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    • Di ispirazione, esordi e Jack London

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 24, 2017

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      Da quasi due mesi a questa parte non riesco a scrivere niente.

      Il 2016 è stato un anno lungo e difficile, puntellato di piccoli e grandi eventi – o non eventi – che mi hanno mio malgrado profondamente segnata, rendendomi più chiusa, più restia, più silenziosa. Facendomi diventare diffidente – degli altri, delle mie e delle altrui parole, dei sentimenti altrui, dei miei sentimenti.

      Mi sono detta e ripetuta che, una volta passato questo lungo e freddo inverno, fatto di cambiamenti poco desiderati, valigie e scatoloni, le parole sarebbero tornate. Sono sempre stata tremendamente meteoropatica, e otto anni di cieli nordeuropei hanno acuito ancora di più la mia tendenza alla malinconia quando il cielo è grigio e a smisurati attacchi di allegra irrequietezza al primo, timido raggio di sole.

      L’arrivo della primavera nordeuropea è stato salutato quest’anno da splendide giornate di sole, ma le parole non sono tornate. Mi sembra di avere un tappo sulla bocca dello stomaco che comprime con forza tutti quei sentimenti e quelle emozioni che nell’arco degli ultimi mesi ho archiviato con cura, seguendo il credo del “ci penserò domani, domani è un altro giorno” (Rossella O’Hara, c’est moi). Forse ho paura di tirarlo via, questo tappo, e di scoprire una sorte di vaso di Pandora; forse sono semplicemente stanca, o soffro di bloggo esistenziale, per citare La Cocchi (a proposito, seguite il suo blog? Se non lo fate, vi consiglio di rimediare).

      In compenso, sto leggendo tantissimo, e, nel tentativo di superare il bloggo, ho cercato un paio di articoli su aspiranti scrittori/scrittori alle prime armi/ esordienti sedotti e delusi dal fascino camaleontico delle parole. Su Letters of Note, fonte di costante ispirazione per gli amanti del genere epistolare (avevamo già letto una bellissima lettera di Steinbeck al figlio, sempre tratta da Letters of Note), ho trovato questa missiva molto tranchant indirizzata da Jack London a tale Max Fedder, che ha avuto l’ardire di propinargli una copia del suo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. La trovate di seguito nella mia traduzione, sperando che contribuisca a farmi (e magari a farvi, se ne avete bisogno) ritrovare l’ispirazione.

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      Oakland, California

      26 ottobre, 1914

      Gentile Max Fedder,

      Rispondo alla sua recente lettera, arrivatami senza data, e restituisco con la presente il suo manoscritto.

      Per iniziare, lasci che le dica che, come psicologo e come qualcuno che c’è passato, ho apprezzato la sua storia per la sua psicologia e per il punto di vista. In tutta franchezza e onestà, non ne ho apprezzato l’attrattiva o il valore letterario. A onor del vero, ha poco valore letterario e praticamente zero fascino. Il fatto che lei abbia qualcosa da dire che potrebbe interessare agli altri non la esime dallo sforzarsi di esprimerla al meglio della forma e del mezzo. Lei ha del tutto trascurato sia mezzo che forma.

      Tornando a quanto stavo dicendo nel paragrafo precedente, cosa ci si può aspettare da un ragazzo di vent’anni, privo di esperienza, in termini di conoscenza del mezzo e della forma? Perdinci, ragazzo, se volesse diventare un abile fabbro avrebbe bisogno di almeno cinque anni di apprendistato. Oserebbe dichiarare di aver dedicato non dico cinque anni, ma almeno cinque mesi al duro, irreprensibile, continuo lavoro di imparare a usare gli strumenti dello scrittore professionale, in grado di vendere le cose che scrive ai giornali e ricevere in cambio un compenso? Ovviamente non può: non l’ha mai fatto.

