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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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  • Tag: Letteratura inglese

    • Sylvia, Ted e una lettera d’addio lunga un’eternità

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2019

      ted

      C’era una volta una principessa bionda, dalle labbra rosso carminio e dall’accento squillante, dalle cadenze del New England.

      C’era una volta un principe alto, scuro, dal ciuffo perennemente scomposto e dalla voce profonda, dal forte accento dello Yorkshire. Se questa fosse una favola, i due assumerebbero sembianze animalesche: lei sarebbe un cervo, lui diventerebbe un corvo, o una snella e veloce pantera.

      There is a panther stalks me down:
      One day I’ll have my death of him;
      His greed has set the woods aflame,
      He prowls more lordly than the sun.

      (Sylvia Plath, Pursuit)

      Questa non è una favola, anche se contiene tutti gli ingredienti per una perfetta tragedia greca: questioni irrisolte col padre e con la madre, folle passione, tradimento, suicidio, in una sorta di fatale circolo chiuso che ricorda l’Edipo re pasoliniano e l’idea che la vita finisca dove comincia. Ma di vita vera si tratta, pur sempre: quella vita di due poeti, Sylvia Plath e Ted Hughes, così vicini alla loro poesia da farla diventare vita stessa, da far perdere i confini tra biografia e finzione letteraria. Da eternare il dramma biografico in testamento letterario.

      Il mio amore per la bionda poetessa del New England è cosa saputa e risaputa: la lettura di Tu l’hai detto, biografia romanzata di Connie Palmen, mi ha fatto avvicinare, incuriosita ed intimidita – e non senza un pizzico di pregiudizio, alla vita e alle opere del poeta laureato Ted Hughes. Ho scelto come punto di partenza la biografia non autorizzata, curata da Jonathan Bate, e Birthday letters, la raccolta di poesie che Hughes ha dedicato alla Plath e che è stata pubblicata trent’anni dopo la morte della Plath.

      Sbirciando tra le pagine della vita di Hughes, dalla sua infanzia nello Yorkshire al suo – fulmineo e fulminante – incontro con la Plath, dal suo amore per le donne alla passione minuziosa con cui ha studiato Shakespeare, dall’amore per la pesca alla meticolosa traduzioni delle tragedie greche, non ho potuto fare a meno di pensare una cosa: anche io avrei perso la testa per Hughes. Le foto selezionate da Bate lo immortalano col ciuffo ribelle, gli occhi scuri e profondi, l’espressione sorniona: uno sguardo che trasuda intelligenza e ironia, che sembra sfidare l’interlocutore.

      ted-hughes-bresson

      Hughes è legato alla terra, al suo Yorkshire, alla natura, alla vita all’aria aperta, ai misteri e alle necessità del corpo e dell’amore, alle belle donne. Ha un rapporto un po’complesso col fratello maggiore, Gerald, colpevole di essere il preferito della madre e di essere andato via, a vivere in Australia. Ogni volta che Ted torna a casa, ha la sensazione che, con lo sguardo, sua madre gli rimproveri di non essere Gerald. Ha un rapporto strettissimo, quasi morboso, con la sorella Olwyn, una delle principali antagoniste di Sylvia; nel tempo, Olwyn diventerà agente di Ted e curerà con lui il lascito letterario di Sylvia.

      A Cambridge, Ted tinge tutti i suoi vestiti di nero, fa un po’ di bravate, lascia la facoltà di inglese per passare ad antropologia, continua a vivere nel campus anche dopo esserne stato allontanato, ha una serie di ragazze, tra cui l’irlandese Shirley, che frequenta ancora all’epoca del suo incontro fulmineo con la Plath. I due si dichiarano scrivendosi poesie a vicenda.

      Ted racconta la loro prima notte insieme a Londra in una delle poesie di Birthday letters, 18 Rugby street: l’attesa di Sylvia, di passaggio nella capitale inglese prima di partire per Parigi; la scoperta della ragazza, del mistero delle sue labbra piene, da aborigena, del suo naso da Apache, del piccolo mento da pesce (il suo segno zodiacale), del suo viso che è come il mare, eternamente cangiante. Della piccola cicatrice, retaggio degli elettroshock subiti dopo il primo tentativo di suicidio della ragazza. Del suo corpo liscio e sinuoso, da creatura dell’acqua:

      You were a new world. My new world.

      So this is America, I marvelled.

      Beautiful, beautiful America!

      In una lettera a Sylvia dopo la loro notte a Londra, Ted scrive:

      [March 1956] Sylvia, That night was nothing but getting to know how smooth your body is. The memory of it goes through me like brandy. If you do not come to London to me, I shall come to Cambridge to you.

      (Sylvia, quella notte per me non è stata altro che la scoperta di quando il tuo corpo sia liscio. Il suo ricordo scorre in me come brandy. Se non vieni da me a Londra, verrò a Cambridge da te).

      (da Letters of Ted Hughes, edite da Christopher Reid, Faber & Faber)

      1798

      La loro storia d’amore è talmente vorticosa da togliere il respiro: pochi mesi dopo il primo incontro a Cambridge, I due si sposano segretamente (perché Sylvia teme di perdere la sua borsa di studio Fullbright) il 16 giugno, in onore di James Joyce e del suo Bloomsday. Sylvia ha un vestito di lana rosa, Ted indossa la sua giacca tinta di nero. Sotto la pioggia, nel ricordo di Ted, Sylvia diventa di nuovo una figura marina, gli occhi immensi come due gioielli offerti in dono proprio a lui, un improbabile principe azzurro:

      You were tranfigured.

      So slender and new and naked,

      A nodding spray of wet lilac,

      You shook, you sobbed with joy, you were ocean depth

      Brimming with God.

      Dopo un periodo in Inghilterra, i due si trasferiscono in America, dove Sylvia insegna e Ted è libero di dedicarsi alla scrittura. Non ama l’America, Ted, quest’America fuori dalle linee del corpo di Sylvia; brama gli spazi più ristretti e contenuti della sua Inghilterra, i contorni sfumati del suo amatissimo Yorkshire. La coppia torna in Inghilterra, prima a Londra, poi a Court Green, un cottage nel Devon acquistato su insistenza di Ted, una promessa di vita arcadica e idilliaca che preoccupa e spaventa Sylvia, amante delle luci e della vitalità di Londra. Da lì il declino, che inizia con le forme voluttuose di Assia Wewill e culmina nella notte del suicidio di Sylvia.

      L’incubo di quella notte dell’11 febbraio del 1963 viene raccontato da Hughes nei versi di Last letter, la sua ultima missiva a Sylvia, pubblicata postuma. La poesia inizia con una domanda piena d’angoscia (“What happened that night? Your final night?”) e termina col momento in cui a Hughes viene annunciata la morte di Sylvia  (“Then a voice like a selected weapon or a measured injection, coolly delivered its four words deep into my ear: ‘Your wife is dead.’”)

      Secondo Bates, la poesia sarebbe stata ispirata da un litigio della coppia durante quel fatidico fine settimana. Il venerdì mattina, Sylvia manda una lettera concitata a Ted, comunicandogli la sua decisione di lasciare l’Inghilterra e non vederlo mai più. Sylvia pensa che la lettera sarebbe arrivata a Ted solo il giorno dopo, ma, per una volta, il servizio postale la sorprende e la missiva arriva al suo destinatario il venerdì pomeriggio.

      Lettera alla mano, Ted corre a Primrose Hill, all’appartamento di Sylvia. I due litigano, e la poetessa gli strappa la lettera di mano e la brucia, dicendogli di andarsene. Sarebbe stato il loro ultimo incontro.

      Il sabato, Sylvia telefona a Ted da una cabina pubblica, sfidando il freddo glaciale. Ted è con una delle sua amanti, Carol Alliston, nel suo studio a Cleveland street. Sylvia è isterica, e gli chiede di portarla via. Lui le consiglia di stare tranquilla (take it easy, Sylvie). Quando chiude il telefono, dice a Carol che tornare da Sylvia per lui sarebbe come morire.

      Ted passa domenica con la sua amante, ma decide di portarla nello stesso appartamento in cui lui e la Plath avevano trascorso la loro prima notte insieme, sette anni prima, a Rugby street, forse per evitare le telefonate di Sylvia. Lunedì mattina scopre che Sylvia è morta.

      Quella notte, il suono del telefono che dev’essere squillato a lungo nello studio di Cleveland street, l’immagine di Sylvia sola, che, avvolta nel suo cappotto nero, affronta la neve e il gelo per arrivare alla cabina telefonica: tutte immagini e suggestioni che perseguiteranno a lungo Hughes.

      Tuttavia, per la maggior parte della sua carriera, Ted mantiene la sua poesia asettica, impersonale: rifugge dall’uso della prima persona, evita materiali autobiografici, trasforma ogni esperienza, affidandola alla creatività e alle forze dell’’immaginazione. Un altro elemento che lo trattiene è la lettura femminista della vita, delle opere, della morte della Plath: una lettura in cui Hughes diventa spietato carnefice. Verso la fine, ormai ammalato, Ted si convince del fatto che il suo sviluppo creativo, e anche la sua salute mentale e fisica, siano stati danneggiati dal suo rifiuto di affrontare nei suoi versi la morte di Sylvia. Così, nel 1998, decide di pubblicare Birthday letters, una selezione di poesie scritte nell’arco di venticinque anni: il suo modo di congedarsi finalmente dal fantasma di Sylvia, di assolversi, di dirle finalmente tutte quelle cose che erano rimaste in sospeso. Una lettera d’addio lunga venticinque anni, una lettera d’addio lunga un’eternità.

