Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
Impressions chosen from another time
  • Home
  • English
  • About
  • Cookie Policy
  • Tag: Leonard Cohen

    • Un anno senza Leonard Cohen

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 7, 2017

      LC4

      And what can I tell you my brother, my killer

      What can I possibly say?

      I guess that I miss you, I guess I forgive you

      I’m glad you stood in my way

      (Famous Blue Raincoat, Songs of Love and Hate, 1971)

      Le mancanze funzionano in modo strano: si può cercare di evitarle e riuscire ad andare avanti con la propria routine per giorni, settimane, mesi. Basta però un dettaglio – una parola, un sapore, un sogno, un déjà-vu, un odore – a cancellare mesi di paziente rassegnazione e a riportare la parte lesa (lesa perché offesa, zoppicante perché è inciampata nel dosso della perdita, gonfia per un livido insanabile nell’anima, spaventata come una lumaca senza guscio o una lucertola senza coda) nel mezzo di quello sbandamento causato dal senso di perdita.

      Il primo segno tangibile del fatto che tu non ci fossi più per davvero è arrivato solo alla fine di settembre. Nei mesi precedenti ho semplicemente fatto finta che fossi lontano ma ancora presente, come quando rompi con qualcuno che vive all’estero: la distanza cancella il fatto che l’altra persona non ti ami più e non ci sia più nella tua vita di tutti i giorni, ad augurarti il buongiorno con una foto stupida e farti vedere su Facetime se i pantaloni che ha comprato gli cadono bene.

      Settembre è però il mese del tuo compleanno (era? E l’incompiutezza del congiuntivo diventa una vertigine). Nel 2014, subito dopo il tuo ottantesimo compleanno, hai rilasciato Popular problems, incantandomi ancora una volta con la struggente malinconia di My Oh My e Did I ever love you e con la sardonica autoironia di Slow (Let me catch my breath/ I thought we had all night/ I like to take my time/ I like to linger as it flies/ A weekend on your lips/ A lifetime in your eyes…)

      L’anno scorso hai festeggiato il tuo ottantaduesimo compleanno rilasciando il singolo You want it darker, solenne e cupa esplorazione della dimensione religiosa dell’animo umano; una canzone che ho dovuto ascoltare un paio di volte per evitare di farmi avvolgere dalla sua oscurità, appiccicosa come la melassa (If you are the dealer, let me out of the game/ If you are the healer, I’m broken and lame/ If thine is the glory, mine must be the shame/ You want it darker/ Hineni, hineni/ Hineni, hineni/ I’m ready, My Lord). Il singolo lasciava presagire quello che sarebbe stato il tono dell’album, uscito appena due settimane prima di quel 7 novembre: l’accorato, appassionato commiato di qualcuno che ha amato, ha lottato, ha sbagliato, ha vissuto a pieno ed è pronto ad alzarsi dal tavolo e ad andarsene (I don’t need a reason/ For what I became/ I’ve got these excuses/ They’re tired and lame/ I don’t need a pardon, no, no, no, no, no/ There’s no one left to blame/ I’m leaving the table/ I’m out of the game).

      LC3

      Quest’anno settembre è arrivato ed è passato in silenzio, senza una nuova canzone, senza un nuovo album, e ho finalmente realizzato, e la mancanza è esplosa come una pentola a pressione il cui coperchio sia stato aperto troppo presto.

      Quel fatidico 11 novembre, quando la tua famiglia ha annunciato che te n’eri andato quattro giorni prima, mi ero appena svegliata e stavo per fare colazione quando, disattivando la modalità aereo che segna la linea di separazione notturna tra me e il mio Iphone, ho trovato il messaggio di mia madre con la notizia. È stata una giornata paradossale, durante la quale ho appreso di non aver ottenuto il lavoro che volevo con tutta me stessa e di averne ottenuto un altro che desideravo molto di meno. Per settimane non ho smesso di ascoltare ossessivamente You want it darker, cercando un significato nascosto, un messaggio nella bottiglia lasciato solo per me, in un momento in cui mi sentivo persa e scoraggiata e sola. Non l’ho trovato e, dopo le prime settimane, non sono riuscita ad ascoltare nessuna delle tue canzoni, per mesi.

      Can’t seem to loosen my grip

      On the past

      And I miss you so much

      There’s no one in sight

      And we’re still making love

      In my secret life

      (In my secret life, Ten new songs, 2001) 

      Nei mesi successive, dopo il trasferimento, dopo i primi mesi di giornate lavorative confuse e lunghissime, sei tornato nella mia vita di tutti i giorni naturalmente, come l’aria, con le tue poesie e con le tue canzoni, nelle parole dei vari fan group su Facebook a te dedicati e sempre pieni di notizie e chiavi d’interpretazione interessanti. Non ci sarà mai più una nuova canzone, è vero, ma non hai smesso di riservarci soprese: prima fra tutte, il concerto commemorativo che si terrà a Montreal a un anno dalla tua morte, Tower of song, con la partecipazione di tuo figlio Adam, The Lumineers, Damien Rice, Sting, Elvis Costello e Lana del Rey, tanto per citare alcuni dei miei preferiti.

      But you’ll be hearing from me baby, long after I’m gone.

      I’ll be speaking to you sweetly from a window in the Tower of Song

      (Tower of Song, I’m Your Man, 1988)

      Tower-of-Song-Poster-608x900

      Nelle tue istruzioni ad Adam, hai chiesto di essere sepolto in una bara di pino vicino ai tuoi genitori. Hai chiesto un funerale ristretto, sobrio, a Los Angeles. Infine, hai specificato che un eventuale tributo pubblico si sarebbe dovuto tenere nella tua Montreal. E hai lanciato nell’immenso mare dell’ignoto ancora un’altra bottiglia: un libro, The Flame, il capitolo finale della tua carriera letteraria, una raccolta di poesie edite ed inedite, selezionate e ordinate nei mesi prima che te ne andassi. La raccolta verrà pubblicata l’anno prossimo, ad ottobre, ingannando così gli appuntamenti autunnali a cui non ti presenterai più, espandendo la geografia dell’attesa.

