Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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  • Tag: Letteratura americana

    • Sylvia, Ted e una lettera d’addio lunga un’eternità

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2019

      ted

      C’era una volta una principessa bionda, dalle labbra rosso carminio e dall’accento squillante, dalle cadenze del New England.

      C’era una volta un principe alto, scuro, dal ciuffo perennemente scomposto e dalla voce profonda, dal forte accento dello Yorkshire. Se questa fosse una favola, i due assumerebbero sembianze animalesche: lei sarebbe un cervo, lui diventerebbe un corvo, o una snella e veloce pantera.

      There is a panther stalks me down:
      One day I’ll have my death of him;
      His greed has set the woods aflame,
      He prowls more lordly than the sun.

      (Sylvia Plath, Pursuit)

      Questa non è una favola, anche se contiene tutti gli ingredienti per una perfetta tragedia greca: questioni irrisolte col padre e con la madre, folle passione, tradimento, suicidio, in una sorta di fatale circolo chiuso che ricorda l’Edipo re pasoliniano e l’idea che la vita finisca dove comincia. Ma di vita vera si tratta, pur sempre: quella vita di due poeti, Sylvia Plath e Ted Hughes, così vicini alla loro poesia da farla diventare vita stessa, da far perdere i confini tra biografia e finzione letteraria. Da eternare il dramma biografico in testamento letterario.

      Il mio amore per la bionda poetessa del New England è cosa saputa e risaputa: la lettura di Tu l’hai detto, biografia romanzata di Connie Palmen, mi ha fatto avvicinare, incuriosita ed intimidita – e non senza un pizzico di pregiudizio, alla vita e alle opere del poeta laureato Ted Hughes. Ho scelto come punto di partenza la biografia non autorizzata, curata da Jonathan Bate, e Birthday letters, la raccolta di poesie che Hughes ha dedicato alla Plath e che è stata pubblicata trent’anni dopo la morte della Plath.

      Sbirciando tra le pagine della vita di Hughes, dalla sua infanzia nello Yorkshire al suo – fulmineo e fulminante – incontro con la Plath, dal suo amore per le donne alla passione minuziosa con cui ha studiato Shakespeare, dall’amore per la pesca alla meticolosa traduzioni delle tragedie greche, non ho potuto fare a meno di pensare una cosa: anche io avrei perso la testa per Hughes. Le foto selezionate da Bate lo immortalano col ciuffo ribelle, gli occhi scuri e profondi, l’espressione sorniona: uno sguardo che trasuda intelligenza e ironia, che sembra sfidare l’interlocutore.

      ted-hughes-bresson

      Hughes è legato alla terra, al suo Yorkshire, alla natura, alla vita all’aria aperta, ai misteri e alle necessità del corpo e dell’amore, alle belle donne. Ha un rapporto un po’complesso col fratello maggiore, Gerald, colpevole di essere il preferito della madre e di essere andato via, a vivere in Australia. Ogni volta che Ted torna a casa, ha la sensazione che, con lo sguardo, sua madre gli rimproveri di non essere Gerald. Ha un rapporto strettissimo, quasi morboso, con la sorella Olwyn, una delle principali antagoniste di Sylvia; nel tempo, Olwyn diventerà agente di Ted e curerà con lui il lascito letterario di Sylvia.

      A Cambridge, Ted tinge tutti i suoi vestiti di nero, fa un po’ di bravate, lascia la facoltà di inglese per passare ad antropologia, continua a vivere nel campus anche dopo esserne stato allontanato, ha una serie di ragazze, tra cui l’irlandese Shirley, che frequenta ancora all’epoca del suo incontro fulmineo con la Plath. I due si dichiarano scrivendosi poesie a vicenda.

      Ted racconta la loro prima notte insieme a Londra in una delle poesie di Birthday letters, 18 Rugby street: l’attesa di Sylvia, di passaggio nella capitale inglese prima di partire per Parigi; la scoperta della ragazza, del mistero delle sue labbra piene, da aborigena, del suo naso da Apache, del piccolo mento da pesce (il suo segno zodiacale), del suo viso che è come il mare, eternamente cangiante. Della piccola cicatrice, retaggio degli elettroshock subiti dopo il primo tentativo di suicidio della ragazza. Del suo corpo liscio e sinuoso, da creatura dell’acqua:

      You were a new world. My new world.

      So this is America, I marvelled.

      Beautiful, beautiful America!

      In una lettera a Sylvia dopo la loro notte a Londra, Ted scrive:

      [March 1956] Sylvia, That night was nothing but getting to know how smooth your body is. The memory of it goes through me like brandy. If you do not come to London to me, I shall come to Cambridge to you.

      (Sylvia, quella notte per me non è stata altro che la scoperta di quando il tuo corpo sia liscio. Il suo ricordo scorre in me come brandy. Se non vieni da me a Londra, verrò a Cambridge da te).

      (da Letters of Ted Hughes, edite da Christopher Reid, Faber & Faber)

      1798

      La loro storia d’amore è talmente vorticosa da togliere il respiro: pochi mesi dopo il primo incontro a Cambridge, I due si sposano segretamente (perché Sylvia teme di perdere la sua borsa di studio Fullbright) il 16 giugno, in onore di James Joyce e del suo Bloomsday. Sylvia ha un vestito di lana rosa, Ted indossa la sua giacca tinta di nero. Sotto la pioggia, nel ricordo di Ted, Sylvia diventa di nuovo una figura marina, gli occhi immensi come due gioielli offerti in dono proprio a lui, un improbabile principe azzurro:

      You were tranfigured.

      So slender and new and naked,

      A nodding spray of wet lilac,

      You shook, you sobbed with joy, you were ocean depth

      Brimming with God.

      Dopo un periodo in Inghilterra, i due si trasferiscono in America, dove Sylvia insegna e Ted è libero di dedicarsi alla scrittura. Non ama l’America, Ted, quest’America fuori dalle linee del corpo di Sylvia; brama gli spazi più ristretti e contenuti della sua Inghilterra, i contorni sfumati del suo amatissimo Yorkshire. La coppia torna in Inghilterra, prima a Londra, poi a Court Green, un cottage nel Devon acquistato su insistenza di Ted, una promessa di vita arcadica e idilliaca che preoccupa e spaventa Sylvia, amante delle luci e della vitalità di Londra. Da lì il declino, che inizia con le forme voluttuose di Assia Wewill e culmina nella notte del suicidio di Sylvia.

      L’incubo di quella notte dell’11 febbraio del 1963 viene raccontato da Hughes nei versi di Last letter, la sua ultima missiva a Sylvia, pubblicata postuma. La poesia inizia con una domanda piena d’angoscia (“What happened that night? Your final night?”) e termina col momento in cui a Hughes viene annunciata la morte di Sylvia  (“Then a voice like a selected weapon or a measured injection, coolly delivered its four words deep into my ear: ‘Your wife is dead.’”)

      Secondo Bates, la poesia sarebbe stata ispirata da un litigio della coppia durante quel fatidico fine settimana. Il venerdì mattina, Sylvia manda una lettera concitata a Ted, comunicandogli la sua decisione di lasciare l’Inghilterra e non vederlo mai più. Sylvia pensa che la lettera sarebbe arrivata a Ted solo il giorno dopo, ma, per una volta, il servizio postale la sorprende e la missiva arriva al suo destinatario il venerdì pomeriggio.

      Lettera alla mano, Ted corre a Primrose Hill, all’appartamento di Sylvia. I due litigano, e la poetessa gli strappa la lettera di mano e la brucia, dicendogli di andarsene. Sarebbe stato il loro ultimo incontro.

      Il sabato, Sylvia telefona a Ted da una cabina pubblica, sfidando il freddo glaciale. Ted è con una delle sua amanti, Carol Alliston, nel suo studio a Cleveland street. Sylvia è isterica, e gli chiede di portarla via. Lui le consiglia di stare tranquilla (take it easy, Sylvie). Quando chiude il telefono, dice a Carol che tornare da Sylvia per lui sarebbe come morire.