      Posted in Letteratura e dintorni | 14 Comments | Tagged Birthday Letters, Letteratura americana, Letteratura inglese, Olwyn Hughes, Sylvia Plath, Ted Hughes
    • Recensione di Tu l’hai detto: Sylvia Plath, Ted Hughes e Connie Palmen

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 29, 2018

      Il mio amore per Sylvia Plath non è un mistero: è una scrittrice e poetessa complessa e affascinante, una donna forte e fragilissima al tempo stesso, un’abile artigiana che lima i testi fino alla perfezione. Per questo motivo, quando la bravissima Serena del blog Follow The Books- Racconti di una lettrice in viaggio mi ha proposto di lavorare insieme sulla mia ragazza di vetro, ho accettato con grande entusiasmo. Oggi sarà quindi Serena a parlarvi di un romanzo di Connie Palmen, edito da Iperborea, che ripercorre, in chiave romanzata, le tappe della burrascosa, infelice storia d’amore tra Sylvia Plath e il poeta Ted Hughes. Lascio la parola a Serena, buona lettura!

      Tu l'hai detto recensione

      Oggi vorrei parlarvi di Tu l’hai detto, scrivendo la mia recensione del romanzo, e raccontandovi di Sylvia Plath, Ted Hughes e Connie Palmen. Questo meraviglioso romanzo, edito da Iperborea,  è semplice da riassumere: 255 pagine di incanto. Ma andiamo per ordine. Tu l’hai detto di Connie Palmen racconta la relazione amorosa tra Sylvia Plath e Ted Hughes. Entrambi scrittori e poeti, lei americana e lui inglese, sono conosciuti per le loro opere (La campana di vetro è il romanzo più noto della Plath, mentre Hughes ha scritto numerosi libri per bambini, tra cui L’uomo di ferro), e per aver vissuto una delle storie d’amore più tormentate, e tristi, di sempre.

      Cosa si conosce di questa storia? Lei soffriva di depressione, lui la tradiva, lei un giorno prepara la colazione ai bambini e poi infila la testa nel forno e si toglie la vita. Sono la prima ad essere impreparata su Sylvia Plath: ho letto soltanto La campana di vetro, e qualche poesia qui e là. Non ho mai approfondito i suoi diari, o le sue lettere; la sua tesi di laurea né le sue raccolte poetiche; i lavori di critica letteraria o le biografie a lei dedicate. Ma, dopo aver letto Tu l’hai detto, ho intenzione di farlo.

      Connie Palmen racconta dunque la storia di Sylvia Plath e Ted Hughes, ma da un punto di vista molto interessante: quello di lui. Per la prima volta abbiamo accesso a una versione diversa della storia, la viviamo da un’angolazione nuova.

      Tu l'hai detto recensione

      L’incipit del romanzo ci trascina da subito in un vortice inevitabile: non si può lasciare la lettura in sospeso neanche per un secondo.

      Sebbene questa storia vera sia chiaramente romanzata, e in quanto romanzo, si tratti pur sempre di fiction, Connie Palmen ha svolto un lavoro magistrale di ricerca e studio, che traspare da ogni singola parola, tanto da farci credere che sia tutto vero, o quantomeno verosimile.

      Scavando tra le opere di entrambi, approfondendo le biografie e i diari di Sylvia, la Palmen ha ricostruito ricordi, avvenimenti, impressioni e presentimenti, l’animo più intimo dei due protagonisti della sua storia, a partire da qualcosa di reale, qualcosa che loro stessi ci hanno lasciato: le parole delle loro opere.

      Tu l'hai detto recensione

      Un esempio pratico? Oltre ai protagonisti, c’è una presenza costante nel libro, che ci accompagna a partire dalla meravigliosa copertina (oh, la copertina!): una volpe. Per esempio la troviamo in questo passaggio (è Hughes che parla):

      “Studiavo a Cambridge, lingua e letteratura inglese, presumendo erroneamente che quegli studi fossero la base ideale per un poeta. Sbuffavo annoiato alla scrivania, con avversione sempre crescente, sul saggio settimanale in cui per l’ennesima volta vivisezionavo l’opera di uno scrittore. D’un tratto sentii la presenza di qualcuno o qualcosa, dietro di me, che si avvicinava lentamente. Quando mi voltai di lato vidi una volpe, o meglio un uomo magro con la testa di volpe annerita e sanguinante, come fosse appena sfuggita a un incendio. Pietrificato, rimasi seduto aspettando, teso, ma non intimorito. La volpe si avvicinò ancora, alzò la testa fino a incontrare i miei occhi e mi fissò, con sguardo tormentato. Prima che me ne rendessi conto sbatté la mano insanguinata sulla pagina bianca che avevo davanti. Si chinò verso di me e mi sussurrò all’orecchio: “Smettila, ci stai distruggendo.” Poi, com’era comparsa, svanì. Sul foglio rimase la lucida impronta rosso sangue di una mano. Il giorno dopo annunciai in facoltà che avrei lasciato gli studi di letteratura. Passai ad antropologia sociale.”

      Ebbene, questa volpe ritorna con insistenza tra le pagine di Tu l’hai detto.

      Non avendo mai letto nulla di Hughes mi sono incuriosita, e cercando su Google ho trovato che esiste una sua poesia intitolata Pensiero-volpe:

      Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:

      altro è vivo

      oltre la solitudine dell’orologio

      e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.

       Attraverso la finestra non vedo stelle:

      qualcosa più vicino

      sebbene sia più profonda entro l’oscurità

      sta penetrando la solitudine:

      freddo, delicatamente come la neve scura,

      il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia;

      due occhi servono un movimento che adesso

      e ancora adesso e adesso e adesso

      depone chiare tracce sulla neve

      tra gli alberi, e cautamente un’ombra

      storpia si trascina tra ceppi e nell’incavo

      di un corpo che ha l’audacia di giungere

      attraverso radure, un occhio,

      un verde fondo e dilatato,

      brillante e concentrato,

      che se ne viene per i fatti suoi

      sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe

      non penetri la buca nera della testa.

      Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,

      la pagina è tracciata.

      Tu l'hai detto recensione

      Da qualcosa di reale, un testo poetico che possiamo tutti consultare, la Palmen ha creato qualcosa di più, ma in un ordine temporale invertito: ha ricreato, a posteriori, il momento dell’ispirazione, per raccontarci al meglio Ted Hughes: non il poeta, non l’uomo, ma il suo personaggio letterario.

      Tu l'hai detto recensione

      Leggere Tu l’hai detto è stata per me un’esperienza unica, che si è decisamente divisa tra le pagine del libro e lo schermo del cellulare, perché era impossibile, di pagina in pagina, non approfondire con qualche ricerca il contesto letterario dell’opera.

      E poi, forse per deformazione professionale, dal momento che con Follow The Books  io “seguo i libri”, ho trovato altrettanto interessante la ricerca degli itinerari proposti in questo romanzo. Da Boston a Parigi, dalle brulle colline dello Yorkshire a Londra, la valanga di riferimenti e indirizzi ha creato nella mia mente una mappa letteraria che non vedo l’ora di seguire… chissà che non sia l’occasione perfetta per organizzare un altro viaggio, magari con una raccolta di poesie di Sylvia Plath, e un’altra di Ted Hughes, nello zaino.

      Follow The Books- Racconti di una lettrice in viaggio

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    • Una stanza tutta per sé

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 8, 2018

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      Chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero nel corpo di una donna?

      (Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, trad, a cura di J. e L. Wilcock, Feltrinelli)

      Il rapporto tra donne e scrittura è per la Woolf un’equazione complicata, un legame prezioso e fragile: può alludere alle donne e alle loro identità; alle donne e alle storie scritte da loro; alle donne e alle storie scritte su di loro; oppure, può riferirsi alla complessa, labirintica coesistenza di tutti questi fattori.

      Nel suo saggio ‘Una stanza tutta per sé’, Virginia Woolf immagina l’esistenza di Judith Shakespeare, immaginaria sorella del Bardo e aspirante scrittrice.  Che tipo di vita avrebbe condotto Judith? Mentre William si dedicava ai bagordi a Londra, bevendo, amando e succhiando la vita fino al midollo – quella stessa vita che sarebbe diventata poesia – la fittizia Judith, vivace ed estremamente talentuosa, sarebbe rimasta a casa. Nonostante l’intelligenza vivissima, sarebbe stata costretta a dedicarsi alle faccende domestiche, forzata nei ritagli di tempo a sottrarre un libro al fratello ed appartarsi a leggere, nascondendo la sua intelligenza e la sua vocazione teatrale e letteraria.

      Nonostante amasse il teatro tanto quanto il fratello, sarebbe stata respinta e derisa, o, peggio, tacciata di pazzia e stregoneria. Alle donne non era richiesto essere intelligenti, colte, abili con inchiostro e piuma: dovevano essere docili, mansuete, coltivare le virtù casalinghe e sottostare senza ribellioni alla volontà del padre prima, del marito poi. Judith Shakespeare sarebbe stata costretta a sposarsi, senza ‘disìo né voglia’, come recitano i versi struggenti di Compiuta Donzella, forse la prima poetessa italiana: una sconosciuta fiorentina, vissuta nel XIII secolo, della quale ci sono stati tramandati tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco. In uno dei suoi sonetti, A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora, l’infelice donzella lamenta il suo destino infelice: quella stessa primavera che dona gioia e speranza a tutti gli innamorati ha perso ormai per lei ogni colore e attrattiva, perché il padre la costringe a sposarsi.

