercare di ricordarsi di essere se stessi, di guardarsi dentro e allo specchio, di interrogarsi quotidianamente, tenendo sempre d’occhio quelle storie minime, quei piccolissimi istanti di felicità che contengono l’essenza stessa dell’amore.

      La neve, finalmente. Il mondo è di una bellezza sospesa. Portiamo fuori il cane, che davanti a noi lascia una scia di pipì in quel biancore. Camminiamo verso la strada, a volte lo scuolabus arriva in ritardo. C’è ghiaccio sugli alberi e un vento da est, frizzante e pungente. Riappare il cane, trascinandosi dietro il guinzaglio. Aspettiamo vicino alle cassette della posta. Uno o due alberi hanno ancora le foglie, tu ti allunghi per prenderne una, e me la fai vedere.

      “Ha foglie oblique” dici. “Vedi?”. Te la lascio infilare nella mia tasca.

      Lo scuolabus giallo si ferma, le porte si aprono e lei è lì, con una cosa di carta e spago in mano. È arte, pensa la bambina. Forse scienza. La neve ricomincia a cadere, delicati fiocchi bagnati sul tuo viso. Il vento mi punge gli occhi. Nostra figlia ci affida i fogli spiegazzati e se ne va via correndo. Tu ti fermi e mi aspetti. La guardiamo diventare sempre più piccola.

      Da piccoli, non si sa il nome delle cose.

      Sembrava una felicità, Jenny Offill, NN editore

      Trad. a cura di Francesca Novajra

      Soundtrack: la playlist Spotify proposta da NN per la lettura del libro

      suf

      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 0 Comments | Tagged American literature, Anna Karenina, Francesca Novajra, Jenny Offill, Letteratura americana, Lev Tolstoj, NN editore, recensioni, Sembrava una felicità, Vera Nabokov, Vladimir Nabokov
    • The rules of (literary) dating – un elenco semiserio di frequentazioni letterarie

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 22, 2015

      indexUn’educazione bovaristica e un’esposizione precoce a certi tipi di letture hanno l’indubbio svantaggio di generare aspettative che non potranno mai essere soddisfatte. Tuttavia, perché guardare il bicchiere mezzo vuoto? Se Jane Austen & company ci hanno insegnato qualcosa, è anche – e soprattutto – l’arte di percepire determinati segnali che, come campanelli d’allarme, gettano una nuova luce sul protagonista di una storia, rendendolo un eroe degno delle attenzioni della protagonista, un perfido cialtrone, un’insignificante macchietta.

      Perché allora non utilizzare questo “superpotere” anche nella vita di tutti i giorni? In fondo, la letteratura è imitazione della vita, no?

      Quindi vi propongo un inventario semiserio (che mi sono divertita un sacco a compilare) di tipologie di eroi/vili marrani in cui ogni lettrice che si rispetti è incappata, prima o poi, tanto tra le pagine di un libro che nella vita vera.

      In quale tipologia vi rispecchiate maggiormente? In ogni caso, niente panico: come scriveva Jane Austen alla nipote Fanny Knight

      Non andare di fretta; abbi fiducia, l’Uomo giusto alla fine arriverà; nel corso dei prossimi due o tre anni, incontrerai qualcuno più unanimemente ineccepibile di chiunque tu abbia già conosciuto, che ti amerà con un ardore che Lui non ha mai avuto, e che ti affascinerà in modo così totale, da farti sembrare di non aver mai veramente amato prima.

      fictional men

      darcy

      Tipologia A – Il Mr Darcy (Orgoglio e Pregiudizio, Jane Austen)

      Non è sicuramente il tipo adatto a fare il +1 ad un matrimonio, un compleanno, una cena di lavoro, nè il partner ideale per il corso di tango, dal momento che si rifiuta di ballare. A pensarci bene, non è solo il ballo il problema: la sua vita sociale è fortemente limitata dalla sua scarsa disponibilità a mescolarsi con la gente che non conosce, da quella sua tendenza a fare un po’ l’orso della situazione e a starsene in disparte, con un’espressione tra il serio e l’annoiato, studiando attentamente i titoli della libreria del padrone di casa di turno (probabilmente per criticarne segretamente gusti e scelte).

