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  • Tag: Letteratura italiana

    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #15: la festa del ritorno a casa

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 15, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Alessandra di Una lettrice

      libro

      Natale è vicino, ormai. E cosa facciamo noi, gli italiani, a Natale? Torniamo a casa. Qualcuno parte dal nord Europa e scende. Altri partono dal centro e scendono. Alcuni partono da Milano e scendono. Alcuni tornando a casa, salgono. Altri si diramano a est, a ovest. A Natale, torniamo a casa. Cerchiamo di condensare in pochi giorni il desiderio di semplicità, la ricerca della quotidianità, le tradizioni ritrovate, gli echi delle nostre memorie di bambini. Il Natale, in Italia, è la festa del ritorno a casa.

      “Seduti di fronte ad un grande falò acceso nella notte di Natale, sul sagrato della chiesa di un paesino italo-albanese della Calabria, un padre e un figlio, ormai pronto a bere la sua prima birra, rievocano le storie della loro famiglia. Sembra che tutto nasca da quel fuoco crepitante e dallo sciame di scintille sollevate dal vento notturno” scrive il critico Alfonso Berardinelli a proposito de La festa del ritorno, romanzo di Carmine Abate, vincitore del Premio Campiello nel 2004.  La festa e il suo enorme falò rosso fuoco sono solo una cornice, un pretesto per raccontare le vicende di una famiglia come tante.

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      Il padre racconta a Marco della vecchia e nuova famiglia, del primo e secondo lavoro in Francia, della sofferta condizione di emigrante; Marco dice al padre della sua vita,  giunta fino a tredici anni senza la presenza del genitore tranne che per brevi periodi, della festa che i ritorni a casa del padre dalla Francia avevano rappresentato per lui, dei suoi studi, delle loro escursioni nel bosco vicino al paese, delle battute di caccia. È un ritorno reale, che lo scrittore ha vissuto mille volte nella sua vita. In una vecchia intervista, Carmine Abate racconta:

      “L’origine di questa storia è fortemente autobiografica. Il padre emigrato de «La festa del ritorno» è mio padre emigrato. Da bambino ho vissuto il ritorno di mio padre a casa come un evento straordinario; mi ricordo che i suoi ritorni mi riempivano di gioia, sentivo di avere finalmente un padre in carne ed ossa e non un padre di carta e matita, quello delle lettere che arrivavano continuamente a casa. E cambiavo radicalmente quando tornava mio padre. Diventavo sicuro di me accanto a questo padre che, in qualche modo, proteggeva la famiglia e che ti insegnava tante cose, piccole e belle, come per esempio giocare a carte oppure i nomi delle piante quando andavamo in campagna o a sparare con il fucile da caccia. Eppure sapevo dentro di me che prima o poi mio padre sarebbe ripartito. Mi ricordo, e me lo hanno confermato i miei parenti, che quando mio padre ripartiva diventavo feroce. Non lo lasciavo partire, mi aggrappavo alle sue gambe e mi dovevano prendere di forza perché non riuscivano a staccarmi da lui. Il ritorno di mio padre di allora fa il paio con i miei ritorni di oggi al mio paese d’origine, ritorni gioiosi, felici, in cui coinvolgo la famiglie e, da qualche anno, l’intera comunità perché con un gruppo di amici organizziamo ogni anno una festa del ritorno, nel mese di luglio o agosto, quando c’è il maggior numero di emigrati di ritorno dalla Germania”

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      “Se c’è una cosa che mi manca lassù, a parte la mia famiglia, è questa caloria gorgogliante dal fuoco e dalla gente: te la senti fuori e dentro, ti riscalda la vita.” (p.37)

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      Il libro è scritto mescolando italiano e arbëreshe, in un lessico famigliare che arriva al cuore anche di chi non conosce l’albanese antico, parlato in Italia fin dalla fine del 400 da quasi centomila persone che vivono nei paesi arroccati intorno a Piana degli Albanesi, in Calabria.  Raccontando una storia dove i protagonisti provengono da una terra che ha una connotazione linguistica e culturale molto forte (quella degli arbëreshe), Carmine Abate offre una voce a uno dei popoli che compongono l’Italia. E ci rimanda l’eco di un canto corale, non ancora scritto, con la storia di un’Italia, formata da mille popoli, ognuno minoranza a suo modo, legati ognuno alle proprie tradizioni, al proprio lessico famigliare, che emigrano, dal sud a nord del mondo, e che sono tutti accomunati dalla lontananza dagli affetti, dalla famiglia spezzata dalla necessità, dalla festa del ritorno a casa.