      A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora

      acresce gioia a tutti fin’amanti,

      e vanno insieme a li giardini alora

      che gli auscelletti fanno dolzi canti;

      la franca gente tutta s’inamora,

      e di servir ciascun tragges’inanti,

      ed ogni damigella in gioia dimora;

      e me, n’abondan marrimenti e pianti.

      Ca lo mio padre m’ha messa ‘n errore,

      e tenemi sovente in forte doglia:

      donar mi vole a mia forza segnore,

      ed io di ciò non ho disìo né voglia,

      e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;

      però non mi ralegra fior né foglia.

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      Forse la fittizia sorella di Shakespeare sarebbe riuscita a sfuggire al suo destino, scappando a Londra e andando incontro a un fato ancora più crudele: ogni teatro le avrebbe chiuso le porte in faccia e sarebbe stata costretta a cercarsi un protettore, che l’avrebbe abbandonata non appena si fosse stancato di lei. Judith avrebbe magari scoperto di aspettare un bambino: sola e priva di mezzi, avrebbe deciso di mettere fine alla sua giovane vita.

      La Woolf conclude, con malinconia e non senza una vena di rabbia, che, nonostante il genio, una donna non sarebbe riuscita a scrivere capolavori affini a quelli di Shakespeare nell’epoca elisabettiana. Non perché fosse meno intelligente o meno dotata o meno ispirata dalle muse capricciose, ma perché donna. La donna vive una contraddizione costante, che si ripete nei secoli: cantata e celebrata in innumerevoli poesie, non ha una voce sua; protagonista di centinaia di commedie, tragedie e storie d’amore – forte, sensuale, ammaliatrice, misteriosa, seducente, innocente, affascinante – non è protagonista delle pagine dei libri di storia, tanto che la Woolf si trova molto limitata nel cercare di ricostruire la vita delle sue antenate aspiranti scrittrici, vissute nei secoli precedenti.

      Le storie di donne sono quasi sempre raccontate da penne e voci maschili: le donne non hanno i mezzi, lo spazio e l’indipendenza necessaria per raccontare la loro storia. Nel corso dei secoli, funzionano da specchi, amplificando la figura dell’uomo, rassicurandolo della sua importanza, proiettandone l’ombra nella storia.

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      Quali sono dunque i motivi che hanno limitato i successi delle donne di penna nel corso dei secoli? La mancanza di indipendenza: indipendenza intellettuale, ma soprattutto indipendenza economica. La mancanza di esperienza: mentre Tolstoj girava il mondo e viveva con gli zingari, scrittrici come le sorelle Brontë e perfino l’emancipata George Eliot vivevano esistenze limitate, piatte, prosaiche, senza frequenti contatti col mondo esterno, guardando la vita accadere senza poi mai viverla veramente. La mancanza di una voce propria, che ha spinto tante scrittrici a operare nell’anonimato: così le sorelle Brontë sono diventate i fratelli Bell, Amantine Aurore Lucile Dupin è diventata George Sand, Mary Anne Evans è diventata George Eliot.

      Alla donna scrittrice, per poter fare il suo lavoro in piena indipendenza, senza ostacoli né limitazioni, serve allora una stanza tutta per sé: un ufficio, uno spazio fisico e mentale all’interno del quale dare libero sfogo alla propria ispirazione e creatività, senza doversi necessariamente preoccupare di stufati e ricami, senza rumori, pianti infantili e continue interruzioni; un reddito di 500 sterline all’anno, per conseguire l’indipendenza necessaria a dedicarsi alla sua arte, senza doversi preoccupare di come tirare avanti; il riconoscimento della sua dignità professionale e artistica; la restituzione, totale ed effettiva, di quella voce che è stata troppo a lungo negata, sminuita, derisa, ignorata, soffocata. Solo così le donne potranno finalmente raccontare le loro storie, custodite gelosamente in attesa che arrivasse il momento giusto per poterle liberare.

       

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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #11: il circolo Pickwick

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 11, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Laura de Il tè tostato

      dickens

      11 Dicembre. Il mio compleanno. Quattordici giorni a Natale.

      Ho ricevuto un regalo in anticipo ed è il più natalizio di tutti, un librone grande e infinito, da leggere sul divano con la coperta sulle gambe, mente brillano le lucine dell’albero. Non ho avuto questa pazienza, però. Non ho aspettato le vacanze, l’ho aperto e divorato a un ritmo di cento pagine al giorno e a volte di più, in queste notti insonni di dicembre.

      Il circolo Pickwick di Charles Dickens, il mio ultimo viaggio in un mondo letterario che non muore mai. Nemmeno quando il libro finisce. Perché Pickwick resta addosso, almeno per un po’.

      Ci sono quattro signori inglesi (un numero molto britannico evidentemente), Augustus Snodgrass (il poeta), Nathaniel Winkler (il presunto sportivo), Tracy Tupman (l’uomo che -pare- piaccia alle donne) e naturalmente Samuel Pickwick (il mio dolce e amabile Pickwick), che nel 1827 attraversano l’Inghilterra descrivendone luoghi e personaggi strani, ed è questa l’attività del circolo, una specie di esplorazione geografica e antropologica. Chiaro è che in ottocento pagine succede di tutto, truffe, amori e nuove amicizie, ma sempre accade che Dickens (l’uomo del mortifero Natale futuro) doni una luce lieta e accogliente allo sguardo dei suoi quattro uomini, di Pickwick in modo particolare. Così, le bizzarrie umane diventano benevoli racconti di un mondo che fu e di una natura che profondamente resta, che sia civettuola, sbadata, fedele, arguta, subdola o disperata. Pickwick osserva tutti con curiosa propensione e con lui Dickens costruisce un percorso lungo e divertente, perché si ride ad alta voce sul quel divano vacanziero con lucine, ma poi, quando arriva il Natale, ci si ferma a leggere di cosa davvero sia quella strana aria frizzate che ci gira intorno. Perché la felicità e il luccichio di dicembre si portano dietro quel dolorino nostalgico che ci fa guardare lucine e nastri rossi già col vuoto di quando saranno smontati, già col pensiero che un altro anno si sta preparando a scomparire per sempre, ed è stato un attimo, e con lui se ne sono andate persone e cose, persone e momenti, persone e sentimenti, ma arriverà altro, che sappiamo mai rimpiazzerà ciò che col 31 dicembre si allontana. Ma arriverà di certo, e sarà di nuovo la nostra vita. Un Natale dietro l’altro, gioia e nostalgia, e Charles Dickens lo racconta meglio di tutti, qui nella traduzione di Marco Rossari, dall’edizione appena uscita per Einaudi:

      Industriosi come api, se non leggeri come piume, i quattro Pickwickiani si riunirono la mattina del ventidue dicembre, nell’anno di grazia in cui si svolsero le loro avventure, qui fedelmente riportate. Natale era alle porte, in tutta la sua schietta e allegra cordialità: era la stagione dell’accoglienza, dell’allegria e della bontà. Come un vecchio filosofo, l’anno passato si apprestava a convocare gli amici intimi al proprio capezzale e, con l’eco dei bagordi e dei brindisi in lontananza, a passare placidamente a miglior vita. Lieta e gioiosa era quella stagione e lieti e gioiosi almeno quattro dei tanti cuori rallegrati dal suo sopraggiungere.

       

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    • La versione di Jane

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 31, 2017

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      Quando si ama molto uno scrittore, si vorrebbe avere la possibilità di conoscerlo meglio, di chiedergli di tutto, di sapere che musica ascoltasse mentre scriveva, cosa provasse davvero nei confronti dei suo personaggi, specie di quelli più detestabili.

      Forse a voi non succede, ma a me piacerebbe entrare in possesso di piccoli dettagli biografici in grado di alimentare infinite conversazioni immaginarie con lui/lei: la ricetta segreta della torta di mele tramandata dalla sua bisnonna; la prima volta che ha avuto il cuore spezzato; il posto che gli/le assomiglia, e in cui si è sentito/a a casa.

      La biografia di Jane Austen è una di quelle che mi interessa e mi affascina di più, anche perché tanti dettagli non possono essere colmati, ma sono affidati all’immaginazione del lettore: non sapremo mai, ad esempio, come sia andata per davvero la sua storia d’amore con Tom Lefroy. Non sappiamo se, a causa sua, Jane abbia sperimentato i tormenti di un cuore spezzato: quella voragine nello stomaco che sembra destinata a non essere colmata mai più; quella sensazione di essere stata spezzata a metà e di non poter più tornare intera; quella paura di non riuscire più a sorridere, a ridere, a sperare, ad aspettare con ansia. A me piace pensare che Tom sia stato il suo grande amore e che non si siano potuti sposare a causa di problemi finanziari (come ho raccontato qui); Manuela Santoni, nella sua graphic novel dedicata a Jane Austen e pubblicata da Becco Giallo, racconta una versione dei fatti un po’ diversa, nel contesto di una lunga lettera scritta da Jane, quarantaduenne e molto malata, all’adorata sorella Cassandra.

      La lettera si apre sui ricordi di una Jane bambina, frustrata dai dettami della società in cui vive, che le impone di saper suonare bene il pianoforte, ricamare abilmente ed essere versata nel disegno per poter essere in grado in futuro di trovare marito. Di fianco all’angelica e obbediente Cassandra, Jane appare come una ragazzina senza spiccate qualità: non eccelle nella musica o nel disegno e odia ricamare. Jane nasconde però un segreto: ogni notte, quando tutti dormono, si chiude nella biblioteca del padre e si lascia trasportare dai libri in giro per il mondo, lontano da quell’angolino d’Inghilterra in cui avrebbe vissuto tutta la vita: il suo amatissimo Hampshire.