      Non ha un grandissimo senso dell’umorismo, è riservato e ha bisogno di (tanto) tempo per aprirsi, e accordare la sua fiducia: tempo che passerete cercando di capire cosa gli passi veramente per la testa. In fondo è un po’ come un riccio, irto e irsuto fuori, sorprendentemente dolce e gentile dentro. Onesto, leale, generoso, è sempre pronto a dare una mano, specie se si tratta di tirare fuori dai guai la fanciulla che occupa gran parte dei suoi (criptici) pensieri, magari a sua insaputa. Dire che ha un brutto carattere è un eufemismo: è spesso burbero e cupo, tremendamente orgoglioso (potremmo dire pieno di sé..): una volta persa, la sua stima è persa per sempre. Testardo fino all’esasperazione, non darà soddisfazione alle insicure in cerca di conferme: ma le sue (rarissime) dichiarazioni, lungamente represse, sono sincere e impetuose, e non ci si dimentica facilmente della sua ardente stima e ammirazione.

      Il Mr Darcy scrive inoltre bellissime lettere, ma le amanti del genere epistolare non dovrebbero nutrire illusioni: le sue missive sono infatti volte a riparare qualche suo errore di giudizio tremendamente stupido, che avrà diminuito infinitamente il suo valore agli occhi della Lizzie di turno, incline, a sua volta, a cadere vittima dei suoi pregiudizi. Ma, in fondo, il bel tenebroso piace anche per questo, no? Lunghe passeggiate all’aria aperta possono rivelarsi il metodo migliore per superare le (innumerevoli) controversie, perché, ammettiamolo, quando ci innamoriamo perdiamo tutti la ragione (vero, zia Jane?)

      heathcliff

      Tipologia B – L’ Heatchcliff (Cime tempestose, Emily Brontë)

      Ammettetelo: vi piacciono i bad boy, i tipi cupi, tormentati, misteriosi, irrequieti, inquieti, sempre fuori posto e fuori tempo. Se è cosi, Heathcliff, il selvatico e appassionato protagonista maschile di Cime tempestose, la cui complicata personalità, a cavallo tra bene e male, incarna quelle lande selvagge e desolate dello Yorkshire che fanno da sfondo alla sua storia d’amore con la capricciosa Cathy, fa al caso vostro.

      Non potreste mai invitarlo a mangiare la lasagna a casa di vostra madre la domenica, anche perché, diciamocela tutta, molto probabilmente non si presenterebbe (senza nemmeno avvisarvi): ma riuscirebbe comunque a farsi perdonare il bidone, perché il ragazzo sa farci con le parole, quando vuole.

      Non è di certo una persona convenzionale o ortodossa: gli piace distinguersi e fare l’alternativo, e poco gli importa dell’opinione altrui.

      Nessuno potrebbe mai capire il vostro amore: ma, anche se il mondo intero fosse contro di voi, non v’importerebbe, perché le vostre anime sono fatte esattamente della stessa sostanza. Il vostro amore non cambierà come le foglie d’autunno: piuttosto, somiglia alle rocce eterne che stanno sotto quegli alberi stessi, una fonte di piacere ben poco visibile, ma necessaria.

      Il problema è che, a volte, il suo comportamento fin troppo eccentrico e sprezzante potrebbe portarvi a vergognarvi di lui, e ad allontanarvi. In questo caso, l’Heatchliff sarebbe portato a farvi vedere la sua parte peggiore di sé: sprezzante, possessiva, gelosa, poco incline a perdonare e a dimenticare.

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      Tipologia C – Il Rhett Butler (Via col vento, Margaret Mitchell)

      (Vedi anche alla voce: potrei ma non voglio, vorrei ma non posso)

      Che strazio i se e i forse! Se non aveste sprecato tempo prezioso sospirando drammaticamente per qualcuno che, in fondo, non sarebbe mai stato quello giusto, forse vi sareste accorte prima di quel Rhett che vi stava accanto, aspettando solo di essere notato da voi.

      Il Rhett non corrisponde allo stereotipo di gentiluomo americano del Sud – anzi. Beve come una spugna, bestemmia come un camionista, non si sottrae mai a una rissa, e, francamente, se ne infischia dell’opinione altrui.

      Non si sdilinquisce in complimenti, dice sempre quello che pensa, è egoista ma generoso al momento opportuno, protettivo dei più deboli (Bella Waitling vi dice qualcosa?), e, udite! udite! Ama i bambini!

      La sua pazienza sconfina nella testardaggine: tuttavia, dopo aver superato un certo limite, francamente se ne infischia. Poco male: domani è un altro giorno, vero?