      Anch’io ho ricevuto la mia bottiglia, il mio messaggio personale. Un paio di giorni fa ero a Londra, la mia città del cuore, con la mia persona preferita. Avevo da poco rivisto una delle mie migliori amiche e mangiato i dumpling più buoni della storia a Chinatown. Uscita dal ristorante, sono stata avvolta dalle luci, dalle voci e dall’incessante, rassicurante movimento di una città che non dorme e non si ferma mai, e dalla dolcezza di note conosciute. Nel mezzo di Chinatown, con in mano un gelato al tè matcha avvolto nel waffle (conoscete Bubblewrap? Se passate da Londra provatevelo, non ve ne pentirete), ho ascoltato una bellissima cover di Hallelujah, avvolgente come una coperta nel freddo pungente di una serata novembrina; una cover così appassionata e sentita da aver lasciato gli spettatori in lacrime. E lì, in quel momento perfetto, era contenuto il nostro arrivederci. So long, Leonard.

      LC1

      Posted in Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged a thousand kisses deep, famous blue raincoat, Leonard Cohen, London, Londra, musica che amo, Poetry, tower of song, You want it darker
    • Leonard, that’s no way to say goodbye

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 11, 2016

      leonard-2

      È tremendamente difficile cercare di spiegare quanto ci si possa sentire toccati dalla scomparsa di qualcuno che non abbiamo mai incontrato. È difficile cercare di spiegare che ci sono persone che incidono più di tante altre nella nostra formazione, crescita, maturazione, aiutandoci a definire i nostri gusti grazie alla forza della loro musica e delle loro parole.

      Per me, Leonard Cohen è tutto questo. È la persona che, grazie alla sua musica e alle sue parole, è entrata nella mia vita quotidiana, diventandone la colonna sonora costante.

      Mi sono innamorata con le sue canzoni; le sue parole hanno curato il mio cuore spezzato. Ogni volta che sono stanca o triste o scoraggiata o ho una delle mie emicranie, la sua è l’unica voce che riesce a calmarmi, a rassicurarmi, a ricordarmi che, anche quando niente sembra più avere senso, c’è sempre una fessura da cui entra un po’ di luce.

      Cohen, con la sua celebrazione e sublimazione della malinconia, mi ha insegnato che la tristezza non è una colpa, ma uno stato animo da cui farsi abitare, con cui imparare a convivere, da cui tirare fuori una poesia infinita.

      Mi ha insegnato che tutti si sentono persi, a un certo punto, e che va bene così: bisogna perdersi, per ritrovarsi interi. Bisogna accettare il rischio di perdere, di rimanere col cuore spezzato, per imparare ad amare.

      Mi ha insegnato che bisogna mettersi in discussione, sempre, esplorare la propria interiorità e la propria spiritualità, senza avere la presunzione di delimitarne i confini.

      Prima di andarsene, Leonard ha lasciato un messaggio di addio: il suo ultimo disco, You want it darker, pervaso da una malinconia struggente, registrato quasi interamente da una poltrona speciale in cui era costretto a stare seduto a causa del tumore che lo stava corrodendo. È l’addio di un uomo, un padre, un amante, un artista che ha amato e celebrato la vita in tutte le sue sfumature, anche le più cupe, le più tormentate. È l’addio di una persona che ha vissuto appieno, e si sente pronta a quello che verrà, qualunque cosa sia:

      You want it darker
      Hineni, hineni
      I’m ready, my Lord

      leonard7

       

      You want it darker è una toccante celebrazione della vita, uno struggente inno a quell’amore che la rende reale:

      If the sun would lose its light

      And we lived in an endless night

      And there was nothing left that you could feel

      If the sea were sand alone

      And the flowers made of stone

      And no one that you hurt could ever heal

      Well that’s how broken I would be

      What my life would seem to me

      If I didn’t have your love to make it real

      leonard5

      E Cohen non ha mai smesso di celebrarlo, l’amore, in tutta la sua trascendenza. We are so lightly here. It is in love that we are made. In love we disappear, siamo fatti d’amore e a un certo punto vi facciamo ritorno, cantava in Boogie street. La mia canzone preferita, Famous blue raincoat, è una bellissima lettera d’amore, un triangolo amoroso di difficile definizione, un tentativo di esplorare le sfumature più nascoste, più recondite, più oscure di questo sentimento universale ed eterno.

      Un paio di mesi fa, Cohen ha mandato questa lettera alla sua eterna musa, Marianne Ihlen, qualche giorno prima della morte di lei:

      Well Marianne it’s come to this time when we are really so old and our bodies are falling apart and I think I will follow you very soon. Know that I am so close behind you that if you stretch out your hand, I think you can reach mine. And you know that I’ve always loved you for your beauty and your wisdom, but I don’t need to say anything more about that because you know all about that. But now, I just want to wish you a very good journey. Goodbye old friend. Endless love, see you down the road.

       (Marianne, siamo ormai vecchi e i nostri corpi stanno andando a pezzi, e penso che ti seguirò molto presto. Sappi che sono dietro di te, così vicino che, se allunghi la mano, credo che riuscirai a toccare la mia. E sai che ti ho sempre amato per la tua bellezza e saggezza, ma non c’è bisogno che aggiunga altro, perché sai già tutto quello che c’è da sapere. Ora voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci, amica mia. Amore infinito, ci vediamo in fondo alla strada). So long, Marianne.

      leonard-4

       

      Questa è invece la mia lettera per te, Leonard, sconosciuto amico, amante, maestro: grazie per aver trovato sempre le parole giuste, le parole che nessuno è mai riuscito a trovare. Grazie di avermi fatto sentire meno sola. Grazie di esserti preso cura della mia educazione musicale – e sentimentale. Grazie di avermi fatto guardare dentro di me. Grazie di avermi dato degli stimoli, delle risposte. Grazie di avermi rassicurata. Grazie di avermi fatto emozionare. Grazie di avermi toccato col tuo guanto, di aver ballato con me fino alla fine dell’amore, a mille baci di profondità. Leonard, that’s no way to say goodbye.

      leonard-9

      leonard-8

      leonard-6

      leonard-3

      leonard-1

      Posted in Ophelinha scrive | 13 Comments | Tagged a thousand kisses deep, boogie street, famous blue raincoat, Leonard Cohen, Marianne Ihlen, so long marianne, that's no way to say goodbye, You want it darker
    • La saga dei Cazalet

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 28, 2016

      caza3

      Prima di scrivere questo post, ho preferito finire tutti i capitoli per avere un’idea più completa della saga familiare creata dalla penna (brillante e inglese to the core) di Elizabeth Jane Howard.