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      Crescendo, Jane scopre il suo vero talento: la scrittura, nella quale riversa, analizza e commenta tutto quello che vive, affidandosi al suo acuto spirito di osservazione e alla sua tagliente ironia.

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      Anche l’amore è per Jane un mero esercizio letterario, fino al giorno in cui incontra Tom Lefroy e tutto cambia: scopre un sentimento nuovo e intossicante e rivisita le sue priorità, prendendo in considerazione per la prima volta il matrimonio.

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      Tuttavia, Jane non riesce a rassegnarsi a quella che è la posizione della donna nella società contemporanea, e teme che il matrimonio possa portarle via la sua adorata scrittura, i suoi libri, la sua indipendenza: lascia così sfumare il suo sogno d’amore con Tom, e chiede alla fida Cassandra di distruggere tutte le lettere in cui parla di lui. La Jane raccontata dalla Santoni paga il prezzo della sua libertà di artista con la rinuncia all’amore, e riesce così a scrivere quei sei romanzi perfetti che hanno reso la sua fama di scrittrice – e censore – eterna e imperitura.

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      Jane non ci ha lasciato la sua versione della sua storia d’amore, lasciando noi lettori liberi di immaginarci svolgimenti diversi, anche se il finale resta sempre lo stesso: Jane non si sposa e si consacra alla sua arte. Qualunque sia la versione di Jane e Tom che preferite, la Austen raccontata dalla Santoni (con una nota biografica di Mara Barbuni) è avanti anni luce rispetto ai suoi tempi: curiosa, intraprendente, intelligente, impertinente, bambina e donna ribelle capace di rendere la sua normalissima, forse anche monotona esistenza nello Hampshire di personaggi e storie indimenticabili.

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      Posted in Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged Becco giallo, Cassandra Austen, graphic novel, Jane Austen, Letteratura inglese, Manuela Santoni, Storie dietro la storia, Tom Lefroy
    • Rileggendo i classici #3: la saga dei Forsyte

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 30, 2017

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      La saga dei Fosyte,  capolavoro del premio Nobel  John Galsworthy, abbraccia tre generazioni e una generosa fetta di storia inglese: l’epoca vittoriana, il suo achmé e il suo declino, foriero di un futuro sconosciuto e misterioso, fatto di Labourismo, ascesa della piccola borghesia e altre diavolerie moderne, che mettono a repentaglio uno stile di vita dai confini tracciati col righello, senza mai uscire dai margini.
      Quella dei Forsyte è una famiglia numerosa, i cui personaggi principali emergono però con caparbia determinazione: il vecchio Jolyon, orgoglioso e sentimentale; suo figlio, il giovane Jolyon, dalla natura artistica e dal passato sentimentale tormentato; sua nipote June, una ragazza minuta con un’aureola di capelli biondo rame, testarda come tutti i Forsyte.

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      Su tutti spicca Soames Forsyte, il possidente, “l’uomo di proprietà”, un personaggio facile da odiare, ma che ispira anche un’involontaria pietà. Soames incarna perfettamente lo spirito del tempo, quell’irresistibile necessità di trattenere il passato e il presente senza far spazio a un futuro confuso: un futuro che vede l’Impero a repentaglio,  tra le guerre anglo-boere e la morte dell’immensa regina Vittoria. Un futuro che vede l’alta borghesia dei Forsyte, priva di titoli nobiliari e ancorata nelle proprietà, minacciata dalla piccola borghesia e dalle sue pretese.

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      Quello dei Forsyte è un circolo chiuso, disturbato dagli estranei che entrano a far parte della famiglia senza condividerne l’essenza, lo spirito; fra tutti, la più estranea è la bellissima Irene, che ha sposato Soames per i suoi soldi e lo disprezza con tutto il cuore. Irene non parla mai per se stessa: arriva al lettore filtrata dalle descrizioni e percezioni altrui. Prima che come personaggio o come donna, arriva come zaffata di bellezza: quella stessa bellezza, eterna ed evanescente, che i Forsyte, nonostante le loro ricchezze, non riescono a comprendere, né a possedere, essendo la loro dimensione spirituale soffocata da quella materiale.
      La giovane donna dall’eleganza innata, il portamento eretto e orgoglioso, i capelli dorati e gli occhi di velluto, rimane un mistero per Soames; non lo guarda se non con freddezza e con disprezzo, non gli rivolge la parola se non per rispondere in sussurri forzati.

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      La sua algida indifferenza viene messa a dura prova da Bosinney, affascinante architetto fidanzato con June, cugina aquisita e amica più cara di Irene; I due diventano amanti, e la faccenda fa venire alla luce gli istinti più bassi di Soames, per il quale amare significa possedere.
      Soames non riesce a capire come sia possibile che la bellissima moglie, tutta pizzi e spalle bianche e capelli dorati, possa non appartenergli, di fatto come di diritto; passa notti insonni alla ricerca della chiave che gli permetta di aprire la porta della camera di Irene, sempre chiusa per lui; arriva a usarle violenza, a pretendere con la forza quello che dovrebbe essere suo, perché non c’è niente che un Forsyte non possa comprare.

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      Eppure, Soames è condannato a una vita di solitudine: Irene se ne va e si risposa col cugino, il ribelle Jolyon Jr; la sua seconda moglie, la giovane Annette, adempie al dovere di dargli un figlio e rimane distante e sfocata; perfino l’amatissima figlia, Fleur, finisce per innamorarsi del figlio di Irene e Jolyon, Jon, infilandosi nel cul de sac di una faida familiare che ha poco da invidiare a quello dei Montecchi e dei Capuleti.
      Il triangolo amoroso tra Irene, Soames e Jolyon riflette la vicenda autobiografica dell’autore: Galsworthy brucia infatti di passione amorosa per Ada, moglie di suo cugino Arthur. I due sono amanti per quasi dieci anni, fino alla morte del padre dello scrittore; dopo la sua dipartita, Ada chiede il divorzio e i due possono finalmente sposarsi, allontanandosi però da una società bigotta che guarda di mal grado ai matrimoni finiti.

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      Nonostante tutto, è difficile, nell’arco dei tre romanzi della saga – Il possidente (A man of property);  Nella ragnatela – In chancery, pubblicato anche col titolo Alla Sbarra da Mondadori nel 1939, nella traduzione di Elio Vittorini;  Affittasi (To let) – non provare pietà per Soames, erede dell’abbacinante filosofia dei Forsyte, secondo la quale essere è possedere, amare è possedere, e possedere equivale a non morire. I Forsyte si sentono immortali: provano shock e indignazione quando qualcuno di loro tira le cuoia, ma si consolano pensando al suo ricco testamento, sempre escogitato in modo che i beni siano vincolati ai Forsyte di sangue.

      Tra di loro, Soames si muove con una sorta di ottundimento: non è brutto, non è illetterato, non è zoppo, non è sfigurato, ma non riesce a farsi amare. È ricco, in salute, ha una ricca collezione di opere d’arte, ma non possiede quell’altruistica devozione capace di ammetterlo al cospetto della Bellezza. Perfino la sua devozione per Irene, per Fleur lo condanna alla solitudine: devozione che confonde l’amore col possesso, senza volerlo, senza esserne consapevole.

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      Il mondo solido, robusto, apparentemente intoccabile di Soames si sgretola poco alla volta: con la fuga di Irene e il successivo, lungamente ritardato divorzio; col matrimonio di Irene con Jolyon; con la morte dell’eterna regina Vittoria, il cui funerale segna il tramonto dell’epoca a lei intitolata, che ha sancito le libertà del possidente e ha canonizzato l’ipocrisia di un’intera società; col matrimonio della figlia Fleur, autocondannatasi ad un’unione senza amore dopo aver perso Jon, il figlio di Jolyon e Irene, per colpa di una faida che nessuno riesce a dimenticare.
      Se non sono riuscita a provare simpatia per Irene, arroccata nel suo odio per Soames – non totalmente giustificato – e nell’autocommiserazione, ne ho provata tanta per Soames, l’infelice prodotto di un’epoca ormai al tramonto, il rampollo di una società che ha occultato I suoi valori sotto un velo di ipocrisia e di cupidigia. La sua costante tensione verso l’amore, nell’incapacità di capirlo, e verso la bellezza, nell’impossibilità di avvicinarsi ad essa, lo assolvono dal suo ruolo di cattivo, rendendolo un personaggio straordinariamente vulnerabile ed umano;  a mio parere, uno dei personaggi più belli e meglio riusciti della storia della letteratura.

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      La saga dei Forsyte è completata da due racconti che Galsworthy definisce interludi: L’estate di San Martino, contenuto nella raccolta Cinque racconti (Five Tales) e Risveglio (Awakening), che però non ho letto.
      Ho letto i tre romanzi della saga in inglese; in italiano sono disponibili nella traduzione di Gian Daùli e in quella di Lucio Angelini per Newton Compton (che, a una prima ricerca, sembrerebbe fuori catalogo).
      Le immagini che ho usato per il post sono tratte dalla serie omonima della PBS.

      Soundtrack: Death of a ladies’ man, Leonard Cohen

      Posted in Rileggendo i classici | 7 Comments | Tagged Fleur Forsyte, Forsyte, Irene Forsyte, John Galsworthy, Jolyon Forsyte, June Forsyte, Letteratura inglese, saghe familiari, Soames Forsyte, un classico è per sempre
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #16: i buoni propositi di Jane Austen

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 16, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Erica di La Leggivendola

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      Quando Manuela mi ha chiesto se avessi voglia di prendere parte al Calendario dell’Avvento Letterario, ero contenta come una Pasqua – che detto così sembra tipo “qual è il colmo per una blogger a Natale?”, ma tralasciamo. Ero entusiasta perché è una rubrica che ho adorato la scorsa edizione, e poi perché Manuela mi ha riservato con estrema premura la casella di oggi, quella del 16 dicembre. Per i non iniziati – o non fanatici, vedete voi – il compleanno di Jane Austen.