      Tuttavia, dovrebbe già aver capito che il motivo per il quale gli scrittori di successo vengono pagati così bene è che ben pochi aspiranti scrittori raggiungono la fama. Se sono necessari cinque anni per diventare un fabbro provetto, quanti anni di studio intensificato, concentrato in diciannove ore al giorno cosicché un anno di lavoro duro equivalga a cinque, sono necessari per un uomo di talento e con qualcosa da dire per studiare il mezzo e la forma, l’arte e il mestiere? Quanti anni per fargli raggiungere una posizione tale nel mondo delle lettere da permettergli di guadagnare un migliaio di dollari in contanti ogni settimana?

      Avrà capito il succo del discorso. Se qualcuno vuole sfruttare una stella da 1000 dollari a settimana, in proporzione dovrà lavorare molto più duramente di colui che sfrutta una piccola lucciola da 20 dollari a settimana. L’unica ragione per cui ci sono più fabbri di successo che scrittori di successo è che diventare un abile fabbro è più facile e meno faticoso che diventare uno scrittore famoso. Non è possibile che lei, a vent’anni, abbia già fatto il lavoro necessario per raggiungere il successo con la scrittura. Non ha nemmeno iniziato il suo apprendistato. Ne è prova il fatto che abbia avuto l’ardire di scrivere questo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. Se si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, avrebbe scoperto che storie come la sua non vengono pubblicate sui giornali. Se vuole scrivere per la fama e per i soldi, deve proporre al mercato prodotti che possano essere venduti. Il suo scritto non rientra in questa categoria, e se si fosse preso la briga di andare la sera in una sala di lettura e avesse letto tutte le storie pubblicate sugli ultimi giornali, avrebbe già capito che il suo scritto non si può vendere.

      Ragazzo mio, le parlo dal cuore. Si ricordi una cosa molto importante: il suo ennui dei vent’anni è il suo ennui dei vent’anni. Nel corso della sua vita, attraverserà ben altri periodi di ennui, ancora più complicati. Io ho sperimentato l’ennui dei sedici anni e quello dei vent’anni, e la noia, e l’apatia, lo squallore dell’ennui dei venticinque e dei trent’anni. Eppure sono sopravvissuto, e ingrasso, e sono molto felice, e rido per la maggior parte delle mie giornate. Vede, la mia malattia ha raggiunto uno stadio ben più avanzato della sua. Come superstite che esibisce le cicatrici della battaglia, guardo ai suoi sintomi come a quelli dell’adolescenza.

      Lasci che le ripeta che conosco questi sintomi, ne ho sofferto, e, come nel mio caso, anche lei dovrà subire cose ben peggiori. Nel frattempo, se vuole trionfare ed essere ben pagato, si prepari a lavorare duramente.

      C’è un solo modo di iniziare, ed è fatto di duro lavoro, e pazienza, e preparazione per tutte quelle delusioni che Martin Eden ha dovuto sperimentare prima del successo – che io stesso ho dovuto sperimentare prima del successo – dal momento che ho equipaggiato il mio personaggio fittizio, Martin Eden, delle mie stesse esperienze in quel duro gioco che è la scrittura.

      Se dovesse venire in California, mi farebbe piacere che venisse a farmi visita qui al ranch. Posso aiutarla ad arrivare al nocciolo della questione, e martellarla con quelle cose della vita che probabilmente non ha ancora esperito.

      Suo,

      Jack London

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      Soundtrack: Inside of love, Nada Surf

      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged A Journal of One Who Is to Die, Confessions of a Dangerous Mind, jack london, John Steinbeck, Letteratura americana, Lettere, Letters of Note, martin eden, Max Fedder, vita da blogger, Words
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #20: il Natale di Giacomo Leopardi

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 20, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Francesca de Il Club dei Libri

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      Giacomo Leopardi è uno dei poeti italiani più conosciuti e più amati del suo tempo.

      Nacque a Recanati nel 1798 da una coppia di nobili cugini e, probabilmente per questo e per le infinite ore di immobilità dovute allo studio matto e disperatissimo, il poeta non godrà mai di buona salute. È questa sua condizione, che più volte gli fa credere di essere vicino alla morte, che scatena in lui il pessimismo cosmico per il quale è tanto conosciuto.