      In realtà, devo ammettere che, semplicemente, non sono riuscita a fermarmi. Non mi capitava da tempo (specie perché da mesi sono assorbita da preoccupazioni poco letterarie) di perdermi totalmente in una storia, divisa tra due desideri contrastanti: che il capitolo in lettura finisse presto, per passare al successivo e inseguire le sorti dei miei amati Cazalet, e che i capitoli della saga non finissero mai.

      Ho appena chiuso l’ultimo (All Change, per il momento disponibile solo in inglese – io ho quest’edizione) e non ho potuto fare a meno di versare qualche lacrimuccia, perché so che i Cazalet mi mancheranno, terribilmente. Con loro si chiude un’intera epoca della storia inglese: quella dominata dalla gentry, da uno stile di vita lento, armonico e raffinato, da ville in campagna per le vacanze e appartamenti a Londra per la season e i balli delle debuttanti, dalla – pressoché – totale incapacità di questa classe sociale di guardare al di fuori della sua propria bolla – e delle convinzioni Tory ereditate dai padri e dai nonni – e di rendersi conto dei problemi, delle sfide, della povertà del resto della nazione.

      Perdonatemi: presa dalla foga, sto iniziando dalla fine, il che non ha molto senso. Facciamo quindi un (bel) passo indietro.

      anni-leggerezza_cazalet1-light-673x1024

      Quella dei Cazalet è una saga familiare in cinque volumi, pubblicati tra il 1990 e il 2013 (l’anno prima della morte della Howard). Fazi ha avuto l’ottima idea di portare i Cazalet in Italia, pubblicando i primi tre volumi del ciclo nella traduzione di Manuela Francescon: Gli anni della leggerezza (The light years, 1990); Il tempo dell’attesa (Marking time, 1991); Confusione (Confusion, 1993). Seguono altri due volumi, che Fazi pubblicherà prossimamente: Casting off (1995) e All Change (2013).

      Le vicende narrate vanno dal 1937 al 1958: un ventennio che vede le generazioni di Cazalet succedersi, l’avvento di Hitler, un sanguinoso conflitto mondiale, la disfatta dei Tory e l’affermarsi dei labouristi e un’infinità di cambiamenti economici e, soprattutto, sociali che colpiscono in modo particolare i protagonisti, ricchi imprenditori dediti da decenni al commercio di legname raro e pregiato.

      Per evitare che vi perdiate nella trama familiare dei Cazalet, cercherò di presentarvi i personaggi principali:

      –           il Generale e la Duchessa, capostipiti della famiglia, eredi della rigida morale vittoriana, ostinatamente contrari a ogni tipo di cambiamento;

      –           Hugh, Edward, Rupert e Rachel, figli del Generale e della Duchessa, tutti molto diversi tra loro: Edward è affascinante, ama le belle donne, il buon vino, il buon cibo e la caccia; Hugh, rimasto duramente segnato dalla prima guerra mondiale, nel corso della quale ha perso una mano e a causa della quale soffre di feroci mal di testa, ha ereditato dal padre un rigido senso del dovere e un’inflessibile resistenza al cambiamento, attenuati dall’amore per sua moglie Sybil; Rupert, eternamente indeciso, dal temperamento artistico, ha perso la prima moglie Isobel, morta di parto, e si è risposato con la bellissima Zoë, frivola, vanesia e capricciosa, che fatica a mettersi nei panni di matrigna dei figli di Rupert, Clary e Neville; Rachel, tutta compresa dal suo ruolo di unica figlia femmina che deve prendersi cura dei genitori – un po’ di tutti, in realtà – che nasconde accuratamente il suo amore per l’amica Sid;

      –           Villy (la prima moglie di Edward); Diana, l’amante e poi (insopportabile) seconda moglie di Edward; Sybil, la prima moglie di Hugh, morta di cancro; Jemima, la (dolcissima e minuta) seconda moglie di Hugh; Isobel, la prima moglie di Rupert, morta nel dare alla luce Neville; Zoë, la seconda moglie di Rupert; Sid, l’amica, innamorata e poi amante di Rachel;

      –           Louise, Teddy, Lydia e Roly, i figli di Edward e Villy; Polly, Simon e Wills, i figli di Hugh e Sybil; Laura, la figlia di Hugh e Jemima; Clary e Neville, i figli di Rupert e Isobel; Juliet e Georgie, i figli di Rupert e Zoë.