      Ora, io adoro zia Jane, ma a lungo ho tentennato sul tema. Avevo pensato a un lungo post sul rapporto tra i suoi romanzi e i regali, e stavo spulciando il meraviglioso sestetto in cerca di doni, quando mi è balenata in testa un’idea ben più adeguata e succosa.

      I buoni propositi.

      A Natale siamo tutti più buoni – in teoria – e a fine anno a molti viene da mettersi metaforicamente una mano sull’anima per fare un rendiconto delle azioni e delle malefatte compiute nell’anno che volge al termine. Cosa si può migliorare, cosa si dovrebbe cambiare? Chi abbiamo ferito e come? C’è rimedio?

      Ammetto – e sarò in minoranza – che per me non tutti i difetti sono da rimuovere; certi sono carini e ci rendono quelli che siamo. Ma ci sono anche i cambiamenti importanti, quelli che è vitale fare. La cosiddetta crescita, se vogliamo.

      E trovo che sia uno degli aspetti che Jane Austen aveva più cari quando componeva le sue opere, anche se sicuramente non era al Natale e ai conseguenti buoni propositi che pensava. Ma ci penso io, mia è la casella e mio è il collegamento.

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      Premetto che da qui in avanti saranno presenti numerosi spoiler sui romanzi di Jane Austen; se ancora non li avete letti – male – vi sconsiglio caldamente di leggere innanzi. Piuttosto, correte in biblioteca e abbrancate il primo che vi passa tra le mani.

      Prendiamo i buoni propositi di Elizabeth Bennett e di Fitzwilliam Darcy, anche se già col titolo Orgoglio e Pregiudizio le magagne dei protagonisti sono già abbastanza esplicite. Lizzie evolve enormemente nel corso del romanzo. Fin dalle prime pagine, dai suoi dialoghi con la sorella Jane e l’amica Miss Lucas, è chiaro quanto le venga facile affibbiare giudizi su chiunque capiti a tiro del suo intelletto, basandosi talvolta su fattori ben poco oggettivi, quali la gentilezza dimostrata a lei e alle persone cui tiene. Le è bastata una frase per sancire la sua idea di Mr Darcy, e da quella ha rifiutato di discostarsi a lungo, nonostante i ripetuti tentativi di lui di farsi conoscere e di farle una buona impressione. Lizzie non smuove il proprio pregiudizio, antepone i propri valori alle scelte altrui – come fa col matrimonio di Miss Lucas – e sbaglia, sbaglia terribilmente.

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      D’altro canto, Mr Darcy a inizio romanzo è di una presunzione insopportabile, e non c’è da meravigliarsi se la prima impressione che suscita, non soltanto a Lizzie, sia di pura antipatia. Mr Darcy è stato fortunato a incontrare Lizzie; se non fosse stato così fermamente umiliato dopo la prima dichiarazione – che comunque è un capolavoro di faccia tosta – difficilmente avrebbe avuto la possibilità di guardarsi dentro e di trovare qualcosa che, dopotutto, non gli piaceva. Lo stesso si può dire di Lizzie, comunque. In Orgoglio e Pregiudizio i due eroi cambiano in seguito a un errore madornale e alla conseguente vergogna.

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      Il loro è un cambiamento cosciente, una crescita dovuta che li avvicina alle loro rispettive controparti, alle loro coscienze: la sorella Jane e l’amico Bingley. In una lettera alla nipote Fanny Jane Austen decretava la superiorità del buon carattere rispetto all’intelletto, nel valutare una persona. E ripensando a questa sua personalissima visione dell’umanità, mi viene da pensare che in Orgoglio e Pregiudizio i veri esempi da seguire non siano Elizabeth e Darcy, ma Jane e Bingley. Sono loro i buoni, quelli che fin dall’inizio non fanno danno, ma che finiscono per soffrire per le altrui intromissioni, nonostante facciano un po’ la figura dei manovrabili bonaccioni.

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      Un altro romanzo della sestina in cui l’evoluzione della protagonista riveste una parte fondamentale è Emma, e si tratta anche del titolo austeniano che prediligo. Forse proprio perché la protagonista, all’inizio, è così piena di difetti che non sarebbe strano, rimaneggiando la trama per raccontarla dal punto di vista di Jane Fairfax o di Harriet Smith, vederla come un personaggio negativo. È presuntuosa, calcolatrice, indifferente agli altrui sentimenti, snob. Gioca con la vita delle persone per puro orgoglio; ha deciso di essere un’ottima combinatrice di matrimoni, seppure il caso abbia avuto una parte assai preminente rispetto alle sue azioni nel procurare marito alla sua istitutrice, e dunque si fa portatrice del compito di accoppiare le sue conoscenze. Gioca con la vita di Harriet, già orfana sfortunata, che le solletica l’ego e che tratta alla stregua di un animaletto da compagnia e rischia letteralmente di rovinarle la vita, precludendole un avvenire di gioia e prosperità con un fattore soltanto per la sua classe sociale. Ah, Emma.

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      Emma ha diverse occasioni per cambiare; prima fra tutte la ferita che infligge a Miss Bates durante il picnic, che le procurerà un immediato senso di colpa e una terribile vergogna. Emma non è crudele, ma manca di tatto. L’offesa a Miss Bates colpisce anche lei, e cercherà a suo modo di fare ammenda. L’avrebbe fatto anche senza l’intervento di Mr Knightley, che a fine giornata la mette di fronte alla sua sfacciataggine a agli effetti provocati.

      Emma si rende conto delle mancanze della propria persona anche quando viene a conoscenza della vera storia di Jane Fairfax, che fin dall’inizio ha giudicato malissimo, e quando realizza il danno che ha rischiato di provocare ad Harriet Smith. Sono tutte occasioni di crescita personale, ma vedo qui un punto di somma differenza tra la crescita di Emma e quella di Lizzie e di Mr Darcy.

      Emma viene messa di fronte ai suoi difetti dall’eloquenza di Mr Knightley, l’eroe del romanzo – che un tempo era il mio preferito, ora mi rendo conto che con la protagonista ha instaurato un rapporto non molto paritario di mentore/allieva, e questo mi disturba non poco – mentre Lizzie e Darcy sono soli con la loro vergogna, è qualcosa che non possono scegliere di provare, ma che potrebbero decidere di accantonare, perché nessun altro ne è a conoscenza. Emma ha una coscienza in Mr Knightley e non ci è dato di sapere se sarebbero bastati i suoi errori a farla crescere, in assenza di lui.

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      Persuasione è un romanzo fortemente malinconico; forse non più di Mansfield Park , che ho trovato particolarmente cupo, ma comunque ben lontano dalle atmosfere casalinghe e scherzose di Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento. Anne Elliot ha ventisette anni – a quanto corrisponderebbero ai giorni nostri? – e ha perso l’amore della sua vita – possiamo credere o meno al concetto in sé, ma è quello che zia Jane intende raccontarci, quindi prendiamolo per buono – per via della propria debolezza. La famiglia era contraria al suo legame con il giovane Wentworth, e lei non era riuscita a imporsi né a insistere. Il fidanzamento è stato sciolto, l’amato è andato per mare, e Anne è rimasta sola ad affliggersi per anni, rinchiusa in una bolla di rimpianto e desolazione che l’ha separata dal resto del mondo, rendendola anzitempo una zitella senza speranza. E nel romanzo, ovviamente, cambia, cresce, si rafforza poco a poco. Anche lei prosegue per gradi: c’è la sua decisione di fare visita a una vecchia compagna di scuola nonostante il parere contrario della famiglia; c’è la sua volontà di dire la propria in difesa di sentimenti delle donne che durano a lungo, durante una discussione col Capitano Harville a casa dei Musgrove; e infine, ovviamente, la decisione di accettare la proposta del Capitano Wentworth.

      La crescita di Anne non ricalca esattamente quella compiuta da Emma o da Lizzie; se loro erano motivate al cambiamento dalla vergogna e dall’imbarazzo, Anne è spinta soltanto dal dolore che la propria debolezza le ha provocato. Certo, anche quella debolezza l’avrà fatta vergognare, ma identifico nella sofferenza e nel rimorso la causa della sua rivoluzione interiore.

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      E poi? Poi ci sono Marianne ed Elinor di Ragione e sentimento , che devono imparare l’una dall’altra. L’una impara a carissimo prezzo a non farsi trascinare dalle fantasie e dai sentimenti, l’altra capisce che deve esporsi e rischiare per essere felice. E Fanny di Mansfield Park cosa impara, se non a imporsi, ad anteporre un “no” ai desideri altrui quando cozzano coi propri? E la mia adorata Catherine Morland de L’abbazia di Northanger che scopre la differenza tra i romanzi e la realtà, che non sempre un castello cela un mistero.

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      Non la faccio lunga su questi casi, però. Si tratta sempre di eroine che cambiano nel corso dei rispettivi romanzi, ma non vedo in loro caratteristiche tali da annotare come difetti da risolvere, dunque mi parrebbe poco sensato disquisirne a lungo in un post che vorrebbe trattare le magagne personali e i cambiamenti dettati dai buoni propositi.

      La trattazione è finita – era ora, eh? – e spero di non avervi annoiato. Sicuramente dovrei imparare ad essere un attimo meno prolissa; ma se ben ricordate, all’inizio dicevo che non sempre guardo ai difetti come aspetti da ripulire e risolvere.