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      Tipologia D – Il Florentino Ariza (L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez)

      Il Florentino non è un tipo che si fa notare: è quasi insignificante, nascosto sotto un mantello dell’invisibilità di potteriana memoria. Eppure, ha un suo perché: scrive incantevoli lettere d’amore, e si distingue per la sua incredibile tenacia, che lo rende capace di attendere 51 anni, nove mesi e quattro giorni (beh, forse non così tanto: ma ho reso l’idea, no?), sfidando l’odore penetrante delle mandorle amare armato delle sua silenziosa pertinacia.

      wwww

      Tipologia E – Il Willoughby (Ragione e sentimento, Jane Austen)

      Fanciulle, fate attenzione: il Willoughby vi mentirà spudoratamente, negando davanti alla più palese evidenza; vi farà aspettare ore e ore (con conseguenti gastriti e insonnie) una sua chiamata (che non arriverà mai, ovviamente); vi farà credere di essere l’unica (ingenua, che crede che le “telefonate di lavoro” possano arrivare anche dopo mezzanotte). Arriverà perfino a chiedervi un ricciolo da tenere sempre con sé, e a farvi visitare (di nascosto, s’intende) la magione di sua zia che spera di ereditare, un giorno.

      Diciamocela tutta: è insopportabilmente affascinante, ha (o finge di avere) i vostri stessi gusti musicali e letterari, è sempre pronto a farvi da complice quando avete voglia di ridere di voi stesse e degli altri – specie di quel qualcuno timido e un po’ imbranato che cerca di ronzare dalle vostre parti (povero colonnello Brandon).

      Poi non dite che zia Jane non vi aveva messo in guardia: lettrice avvisata, mezza salvata.

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      Tipologia F – Il Rochester (Jane Eyre, Charlotte Brontë)

      Date retta a Charlotte Brontë: non uscite col vostro capo (o collega). Se proprio non riuscite a farne a meno (ah, l’ammmmore), cercate almeno di capire se avete a che fare con Il Rochester.

      Se fa finta di flirtare con fanciulle dal nome pretenzioso (Blanche, dico a te) e il suo comportamento oscilla schizofrenicamente tra il possessivo e il distaccato, è molto probabile che nasconda in soffitta qualche scheletro (o una moglie pazza).

      Tuttavia, se riuscite a fare breccia nel suo cuore di pietra, dirimere i nodi del suo oscuro e tormentato passato e raggiungere con lui un rapporto assolutamente paritario (senza aspettare che, per esempio, perda parzialmente la vista in un incendio per riconoscere che ha bisogno di voi, perché, per dirla tutta, è anche un po’ misogino) allora, lettrici, potreste anche arrivare a sposarvelo.

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      Tipologia G – L’Amleto (Amleto, William Shakespeare)

      V’ama, non v’ama, v’ama, non v’ama. Vi trova fin troppo belle, così belle che l’unico modo per preservare la vostra purezza e onestà è chiudervi in un convento. Ha problemi a casa (e che problemi, tra complesso di Edipo, di Medea, ecc.), il momento non è quello giusto, probabilmente frequenta compagnie (fantasmi) sbagliate (defunte).

      In ogni caso, i suoi problemi esistenziali sono decisamente più grandi di voi due messi insieme. Se passa troppo tempo a parlare da solo con un teschio in mano, non aspettate di fare la fine della dolce e bellissima Ofelia: scappate.

      othello

      Tipologia H – L’Otello (Otello, William Shakespeare)

      Attenti alla gelosia, quel mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre!

      Tutto va bene tra voi; eppure, per qualche oscuro, recondito motivo, L’Otello avverte l’insana necessità di controllare costantemente il vostro telefono (appena vi girate dall’altra parte), giocare al piccolo hacker col vostro account Facebook, chiedere a un amico di sorvegliarvi.

      L’Otello sembra forte, ma ha una personalità molto debole: è facile manipolarlo e convincerlo del fatto che due più due faccia cinque, a scapito della vostra relazione (e della vostra salute mentale).

      Ricordatemi se queste cose finiscono bene, ché ho un’amnesia temporanea.

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      Tipologia I – L’Humbert Humbert (Lolita, Vladimir Nabokov)

      Magari è amore a prima vista, ultima vista, eterna vista, ma lui vi sembra forse lievemente ossessionato dal suo primo amore pre-adolescenziale e non riesce proprio a smettere di parlarne?