      Vi risparmio i nomi dei Cazalet di quarta generazione (che trovate principalmente nel quinto e ultimo capitolo della saga) perché vi immagino già persi tra figli di primo e secondo letto; accludo però questo comodo albero genealogico, made in Fazi, per facilitarvi la navigazione.

      albero-genealogico

      Dopo questo (lunghissimo) preambolo, giungiamo al punto: perché leggere (e amare) la saga dei Cazalet? Perché, come spiegavo prima, non si può fare a meno di amarli. Perché la Howard ha una penna magica, capace di far perdere al lettore la cognizione dello spazio e del tempo. Perché offre un affresco storico interessantissimo: la calma prima della tempesta, la vita tranquilla e ordinata prima dello scoppio della guerra, fatta di weekend in campagna, battute di caccia, ricami e acquarelli, piccole e grandi rivalità familiari, amori contrastati, tè del pomeriggio (a proposito, questo libro è una vera e propria miniera di spunti in materia di ricette letterarie); lo scoppio della guerra, la vita con gli uomini al fronte, l’ansia per i propri cari lontani, la paziente disperazione di chi aspetta un padre, un marito disperso, i coupon per il cibo e per i vestiti; crescere durante la guerra, diventare adolescenti e poi donne quando nessuno ha tempo di spiegare la difficile transizione, vivere isolati in campagna, annoiarsi e sognare le mille luci di Londra; innamorarsi per la prima volta, sperimentare sulla pelle (come un taglio profondo, come un’ustione) l’incommensurabile dolore del rifiuto; essere donna in un mondo di uomini, poi di uomini al fronte, in una società che consegna ancora il destino delle ragazze al matrimonio e alla maternità, e trovare il coraggio di inseguire le proprie ambizioni artistiche e letterarie, di sposarsi solo per amore, di divorziare, di seguire il proprio cuore.

      Nel corso dei cinque capitoli ho sviluppato le (inevitabili) simpatie e antipatie per i vari personaggi: se non ho sopportato Edward e Diana, ho amato Polly, Clary, Zoë e Archie, paziente amico di famiglia dell’intero clan (almeno fino all’ultimo libro, quand’è successo qualcosa che ha distrutto un po’ l’immagine di cavaliere senza macchia e senza paura che avevo di lui e l’ha relegato – parzialmente – nella categoria degli #uominichenonsapevanoamare).

      Polly è bellissima, ma non ha una grande considerazione di sé: è afflitta dall’ansia di non avere una vocazione precisa, di non reputarsi particolarmente intelligente o brillante, di non sapere cosa fare della sua vita. Un grande amore non corrisposto – il primo, il più devastante – la allontana da Clary, sua compagna di avventure da sempre, e, se la fa chiudere un po’ in se’, non le fa perdere quella dolcezza e quell’ottimismo che le garantiranno il suo lieto fine, se pur molto diverso da quello che si aspettava.

      Zoë, all’inizio del primo libro della saga, è un personaggio francamente insopportabile: innamorata di se stessa, sgarbata con la madre, petulante col marito Rupert, di cui vuole l’attenzione continua ed esclusiva, insofferente nei confronti di Clary e Neville, ai quali non riesce assolutamente a fare da matrigna. Tuttavia, nel corso della saga, è uno dei personaggi che cresce, cambia e matura di più: attraverso la perdita, il dolore, un grande amore terminato in tragedia, un tradimento dalle conseguenze devastanti, la maternità portata avanti da sola, con Rupert disperso in Francia, Zoë impara l’arte della pazienza, dell’empatia e della comprensione. Smette di guardarsi continuamente allo specchio e inizia invece a guardare (e a vedere) gli altri. Accetta finalmente di essere diventata una Cazalet e si integra perfettamente nel tessuto sociale della famiglia, sviluppando un’inaspettata amicizia con la Duchessa. Cosa più importante di tutte, Zoë impara ad amare; impara anche ad essere umile, a contare solo su se stessa, ad affrontare gli ostacoli, a domare l’arte di perdere. È questo che la rende davvero bella.

      Clary è il mio personaggio preferito in assoluto: è una ragazzina solitaria, che ha perso la madre da piccolissima e poi è costretta ad affrontare anni di angoscia per l’assenza del padre Rupert, disperso in Francia. Non è particolarmente bella, è sempre spettinata, piena di macchie e di cicatrici: ma ha un cuore d’oro, un’anima bella e generosa, un’indole creativa e una fede incrollabile. Aspetta il padre per anni, quando tutti lo credono ormai morto; scrive per anni un diario da consegnargli al suo ritorno e si consola inventando storie fantasiose sulle sue vicissitudini in Francia. Clary non conosce le mezze misure: ama o odia, e si butta a capofitto nelle cose. Si butta a capofitto anche nel primo amore, uscendone ammaccata e depressa; tuttavia, grazie all’aiuto di Archie, che le sta vicino tutta la vita, si rifiuta di farsi sopraffare dal cinismo e si dedica invece al suo primo romanzo. La sua vita non sarà mai perfetta: caotica, disordinata, squattrinata, ma sempre piena d’amore, di generosità e di fiducia nell’altro, anche nei momenti più cupi della sua esistenza.

      I Cazalet mi hanno fatto innamorare, sorridere e piangere insieme a loro, e mi mancano già terribilmente, tanto che il mio fine settimana, tra una zucca e l’altra (sì, adoro Halloween), sarà quasi interamente dedicato alla miniserie che la BBC ha fortunatamente dedicato alla saga familiare (fan di Downton Abbey, c’è anche Hugh Bonneville, nei panni di Hugh Cazalet).

      cazas

      Soundtrack: Leaving the table, dall’ultimo (bellissimo) disco del mio amato Leonard Cohen, You Want It Darker)

      tempo-attesa-ligt

      caza

      Acquista su Amazon:

      Gli anni della leggerezza: La saga dei Cazalet 1

      Il tempo dell’attesa. La saga dei Cazalet: 2

      Confusione. La saga dei Cazalet: 3

      Casting Off: Cazalet Chronicles Book 4 by Jane Howard, Elizabeth (2013) Paperback

      All Change (The Cazalet Chronicle)

      Posted in Uncategorized | 27 Comments | Tagged All Change, Casting off, Cazalet, Confusion, Confusione, Downton Abbey, Elizabeth Jane Howard, Gli anni della leggerezza, Il tempo dell'attesa, Leonard Cohen, Letteratura inglese, Marking time, saghe familiari, The Light Years, You want it darker
    • Mary Oliver, una poesia e i bicchieri mezzi vuoti

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 8, 2016

      mary-oliver

      The uses of sorrow

      (In my sleep I dreamed this poem)

      Someone I loved once gave me

      a box full of darkness.

       

      It took me years to understand

      that this, too, was a gift.