      È quasi Natale. E con chi stanno, gli italiani, a Natale? Con la famiglia. Nel romanzo, padre e figlio custodiscono un segreto e poiché nessuno osa confidarlo questo rimarrà tale per molta parte della conversazione. Si tratta di Elisa, figlia per uno e sorella per l’altro.  La vicenda di Elisa, che si scopre nelle ultime pagine, con il suo strano comportamento in casa, avevano per molto tempo turbato i pensieri dei genitori, guastato l’atmosfera famigliare, comportato gravi disagi e pericoli per il padre, coinvolto il fratello; erano divenuti prima il problema della casa ora il ricordo che più d’ogni altro univa i narratori.  Le feste di Natale sono spesso un momento triste e malinconico dove in famiglia si ricorda chi non c’è più e la solitudine e la nostalgia pesano più del solito. Si tende l’orecchio e non si sente più la voce così nota, si indugia con lo sguardo intorno al tavolo, alla ricerca delle assenze, dei vuoti del cuore. Ma alla fine del romanzo e dei loro discorsi padre e figlio si accorgono che è scoccata la mezzanotte, che la festa si è animata maggiormente. Festeggiano con la gioia di chi ha superato un pericolo e spera in un futuro migliore. È Natale.

      Posted in Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, alessandra pagani, Alfonso Berardinelli, arbëreshe, Carmine Abate, Il Calendario dell'Avvento Letterario, letteratura, Letteratura italiana, Libri Mondadori, Premio Campiello, una lettrice
    • ll Calendario dell’Avvento Letterario#17: Manganelli e l’infelicità del Natale

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 17, 2015

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      Questa casella è scritta e aperta da Manuela di Parole senza rimedi, che il 20 dicembre inaugura la sua prima mostra fotografica al Castello di Monasterolo di Savigliano: in bocca al lupo!

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      Quando ero piccola attendevo il Natale con ansia, come ogni bambino del mondo. Ero eccitata, felice, nell’attesa di quel giorno misterioso e elettrizzante che avrebbe portato – la questione era soprattutto quella – i regali che durante l’anno potevo solo sognare.
      Le mie sorelle e mia madre facevano l’albero di Natale fuori, in giardino, o sul balcone, con quelle luci che, da un anno all’altro, non si riaccendevano mai – ricordo quella volta che rischiammo quasi il cortocircuito, per esserci affidate incautamente a un elettricista adolescente che forse, sicuramente, voleva far colpo su una delle mie sorelle. Le lampadine colorate iniziarono a fumare, una esplose.
      Derivò da lì, forse, l’idea che, nonostante le grandi aspettative, nonostante l’ansia per i regali, il Natale non fosse cosa per noi, così disorganizzati e incauti.
      Una delle mie sorelle, poi, alla mia gioia per l’arrivo del Natale, rispondeva sempre, con atteggiamento sprezzante: “il Natale è la festa più malinconica che esista.”
      Lo imparai con gli anni, e mi fermai spesso a riflettere su quanto solo l’attesa fosse scintillante e quanto questi giorni di festa, in realtà, non facessero che amplificare un senso di inquietudine che, pur in forme sempre differenti, torna a visitarmi quasi ogni anno.
      Una specie di solitudine che non saprei spiegare, ma che ho ritrovato, per caso, qualche anno fa nelle pagine di quel libro di Giorgio Manganelli, intitolato “Il presepio”, edito postumo, nel 1992.
      Il primo capitolo del libro, in modo che trovo adorabile nella sua filosofica esagerazione, tratta in modo quasi catastrofico di quella “infelicità natalizia” che, a parole, non sono mai riuscita a dire:

      “Nella città in cui vivo, anzi in tutte le città in cui potrei vivere, sta arrivando il Natale. Alcuni dicono, il Santo Natale. Sebbene la mia vita sia distratta e disorientata, da molti segni, come gli animali, mi accorgo dell’imminenza del Natale. L’irrequietezza agita i miei simili; una sorta di inedita tristezza che si accompagna ad una smania, una torbida cupezza, una litigiosità capziosa, non di rado violenta, ma soprattutto aspramente angosciosa. Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la terra, invade gli interstizi, ci si sveglia il mattino con quel sentimento, discontinuo durante tutto l’anno, che vivere a questo modo pare intollerabile, forse disonesto, una bestemmia. Strano che abbia scelto questa parola, sostanzialmente pia, per descrivere l’infelicità natalizia. E infatti questo avverto, che a differenza della desolazione che direi privata, attraverso la quale passiamo in vari momenti dell’anno, questa è una tetraggine che ha dell’astronomico, come a dire che gli astri sono coinvolti, e forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’universo, e oltre, se si dà un oltre.”