      Buone feste, e grazie mille a Manuela per avermi ospitata qui – e per non avermi defenestrata. Lei sa perché. (Risposta di Manuela: ami troppo Jane Austen per essere defenestrata, nel giorno del suo compleanno poi <3)

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #11: Natale con i Cazalet

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 11, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Laura di Il tè tostato

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      E poi arriva il Natale, con l’aria fredda che sembra più pulita, le luci che scintillano perché a dicembre comunque non si rinuncia alla brillantezza, le case che si scaldano, gli alberi colorati che illuminano le finestre, dietro ai vetri un po’ appannati, dove inizia a salire il profumo di cannella e musica di slitte. A Natale più che mai le abitudini sembrano avere un senso e si elevano fino a diventare tradizioni, e i desideri sono quelli del cuore, e ogni famiglia ha tradizioni e desideri suoi. Anche quelle letterarie.

      Elizabeth Jane Howard costruisce la storia dei Cazalet attraverso il secolo breve, raccontando la vita personale della famiglia e insieme quelle del mondo che attraversa il novecento. In Italia sono usciti tre volumi dell’opera ( Gli anni della leggerezza, Il tempo dell’attesa, Confusione) ambientati rispettivamente nel 1937, nel 1939 e nel 1942, e ogni anno, che la guerra stia per arrivare o sia già protagonista, il Natale torna a riempire i pensieri dei personaggi come quelli di tutti noi.

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      A casa dei Cazalet le tradizioni ruotano intorno alla Duchessa e al Generale, i capostipiti della famiglia, che aprono la loro casa, Home Place, a figli, nuore e i nipoti per le vacanze; tuttavia, nel secondo volume, quando l’Europa è a ferro e fuoco, anche il Natale non non è più lo stesso, e si sa che le cose belle a Natale sono magiche, ma quelle brutte diventano drammatiche.

      E la guerra fu la protagonista di qualcuno di quei Natali:

      “Il pensiero del Natale le diede un senso di disagio, di tristezza. Lo aveva trascorso come tutti gli anni a Home Place e, sebbene ognuno facesse del suo meglio perché sembrasse un Natale come gli altri, non lo era stato, ed era difficile dire cosa ci fosse di diverso, almeno in ciò che contava veramente. Ognuno aveva appeso la calza, ma dentro non erano stati messi i mandarini e Lydia aveva pianto credendo che si fossero scordati della sua. Niente mandarini, niente arance, niente limoni, perciò non ci furono le tortine alla crema di limone che la Duchessa faceva sempre il giorno di Santo Stefano: piccole cose che però messe insieme facevano la differenza. La casa poi sembrava più fredda, l’acqua calda scarseggiava perché la caldaia consumava troppo carbone, e la Duchessa aveva messo lampadine a più basso voltaggio per migliorare l’oscuramento, disse, e risparmiare energia elettrica. Peggy e Bertha, le cameriere, si erano arruolate nella WAAF e Billy era andato a lavorare in fabbrica. Il giardino era diverso: non c’erano più le aiuole di fiori, McAlpine adesso ci coltivava le verdure.”

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      Perdere le piccole certezze delle tradizioni espone a grande tristezza, forse addirittura a smarrimento, finché, sul finire del secondo volume, i Cazalet ci regalano ciò che ogni anno dovremmo desiderare, tutti, perché c’è sempre qualcuno che non si bea delle lucine e non sente il profumo di cannella, qualcuno che potremmo amare:

      “Poi si bloccò. Tentò una lista delle cose che le sarebbero piaciute per Natale, ma erano tutte irreperibili; le cose che desiderava accadessero nell’anno a venire: «Che la guerra finisca». C’erano poche speranze: stava invece diventando una guerra sempre più grande, che presto avrebbe coinvolto anche la Cina, l’India, l’Africa, come un’epidemia. Forse le persone che avrebbe potuto amare e che avrebbero potuto amarla stavano morendo in quell’istante. Ogni cosa che le veniva in mente, ogni lista che avrebbe potuto fare, riportavano tutte a quel desiderio. È solo questo che voglio, pensò con tristezza. Non voglio nient’altro.”

      E così con i Cazalet, in questo calendario dell’avvento, aspettando la notte più bella dell’anno, forse per la prima volta profondamente desidero che sia per tutti un Natale di pace.

      Laura

      The Cazalets

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      Posted in Letteratura e dintorni | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Cazalet, Elizabeth Jane Howard, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il tè tostato, Letteratura inglese
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #1: un Natale vittoriano

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 1, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da me medesima

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      Istruzioni per leggere questo post:

      • tirate fuori addobbi e decorazioni natalizie;
      • indossate il il vostro maglione più kitsch, quello con le renne, le lucine e il pupazzo di neve;
      • munitevi di tazzona con cioccolata calda, eggnog o vin brulé, a seconda dell’ora;
      • accompagnate il bibitozzo con una generosa fetta di pandoro, un pezzo di torrone o una mince pie calda;
      • mettete su le vostre canzoni di Natale preferite (la mia playlist preferita è questa)

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      Pronti?

      Il calendario dell’avvento letterario torna a farvi compagnia, regalandovi venticinque giorni di storie, parole, racconti, curiosità letterarie, ricette letterarie, musica.

      Ogni giorno qui sul blog sarà un blogger diverso ad aprire una casella, svelandone il misterioso contenuto. Potere seguirci anche sui social con l’hashtag #AvventoLetterario (su Facebook, Twitter, Pinterest).

      Approfitto dell’occasione per ringraziare tutti i meravigliosi partecipanti e Claudia di A Clacca piace leggere, che ha realizzato il bellissimo banner del nostro calendario.

      Siete pronti? Siete caldi? Vi siete messi comodi?

      Come da tradizione, la prima casella la apro io, trasportandovi nell’Inghilterra del XIX secolo, per scoprire, dopo il Natale Regency, tutto ma proprio tutto sul Natale vittoriano.

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      Se i Vittoriani non hanno inventato di certo il Natale, hanno però il merito di aver contribuito all’idea del Natale che conosciamo e festeggiamo oggi, nel bene e nel male. Grazie ai Vittoriani, il Natale è infatti diventato un momento da condividere con familiari e amici; un momento di riunione, in cui mettere in pausa preoccupazioni e problemi e godere della compagnia reciproca davanti al ceppo (lo yule) acceso nel focolare, senza però dimenticarsi di coloro che non possono permettersi questo lusso o addirittura un tetto sulla testa.

      I Vittoriani hanno definito quelli che oggi sono le caratteristiche principali del Natale inglese (e non solo): il Christmas pudding (che in Regno Unito è un po’ l’equivalente del nostro panettone in quanto a simbolismo), i biglietti di auguri, le pantomime e le sciarade, i cracker (delle mega caramelle di cartone; a tavola, due commensali tirano le due estremità; all’interno sono contenuti giochi di parole e barzellette, una corona di carta e una piccola sorpresa –  tipo il nostro uovo di Pasqua, insomma), la maggior parte dei Christmas carol più famosi, lo stesso Babbo Natale, nel costume e nei colori con cui lo ritroviamo oggigiorno.

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      Albert, il teutonico consorte della regina Vittoria, ha il merito di importare in Inghilterra dalla nativa Germania l’albero di Natale, che diventa subito di moda dopo la diffusione di un ritratto raffigurante la famiglia reale radunata intorno all’albero decorato e illuminato. Il principe Albert introduce a corte anche il mitico gingerbread (pan di zenzero) e altri dolcetti tedeschi che fanno ormai parte dell’immaginario natalizio collettivo.

      Albert importa inoltre l’usanza di scambiarsi i regali in occasione del Natale. Vittoria ed Albert seguono la moda tedesca di aprire i rispettivi regali la sera della vigilia; tra i doni che la regina e il principe consorte si scambiano, una miniatura di Vittoria a sette anni, regalatale dal marito nel 1841, e un libro di poesie di Lord Alfred Tennyson con la seguente dedica: ‘To My beloved Albert from his ever devoted & loving wife VR, Christmas 1859.’ (al mio amato Albert da parte della sua sempre devota ed innamorata moglie VR, Natale 1859). Anche i piccoli di casa aspettano i regali di Natale con ansia, come testimonia questa lettera della regina datata 1850:

      The 7 children were then taken to their tree, jumping and shouting with joy over their toys and other presents: the boys could think of nothing but the sword we had given them and Bertie some of the armour, which however he complained, pinched him.

      (Portammo al loro albero i sette bambini, tra salti e urla di gioia per i giocattoli e gli altri regali; i maschietti non riuscivano a pensare a nient’altro che alla spada che gli avevamo regalato e Bertie all’armatura, nonostante si lamentasse del fatto che lo pizzicasse).

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      L’albero di Natale viene decorato con elaborate decorazioni, per lo più fatte a mano: soldatini di stagno, fischietti, gioiellini, guanti da regalare ai bambini; ghirlande di frutta secca, di pigne, di frutti rossi, di alloro e di edera; fiocchi, fiori di carta dipinti a mano e pigne dorate; stecchi di cannella e arance (al cui interno vengono conficcati chiodi di garofano) per regalare all’albero un profumo tipicamente natalizio; pan di zenzero, caramelle e biscottini a forma di stella, cuore o albero completano il tutto, per la gioia dei bambini. L’albero viene illuminato con delle candeline; le luci elettriche come decorazioni natalizie sarebbero poi state introdotte nel 1882 dall’assistente di Edison, Edward Johnson, a uso e consumo prevalentemente dei ceti più abbienti.