      Ted passa domenica con la sua amante, ma decide di portarla nello stesso appartamento in cui lui e la Plath avevano trascorso la loro prima notte insieme, sette anni prima, a Rugby street, forse per evitare le telefonate di Sylvia. Lunedì mattina scopre che Sylvia è morta.

      Quella notte, il suono del telefono che dev’essere squillato a lungo nello studio di Cleveland street, l’immagine di Sylvia sola, che, avvolta nel suo cappotto nero, affronta la neve e il gelo per arrivare alla cabina telefonica: tutte immagini e suggestioni che perseguiteranno a lungo Hughes.

      Tuttavia, per la maggior parte della sua carriera, Ted mantiene la sua poesia asettica, impersonale: rifugge dall’uso della prima persona, evita materiali autobiografici, trasforma ogni esperienza, affidandola alla creatività e alle forze dell’’immaginazione. Un altro elemento che lo trattiene è la lettura femminista della vita, delle opere, della morte della Plath: una lettura in cui Hughes diventa spietato carnefice. Verso la fine, ormai ammalato, Ted si convince del fatto che il suo sviluppo creativo, e anche la sua salute mentale e fisica, siano stati danneggiati dal suo rifiuto di affrontare nei suoi versi la morte di Sylvia. Così, nel 1998, decide di pubblicare Birthday letters, una selezione di poesie scritte nell’arco di venticinque anni: il suo modo di congedarsi finalmente dal fantasma di Sylvia, di assolversi, di dirle finalmente tutte quelle cose che erano rimaste in sospeso. Una lettera d’addio lunga venticinque anni, una lettera d’addio lunga un’eternità.

      Posted in Letteratura e dintorni | 14 Comments | Tagged Birthday Letters, Letteratura americana, Letteratura inglese, Olwyn Hughes, Sylvia Plath, Ted Hughes
    • Recensione di Tu l’hai detto: Sylvia Plath, Ted Hughes e Connie Palmen

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 29, 2018

      Il mio amore per Sylvia Plath non è un mistero: è una scrittrice e poetessa complessa e affascinante, una donna forte e fragilissima al tempo stesso, un’abile artigiana che lima i testi fino alla perfezione. Per questo motivo, quando la bravissima Serena del blog Follow The Books- Racconti di una lettrice in viaggio mi ha proposto di lavorare insieme sulla mia ragazza di vetro, ho accettato con grande entusiasmo. Oggi sarà quindi Serena a parlarvi di un romanzo di Connie Palmen, edito da Iperborea, che ripercorre, in chiave romanzata, le tappe della burrascosa, infelice storia d’amore tra Sylvia Plath e il poeta Ted Hughes. Lascio la parola a Serena, buona lettura!

      Tu l'hai detto recensione

      Oggi vorrei parlarvi di Tu l’hai detto, scrivendo la mia recensione del romanzo, e raccontandovi di Sylvia Plath, Ted Hughes e Connie Palmen. Questo meraviglioso romanzo, edito da Iperborea,  è semplice da riassumere: 255 pagine di incanto. Ma andiamo per ordine. Tu l’hai detto di Connie Palmen racconta la relazione amorosa tra Sylvia Plath e Ted Hughes. Entrambi scrittori e poeti, lei americana e lui inglese, sono conosciuti per le loro opere (La campana di vetro è il romanzo più noto della Plath, mentre Hughes ha scritto numerosi libri per bambini, tra cui L’uomo di ferro), e per aver vissuto una delle storie d’amore più tormentate, e tristi, di sempre.

      Cosa si conosce di questa storia? Lei soffriva di depressione, lui la tradiva, lei un giorno prepara la colazione ai bambini e poi infila la testa nel forno e si toglie la vita. Sono la prima ad essere impreparata su Sylvia Plath: ho letto soltanto La campana di vetro, e qualche poesia qui e là. Non ho mai approfondito i suoi diari, o le sue lettere; la sua tesi di laurea né le sue raccolte poetiche; i lavori di critica letteraria o le biografie a lei dedicate. Ma, dopo aver letto Tu l’hai detto, ho intenzione di farlo.

      Connie Palmen racconta dunque la storia di Sylvia Plath e Ted Hughes, ma da un punto di vista molto interessante: quello di lui. Per la prima volta abbiamo accesso a una versione diversa della storia, la viviamo da un’angolazione nuova.

      Tu l'hai detto recensione

      L’incipit del romanzo ci trascina da subito in un vortice inevitabile: non si può lasciare la lettura in sospeso neanche per un secondo.

      Sebbene questa storia vera sia chiaramente romanzata, e in quanto romanzo, si tratti pur sempre di fiction, Connie Palmen ha svolto un lavoro magistrale di ricerca e studio, che traspare da ogni singola parola, tanto da farci credere che sia tutto vero, o quantomeno verosimile.

      Scavando tra le opere di entrambi, approfondendo le biografie e i diari di Sylvia, la Palmen ha ricostruito ricordi, avvenimenti, impressioni e presentimenti, l’animo più intimo dei due protagonisti della sua storia, a partire da qualcosa di reale, qualcosa che loro stessi ci hanno lasciato: le parole delle loro opere.

      Tu l'hai detto recensione

      Un esempio pratico? Oltre ai protagonisti, c’è una presenza costante nel libro, che ci accompagna a partire dalla meravigliosa copertina (oh, la copertina!): una volpe. Per esempio la troviamo in questo passaggio (è Hughes che parla):

      “Studiavo a Cambridge, lingua e letteratura inglese, presumendo erroneamente che quegli studi fossero la base ideale per un poeta. Sbuffavo annoiato alla scrivania, con avversione sempre crescente, sul saggio settimanale in cui per l’ennesima volta vivisezionavo l’opera di uno scrittore. D’un tratto sentii la presenza di qualcuno o qualcosa, dietro di me, che si avvicinava lentamente. Quando mi voltai di lato vidi una volpe, o meglio un uomo magro con la testa di volpe annerita e sanguinante, come fosse appena sfuggita a un incendio. Pietrificato, rimasi seduto aspettando, teso, ma non intimorito. La volpe si avvicinò ancora, alzò la testa fino a incontrare i miei occhi e mi fissò, con sguardo tormentato. Prima che me ne rendessi conto sbatté la mano insanguinata sulla pagina bianca che avevo davanti. Si chinò verso di me e mi sussurrò all’orecchio: “Smettila, ci stai distruggendo.” Poi, com’era comparsa, svanì. Sul foglio rimase la lucida impronta rosso sangue di una mano. Il giorno dopo annunciai in facoltà che avrei lasciato gli studi di letteratura. Passai ad antropologia sociale.”

      Ebbene, questa volpe ritorna con insistenza tra le pagine di Tu l’hai detto.

      Non avendo mai letto nulla di Hughes mi sono incuriosita, e cercando su Google ho trovato che esiste una sua poesia intitolata Pensiero-volpe:

      Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:

      altro è vivo

      oltre la solitudine dell’orologio

      e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.

       Attraverso la finestra non vedo stelle:

      qualcosa più vicino

      sebbene sia più profonda entro l’oscurità

      sta penetrando la solitudine:

      freddo, delicatamente come la neve scura,

      il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia;

      due occhi servono un movimento che adesso

      e ancora adesso e adesso e adesso

      depone chiare tracce sulla neve

      tra gli alberi, e cautamente un’ombra

      storpia si trascina tra ceppi e nell’incavo

      di un corpo che ha l’audacia di giungere

      attraverso radure, un occhio,

      un verde fondo e dilatato,

      brillante e concentrato,

      che se ne viene per i fatti suoi

      sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe

      non penetri la buca nera della testa.

      Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,

      la pagina è tracciata.

      Tu l'hai detto recensione

      Da qualcosa di reale, un testo poetico che possiamo tutti consultare, la Palmen ha creato qualcosa di più, ma in un ordine temporale invertito: ha ricreato, a posteriori, il momento dell’ispirazione, per raccontarci al meglio Ted Hughes: non il poeta, non l’uomo, ma il suo personaggio letterario.