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      A casa mia, in quegli anni, non c’era posto per il presepe. Non ho mai capito se fosse per questioni di spazio o perché non interessasse a nessuno, il fatto è che per anni ho guardato con misterioso sospetto e malcelato interesse a questa rappresentazione casalinga di un momento immobile, così artefatta e meravigliosamente fasulla.
      Giorgio Manganelli scrive ‘Il presepio’; lo inizia e lo termina, senza farne parola con nessuno e, nel viaggio letterario e filosofico nella “macchinazione cosmica” che è il presepe, si fa narratore e quasi teologo, custode e indagatore di quel sentimento di vuoto che proprio nel Natale sprigiona la sua forza invasiva.
      La provocatoria affermazione per cui “Al Natale non si dà fuga, in nessun modo” accompagna un discorso sul presepe e nel Presepe, inteso come teatro del reale ai confini col nulla.
      Manganelli non si limita a osservare il Presepe, vuole entrarci dentro.
      “Io sto macchinando per entrare nel Presepe […] se io entro, io diverrò parte del Natale, capite?”

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      Nessuno si salva dalla lente analitica manganelliana, né la Madre, né tantomeno il figlio, bambino per l’eternità. Si salva, e Manganelli ha per lui uno sguardo quasi pietoso, il padre putativo, “vittima” della macchinazione divina.
      “Ti sei trovato nel centro di una storia che non poteva fare a meno di te, che tuttavia non ti si poteva disvelare del tutto. Per questo te stai come chi tenga d’occhio, ma insieme consapevole che chiunque potrebbe sgridarlo mandare in un angolo a mangiare un pane umile e privo di interesse. […] Ti hanno ringiovanito i tecnici delle immagini, ma in realtà non mi dispiace vedere quanto sei vecchio, deciduo, un po’ malinconico.”

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      Tutti i personaggi, che lo vogliano o no, fanno parte della commedia – o tragedia- dell’inesplicabilità dell’esistere.

      “Già ora mi chiedo, per entrare nel mondo del presepe, mi toccherà staccarmi dal mondo?”

      E si parla anche della cosiddetta “felicità Natalizia”, contraltare di tutta la dissertazione e che, per l’autore non è altro che “una finta e artata letizia”, a coprire con un telo una “smaniosa disperazione”.
      Manganelli trascina il lettore in questo ragionamento e stravolge la tradizione, andando a solleticare quella spina che nient’altro è quel senso appiccicoso di malinconia che invade molti, nell’animo, in questi ultimi giorni dell’anno.

      Lo so, forse esagero. Ma, leggendo questa prosa così ragionata, arguta, perfetta nel suo smascherare errori e orrori della farsa, in effetti, ci si lascia coinvolgere in questa “burla teologica”, per camminare sull’orlo del baratro e dimenticarci un po’ di noi, delle malinconie che, soprattutto in certi anni, pesano un po’ di più sulla bilancia.
      La fine di un lungo periodo, con tutto il suo peso di giorni, gioie e piccoli e grandi dolori; l’inizio di qualcosa di nuovo che non si sa mai.

      Quand’ero piccola attendevo il Natale con ansia. Ora, che sono grande veramente, lo vivo con un sentimento, addosso, come un vestito, che presenta sempre qualche piega, qualche nota stonata. Amo le luci e il freddo che mi gela il naso, riesco a percepire la bellezza in alcuni gesti ma no, io, scusate, quest’anno passo.
      Buona lettura e Buon Natale. A tutti.

      Posted in Letteratura e dintorni | 5 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Adelphi, Giorgio Manganelli, Il Calendario dell'Avvento Letterari, Il presepio, Letteratura italiana, Manuela Bosio, Parole senza rimedi
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