      Dickens, l’altro pilastro portante del Natale vittoriano, ci lascia una vivacissima descrizione di un albero di Natale:

      Stasera sono rimasto a lungo a contemplare l’allegria dei bambini riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l’albero di Natale. L’albero stava nel mezzo di un grande tavolo rotondo e dominava le loro teste. Era illuminato da una moltitudine di piccole candele, e sfavillava e sfolgorava di oggetti luccicanti. C’erano bambole con le guanciotte rosa seminascoste dal verde delle foglie; e orologi veri (o perlomeno, con le lancette mobili e un’infinita possibilità di carica) che pendevano dagli innumerevoli ramoscelli; c’erano tavoli laccati, e sedie, letti, armadi e orologi a pendolo in miniatura, e vari altri articoli d’arredamento in latta realizzati da mani sapienti a Wolverhampton, in bilico tra i rami, come in attesa delle pulizie di casa da parte delle fate; c’erano omarini dal faccione allegro, assai più piacevole di quella di tanti uomini reali – e non c’è da meravigliarsi, perché staccando loro la testa si rivelavano pieni di gelatine di frutta; c’erano grancasse e violini; c’erano tamburelli, libri, cestini da cucito, cassette di colori, scatole di dolciumi e contenitori di ogni genere e forma; c’era della bigiotteria per le ragazzine più grandi, ben più brillante di qualsiasi vero gioiello per adulti; c’erano canestri e puntaspilli di ogni foggia; c’erano fucili, spade e bandiere; c’erano fattucchiere pronte a predire il futuro al centro di anelli incantati di cartone; c’erano trottolini di legno e trottole sonore, astucci per aghi, nettapenne, bottigliette di profumo, supporti per bouquet; c’erano frutti veri, resi artificialmente luccicanti da una pellicola dorata; e mele, pere e noci finte zeppe di sorprese. In breve, come sussurrò un delizioso bambino all’altrettanto delizioso amichetto del cuore di fronte a me, «C’era tutto, e anche di più».

      (Charles Dickes, Un albero di Natale, dalla raccolta Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau, trad. a cura di Vincenzo Perna)

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      L’introduzione dei biglietti d’auguri natalizi spetta invece a Henry Cole, primo direttore del neonato Victoria and Albert Museum. Cole commissiona  il primo biglietto di Natale  all’artista John Horsley, che produce una sorta di trittico: la tipica famiglia vittoriana che celebra il Natale e due scenette laterali che vogliono ricordare ai più fortunati di non dimenticarsi di assistere i poveri e i bisognosi, specie durante le festività. Il biglietto, commissionato nel 1843, va in stampa nel 1846, per un totale di mille litografie, tutte colorate a mano. I biglietti vengono venduti in un negozio di Bond Street, Summerly’s Treasure House. Nel decennio successivo, i biglietti d’auguri conoscono un’enorme diffusione: è tutta una profusione di campane, cupidi, fiocchi di neve e Christmas pudding,  ma la vera protagonista è la rondine, che, col suo petto rosso, diventa il simbolo del Natale vittoriano, tanto che i postini vengono ribattezzati “robin” (rondine) o “redbreasts” (pettirossi).

      Secondo l’Oxford English Dictionary, l’espressione ‘Christmas-card’ compare per la prima volta nel 1883 in uno scritto del critico John Ruskin.

      postman

      robin

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      I regali di Natale cambiano molto a seconda della classe sociale – e delle possibilità – delle famiglie; in ogni caso, molti regali vengono fatti in casa e hanno un valore prettamente sentimentale. Intorno al 1870 si diffonde la consuetudine della calza di Natale, specie per i bambini; nelle case più povere le calze contengono frutta di stagione e frutta secca, in quelle più ricche i regali più in voga: per i maschietti, cavalli a dondolo, animali, trenini, gli antenati dei camion dei pompieri; per le bambine, secondo Harper’s  Bazaar del 1868, il regalo più ambito è un set da tè in porcellana francese, dipinto a mano, seguito da set per la toeletta o per il ricamo (per la serie, gli stereotipi di genere sono duri a morire).

      La cosa che più mi ha fatto sorridere (sempre nel filone degli stereotipi di genere) sono i consigli alle donne per i regali di Natale a mariti/fidanzati/spasimanti (Harper’s Bazaar del 1873): una vera Lady non può fare regali costosi, perché l’uomo si sentirebbe obbligato a ricambiare con un cadeau ancora più importante, quindi il dono perderebbe ogni grazia, rovinato da considerazioni commerciali e del tutto egoistiche (!)

      Le donne devono quindi preparare i regali con le loro manine sante: fazzoletti ricamati con le iniziali o braccialetti di capelli, per un regalo audace e pieno di spirito d’iniziativa; un bouquet di fiori rari, una pianta esotica, un souvenir di viaggio. Fortunatamente, Harper’s Bazaar del 1896 stila una lista per aiutare le povere lady, specie quelle impedite nel DIY come me: sigilli d’argento, portapenne, fermacarte, caraffe di cristallo pari pari a quelle della regina, per lo scapolo che non deve chiedere mai.

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      La cosa bella del Natale vittoriano è che la famiglia è il centro di tutto: ricette, bevande, canzoni, giochi e passatempi sono pensati per stare tutti insieme, al caldo, e godersi la compagnia reciproca. Quasi ogni famiglia possiede un pianoforte, che viene frequentemente usato per serate musicali e danzanti in compagnia di vicini di casa, parenti e amici. Un’altra tradizione è quella di radunarsi intorno al fuoco e raccontare storie, a volte ispirate alla religione, più spesso vicine al gusto tutto vittoriano per fantasmi e misteri, fate e goblin. La prima traduzione inglese delle fiabe dei fratelli Grimm risale infatti al 1823. Non è un caso quindi che la storia di Natale più amata dai Vittoriani sia il Canto di Natale di Dickens, che affida il sempre arduo compito di fare la morale a tre fantasmi, il Natale passato, il Natale presente, il Natale futuro.

      family

      Altri passatempi molto comuni sono pantomime, sciarade e giochi di società, come Questions and commands, una sorta di “obbligo o verità” in cui il comandante può chiedere ai suoi “sottoposti” di rispondere a ogni sorta di domande, pena l’annerimento della faccia o una multa. Tutto questo mentre si aspettano i gruppetti che vanno di casa in casa a cantare i Christmas carol, le tradizionali canzoni natalizie. Ai cantanti vengono offerte bevande calde, come il wassail, fatto di birra ale calda, zucchero, spezie e polpa di mele cotte,  il vin brulé o un bel punch con rum o brandy, al suono di God Rest Ya Merry Gentlemen, The First Noel, The Holly and The Ivy, It Came upon the Midnight Clear, Silent Night e O little Town of Betlehem.

      carolers

      punch

      Spero che quest’incursione nel Natale vittoriano vi sia piaciuta e abbia destato quello spirto natalizio ch’entro vi rugge. Vi consiglio di non perdervi Victoria, la serie di IMDb dedicata alla longeva regina britannica che ha dato il nome a un periodo ricchissimo di storia, arte, cultura, letteratura e tradizioni, e di dare un’occhiata alle letture a cui ho attinto per scrivere il mio articolo:

      The Victorian Christmas, Anne Selby

      Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau

      Dickens at Christmas, Vintage Books

      Vi lascio con una carrellata di calendari dell’avvento alternativi e bizzarri, dal calendario del gin al calendario degli attrezzi per il fai da te, da un calendario per lettori a uno per le barbe o per gli amanti del formaggio, augurandovi un bellissimo dicembre, pieno di gioia, di pandoro, di sorprese.

      Calendari dell’avvento alternativi:

      – Calendario del tè

      – Calendario dell’avvento paleo (?!)

      – Calendario romantico

      – Calendario del vino

      – Calendario del gin

      – Calendario del piccolo chimico

      – Calendario della gentilezza

      – Calendario dell’avvento per lettori

      – Calendario per i feticisti delle porcellane

      – Ispirazione circense

      – Per il tuttofare che c’è in voi

      – Per l’hipster barbuto che c’è in voi

      – Per la fashionista di casa

      – Qualcuno ha detto formaggio?

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      Posted in Letteratura e dintorni | 15 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Anne Selby, Charles Dickens, Edizioni Lindau, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Letteratura inglese, Racconti sotto l'albero, The Victorian Christmas, Un Canto di Natale, Victoria
    • La saga dei Cazalet

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 28, 2016

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      Prima di scrivere questo post, ho preferito finire tutti i capitoli per avere un’idea più completa della saga familiare creata dalla penna (brillante e inglese to the core) di Elizabeth Jane Howard.

      In realtà, devo ammettere che, semplicemente, non sono riuscita a fermarmi. Non mi capitava da tempo (specie perché da mesi sono assorbita da preoccupazioni poco letterarie) di perdermi totalmente in una storia, divisa tra due desideri contrastanti: che il capitolo in lettura finisse presto, per passare al successivo e inseguire le sorti dei miei amati Cazalet, e che i capitoli della saga non finissero mai.

      Ho appena chiuso l’ultimo (All Change, per il momento disponibile solo in inglese – io ho quest’edizione) e non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrimuccia, perché so che i Cazalet mi mancheranno, terribilmente. Con loro si chiude un’intera epoca della storia inglese: quella dominata dalla gentry, da uno stile di vita lento, armonico e raffinato, da ville in campagna per le vacanze e appartamenti a Londra per la season e i balli delle debuttanti, dalla – pressoché – totale incapacità di questa classe sociale di guardare al di fuori della sua propria bolla – e delle convinzioni Tory ereditate dai padri e dai nonni – e di rendersi conto dei problemi, delle sfide, della povertà del resto della nazione.