      Tu l'hai detto recensione

      Leggere Tu l’hai detto è stata per me un’esperienza unica, che si è decisamente divisa tra le pagine del libro e lo schermo del cellulare, perché era impossibile, di pagina in pagina, non approfondire con qualche ricerca il contesto letterario dell’opera.

      E poi, forse per deformazione professionale, dal momento che con Follow The Books  io “seguo i libri”, ho trovato altrettanto interessante la ricerca degli itinerari proposti in questo romanzo. Da Boston a Parigi, dalle brulle colline dello Yorkshire a Londra, la valanga di riferimenti e indirizzi ha creato nella mia mente una mappa letteraria che non vedo l’ora di seguire… chissà che non sia l’occasione perfetta per organizzare un altro viaggio, magari con una raccolta di poesie di Sylvia Plath, e un’altra di Ted Hughes, nello zaino.

      Follow The Books- Racconti di una lettrice in viaggio

      Posted in Guestpost e interviste | 8 Comments | Tagged Connie Palmen, Follow The Books- Racconti di una lettrice in viaggio, Iperborea, Letteratura americana, Letteratura inglese, Serena Di Battista, Sylvia Plath, Ted Hughes
    • I diari di Sylvia Plath

      Posted at 11:50 am02 by ophelinhap, on February 11, 2018

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      “Luglio 1950. Forse non sarò mai felice, ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna. Ora capisco come la gente possa vivere senza leggere, senza studiare. Quando uno è così stanco, alla fine della giornata ha bisogno di dormire e il mattino dopo, all’alba, lo aspettano altre fragole da piantare, e così si va avanti a vivere, vicino alla terra. In momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più…”

      Scritti tra il 1950 e il 1962 e pubblicati in Italia da Adelphi nella traduzione di Simona Fefè, i diari di Sylvia Plath sono una testimonianza nuda e diretta della difficile coesistenza della poetessa con se stessa e con le sue molteplici identità, nonché dell’evoluzione del suo rapporto con la scrittura come catartico antidoto al dolore e ricerca di una perfezione che possa penetrare il tempo.

      “La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?”

      Vita e letteratura si intrecciano quasi fino a confondersi, in una precoce ricerca di immortalità: Sylvia ha infatti sempre registrato minuziosamente la sua vita, tanto nelle sue lettere (la cui pubblicazione è stata supervisionata dall’amata-odiata madre-vampiro Aurelia) quanto nei diari, la cui redazione inizia quando Sylvia ha solo undici anni. I diari della maturità vanno dal suo primo anno al prestigioso Smith College (1950) fino alla sua morte.

      Sylvia scriveva sempre come se si rivolgesse a un pubblico ben più vasto del suo diario, di sua madre o degli altri destinatari delle sue lettere: era infatti convinta di essere destinata al successo e che quindi tutti i suoi scritti fossero potenzialmente pubblicabili. Era abituata a essere la prima della classe, a vedere le sue storie pubblicate, a vincere premi e riconoscimenti, non ultimo il prestigioso stage presso la rivista più à la mode del momento, Mademoiselle.

      “Invidio quelle che hanno pensieri più profondi dei miei, che scrivono meglio, che disegnano meglio, che sciano meglio, che amano meglio, che vivono meglio, che sono più belle di me.”

      Non a caso il suo primo episodio di grave depressione (e il suo primo tentativo di suicidio) coincidono con la delusione e il senso di vuoto lasciatole da New York, e dalla mancata accettazione ad una scuola estiva di scrittura creativa ad Harvard (di tutto questo la Plath parla diffusamente nel suo unico romanzo pubblicato, The Bell Jar, La campana di vetro).

      “Oggi molto depressa. Incapace di scrivere. Gli dei sono minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda, in grado solo di provare uno spaventoso torpore vulnerabile. Guardo giù nel caldo mondo terrestre. Nel groviglio di letti di amanti, culle di bambini, tavole apparecchiate, tutto il solito viavai vitale di questa terra, e mi sento estromessa, chiusa dietro una parete di vetro.” (…)

      Sylvia era una ragazza bella e vitale, ansiosa di sperimentare tutte le esperienze che la vita potesse offrirle; amava le persone, adorava essere corteggiata, era consapevole del suo fascino pur vivendo un rapporto conflittuale col suo corpo (si chiedeva spesso se non sarebbe stato meglio per lei nascere uomo, per potersi avvicinare al sesso senza tutte le limitazioni, le inibizioni, i vincoli imposti alle ragazze ancora non sposate).

      The Haunted Reader and Sylvia Plath COVER FINAL

      Tutta la vita di Sylvia, come traspare anche dalle sue poesie (potete leggerne alcune qui, qui, qui) è una lotta per la ricerca di un equilibrio tra l’amore per la vita, per la conoscenza, per la scrittura e la paura di non essere mai abbastanza, la depressione, la malinconia, la mancanza del padre (Otto, venuto a mancare quando Sylvia era ancora piccola, celebrato nella poesia Daddy) e il rapporto conflittuale con la madre, che aveva altissime aspettative e non avrebbe mai – fino alla fine – accettato la fragilità di Sylvia, le sue paure, la sua depressione.

      Sylvia era davvero una ragazza di vetro, andata alla fine a pezzi per il fallimento del matrimonio con Ted (che l’aveva abbandonata per la poetessa Assia), per non essere riuscita a emergere in vita come grande poetessa, ma aver vissuto sempre all’ombra dell’ingombrante marito, per averla abitata veramente, quella campana di vetro (il piccolo appartamento londinese in cui Sylvia avrebbe poi messo fine ai suoi giorni).

      “Frustrata? Sì. Perché non posso essere Dio – o la donna-uomo universale – o una qualsiasi cosa che conti. Io sono quello che provo, penso e faccio. Voglio esprimere il mio essere con tuttala pienezza possibile perché da qualche parte ho scovato l’idea di poter dare un senso alla mia esistenza in questo modo. Ma se devo esprimere ciò che sono ho bisogno di avere un certo livello di vita, un punto di partenza, una tecnica: cioè di organizzare arbitrariamente e provvisoriamente il mio caos personale, minuscolo e patetico. Comincio ad accorgermi di quanto dovrà essere falso e provinciale questo livello, questo trampolino di lancio. È questo che mi è tanto difficile da affrontare.”


      Spesso sento associare la Plath unicamente al suicidio e alla depressione (a tal proposito, vi consiglio la lettura del magistrale articolo di Katie Crouch che trovate in traduzione qui), ma non è affatto così: Sylvia era una ragazza sana e vitale, che amava la natura e il mare, amava sentire il sole sulla pelle, amava piacere e uscire con diversi beaux.

      casa

      Il suo diario è il diario di una ragazza che ha lottato tutta la vita per essere felice, ma ha dovuto soccombere al peso del suo stesso genio. La ragazza di vetro, la ragazza che voleva essere Dio e controllare la morte, sorgendo dalla cenere con i suoi capelli rossi e divorando gli uomini come se fossero aria, la poetessa appassionata, la studentessa ammalata di perfezionismo, la moglie innamorata, la madre combattuta, la Sylvia bionda e la Sylvia bruna: tutte queste identità non riescono a convivere pacificamente e implodono tragicamente.