      È sempre la sua condizione fisica che lo porta ad allontanarsi da Recanati per climi più favorevoli, come scrive nelle lettere che invia al padre:

      Ma le confesso che con questa stagione il viaggiare mi è insopportabile, ed Ella sa bene come la mia complessione è sensibile e nemica del freddo.

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 25 Dicembre 1825)

       

      Il primo Natale che il Leopardi passa fuori casa è quello del 1822: nel novembre di quell’anno, infatti, si reca, ospite di uno zio materno, a Roma e vi rimane fino all’aprile dell’anno successivo.

      Le feste per il nostro poeta sono ulteriore fonte di tristezza, passate così lontano dalla famiglia, ma egli si tiene costantemente in contatto epistolare con il padre, i fratelli e gli amici e questo gli procura un po’ di leggerezza in cuore.

      In una lettera al padre, discute del tipo di regalo adatto da fare ai suoi ospiti:

      […] io dubito assai che, valendo molto il quadro (come pare anche a me), il dono non sia gettato; […] credo anch’io che il dono d’un quadro sarebbe forse il più a proposito.

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 20 Dicembre 1822)

      palazzo

       

      Dopo aver fatto ritorno a casa nell’aprile del 1823, rimane in terra natia fino al 1825 anno in cui si reca a Milano, invitato dall’editore Stella. L’ambiente culturale però non gli è congeniale e anche il clima è dannoso alla sua salute e così, nel dicembre di quello stesso anno, lo ritroviamo a Bologna dove si mantiene dando lezioni private.

      Il Natale del 1825 porta tristi notizie in quel di Bologna:

      Carissimo Signor Padre.

      Ella può figurarsi con quanto dolore leggo la carissima sua dell’altro ieri che ricevo in questo momento. La bontà del povero Zio e l’amore che mi portava mi fanno dolore della sua perdita fino all’anima.

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 25 dicembre 1825)

       

      Il Natale del 1827 il poeta lo passa a Pisa, dove il clima mite dell’inverno toscano è un toccasana per la sua salute:

      Qui non v’è mai vento, mai nebbia; v’è sempre ombra, come in tutte le città grandi. […] qui per tutto Dicembre abbiamo avuto ed abbiamo una temperatura tale, che io mi debbo difendere dal caldo più che dal freddo.

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 24 Dicembre 1827)

       

      Se però Giacomo è felice per il clima di quel Natale, non lo è altrettanto per quello che la missiva di suo padre gli scrive: il conte, infatti, si aspettava che il figlio passasse a Recanati le festività natalizie e gli scrive una missiva piena di amorosi rimproveri:

      Ella mi riprende dell’aridità delle mie parole, la quale deriva da mancanza di materia, ed è comune a tutte le mie lettere, perché la mia vita e monotona e senza novità. Ella desidererebbe che io vedessi il suo cuore per un solo momento, e a questo proposito mi permetta che io le faccia una protesta e una dichiarazione, la quale da ora innanzi per sempre le possa servir di lume sul mio modo di sentire verso di Lei. Le dico dunque e lo protesto con tutta la possibile verità, innanzi a Dio, che io l’amo tanto teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio alcuno amare il suo padre.

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 25 dicembre 1825)

      leopardi

       

      L’ultimo Natale della sua vita il nostro amato poeta lo passa in una Napoli colpita dal colera che, con la morte di tre impiegati alla posta, causa la mancata consegna delle amate lettere paterne.  Solo l’11 dicembre ne riceve sette, tutte arretrate, insieme a 41 colonnati. Leopardi non se la passa bene, sono sette anni ch’io ho passati fra i giunchi marini e non tra le rose come credono i genitori; vive alla giornata, spesso gli manca il pane e, altrettanto spesso, si è ritrovato in angustie della terribile natura. Inoltre pareva che il colera, a Napoli, fosse passato invece

       

      […] la mortalità è rialzata di nuovo. Io ho notabilmente sofferto nella salute dell’umidità di questo casino nella cattiva stagione.