      Scappate.

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      Tipologia J : Il Vronskij (Anna Karenina, Leo Tolstoj)

      Il Vronskij non è tipo da tirarsi indietro davanti a una sfida: quando si prefigge un obiettivo, niente può fermarlo. Quando vuole qualcosa, deve averla. Più è difficile ottenerla, più la vuole. Niente e nessuno (che sia un noioso marito burocrate, o una madre desiderosa di farlo sposare per soldi) possono distoglierlo dalla meta prefissa.

      Il fatto che sia estremamente affascinante è innegabile: tuttavia, la sua esteriorità patinata spesso nasconde una personalità narcisistica e superficiale, interessante e profonda quanto i discorsi motivazionali delle candidate a Miss Italia.

      Siete sicure di aver veramente trovato l’anima gemella, e di voler sacrificare tutto per lui?

      Potete leggere questo post in Inglese qui.

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      Versus

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni | 17 Comments | Tagged Amleto, Anna Karenina, aunt jane, Cathy Earnshaw, Charlotte Brontë, Cime tempestose, Emily Brontë, Fanny Knight, Florentino Ariza, Gabo, Gabriel García Márquez, Gone with the Wind, Hamlet, heathcliff, Humbert Humbert, Jane Austen, Jane Eyre, Janeite, L'amore ai tempi del colera, Lev Tolstoj, Lizzie Bennet, Lolita, Margaret Mitchell, Mr Darcy, Ofelia, Otello, Ragione e Sentimento, Rhett Butler, Rochester, Rossella O'Hara, Scarlett O'Hara, Sense and Sensibility, Shakespeare, Via col Vento, Vladimir Nabokov, Vronskij, Willoughby, Wuthering Heights
    • One night (Anna to Vronskij) – a poem

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 3, 2012

      Naked
      pale
      snow-white pale
      under the moonlight

      rain
      tapping gently
      on the window
      soothing me
      reassuring me
      as if
      nothing could ever be wrong
      as if
      at the end of the day
      it was nobody’s fault

      (Nobody deserves to be that unhappy)

      all sins
      washed away
      snow-white clean
      under the moonlight

      you
      standing next to me
      drawing on my bare pale skin
      rainbowloands and moonwalks

      your eyes
      have a cat-like quality
      they are never the same
      iridescent
      lit by the moonlight

      they are autumn leaves
      of glorious gold
      or ocean’s tides
      of sapphire and blue
      or meadows
      gloriously green under the sun

      do they tell the truth
      oh please let them tell me the truth
      under the moonlight
      there can be no liars
      under this moonlight
      there can be no sinners
      under this moonlight
      not rights, nor wrongs

      (Nobody deserves to be that unhappy)

      You see, it is so algid and white and clean
      it washes sins away
      it washes guilt away
      it washes wrongs away
      wiping tears away
      turned into pearls
      by this moonlight

      (Nobody deserves to be that unhappy)

      My bare naked skin
      becomes translucent
      and I
      am not myself anymore
      I am putty in your hands
      under this moonlight
      you can mold me
      under this moonlight
      yon can reshape remake me
      under this moonlight

      (Nobody deserves to be that unhappy)

      right now
      I am all yours
      under this moonlight
      you can even see my soul
      through my translucent skin
      through my transparent bones
      through my effervescent aura
      through my evanescent breath
      under this moonlight

      oh please do not break me
      so pale so fragile so precarious
      under this moonlight
      do not tear me apart
      do not destroy my heart
      under this moonlight

      or I
      will fall apart
      thousand of pieces
      of translucent skin
      in your hands
      under this moonlight.

      (Noboby deserves to be that unhappy)

      No lies
      no sins
      no tomorrows
      under this moonlight.
      It is just you and me
      and our bare naked skin
      translucent
      borderless
      under this moonlight.

      (Nobody deserves to be that unhappy)

      Posted in Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura americana, Ophelinha scrive | 2 Comments | Tagged Anna Karenina, Le notti bianche, Lev Tolstoj, Poetry
    • Aspettando Keira Karenina..rileggendo Anna

      Posted at 11:50 pm04 by ophelinhap, on April 16, 2012

      In trepidante attesa dell’adattamento di Anna Karenina a cura di Joe Wright, con una splendida Keira Knightley…riprendo in mano questo romanzo che tanto amo, e che ho letto in due momenti topici della mia vita, a distanza di dieci anni.
      Adoro Anna. E’ una figura di donna splendida, a tuttotondo, complessa, fragile, coraggiosa, determinata, spaventata. Innamorata dell’amore. Innamorata della vita. Innamorata di suo figlio.