      “Per me il presente è l’eternità e l’eternità è sempre in movimento, scorre, si dissolve. Questo attimo è vita. E quando passa, muore. Ma non si può ricominciare a ogni nuovo attimo, ci si deve basare su quelli già morti. È un po’ come le sabbie mobili… senza scampo fin dall’inizio. Un racconto, un quadro possono far rivivere un poco la sensazione, ma mai abbastanza, mai abbastanza. Niente è reale, eccetto il presente, e io mi sento già soffocare sotto il peso dei secoli. Un centinaio di anni fa una ragazza ha vissuto come vivo io. Poi è morta. Io sono il presente, ma so che anch’io me ne andrò. L’istante sublime, la fiamma che consuma arriva e subito scompare: sabbie mobili, sempre. E io non voglio morire.”

      ps

      Bibliografia:

      Diari, Sylvia Plath, Adelphi edizioni, traduzione di Simona Fefè

      Pain, Parties, Work: Sylvia Plath in New York, Summer 1953, Elizabeth Winder, Harper

      La grande estate: Sylvia Plath a New York, 1953,  Elizabeth Winder, trad. a cura di Elisa Banfi, Guanda

      Letters Home: Correspondence, Sylvia Plath, Faber&Faber

      Quanto lontano siamo giunti. Lettere alla madre, Sylvia Plath, trad. Di M. Fabiani, Guanda

      Per saperne di più:

      – Immensamente Sylvia Plath

      – Sylvia Plath, la donna senza voce

      – Sylvia Plath, solitudini e moltitudini

      – Sylvia Plath tra poesia e mito

      – The Bell Jar. Dentro la campana di vetro di Sylvia Plath

      – Making sense of suicide with Sylvia Plath: un articolo di Katie Crouch

      Soundtrack: Clem Snide – No One’s More Happy Than You

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 4 Comments | Tagged Adelphi, diari, La campana di vetro, Letteratura americana, Sylvia Plath, The Bell Jar
    • Il Calendario dell’Avvento letterario 19: elogio della gentilezza

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 19, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Celeste di Una stanza tutta per me

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      Forse uno degli spot più famosi d’Italia, quello della Bauli per il pandoro natalizio, è rimasto in testa un po’ a tutti quelli che hanno acceso la televisione nell’ultimo decennio: “A Natale puoi, fare quello che non puoi fare mai […]è Natale e a Natale si può dare di più”, così canta un coro di adorabili bambini.

      Ora: giusto e sbagliato che sia, io ho sempre avuto un debole per questa patetica opera di marketing, ed il motivo credo sia proprio il richiamo subdolo ad essere di più. Per me questo dare di più era sintomo di altruismo e gentilezza, in un momento dell’anno in cui si può regalare pochi attimi di gioia e un tanto di tempo e affetto alle persone a cui vogliamo bene, la Bauli ti dice che si può dare di più, e lo si può fare proprio a Natale.

      E, cara Bauli, mi tocca darti ragione. Mi avvalgo dell’aiuto di due maestri americani, David Foster Wallace e George Saunders, che rispettivamente nel 2005 e 2013 hanno trasformato un discorso per i laureati di due diversi college in piccoli trattati di filosofia, che hanno poi trovato la loro edizione cartacea: “Questa è l’acqua” per Foster Wallace e “L’egoismo è inutile” quella di Saunders.

      È incredibile e potenzialmente magico che entrambi gli scrittori abbiano reputato importante concentrarsi sulla gentilezza, recitando prima di tutto un mea culpa. Il fatto è che essere gentili e altruisti tutti i giorni non è facile, è anzi quasi impossibile. La vita è piena di fastidi, grandi o piccoli, e di ostacoli che sommati insieme ci sembrano insopportabili; abbiamo l’innata tendenza all’egocentrismo che non si scrolla di dosso nemmeno piangendo.

      In Questa è l’acqua, David Foster Wallace la descrive così: “Tutto nella mia esperienza diretta corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo, la persona più reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente questa formadi naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è disgustosa anche se,sotto sotto, ci accomuna tutti.”

      George Saunders, in L’egoismo è inutile, rincara la dose: “Ognuno di noi viene al mondo con una serie di equivoci congeniti che probabilmente sono di origine darwiniana. Ovvero (1) noi siamo al centro dell’universo (cioè, la nostra storia personale è la più importante e la più interessante, anzi, l’unica che conti) […] campiamo di queste cose, che ci spingono ad anteporre i bisogni personali ai bisogni degli altri, anche se ciò che vogliamo davvero […] è essere meno egoisti.”

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      Diciamolo, liberiamoci di questo peso: sì, siamo egoisti. Siamo noi stessi, e nessun’altro può aver idea di cosa significhi vivere nei nostri panni. Abbiamo problemi che affrontiamo in prima persona, subiamo perdite, momenti stressanti e periodi bui; per noi è importante star bene e far di tutto per assicurarci di non dover soffrire.

      Vogliamo essere ancora più onesti? Alle volte l’egoismo è necessario, può essere la condizione che ci permette di abbandonare situazioni distruttive per il nostro bene; l’egoismo, a volte, è positivo.

      L’egoismo – e la gentilezza, di conseguenza – di cui sto parlando, però, è di una natura più subdola, è quella quotidiana, quella che ormai passa in sordina. Ovviamente Foster Wallace la descrive meglio di quanto mai potrei fare io:

      “Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti […] il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e giú di corda ogni volta […], perché la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino. E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo […] Certo che è proprio un’ingiustizia […] se gli studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale, posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv,[…] che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti.”

      E adesso, in tutta onestà, non siamo forse tutti noi, questi descritti? Il mattino adesso è freddo, a volte piove, tutti vanno a lavoro. Se nevica, le strade si bloccano. I trasporti non funzionano, gli scioperi ci sono sempre quando proprio non ce lo meritiamo. E suoniamo i clacson, camminiamo battendo i piedi con forza per mostrare disappunto, sbuffiamo abbassandoci sotto l’ombrello altrui borbottando come una pentola a pressione. In più, i centri storici sono impraticabili: tutti a fare i regali, i turisti, il ponte dell’Immacolata. Ma tutti all’ultimo, questi regali? Beh:

      “Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale.” ammette Foster Wallace.

      Adesso mi spiego meglio: nella vita cerco di essere gentile, ma a Natale un po’ di più. E’ un’occasione per ricordare e ricordarci quanto renda felice essere altruisti, senza indugiare in “malinconie inessenziali”, come le chiamava Calvino. Diciamo che sarebbe bello sfruttare questo momento propizio per impegnarsi a uscire dal proprio mondo individualistico e pensare.

      Cosa pensare, dunque? “Posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e sofferta della mia.” suggerisce sempre Foster Wallace. Se scegliete di riflettere, allora “Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla.”

      Da quando ho letto questi passaggi, sono rare le volte in cui mi trovo ingrovigliata nel traffico e non penso a David Foster Wallace. D’altronde, quella mentalità predefinita cosa mi porta? Stress e nervosismo, che non fa altro che aggiungersi a quello già accumulato dal mondo.

      Quello che è vero, d’altra parte, è che siamo tutti ingrovigliati nel traffico, al freddo, sotto Natale; che da una parte se ci pensate, è veramente quasi poetico.

      Vi voglio augurare qualcosa, per questo periodo dell’anno forse più stressante che gentile: un Natale pateticamente felice e gentile, adornato da momenti in cui il nostro egocentrismo riesce a mettersi da parte. Ma vi auguro soprattutto di tornare con il pensiero a Foster Wallace quando sarete in coda al supermercato.

      “Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi […], ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.”

       

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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #15: un Natale da brivido con Shirley Jackson

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 15, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Veronica de Il cassetto dei calzini spaiati

      Manca poco più di una settimana a Natale, quel momento dell’anno che, per me che non ho mai smesso di essere una fuori sede, significa soltanto una cosa: tornare a casa. Questo implica ore di coccole estreme, annegamenti nella cioccolata e frequenti attacchi di narcolessia sul divano – e anche esperienze di viaggio ai confini del narrabile, abbuffate senza senso e crisi esistenziali che si ripresentano tra un’ora di ozio e l’altra – ma soprattutto poter andare a letto mentre c’è qualcuno ancora sveglio in casa.

      Da che ero una bambina, ho sempre avuto il vizio di prendere sonno più facilmente con almeno un altro paio di occhi aperti nella stanza accanto. E questo ha a che fare anche con i libri che leggo prima di dormire, perché sono una fifona e tendo a concedermi il piacere di letture da avere paura solo quando sono sicura che mamma, papà o il gatto non siano ancora addormentati.

      È così che è iniziata, un Natale di un paio di anni fa, la storia del mio innamoramento per Shirley Jackson, grande maestra americana del terrore, ingiustamente meno nota – perlomeno in Italia – rispetto al suo celeberrimo discepolo Stephen King.