      […] Mio caro Papà, Iddio mi conceda di rivederla, Ella e la Mamma e i fratelli conosceranno che in questi sette anni io non ho demeritata una menoma particella del bene che mi hanno voluto innanzi, salvo se le infelicità non iscemano l’amore nei genitori e nei fratelli, come l’estinguono in tutti gli uomini. Se morrò prima, la mia giustificazione sarà affidata alla Provvidenza.

      Iddio conceda a tutti loro nelle prossime feste quell’allegrezza che io difficilmente proverò. […]

      (Lettera a Monaldo Leopardi, 11 dicembre 1836)

       

      Al colera napoletano del 1836 Giacomo sopravvivrà, ma morirà nel giugno dell’anno dopo a causa dell’aggravarsi delle sue già precarie condizioni di salute.

      È stata una tragedia la sua morte, ma ci sono rimaste, oltre alla corrispondenza che intratteneva con i suoi cari e gli amici, anche le poesie, le Operette Morali e lo Zibaldone.

      E non mancò nemmeno di scrivere, in tenera età, un componimento sul Natale.

      Per il Santo Natale

       

      Tacciano i venti tutti,

      Del mar si arrestin l’acque,

      Gesù, Gesù già nacque,

      Già nacque il Redentor.

       

      Il Sommo Nume eterno

      Scese dall’alto cielo,

      Il misterioso velo

      Già ruppe il Salvator.

       

      Nascesti alfin nascesti,

      Pacifico Signore,

      Al mondo apportatore

      D’alma felicità.

       

      L’empia, funesta colpa

      Giacque da te fiaccata,

      Gioisci, o avventurata,

      Felice umanità.

       

      Sorgi, e solleva il capo

      Dal sonno tuo profondo;

      Il Redentor del mondo

      Omai ti liberò.

      No più non senti il giogo

      Di servitù pesante,

      Son le catene infrante

      Da lui che ti salvò.

       

      Gloria sia dunque al sommo

      Onnipossente Iddio,

      Guerra per sempre al rio

      D’Averno abitator.

       

      Dia lode e cielo, e terra, 

      Al Redentor Divino,

      Al sommo Re Bambino

      Di pace alto Signor. 

       

      Le lettere e la poesia finale sono tratte da Scrivimi se mi vuoi bene. Lettere e pagine fra Natale e anno nuovo, Interlinea edizioni.

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      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged Francesca Baro, Giacomo Leopardi, Il Club dei Libri, Interlinea edizioni, Lettere, Operette morali, Scrivimi se mi vuoi bene. Lettere e pagine fra Natale e anno nuovo, Zibaldone
    • Rivalità letterarie: Hemingway versus Borges

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 29, 2016
      Hemingway à Cuba

      Ernest Hemingway a Cuba

      “Dear Jorges, my Cuban friend Lino Calvo gave me The Aleph, here in El Floridita, el Catedral del Daiquiri. Sure, dammed good book. They are saying around you are the best writer in Spanish, but you can kiss my ass and you never hit a ball out of the infield in your life. You took LITERATURE too solemnly. You discovered life late. You come down down here and fight for free with an old character like me, who is fifty years old and weighs 209 and thinks you are a shit, Jorges, and would knock you in your ass. HOW DO YOU LIKE IT NOW, GENTLEMEN? Viva El Torre Blanco. Yours sincerely, Papá”.