      C’è una frase che amo in particolare, e che per me rivela tutto sul carattere di Anna. In realtà è una condanna feroce, mossale dalla madre di Vrònskij dopo la sua morte:

      No, qualunque cosa diciate, una persona cattiva. Via, che passioni disperate sono queste! E’ sempre un dimostrare qualcosa di speciale. Ecco che lei appunto l’ha dimostrato. ha rovinato sé e due ottime persone: suo marito e il suo sventurato figliolo!

      Questa è Anna e non è Anna al tempo stesso. Lo è perchè lei è così: vuole succhiare il midollo della vita, vuole vivere le passioni fino in fondo, vuole sentirsi viva, viva, viva, di quella vita che tanta vita fa male, di quella vita che scorre per le vene, infiamma il sangue e brucia l’anima.
      Anna non vuole esistere, vuole vivere. Anna non vuole un marito che le sia affezionato e che lei ricambia senza passione, con la forza della quotidianità. Anna vuole essere la più bella in un salone da ballo sotto la luce di un lampadario, nel suo vestito di velluto nero, con le belle braccia bianche tornite e i riccioli neri raccolti.

      Per tutto il romanzo c’è questo parallelismo costante – genialmente ripreso e sottolineato dalla mia amatissima Muriel Barbery ne L’elegance du herisson, L’eleganza del riccio – tra luce ed ombra, bianco e nero, mussoline e velluto. In breve, Anna e Kitty.

      Lo confesso, non provo simpatia alcuna per Kitty. La bella, giovane e viziata principessina Scherbatskaya che, dopo essere stata illusa e respinta da Vronskij, si rifugia nell’affetto di Levin..ma lo ama veramente poi? Levin che pensa costantemente alla morte, Levin che non riesce a provare affetto per il figlio, Levin che venera sua moglie ed è possessivo e geloso, ma la conosce poi veramente?

      No, io parteggio per Anna. Nonostante – e anzi forse a maggior ragione – il tono di condanna che accompagna Anna per tutte le 933 pagine (edizione BUR tradotta da Leone Ginzburg).
      Non sono certamente una critica letteraria, ma la mia impressione è che Anna venga condannata senza appello. Il suo suicidio non è ordito da un fato capriccioso, non si inserisce in uno schema del tipo “La vita finisce dove comincia”, come nell’Edipo Re di Pasolini, in cui il più innocente degli innocenti viene punito per colpe ereditate dai suoi avi. No, è una condanna consapevole, pagina per pagina, parola per parola: Anna sbaglia, Anna pecca, Anna muore. Come dichiara la madre di Vronskij – sempre lei! e non era nemmeno sua suocera! –

      Si, ella è finita come appunto doveva finire una donna così. Persino la morte se l’è scelta brutta e vile.

      Leggendo Anna Karenina,  la domanda che pervade tutte le sue pagine è per me la seguente: l’essere umano ha diritto alla felicità? anche a scapito dell’infelicità di altre persone, delle critiche dei benpensanti, dell’esclusione sociale, della solitudine, della dannazione?
      La vita è una sola e non c’è posto per le seconde possibilità. Meglio sguazzare tra rimorsi o rimpianti?
      Meglio guardare la vita dal finestrino polveroso del treno o scendere da e viverla, anche a scapito di finirci, sotto quel treno?
      Meglio esistere o vivere?

      Anna è già stata punita. E’ una donna mutilata. Ha perso il suo amatissimo bambino, come punizione inflitta da Karenin e dalla sua consigliera (così una vecchia mai stata moglie senza mai figli senza più voglie si prese la briga e di certo il gusto di dare a tutte il consiglio giusto…) e non riesce a trasferire il suo amore materno sulla piccola Anny, figlia di Vronskij.

      Non c’era bisogno di farla schiacciare dalle rotaie. Anna era già a pezzi. Dentro, dove nessuno poteva vederla. Nel suo cuore. Nella sua anima. Nel suo povero amore deluso ed umiliato.

      Anna e Vronskij

      Anna e Karenin

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 21 Comments | Tagged Anna Karenina, Confessions of a Dangerous Mind, In the mood for love, Lev Tolstoj, Literature and Beyond, Movies, Si legge e si racconta di libri
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