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      La riscoperta di questa autrice nel nostro paese è avvenuta grazie alla pubblicazione per Adelphi – a partire dai primi anni duemila – di L’incubo di Hill House (apparso in America nel 1959), cui sono seguiti La lotteria (raccolta che trae il titolo dal suo racconto d’esordio sul “New Yorker” nel 1949), Abbiamo sempre vissuto nel castello (dall’edizione del 1962) e Lizzie (del 1954).

      Le opere di Shirley Jackson vibrano di un’ironia sinistra che attinge alla materia di cui sono fatte le allucinazioni, senza mai ricorrere a immagini truculente per avvinghiare il lettore alla pagina. Sono storie in cui una ingannevole tranquillità viene scossa dall’elemento paranormale che attraversa la scrittura come una corrente d’aria gelida, sottilmente perturbante. Nessun cedimento allo splatter né a situazioni violente in senso fisico, e persino il ricorso ai più triti cliché del genere horror – la casa infestata dai fantasmi – è ribaltato da un’acutissima, e per questo tanto più terrificante, esplorazione della psiche umana.

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      Shirley Jackson dimostra di sapere bene che «nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà» e pone al centro delle sue narrazioni quasi sempre una giovane donna che non ricorda «di esser mai stata davvero felice nel corso della sua vita» (come Eleanor Vance in L’incubo di Hill House). Sono personaggi alienati dal proprio mondo, in preda a un conflitto con se stessi che porta la loro identità a sgretolarsi (come le personalità multiple che tormentano Elizabeth Richmond in Lizzie) e che appaiono tanto più veri quanto più sono ossessionati da piccoli rituali paranoici (come fa Merricat in Abbiamo sempre vissuto nel castello, quando stabilisce tre parole magiche che non devono mai essere pronunciate per continuare a sentirsi al sicuro).

      Anche gli spazi non sono mai semplicemente delle scenografie, ma sono animati da una percezione disturbata, perché tutto ciò che accade è restituito attraverso gli occhi di queste donne i cui disordini mentali agiscono sulle cose come una lente deformante.

      Sono storie che si svolgono come incubi a occhi aperti che ci attirano nelle loro spire senza offrirci possibilità di soluzione; non si tratta di letture che fanno perdere il sonno, ma che sicuramente possono indurre a guardare le cose di tutti i giorni da una prospettiva obliqua.

      Ripercorrendo in ordine di pubblicazione in lingua originale le opere di Shirley Jackson, vi invito a incontrare questa scrittrice attraverso l’unico strumento infallibile che conosco per scegliere una lettura: lasciare che sia la prima pagina a catturarmi, facendomi venire la curiosità di andare avanti.

      La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante. La gente del paese cominciò a radunarsi in piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci. In certe città, dato il gran numero di abitanti, la lotteria durava due giorni, e bisognava iniziarla il 26 giugno; ma in questo paese, di sole trecento anime all’incirca, bastavano meno di due ore, sicché si poteva cominciare alle dieci del mattino e finire in tempo perché i paesani fossero a casa per il pranzo di mezzogiorno.»

      Shirley Jackson, La lotteria (Adelphi, 2007)

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      «Anche se il museo godeva di notevole fama in quanto sede di un sapere immenso, le sue fondamenta avevano cominciato a cedere. Così si era prodotta nell’edificio un’inclinazione verso ovest, bizzarra e fastidiosamente vistosa, e nelle giovani donne della città, le cui energiche questue avevano sostentato il museo, una sconfinata vergogna e la tendenza a incolparsi a vicenda.»

      Shirley Jackson, Lizzie (Adelphi, 2014)

      «Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola.»

      Shirley Jackson, L’incubo di Hill House (Adelphi, 2004)

      «Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.»

      Shirley Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello (Adelphi, 2009)

       

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    • Di ispirazione, esordi e Jack London

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 24, 2017

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      Da quasi due mesi a questa parte non riesco a scrivere niente.

      Il 2016 è stato un anno lungo e difficile, puntellato di piccoli e grandi eventi – o non eventi – che mi hanno mio malgrado profondamente segnata, rendendomi più chiusa, più restia, più silenziosa. Facendomi diventare diffidente – degli altri, delle mie e delle altrui parole, dei sentimenti altrui, dei miei sentimenti.

      Mi sono detta e ripetuta che, una volta passato questo lungo e freddo inverno, fatto di cambiamenti poco desiderati, valigie e scatoloni, le parole sarebbero tornate. Sono sempre stata tremendamente meteoropatica, e otto anni di cieli nordeuropei hanno acuito ancora di più la mia tendenza alla malinconia quando il cielo è grigio e a smisurati attacchi di allegra irrequietezza al primo, timido raggio di sole.

      L’arrivo della primavera nordeuropea è stato salutato quest’anno da splendide giornate di sole, ma le parole non sono tornate. Mi sembra di avere un tappo sulla bocca dello stomaco che comprime con forza tutti quei sentimenti e quelle emozioni che nell’arco degli ultimi mesi ho archiviato con cura, seguendo il credo del “ci penserò domani, domani è un altro giorno” (Rossella O’Hara, c’est moi). Forse ho paura di tirarlo via, questo tappo, e di scoprire una sorte di vaso di Pandora; forse sono semplicemente stanca, o soffro di bloggo esistenziale, per citare La Cocchi (a proposito, seguite il suo blog? Se non lo fate, vi consiglio di rimediare).

      In compenso, sto leggendo tantissimo, e, nel tentativo di superare il bloggo, ho cercato un paio di articoli su aspiranti scrittori/scrittori alle prime armi/ esordienti sedotti e delusi dal fascino camaleontico delle parole. Su Letters of Note, fonte di costante ispirazione per gli amanti del genere epistolare (avevamo già letto una bellissima lettera di Steinbeck al figlio, sempre tratta da Letters of Note), ho trovato questa missiva molto tranchant indirizzata da Jack London a tale Max Fedder, che ha avuto l’ardire di propinargli una copia del suo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. La trovate di seguito nella mia traduzione, sperando che contribuisca a farmi (e magari a farvi, se ne avete bisogno) ritrovare l’ispirazione.

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      Oakland, California

      26 ottobre, 1914

      Gentile Max Fedder,

      Rispondo alla sua recente lettera, arrivatami senza data, e restituisco con la presente il suo manoscritto.

      Per iniziare, lasci che le dica che, come psicologo e come qualcuno che c’è passato, ho apprezzato la sua storia per la sua psicologia e per il punto di vista. In tutta franchezza e onestà, non ne ho apprezzato l’attrattiva o il valore letterario. A onor del vero, ha poco valore letterario e praticamente zero fascino. Il fatto che lei abbia qualcosa da dire che potrebbe interessare agli altri non la esime dallo sforzarsi di esprimerla al meglio della forma e del mezzo. Lei ha del tutto trascurato sia mezzo che forma.

      Tornando a quanto stavo dicendo nel paragrafo precedente, cosa ci si può aspettare da un ragazzo di vent’anni, privo di esperienza, in termini di conoscenza del mezzo e della forma? Perdinci, ragazzo, se volesse diventare un abile fabbro avrebbe bisogno di almeno cinque anni di apprendistato. Oserebbe dichiarare di aver dedicato non dico cinque anni, ma almeno cinque mesi al duro, irreprensibile, continuo lavoro di imparare a usare gli strumenti dello scrittore professionale, in grado di vendere le cose che scrive ai giornali e ricevere in cambio un compenso? Ovviamente non può: non l’ha mai fatto.

      Tuttavia, dovrebbe già aver capito che il motivo per il quale gli scrittori di successo vengono pagati così bene è che ben pochi aspiranti scrittori raggiungono la fama. Se sono necessari cinque anni per diventare un fabbro provetto, quanti anni di studio intensificato, concentrato in diciannove ore al giorno cosicché un anno di lavoro duro equivalga a cinque, sono necessari per un uomo di talento e con qualcosa da dire per studiare il mezzo e la forma, l’arte e il mestiere? Quanti anni per fargli raggiungere una posizione tale nel mondo delle lettere da permettergli di guadagnare un migliaio di dollari in contanti ogni settimana?