       

      (Mary Oliver, The uses of sorrow)

      tumblr_mfjnpbioej1rbkb75o1_500

       

      L’utilità della sofferenza

      (Mentre dormivo ho sognato questi versi)

      Una persona che amavo mi ha dato una volta

      una scatola piena di buio.

       

      Ci sono voluti anni perché capissi

      che anche quello era un dono.

       

      510CBQQA3LL._SX258_BO1,204,203,200_.jpg

       

      In quattro versi, Mary Oliver riesce a sintetizzare, con un’immediatezza che risuona in ogni sillaba di un dolore freddo e vuoto – simile al rumore che fa un centesimo che cade in una lattina vuota – una condizione di cui non siamo più bravi a parlare, uno stato d’animo che cerchiamo di abbellire costantemente, rivestendolo di una patina dorata per non vederne la ruggine. Non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, o di esercitare la tanto decantata mindfulness, di praticare più o meno complicati giochi della felicità o di cercare – solitamente per condividerli sui social – motivi per cui essere grati: Mary Oliver ricorda al lettore  – così come Elizabeth Bishop, in un’altra bellissima poesia, L’arte di perdere – che a volte si ricevono colpi talmente forti ed inaspettati che nemmeno il pugile più esperto ed allenato riuscirebbe a prevederli. Delusioni inflitte da una persona cara, che lasciano senza fiato, peggio di un pugno allo stomaco. Fallimenti professionali o personali, che stendono peggio di un pugno sui denti, tanto per rimanere nella metafora agonistica.

      Possibilità che giungono travestite da pacchi regalo, ma che, una volta aperte, si rivelano piene di vuoti, ché se fossero semplicemente vuote sarebbe più facile. E ci si ritrova, soli, a contemplare l’oscurità in fondo alla scatola. Sconfitti, almeno momentaneamente, almeno apparentemente. Perché, come la Oliver insegna, forse non ha sempre senso ricoprire il buio di glitter, chiamarlo con altri nomi per esorcizzarlo, trasformarlo, camuffarlo, evitarlo, nasconderlo. A volte bisogna semplicemente sedersi, al buio, da soli, e accettare di essere pervasi dal contenuto di quella scatola, per imparare a non averne paura, per essere pronti a riconoscerla tra mille ed evitarla. Per diventare più forti. Per imparare da un dolore che un giorno, forse, potrebbe tornare utile, per parafrasare Peter Cameron.

      Non a caso, la poesia della Oliver si intitola The uses of sorrow, l’utilità – o meglio, le molteplici utilità – della sofferenza, e il titolo della raccolta che la ospita è Thirst, sete.

      La Oliver, che cerca di affrontare la morte del partner, con cui ha condiviso quarant’anni di vita, si getta nella sofferenza a capofitto, con la voluttà del martirio immediato, con la volontà di accettare la morte come parte della vita affrontandola, e disarmandola.

      My work is loving the world, amare il mondo è il mio lavoro, dichiara la poetessa all’inizio della raccolta: i suoi versi dimostrano il coraggio nell’affrontare quello stesso mondo nella sua interezza, l’umiltà di chi riesce a fare anche dell’oscurità una lezione di vita, andando avanti, sempre, per mantenere le cose insieme, come insegna anche Mark Strand.

      Perché a volte bisogna imparare a vedere il bicchiere mezzo vuoto, per riuscire a riempirlo di nuovo.

       

      Soundtrack: The Darkness, Leonard Cohen

       

      Posted in Frammenti di poesia | 4 Comments | Tagged Elizabeth Bishop, L'arte di perdere, Leonard Cohen, mark strand, Mary Oliver, moods, Peter Cameron, Poetry, The uses of sorrow, Thirst, Un giorno questo dolore ti sarà utile
    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

      libri

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

      11541928_867012900036886_7110911472174065726_n

      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • Anch’io volevo un Nobel – i celebri esclusi

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 9, 2015

      Nobel1

      Anche quest’anno l’attesa da TotoNobel è passata, e le congratulazioni di turno spettano alla bielorussa Svetlana Alexievich (di cui onestamente non ho mai letto nulla).

      Se, come me, anche voi aspettate questo periodo dell’anno per ridere con i post del mitico Tumblr Philip Roth rosica, e, in fondo in fondo, a ogni giro sperate che vinca un autore che amate, o almeno conoscete (la mia doppietta del cuore è rappresentata da Wisława Szymborska nel 1996 e dalla mia amatissima Alice Munro nel 2013), ecco a voi una lista di celebri (e, a parer mio, meritevolissimi) autori snobbati dall’algida Accademia svedese.

      Tra l’altro, si vocifera che l’Accademia sia un filino (no, non c’è un modo politicamente corretto di dirlo, o se c’è mi sfugge) antiamericana: nel 2008 il segretario permanente della giuria dell’Accademia, Horace Engdahl, in una dichiarazione all’Associated Press, affermò quanto segue:

      There is powerful literature in all big cultures, but you can’t get away from the fact that Europe still is the centre of the literary world … not the United States.The US is too isolated, too insular. They don’t translate enough and don’t really participate in the big dialogue of literature …That ignorance is restraining.

      (C’è della grande letteratura in tutte le grandi culture, ma non si può negare che l’Europa continui a rappresentare l’ombelico del mondo letterario..non gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono troppo isolati, troppo insulari. Non traducono abbastanza e non partecipano realmente al dialogo letterario in senso lato…Quell’ignoranza li limita).

      Quindi, caro Roth, mi sa che ti tocca rassegnarti. Tuttavia, non disperare: sei in ottima compagnia.

      tolstoj1) Leo Tolstoj. Se qualcuno di voi riesce a trovare un solo buon motivo (letterario, non politico, ovvio) per cui l’autore di opere immortali come Guerra e pace e Anna Karenina (tra parentesi, il mio libro preferito) non possa essere giudicato meritevole del premio Nobel me lo comunichi, per favore.