      (Caro Jorge,

      Il mio amico cubano Lino Calvo mi ha dato una copia de L’Aleph, qui al Floridita, la Cattedrale del Daiquiri. Gran libro, senza ombra di dubbio. Si dice che tu sia il miglior scrittore ispanofono, ma puoi baciarmi il didietro, non sei mai riuscito a colpire una palla fuori dal diamante. Hai preso la letteratura troppo sul serio. Hai scoperto la vita troppo tardi. Sei venuto fin qui per lottare gratis con un vecchio come me, che ha cinquant’anni e pesa 135 KG e pensa che tu sia un poco di buono, e ti prenderebbe a calci nel didietro. Che te ne pare adesso, gentiluomo? Viva El Torre Blanco. Tuo, Papa).

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      Jorge Luis Borges

      Secondo la leggenda, questa deliziosa missiva (nella mia traduzione italiana ho usato un po’ di eufemismi, ma basta dare un’occhiata al testo originale per rendersi conto di quello che intendo) sarebbe stata scritta da un Hemingway estremamente brillo nel marzo del 1950 e ritrovata tra i suoi scritti inediti. Molto più plausibilmente, si tratterebbe invece di uno scherzo letterario elaborato da quel burlone di José Emilio Pacheco, poeta messicano deceduto nel 2014.

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      Pacheco

      In un caso o nell’altro, la lettera, apocrifa o meno, fa venire alla luce la rivalità letteraria tra i due giganti della letteratura americana e ispano-americana, rispettivamente. Una rivalità giustificata da orientamenti politici (Hemingway  aveva appoggiato la Guerra civile spagnola, Borges era fortemente reazionario), ma anche da stili di vita e modi di intendere la letteratura diametralmente opposti.

      Hemingway incarna la figura del macho, donnaiolo, cacciatore, soldato, amante delle corride e dei safari, cultore del buon vino, dei buoni cocktail e del buon cibo (a giugno, nel corso di una brevissima tappa a Valencia, sono andata a mangiare a La Pepica, che preparava la paella preferita di Hemingway, tanto per fare un esempio).

      La Pepica, Valencia

      Borges coltiva invece il mito della figura dell’intellettuale erudito e riservato, il lettore infinito che vive tra biblioteche, libri e conferenze, timido con le donne, austero, discreto. Hemingway è lo scrittore dell’esperienza, Borges è lo scrittore dell’immaginazione; entrambi sono politicamente scorretti (Hemingway è stato più volte internato per manie di persecuzione – era infatti convinto di essere spiato dal FBI, e non a torto, viste le sue simpatie per Paesi con governi di sinistra; Borges, per cui la politica era una de las formas del tedio, una delle declinazioni della noia, è stato più volte accusato di essere fin troppo vicino al regime di Pinochet e al generale argentino Jorge Rafael Videla in opposizione al peronismo – secondo molti, queste infelici affiliazioni gli costarono il Nobel), ma lo esprimono in modi diversi: Hemingway in maniera irruente, rumorosa, impegnata, Borges con un certo distacco da intellettuale che alla fine è lontano dalla res publica, in un mondo di sogni e di parole.
      Ad ogni modo, l’antipatia tra i due era nota a tutti gli intellettuali (come dimostra la burla escogitata da Pacheco): la leggenda vuole che, alla morte di Hemingway, Borges abbia mandato al nemico ormai estinto una corona di fori con il seguente (cattivissimo) messaggio:

      “Hemingway, que era un poco fanfarrón, terminó por suicidarse porque se dio cuenta que no era un gran escritor. Esto, en parte, lo redime”

      (Hemingway, che era un esibizionista, ha deciso di suicidarsi dopo essersi reso conto di non essere poi un grande scrittore. La cosa in parte lo redime).

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      Borges con Videla e Pinochet

       

      Per saperne di più:

      Tutte le donne di Hemingway

      Borges y Hemingway, dal blog Oye Borges (in spagnolo)

       

      Soundtrack: Hemingway, Negrita

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 4 Comments | Tagged Aleph, Ernest Hemingway, Jorge Luis Borges, Jorge Rafael Videla, José Emilio Pacheco, La Pepica, letetratura ispano-americana, Letteratura americana, Lettere, Nobel per la letteratura, Pinochet, Storie dietro la storia, Valencia
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