      Avrà capito il succo del discorso. Se qualcuno vuole sfruttare una stella da 1000 dollari a settimana, in proporzione dovrà lavorare molto più duramente di colui che sfrutta una piccola lucciola da 20 dollari a settimana. L’unica ragione per cui ci sono più fabbri di successo che scrittori di successo è che diventare un abile fabbro è più facile e meno faticoso che diventare uno scrittore famoso. Non è possibile che lei, a vent’anni, abbia già fatto il lavoro necessario per raggiungere il successo con la scrittura. Non ha nemmeno iniziato il suo apprendistato. Ne è prova il fatto che abbia avuto l’ardire di scrivere questo manoscritto, A Journal of One Who Is to Die. Se si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, avrebbe scoperto che storie come la sua non vengono pubblicate sui giornali. Se vuole scrivere per la fama e per i soldi, deve proporre al mercato prodotti che possano essere venduti. Il suo scritto non rientra in questa categoria, e se si fosse preso la briga di andare la sera in una sala di lettura e avesse letto tutte le storie pubblicate sugli ultimi giornali, avrebbe già capito che il suo scritto non si può vendere.

      Ragazzo mio, le parlo dal cuore. Si ricordi una cosa molto importante: il suo ennui dei vent’anni è il suo ennui dei vent’anni. Nel corso della sua vita, attraverserà ben altri periodi di ennui, ancora più complicati. Io ho sperimentato l’ennui dei sedici anni e quello dei vent’anni, e la noia, e l’apatia, lo squallore dell’ennui dei venticinque e dei trent’anni. Eppure sono sopravvissuto, e ingrasso, e sono molto felice, e rido per la maggior parte delle mie giornate. Vede, la mia malattia ha raggiunto uno stadio ben più avanzato della sua. Come superstite che esibisce le cicatrici della battaglia, guardo ai suoi sintomi come a quelli dell’adolescenza.

      Lasci che le ripeta che conosco questi sintomi, ne ho sofferto, e, come nel mio caso, anche lei dovrà subire cose ben peggiori. Nel frattempo, se vuole trionfare ed essere ben pagato, si prepari a lavorare duramente.

      C’è un solo modo di iniziare, ed è fatto di duro lavoro, e pazienza, e preparazione per tutte quelle delusioni che Martin Eden ha dovuto sperimentare prima del successo – che io stesso ho dovuto sperimentare prima del successo – dal momento che ho equipaggiato il mio personaggio fittizio, Martin Eden, delle mie stesse esperienze in quel duro gioco che è la scrittura.

      Se dovesse venire in California, mi farebbe piacere che venisse a farmi visita qui al ranch. Posso aiutarla ad arrivare al nocciolo della questione, e martellarla con quelle cose della vita che probabilmente non ha ancora esperito.

      Suo,

      Jack London

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      Soundtrack: Inside of love, Nada Surf

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #13: Natale su Marte

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 13, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Valentina di Bellezza rara

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      Non so a voi, ma a me spesso capita di non riuscire a spremere bene il cuore.

      Adoro le mie figlie. Adoro quella grande, piena di riccioli e di frasi uniche che escono così, fra una risata e l’altra. Adoro quella piccola, il suo sorriso con cento denti che stanno spuntando, e il profumo della sua testolina, quando va a incastrarsi perfettamente fra la mia spalla e il mio collo, in quel punto che è fatto per gli abbracci.

      Le amo così tanto, e a volte non so se le amo bene. Non so se faccio abbastanza, non so se do le risposte, i sorrisi, gli sguardi giusti.

      Forse è per questo che è stato inventato il Natale: per permettere ai genitori di mettere in un regalo tutte le parole che non sono riusciti a dire durante l’anno, tutte le ore che non sono riusciti a passare con i loro bimbi, tutto l’amore che non sono riusciti a spremersi dal cuore.

       

      Non hanno nomi i genitori di cui scrive Ray Bradbury in un racconto piccolo e incantato, Il dono. Ma hanno due pacchi grandi da caricare sul razzo che porterà loro e il loro bambino su Marte: un regalo e un albero di Natale con tante candele bianche.

      Solo che i pacchi sono troppo pesanti, non possono essere caricati, e rimangono al terminal del razzoporto.

      – Che dobbiamo fare?

      – Niente, niente. Cosa possiamo fare?

      Che sciocco regolamento! E lui desiderava tanto l’albero!

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      Sale lo stesso, quella famiglia, comincia ugualmente – anche senza regali e albero – il viaggio che porterà il loro bambino per la prima volta su Marte proprio il giorno di Natale.

       

      – Penserò io qualcosa, – disse il padre

       

      Passano le ore, la mamma è preoccupata, il bambino dorme, e il padre pensa a una soluzione.

      Quasi a mezzanotte il bambino si sveglia:

       

      – Voglio andare a guardare fuori dall’oblò.

      C’era soltanto un oblò, una “finestra” di cristallo immensamente spesso, ed abbastanza grande, su, nel ponte vicino.

      – Non ancora, – disse il padre. – Ti condurremo lassù più tardi.

      – Voglio vedere dove siamo e dove stiamo andando.

      – Voglio che tu aspetti, per una ragione, – disse il padre.

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      Il Natale si sta avvicinando, mancano trenta minuti, e il lettore sa che su quel razzo non ci sono doni, e non ci sono alberi né candele.

      Così come sai, quando sei genitore, di non essere perfetto,  e sai che non riuscirai sempre a trovare la soluzione giusta, e che tutto l’amore che provi non basterà a far sempre sorridere i tuoi figli.

      Ogni anno, a Natale, racconti loro che si può essere felici. Passi giorni a cercare il regalo perfetto e la carta per fare i pacchetti più belli, ti aggiri per la casa furtivo, complice la notte, metti tutti i pacchi sotto l’albero e poi ti infili sotto le coperte, e tutto solo perché loro si sentano arrivare il cuore fino in gola, la mattina dopo, appoggiando gli occhi sui loro sogni.

      Tutto perché possano essere felici come solo i bambini la mattina di Natale possono essere.

       

      – È Natale, adesso! Natale! Dov’è il mio regalo?

      – Andiamo, – disse il padre, e prese il suo bambino per la spalla e lo guidò fuori dalla stanza, lungo il corridoio, su per una rampa, e la moglie lo seguiva.

      – Non capisco, – continuava a dire la donna.

      – Eccoci arrivati, – disse il padre.

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      Quante volte mi è sembrato di essere un giocatore di pocker, nel mio essere mamma. Quante volte ho fatto mosse senza conoscerne le conseguenze, e quante volte ho bluffato sperando che comunque tutto andasse bene.

      E quante volte – tutte – le mie figlie hanno continuato a tenere la loro mano nella mia, senza mettere mai in dubbio che io sapessi dove stavamo davvero andando.

       

      Si erano fermati davanti alla porta chiusa di una grande cabina. Il padre bussò tre volte e poi due, per un segnale prestabilito. La porta si aprì e nella cabina la luce si spense e vi fu un sussurrìo di voci.

      – Entra, figliolo, – disse il padre.

      – È buio.

      – Ti terrò per mano. Vieni, mamma.

      Entrarono nella stanza e la porta si chiuse e lì dentro era veramente molto buio. E davanti a loro c’era un grande occhio di cristallo, l’oblò, una finestra alta quattro piedi e larga sei, dalla quale potevano guardare fuori, nello spazio.

      Il bambino boccheggiò.

      Dietro di lui il padre e la madre boccheggiarono con lui, e poi nella stanza buia qualcuno cominciò a cantare.

      – Buon Natale, figliolo, – disse il padre.

      E le voci nella stanza cantarono i vecchi familiari canti natalizi, e il bambino avanzò lentamente fino a che il suo viso fu contro il vetro freddo dell’oblò. E rimase lì ritto per molto tempo, molto tempo, guardando e guardando fuori nello spazio e nella notte profonda, dove ardevano e ardevano dieci miliardi di miliardi di bianche e belle candele…

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      Quante volte ho pensato di non essere abbastanza per le mie figlie. E quante volte poi, ho visto i loro occhi riempirsi di miliardi di stelle, e non ho più pensato, ho solo sussurrato «Buon Natale».