      E non solo la sola a pensarla così: nel 1901, anno di rodaggio del Nobel, quarantadue autori svedesi scrissero un’accorata lettera a Tolstoj, esprimendo tutto il loro dispiacere per la sua esclusione dal premio, assegnato a Sully Prudhomme (Wikipedia può esservi più utile di me, dato che non ho idea di cos’abbia scritto). Il buon vecchio Leo la prese molto sportivamente: si dichiarò sollevato, scrivendo ai quarantadue svedesi di essere certo che quel denaro non gli avrebbe portato che male. Ricorderete che, a un certo punto, Tolstoj inizia a soffrire di acuta depressione, abbandona gradualmente la famiglia e la pretesa di possedere beni materiali e si rifugia nella religione.

      1311162-Marcel_Proust2) Marcel Proust. Forse il suo Alla ricerca del tempo perduto era troppo sperimentale e innovativo per i gusti dell’Accademia? La butto lì.

      3) James Joyce. L’esclusione di Joyce sorprende un po’ di meno: non fu apprezzato in vita, e la famosa scena dell’Ulisse in cui Leopold Bloom si masturba su una panchina guardando un gruppo di scolarette non aiutò di certo la sua causa presso l’Accademia svedese (Ulisse, d’altro canto, ha fatto parte dei banned books negli States fino al 1930).

      james-joyce

      4) John Updike. Che dire? Troppo bianco, troppo Americano, troppo sessualmente esplicito?

      John Updike in 1986

      5) Virginia Woolf. Su 112 Nobel per la letteratura, solo 13 (14 con la Alexievich) sono stati assegnati a autrici donne (ma in Svezia non esistono le quote rosa?). Comunque, la leonessa del Bloomsbury group non è stata tra le scrittrici insignite. Troppo avant-garde, troppo depressa? Il suo flusso di coscienza è rimasto sul groppone dell’Accademia, come quello di Joyce? AI posteri l’ardua sentenza.

      o-VIRGINIA-WOOLF-facebook

      borges6) Jorge Luis Borges. Ancora una volta, l’unica spiegazione plausibile per giustificare il mancato riconoscimento all’autore dell’Aleph o de Il giardino dei sentieri che si biforcano sono le sue simpatie per regimi dittatoriali (Pinochet, Franco) e le sue critiche rivolte all’Accademia stessa.

      Borges, candidato per trent’anni al Nobel senza averlo mai vinto, affermava – non senza una certa amarezza – che “quelle persone in Svezia” dovevano essersi dimenticate di lui, o essere convinte di avergli già assegnato il premio in passato. Povero Jorge.

      nabokov7) Vladimir Nabokov. Se iniziassi ad elencare tutti i motivi per cui Nabokov avrebbe dovuto vincere il Nobel, non la finirei più. Già il fatto di essere un grande scrittore in due lingue (russo, la sua madre lingua, e inglese) e aver regalato al mondo un capolavoro come Lolita dovrebbero bastare. D’altro canto, proprio l’autore di un libro come Lolita non poteva essere scelto come Nobel laureate. Tra l’altro, sapete chi vinse il premio l’anno in cui Nabokov venne nominato (1974?) Due Svedesi, Eyvind Johnson and Harry Martinson (se vi state chiedendo chi siano, la risposta è: non ne ho idea). Piccola curiosità: i premi Nobel svedesi sono stati sette, numero superiore a quello di ogni altra nazionalità. Sorpresi?

      Henry-James8) Henry James. Soprannominato The Master dai suoi contemporanei per la dedizione assoluta alla revisione e alla limatura dei suoi scritti, ci ha lasciato indubbiamente alcuni dei più grandi capolavori della letteratura mondiale – Ritratto di signora in prima linea.

      Perché allora i sommi accademici l’avrebbero escluso? Apparentemente, durante i suoi primi anni di vita, il comitato di selezione scartava autori considerati esplicitamente “idealisti” (anche Kipling è stato scartato per lo stesso motivo). Inoltre, ai suoi albori, il Nobel per la letteratura veniva assegnato prevalentemente ad autori europei (quasi tutti svedesi, sorpresa sorpresa). Bisogna aspettare il 1923 per assistere al trionfo di William Butler Yeats.

      9) Philip Roth. Niente, non riesco a rimanere seria e a parlare del valore letterario dell’autore di Pastorale americana, specie in questo periodo. Visitate il tumblr Philip Roth rosica e capitere perché. Comunque Philip, non disperare: finché c’è vita c’è speranza. Ci rivediamo l’anno prossimo!

      roth

      10) E. L. Doctorow. Anche lo scrittore americano, deceduto quest’anno, si sarebbe meritato un viaggetto nella capitale svedese.

      150721-el-doctorow-inline_caa6a011313348744811514f937111db.nbcnews-ux-2880-1000

      Niente, io continuerò a fare il mio eterno tifo per Ismail Kadaré, autore di meraviglie quali Il palazzo dei sogni e Il ponte a tre archi, purtroppo poco apprezzato in Italia, Milan Kundera e Leonard Cohen (per i profani: Cohen, oltre ad essere un grandissimo musicista, è un incredibile poeta).

      Vi lascio con una lettura per il fine settimana: una bellissima intervista della Paris Review ad Ismail Kadaré. Buona lettura, e buon weekend.

      Soundtrack: The winner takes it all, Abba

      Posted in Letteratura e dintorni | 24 Comments | Tagged Aleph, Anna Karenina, Bloomsbury group, E. L. Doctorow, Henry James, Il giardino dei sentieri che si biforcano, Ismail Kadaré, James Joyce, John Updike, Jorge Luis Borges, Kipling, Leonard Cohen, Leopold Bloom, Lev Tolstoj, Lolita, Marcel Proust, Milan Kundera, Nobel per la letteratura, Philip Roth, Philip Roth rosica, Ritratto di Signora, Svetlana Alexievich, Ulisse, Virginia Woolf, Vladimir Nabokov, William Butler Yeats
    • A thousand kisses deep

      Posted at 11:50 pm09 by ophelinhap, on September 28, 2013
      I know she is coming
      I know she will look
      And that is the longing
      And that is the book
      Leonard Cohen

       

      Niente di meglio di una poesia per donare colori sfumature profumi nuovi a un autunno già iniziato da troppo tempo. Un autunno lento e statico, dove il grigiore mattutino nasconde troppo spesso l’oro e il rame delle foglie cadenti.
      E non una poesia qualunque: una di quelle che rimangono dentro, che ti infestano, che ti perseguitano, che continui a ripetere a bassa voce come un mantra. Una poesia del mio amatissimo Leonard Cohen (nella rosa dei candidati per il prossimo premio Nobel per la letteratura), tratta dal suo Book of Longing.