      Perdonatemi: presa dalla foga, sto iniziando dalla fine, il che non ha molto senso. Facciamo quindi un (bel) passo indietro.

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      Quella dei Cazalet è una saga familiare in cinque volumi, pubblicati tra il 1990 e il 2013 (l’anno prima della morte della Howard). Fazi ha avuto l’ottima idea di portare i Cazalet in Italia, pubblicando i primi tre volumi del ciclo nella traduzione di Manuela Francescon: Gli anni della leggerezza (The light years, 1990); Il tempo dell’attesa (Marking time, 1991); Confusione (Confusion, 1993). Seguono altri due volumi, che Fazi pubblicherà prossimamente: Casting off (1995) e All Change (2013).

      Le vicende narrate vanno dal 1937 al 1958: un ventennio che vede le generazioni di Cazalet succedersi, l’avvento di Hitler, un sanguinoso conflitto mondiale, la disfatta dei Tory e l’affermarsi dei labouristi e un’infinità di cambiamenti economici e, soprattutto, sociali che colpiscono in modo particolare i protagonisti, ricchi imprenditori dediti da decenni al commercio di legname raro e pregiato.

      Per evitare che vi perdiate nella trama familiare dei Cazalet, cercherò di presentarvi i personaggi principali:

      –           il Generale e la Duchessa, capostipiti della famiglia, eredi della rigida morale vittoriana, ostinatamente contrari a ogni tipo di cambiamento;

      –           Hugh, Edward, Rupert e Rachel, figli del Generale e della Duchessa, tutti molto diversi tra loro: Edward è affascinante, ama le belle donne, il buon vino, il buon cibo e la caccia; Hugh, rimasto duramente segnato dalla prima guerra mondiale, nel corso della quale ha perso una mano e a causa della quale soffre di feroci mal di testa, ha ereditato dal padre un rigido senso del dovere e un’inflessibile resistenza al cambiamento, attenuati dall’amore per sua moglie Sybil; Rupert, eternamente indeciso, dal temperamento artistico, ha perso la prima moglie Isobel, morta di parto, e si è risposato con la bellissima Zoë, frivola, vanesia e capricciosa, che fatica a mettersi nei panni di matrigna dei figli di Rupert, Clary e Neville; Rachel, tutta compresa dal suo ruolo di unica figlia femmina che deve prendersi cura dei genitori – un po’ di tutti, in realtà – che nasconde accuratamente il suo amore per l’amica Sid;

      –           Villy (la prima moglie di Edward); Diana, l’amante e poi (insopportabile) seconda moglie di Edward; Sybil, la prima moglie di Hugh, morta di cancro; Jemima, la (dolcissima e minuta) seconda moglie di Hugh; Isobel, la prima moglie di Rupert, morta nel dare alla luce Neville; Zoë, la seconda moglie di Rupert; Sid, l’amica, innamorata e poi amante di Rachel;

      –           Louise, Teddy, Lydia e Roly, i figli di Edward e Villy; Polly, Simon e Wills, i figli di Hugh e Sybil; Laura, la figlia di Hugh e Jemima; Clary e Neville, i figli di Rupert e Isobel; Juliet e Georgie, i figli di Rupert e Zoë.

      Vi risparmio i nomi dei Cazalet di quarta generazione (che trovate principalmente nel quinto e ultimo capitolo della saga) perché vi immagino già persi tra figli di primo e secondo letto; accludo però questo comodo albero genealogico, made in Fazi, per facilitarvi la navigazione.

      albero-genealogico

      Dopo questo (lunghissimo) preambolo, giungiamo al punto: perché leggere (e amare) la saga dei Cazalet? Perché, come spiegavo prima, non si può fare a meno di amarli. Perché la Howard ha una penna magica, capace di far perdere al lettore la cognizione dello spazio e del tempo. Perché offre un affresco storico interessantissimo: la calma prima della tempesta, la vita tranquilla e ordinata prima dello scoppio della guerra, fatta di weekend in campagna, battute di caccia, ricami e acquarelli, piccole e grandi rivalità familiari, amori contrastati, tè del pomeriggio (a proposito, questo libro è una vera e propria miniera di spunti in materia di ricette letterarie); lo scoppio della guerra, la vita con gli uomini al fronte, l’ansia per i propri cari lontani, la paziente disperazione di chi aspetta un padre, un marito disperso, i coupon per il cibo e per i vestiti; crescere durante la guerra, diventare adolescenti e poi donne quando nessuno ha tempo di spiegare la difficile transizione, vivere isolati in campagna, annoiarsi e sognare le mille luci di Londra; innamorarsi per la prima volta, sperimentare sulla pelle (come un taglio profondo, come un’ustione) l’incommensurabile dolore del rifiuto; essere donna in un mondo di uomini, poi di uomini al fronte, in una società che consegna ancora il destino delle ragazze al matrimonio e alla maternità, e trovare il coraggio di inseguire le proprie ambizioni artistiche e letterarie, di sposarsi solo per amore, di divorziare, di seguire il proprio cuore.

      Nel corso dei cinque capitoli ho sviluppato le (inevitabili) simpatie e antipatie per i vari personaggi: se non ho sopportato Edward e Diana, ho amato Polly, Clary, Zoë e Archie, paziente amico di famiglia dell’intero clan (almeno fino all’ultimo libro, quand’è successo qualcosa che ha distrutto un po’ l’immagine di cavaliere senza macchia e senza paura che avevo di lui e l’ha relegato – parzialmente – nella categoria degli #uominichenonsapevanoamare).

      Polly è bellissima, ma non ha una grande considerazione di sé: è afflitta dall’ansia di non avere una vocazione precisa, di non reputarsi particolarmente intelligente o brillante, di non sapere cosa fare della sua vita. Un grande amore non corrisposto – il primo, il più devastante – la allontana da Clary, sua compagna di avventure da sempre, e, se la fa chiudere un po’ in se’, non le fa perdere quella dolcezza e quell’ottimismo che le garantiranno il suo lieto fine, se pur molto diverso da quello che si aspettava.

      Zoë, all’inizio del primo libro della saga, è un personaggio francamente insopportabile: innamorata di se stessa, sgarbata con la madre, petulante col marito Rupert, di cui vuole l’attenzione continua ed esclusiva, insofferente nei confronti di Clary e Neville, ai quali non riesce assolutamente a fare da matrigna. Tuttavia, nel corso della saga, è uno dei personaggi che cresce, cambia e matura di più: attraverso la perdita, il dolore, un grande amore terminato in tragedia, un tradimento dalle conseguenze devastanti, la maternità portata avanti da sola, con Rupert disperso in Francia, Zoë impara l’arte della pazienza, dell’empatia e della comprensione. Smette di guardarsi continuamente allo specchio e inizia invece a guardare (e a vedere) gli altri. Accetta finalmente di essere diventata una Cazalet e si integra perfettamente nel tessuto sociale della famiglia, sviluppando un’inaspettata amicizia con la Duchessa. Cosa più importante di tutte, Zoë impara ad amare; impara anche ad essere umile, a contare solo su se stessa, ad affrontare gli ostacoli, a domare l’arte di perdere. È questo che la rende davvero bella.

      Clary è il mio personaggio preferito in assoluto: è una ragazzina solitaria, che ha perso la madre da piccolissima e poi è costretta ad affrontare anni di angoscia per l’assenza del padre Rupert, disperso in Francia. Non è particolarmente bella, è sempre spettinata, piena di macchie e di cicatrici: ma ha un cuore d’oro, un’anima bella e generosa, un’indole creativa e una fede incrollabile. Aspetta il padre per anni, quando tutti lo credono ormai morto; scrive per anni un diario da consegnargli al suo ritorno e si consola inventando storie fantasiose sulle sue vicissitudini in Francia. Clary non conosce le mezze misure: ama o odia, e si butta a capofitto nelle cose. Si butta a capofitto anche nel primo amore, uscendone ammaccata e depressa; tuttavia, grazie all’aiuto di Archie, che le sta vicino tutta la vita, si rifiuta di farsi sopraffare dal cinismo e si dedica invece al suo primo romanzo. La sua vita non sarà mai perfetta: caotica, disordinata, squattrinata, ma sempre piena d’amore, di generosità e di fiducia nell’altro, anche nei momenti più cupi della sua esistenza.

      I Cazalet mi hanno fatto innamorare, sorridere e piangere insieme a loro, e mi mancano già terribilmente, tanto che il mio fine settimana, tra una zucca e l’altra (sì, adoro Halloween), sarà quasi interamente dedicato alla miniserie che la BBC ha fortunatamente dedicato alla saga familiare (fan di Downton Abbey, c’è anche Hugh Bonneville, nei panni di Hugh Cazalet).

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      Soundtrack: Leaving the table, dall’ultimo (bellissimo) disco del mio amato Leonard Cohen, You Want It Darker)

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      caza

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      Gli anni della leggerezza: La saga dei Cazalet 1

      Il tempo dell’attesa. La saga dei Cazalet: 2

      Confusione. La saga dei Cazalet: 3

      Casting Off: Cazalet Chronicles Book 4 by Jane Howard, Elizabeth (2013) Paperback

      All Change (The Cazalet Chronicle)

      Posted in Uncategorized | 27 Comments | Tagged All Change, Casting off, Cazalet, Confusion, Confusione, Downton Abbey, Elizabeth Jane Howard, Gli anni della leggerezza, Il tempo dell'attesa, Leonard Cohen, Letteratura inglese, Marking time, saghe familiari, The Light Years, You want it darker
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