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #3: il Natale di Arturo Bandini

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 3, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Chiara di Librofilia

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      John Fante è uno dei miei autori prediletti e, ogni volta che posso, cerco di spezzare una lancia in suo favore, perché la sua è una produzione letteraria abbastanza ampia, coraggiosa e drammatica, soprattutto perché lo scrittore mette al centro della sua narrativa alcuni elementi cardini tipici all’umanità intera che risultano così universali e ricchi di pàthos, di sentimentalismo e di passione.

      Durante la lettura delle sue opere – tra romanzi, racconti e sceneggiature hollywoodiane – c’è stato un romanzo che, forse più di altri, ha colpito la mia attenzione e mi ha permesso di comprendere come alcune contrapposizioni e alcuni paradossi non siano mai così scontati nella vita.

      Sto parlando di Aspetta primavera, Bandini, ovvero il romanzo d’esordio di questo autore italo-americano, pieno di sogni e di ambizioni, nato a Denver nel 1909. Il romanzo viene pubblicato per la prima volta  – dopo mille riscritture e tribolazioni – nel 1938 e vede, per la prima volta in assoluto, l’entrata in scena di uno dei personaggi letterari più amati e più controversi della narrativa fantiana ovvero Arturo Bandini, che in fondamentalmente risulterà essere una sorta di alter-ego dello stesso John Fante.

      Ma ciò che rende unico questo primissimo romanzo di John Fante, oltre alla presenza di Arturo Bandini, è la sua ambientazione in un’ immaginaria cittadina del Colorado – chiamata Rocklin, che corrisponde  grosso modo alla città di Boulder – talmente fredda e sommersa di neve durante l’inverno che tutti i suoi abitanti attendono con speranza e con trepidazione l’arrivo della primavera. Arturo Bandini e suo padre Svevo l’aspettano anche più degli altri: il primo per tornare a giocare sui campi da baseball, il secondo per tornare a lavorare come esperto muratore.

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      Natale a Boulder, Colorado

      Eh già, perché Arturo Bandini è un adolescente lentigginoso, arrogante e testardo che sogna diventare il più grande campione di baseball di tutti i tempi, nonostante appartenga ad una famiglia di origini italiane talmente povera e modesta che egli cerca in tutti i modi di nasconderla, soprattutto per colpa di quel padre nervoso e attaccabrighe che, impossibilitato a compiere il proprio lavoro da abile muratore per via della neve e del gelo, preferisce trascorrere le sue giornate ai tavoli di gioco, perdendo tanti soldi e cacciandosi ripetutamente nei guai.

      Tutto questo non fa altro che accrescere il disgusto per le sue origini italiane e per la sua stessa condizione e il senso di ribellione e di disagio in Arturo Bandini, dando vita ad una sorta di guerriglia interiore e di perenne frustrazione che il ragazzo serberà in cuor suo.

      In Aspetta primavera, Bandini c’è però un elemento che lo contraddistingue dalle altre opere di John Fante, ovvero l’atmosfera bella, calda e avvolgente del Natale che trasuda e che si respira dalle pagine del libro e che è totalmente contrapposta alla condizione di miseria e di povertà in cui versa l’intera famiglia Bandini.

      Nel libro è infatti narrato un episodio specifico che si svolge proprio a ridosso delle festività natalizie e che fa trascorrere all’intera famiglia Bandini, il peggior Natale della loro vita, poiché il padre di Arturo Bandini – in un crescente mix di drammaticità e di comicità, per lo svolgersi della scenata – decide di abbandonare il tetto coniugale, per sfuggire alla visita dell’arcigna suocera e piomba direttamente in un pericoloso meandro fatto di alcool, gioco d’azzardo e donne.

      Se inizialmente l’assenza dell’uomo di casa è comprensibile e a tratti persino giustificabile per via della sua totale avversione nei confronti della suocera, ben presto diventa invece insopportabile e preoccupante proprio con il passare dei giorni, mandando letteralmente in frantumi l’intera famiglia Bandini e i loro nervi.

      A un certo punto, Arturo Bandini si mette sulle tracce di suo padre, nonostante la paura, il timore e la riverenza quasi assoluta che nutre nei suoi confronti.

      In fondo, anche questo è lo spirito del Natale o no?

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      Luci di Natale a Boulder, CO

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #2: Babbo Mark Twain

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 2, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Valentina di Peek A Book

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      Le foto d’epoca ce lo presentano sempre un po’ così, duro, accigliato, questi baffoni che nascondono ogni parvenza di sorriso, ma anche Mark Twain sapeva diventare dolce come il miele, almeno sotto Natale, per le sue figlie.

      Nello specifico abbiamo memoria di una lettera che scrisse nientepopodimeno che nelle vesti di Babbo Natale, in risposta a quella che sua figlia Susy aveva inviato al vecchio portatore di regali con la sua richiesta di doni.

      Di solito le lettere a Babbo Natale sono a senso unico, si mandano e non si riceve mai risposta, se non sotto forma di desideri esauditi; questa volta, invece, la piccola Susy ha avuto il grande dono di ricevere una risposta, lunga, articolata, la risposta che farebbe tremare di felicità le gambe di ogni bambino.

      Ed ecco a voi la lettera di Babbo Natale Twain per Susy:

       

      Palazzo di San Nicola, sulla Luna

      Mattina di Natale

       

       Mia cara Susy Clemens,

       

      ho ricevuto e letto tutte le lettere che mi avete scritto tu e la tua sorellina… so leggere senza alcun problema la grafia frastagliata e fantasiosa, tua e della piccola. Ma ho avuto qualche problema con le lettere che avete dettato a vostra madre e alle balie, perché sono straniero e non so leggere bene in inglese. Vedrete che non ho commesso errori per quanto riguarda le cose che tu e la piccolina avete chiesto nelle vostre lettere – sono sceso lungo il vostro camino a mezzanotte mentre dormivate e vi ho portato tutto personalmente – e ho anche dato un bacio a entrambe… Ma… c’erano una o due piccole richieste che non ho potuto esaudire, perché abbiamo finito le scorte…

       C’erano una o due parole nella lettera della tua mamma che… penso fossero “un baule pieno di vestitini per le bambole”, è così? Mi farò trovare alla porta della cucina intorno alle nove di questa mattina per chiedertelo. Ma non devo vedere nessuno né parlare con nessun altro a parte te. Quando il campanello della cucina suonerà, George deve essere bendato e mandato ad aprire. Devi dire a George di camminare in punta di piedi e di non parlare – altrimenti morirà, un giorno. Quindi devi salire nella cameretta e stare in piedi sulla sedia o sul letto della tata e appoggiare l’orecchio al citofono che dà sulla cucina e, quando io ci fischierò dentro, dovrai dire: «benvenuto, Babbo Natale!» Quindi ti chiederò se era un baule che volevi. Se dirai di sì, ti chiederò di che colore lo vuoi… e dovrai descrivermi in ogni singolo dettaglio le cose che vuoi che contenga. Quindi, quando dirò: «arrivederci e buon Natale alla mia piccola Susy Clemens» tu devi dire «arrivederci, buon vecchio Babbo Natale, ti ringrazio moltissimo». Quindi devi scendere nella biblioteca e dire a George di chiudere tutte le porte che danno sulla sala e tutti devono stare fermi per un pochino. Andrò sulla Luna e, in pochi minuti, prenderò le cose che mi avete chiesto, tornerò passando per il camino della sala – se vuoi un baule – perché non posso far passare un baule dal camino della cameretta, sai… se lascio della neve nella sala, dite a George di spazzarla nel camino perché io non avrò il tempo di farlo. George non dovrà usare la scopa, ma uno straccio – o di nuovo, un giorno morirà… se i miei stivali lasciano una macchia sul marmo, George non dovrà pulirlo con la pietra pomice. Lasciatela lì per sempre a memoria della mia visita, e ogni volta che la guarderai o la mostrerai a qualcuno, deve ricordarti sempre di essere una brava bambina. Ogni volta che ti comporterai male e qualcuno ti indicherà quella macchia che lo stivale del buon vecchio Babbo Natale ha lasciato sul marmo, cosa dirai, piccolo tesoro mio?