      A thousand kisses deep è una prima versione della celebre canzone. Una poesia sensuale, a tratti cruda, che regala inaspettate immagini di una dolcezza struggente (il protagonista come pupazzo di neve sotto la pioggia e la grandine; l’amata che si apre come un giglio al calore).
      Il protagonista inizia con l’identificarsi completamente con la persona amata, sangue del suo sangue, suo specchio gemello, per poi svilupparne l’identità nel corso dei versi come un’entità del tutto separata e altra-da-sè.
      Il protagonista dichiara di essere bravo ad amare, bravo ad odiare ma di congelarsi nel mezzo: non è bravo a ricordare e a rimpiangere colei che ha perduto, che, ben lontana dall’essere perfetta, circondata da un alone di mistero, di artificio, di bugie, continua a farlo aspettare, sciogliendosi sotto la pioggia ed il nevischio: ma lei ormai non è più obbligata ad ascoltare le sue parole, muta condanna, che si perdono nel silenzio di una nottata d’inverno, rotto soltanto dal rumore della pioggia, o annegate a un migliaio di baci di profondità.

      A proposito di questo verso, presente anche nell’omonima canzone, lo stesso Cohen ha scritto:

      It’s a song that summaries quite well this feeling of invincible defeat anyone is affected by. The feeling that everything is temporary and unsubstantial. Of course you have to live your life as though it were all real, but the fundamental reality is far beyond the human’s understanding. Nowadays we know much more the mechanism of the Human, we’re decoding his genes, but no one can tell what is the meaning of that “Boogie street”. You can only have this feeling everything escapes us. Finally it’s an instructive feeling, that drive us ahead.
      (..) It’s taken so long to write and it was so much of my ordinary day even when I was in the meditation hall spending long hours. I suppose I was supposed to be calming my mind or directing it to other areas, but I was working on the rhymes for A Thousand Kisses Deep. I found the mediation hall was an excellent place to work on songs. I could concentrate on a verse, work out the rhymes and the ideas would come.

      (È una canzone che riesce a riassumere quel senso di invincibile sconfitta che colpisce tutti. La sensazione che tutto sia temporaneo, privo di sostanza. Ovviamente bisogna vivere come se tutto fosse reale, ma la realtà fondamentale trascende la comprensione umana. Oggi conosciamo molto meglio il corpo umano, ne decodifichiamo i geni, ma nessuno può illuminarci sul significato di quella “Boogie Street”). L’unica cosa che ci resta è quella sensazione che tutto sia transeunte. Tutto considerato, è un sentimento istruttivo, che ci fa andare avanti. (..) Ho impiegato gran parte delle mie giornate a scriverla, anche quando passavo lunghe ore nella sala di meditazione. Avrei dovuto rilassarmi, indirizzare la mia mente verso altri pensieri, ma la verità è che stavo lavorando alle rime per A thousand kisses deep. Trovavo la sala di meditazione un posto eccellente per lavorare alle mie canzoni. Potevo concentrarmi su un verso, lavorare sulle rime e aspettare il flusso di idee…)

      Ve la propongo nella mia traduzione, sperando riesca ad incantarvi e a regalarvi istanti di non trascurabile estate.

      You came to me this morning
      And you handled me like meat
      You’d have to be a man to know
      How good that feels, how sweet
      My mirror twin my next of kin
      I’d know you in my sleep
      And who but you would take me in
      A thousand kisses deep

      I loved you when you opened
      Like a lily to the heat
      I’m just another snowman
      Standing in the rain and sleet
      Who loved you with his frozen love
      His second-hand physique
      With all he is, and all he was
      A thousand kisses deep

      I know you had to lie to me
      I know you had to cheat
      To pose all hot and high behind
      The veils of sheer deceit
      Our perfect porn aristocrat
      So elegant and cheap
      I’m old but I’m still into that
      A thousand kisses deep

      And I’m still working with the wine
      Still dancing cheek to cheek
      The band is playing Auld Lang Syne
      But the heart will not retreat
      I ran with Diz and I sang with Ray
      I never had their sweep
      But once or twice they let me play
      A thousand kisses deep

      The autumn slipped across your skin
      Got something in my eye
      A light that doesn’t need to live
      And doesn’t need to die
      A riddle in the book of love
      Obscure and obsolete
      Until witnessed here in time and blood
      A thousand kisses deep

      I’m good at love, I’m good at hate
      It’s in between I freeze
      Been working out, but its too late
      It’s been too late for years
      But you look fine you really do
      The pride of Boogie Street
      Somebody must have died for you
      A thousand kisses deep

      I loved you when you opened
      Like a lily to the heat
      You see I’m just another snowman
      Standing in the rain and sleet
      But you don’t need to hear me now
      And every word I speak
      It counts against me anyhow
      A thousand kisses deep

      leonard-4

      Questa mattina sei venuta da me
      maneggiandomi come se fossi un pezzo di carne
      Dovresti essere un uomo per sapere
      quanto faccia bene, quanto sia dolce
      Mio specchio, sangue del mio sangue
      ti riconoscerei nel sonno
      e chi oltre a te riuscirebbe a portarmi
      a mille baci di profondità

      Ti ho amato quando ti schiudevi al calore
      come un giglio
      sono solo un altro pupazzo di neve
      sotto la pioggia e la grandine
      che ti ha amato col suo amore di ghiaccio
      il suo fisico di seconda mano
      con tutto quello che è e tutto quello che è stato
      a mille baci di profondità