      Arrivederci tra pochi minuti, quando verrò sulla terra e suonerò il campanello della cucina.

       Il tuo amorevole Babbo Natale,

      che ogni tanto viene chiamato Uomo della Luna.

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      Non si sa esattamente come sia andata quella mattina, come si sia comportata Susy dopo aver letto e ricevuto la lettera, però ne è arrivata un’altra  fino a noi scritta dalla piccola, nella quale racconta del suo incontro con Babbo Natale (Mark Twain travestito?). Eccone uno stralcio:

       

      […] Una sera Rosa e tutti gli altri hanno detto che Babbo Natale sarebbe venuto prima di Natale e si sarebbe fatto vedere da tutti. Rosa ha detto che temeva che Babbo Natale non sarebbe venuto da noi perché non siamo tedeschi [in quel periodo la famiglia di Twain si trovava a Monaco, in Germania]. Mamma e tutti gli altri hanno detto che pensavano che Babbo Natale non sarebbe venuto. Quando mamma si è seduta a tavola, per mangiare il dolce, abbiamo sentito bussare alla porta ed è entrata Fraulein Dahlweiner e, dietro di lei, Babbo Natale. È entrato portando un sacco di tela e ha detto «Noch ein Sach!» («Un altro sacco!»). Ha tirato fuori un pacchetto, e quel pacchetto conteneva delle candele, poi ha tirato fuori due bambole, poi delle noci dorate e delle mele e delle gemme. Er hat gesagt (ha detto): «Wenn du nicht brav bischt, denn gibt es ‘was!» («Se non fai la brava le prendi!»). Aveva in testa un cappellone e continuava a coprirsi, non voleva che nessuno lo vedesse in faccia. L’ho guardato in faccia, a lungo, e ha riso. Andandosene ha detto: «Ich hab’ viele unnadige Knabe’n dass ich in Wasser [hinein] werfen muss, und wieder naus nehmen» («Ho un sacco di bambini cattivi da buttare in acqua e poi tirare fuori») – quindi ha salutato e se n’è andato. Questo è tutto, per quanto riguarda Babbo Natale. […]

      Olivia L. e Olivia Susan (Susy) Clemens

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      “L’ho guardato in faccia, a lungo, e ha riso”, chissà se Susy ha intravisto sotto la barba di Babbo Natale le fattezze del suo papà, chissà se l’ha riconosciuto dalla risata, chissà se le è venuto un piccolo dubbio.

      E, soprattutto, chissà se i suoi piccoli aiutanti erano Tom Sawyer e Huckleberry Finn 😉

       

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged Il Calendario dell'Avvento Letterario, Letteratura americana, Mark Twain, Olivia Susan Clemens, Peek A Book, Samuel Clemens, Storie dietro la storia
    • Rivalità letterarie: Hemingway versus Borges

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 29, 2016
      Hemingway à Cuba

      Ernest Hemingway a Cuba

      “Dear Jorges, my Cuban friend Lino Calvo gave me The Aleph, here in El Floridita, el Catedral del Daiquiri. Sure, dammed good book. They are saying around you are the best writer in Spanish, but you can kiss my ass and you never hit a ball out of the infield in your life. You took LITERATURE too solemnly. You discovered life late. You come down down here and fight for free with an old character like me, who is fifty years old and weighs 209 and thinks you are a shit, Jorges, and would knock you in your ass. HOW DO YOU LIKE IT NOW, GENTLEMEN? Viva El Torre Blanco. Yours sincerely, Papá”.

      (Caro Jorge,

      Il mio amico cubano Lino Calvo mi ha dato una copia de L’Aleph, qui al Floridita, la Cattedrale del Daiquiri. Gran libro, senza ombra di dubbio. Si dice che tu sia il miglior scrittore ispanofono, ma puoi baciarmi il didietro, non sei mai riuscito a colpire una palla fuori dal diamante. Hai preso la letteratura troppo sul serio. Hai scoperto la vita troppo tardi. Sei venuto fin qui per lottare gratis con un vecchio come me, che ha cinquant’anni e pesa 135 KG e pensa che tu sia un poco di buono, e ti prenderebbe a calci nel didietro. Che te ne pare adesso, gentiluomo? Viva El Torre Blanco. Tuo, Papa).

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      Jorge Luis Borges

      Secondo la leggenda, questa deliziosa missiva (nella mia traduzione italiana ho usato un po’ di eufemismi, ma basta dare un’occhiata al testo originale per rendersi conto di quello che intendo) sarebbe stata scritta da un Hemingway estremamente brillo nel marzo del 1950 e ritrovata tra i suoi scritti inediti. Molto più plausibilmente, si tratterebbe invece di uno scherzo letterario elaborato da quel burlone di José Emilio Pacheco, poeta messicano deceduto nel 2014.

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      Pacheco

      In un caso o nell’altro, la lettera, apocrifa o meno, fa venire alla luce la rivalità letteraria tra i due giganti della letteratura americana e ispano-americana, rispettivamente. Una rivalità giustificata da orientamenti politici (Hemingway  aveva appoggiato la Guerra civile spagnola, Borges era fortemente reazionario), ma anche da stili di vita e modi di intendere la letteratura diametralmente opposti.

      Hemingway incarna la figura del macho, donnaiolo, cacciatore, soldato, amante delle corride e dei safari, cultore del buon vino, dei buoni cocktail e del buon cibo (a giugno, nel corso di una brevissima tappa a Valencia, sono andata a mangiare a La Pepica, che preparava la paella preferita di Hemingway, tanto per fare un esempio).

      La Pepica, Valencia

      Borges coltiva invece il mito della figura dell’intellettuale erudito e riservato, il lettore infinito che vive tra biblioteche, libri e conferenze, timido con le donne, austero, discreto. Hemingway è lo scrittore dell’esperienza, Borges è lo scrittore dell’immaginazione; entrambi sono politicamente scorretti (Hemingway è stato più volte internato per manie di persecuzione – era infatti convinto di essere spiato dal FBI, e non a torto, viste le sue simpatie per Paesi con governi di sinistra; Borges, per cui la politica era una de las formas del tedio, una delle declinazioni della noia, è stato più volte accusato di essere fin troppo vicino al regime di Pinochet e al generale argentino Jorge Rafael Videla in opposizione al peronismo – secondo molti, queste infelici affiliazioni gli costarono il Nobel), ma lo esprimono in modi diversi: Hemingway in maniera irruente, rumorosa, impegnata, Borges con un certo distacco da intellettuale che alla fine è lontano dalla res publica, in un mondo di sogni e di parole.
      Ad ogni modo, l’antipatia tra i due era nota a tutti gli intellettuali (come dimostra la burla escogitata da Pacheco): la leggenda vuole che, alla morte di Hemingway, Borges abbia mandato al nemico ormai estinto una corona di fori con il seguente (cattivissimo) messaggio:

      “Hemingway, que era un poco fanfarrón, terminó por suicidarse porque se dio cuenta que no era un gran escritor. Esto, en parte, lo redime”

      (Hemingway, che era un esibizionista, ha deciso di suicidarsi dopo essersi reso conto di non essere poi un grande scrittore. La cosa in parte lo redime).

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      Borges con Videla e Pinochet

       

      Per saperne di più:

      Tutte le donne di Hemingway

      Borges y Hemingway, dal blog Oye Borges (in spagnolo)

       

      Soundtrack: Hemingway, Negrita

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 4 Comments | Tagged Aleph, Ernest Hemingway, Jorge Luis Borges, Jorge Rafael Videla, José Emilio Pacheco, La Pepica, letetratura ispano-americana, Letteratura americana, Lettere, Nobel per la letteratura, Pinochet, Storie dietro la storia, Valencia
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