      So che dovevi mentirmi
      So che dovevi tradirmi
      Fingerti sensuale, di classe
      dietro i veli dell’inganno assoluto
      La nostra perfetta porno-aristocratica
      così elegante e a poco prezzo
      Sono vecchio ma mi piace ancora
      a mille baci di profondità

      Ma seduco ancora col vino
      e ballo guancia a guancia
      la banda suona Auld Lang Syne
      ma il cuore non vuole battere in ritirata
      ho corso con Ditz, ho cantato con Ray
      non ho mai avuto la loro abilità
      ma una volta o due mi hanno lasciato suonare
      a mille baci di profondità

      L’autunno è scivolato sulla tua pelle
      facendo arrivare al mio occhio
      una luce che non ha bisogno di vivere
      e non ha bisogno di morire
      un enigma nel libro dell’amore
      oscuro ed obsoleto
      e ha fatto da testimone qui nel tempo e nel sangue
      a mille di baci di profondità

      Sono bravo ad amare, sono bravo ad odiare
      è nel mezzo che mi congelo
      mi sono esercitato ma è troppo tardi
      (è stato troppo tardi per anni)
      ma tu sei bella, lo sei davvero
      l’orgoglio di Boogie Street
      qualcuno deve essere morto per te
      a mille baci di profondità

      Ti ho amato quando ti schiudevi al calore
      come un giglio
      sono solo un altro pupazzo di neve
      sotto la pioggia e la grandine
      Ma non hai bisogno di sentirmi ormai
      ed ogni mia parola
      si ritorce comunque contro di me
      a mille baci di profondità

       

      leonard5

      coat
      http://youtube.googleapis.com/v/qDF5Qk05Pe8&source=uds
      Posted in Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Bookworms, In the mood for love, Leonard Cohen, Literature and Beyond, Poetry
    • So we bid farewell to the arms (a short story)

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 4, 2013
      Budapest, Feb 2013

      (scroll down for the Italian version)

                                                     ************************************

      I am getting used at dressing for myself only. Here, in my hotel room in Budapest, time passes slowly, according to my own caprices. I am an awful sleeper, even more in a bed that is not mine; even more on my first holiday alone – without you, without the idea of you.
      Getting dressed for myself is trickier and easier at the same time. On the one hand, I can follow my gut instinct, my mood swings. I can be vintage one day, sporty the following, classy when I feel like it.
      On the other hand, the temptation to avoid looking at any mirror and just tossing out of my wardrobe the first thing I find is huge. Picking clothes was  – with you, for you – a religious act: I’d go shopping and, more or less consciously, I’d look at stuff that I knew you would have loved: mostly, romantic, vintage dresses. Every morning, every evening, while dressing and undressing, I’d see myself in your eyes. I could spot the sparkle, the tiny glittery speckles at the corner of your wide, luminous, ambiguous eyes.
      Every single garment was lovingly picked, nothing was left to the fate. For I never knew when I would see you, and my hours would stretch achingly into the agony and ecstasy of waiting, waiting, waiting. The endless waiting. For I knew that, the exact moment you spotted me, I would become something liquid and frail, breathing you, living you, existing into you.
      I stroll carelessly along the Danube, admiring the way the Duma falls in love with itself in the water, timeless, elegant, majestic Narcissus promenading the river. Trying to recall the moment I broke in one thousand pieces, the moment when I had to give everything up and get away from you. The moment where I left the city where I met you and all the safe little world I had built around me.
      It was a weird late winter day. I should have sussed out something was going to happen. I had indeed been dressing again, for a couple of days, as if you were to see me. It was a weird Wednesday, the sun was shining and I felt compelled to go out in the terrace, in the sun – compelled the way you only feel when you are living in Northern countries and you know that a lukewarm, sunny, spotless day it is indeed a luxury and something to treasure, to seize – and do something I hadn’t been doing for a long time: having a fag. Just one, for old times’ sake. And there you were, indeed, in the last place I expected to meet you, sitting on the steps of our broken rendez-vous, drinking your coke, your eyes closed, sun stroking your golden hair. I saw your look – that look – carefully assessing my outfit, lovingly assembled against my own conscience, just hoping, just waiting for this moment to come: layers of carefully mismatched t-shirts, a funky gipsy skirt, colorful tights, cowboy boots. And confusion, and my heart beating savagely as I slowly approached you. You didn’t even look up; you just said “You are doing your hair differently; I liked it better before”.
      I sat down and we talked – it was books, as always: our safe haven, our curfew. As we were talking, you stopped all of a sudden and said: “so we bid farewell to the arms”.
      When we started our “thing” (you never wanted labels) you once asked me which book I would pick if I was supposed to die in a couple of hours. Instinctively, I skipped my classic faves, like Pride and Prejudice or Wuthering Heights, and also my beloved Anna Karenina: I went straight to Farewell to arms by Hemingway, because I kind of thought it made sense to read about the wild beauty of life and the everlasting battle fought between eros and thanatos in a moment like that.
      However, when you mentioned the title I sat there, frozen, because I knew you weren’t recalling that moment: you had simply realized I had given up on fighting for you. I was wasted, I was tired. I was empty.
      I felt nothing, I wanted nothing but oblivion.
      There I sat, your shoulder brushing casually against mine – the first physical contact we had in months – and I couldn’t help but wonder: that was the chest upon which I used to sleep. Those were your insolent, provocative, cat eyes I had fallen in love with, at first side. Those were the tiny wrinkles I used to kiss, one by one. You were saying something, but I wasn’t listening anymore: I was listening instead to a tune in my head, our favorite singer, Leonard Cohen, or, as you put it, “the patron saint of unhappy endings”:

      I loved you in the morning, our kisses deep and warm,
      your hair upon the pillow like a sleepy golden storm

      That was your golden maze, that used to end up tangles in my long dark curls. There was the flesh, the skin, the blood I had worshipped and loved drop by drop – because we where one. Together, we were better, we created a sort of third entity that was us. And “Us” used to be freer and happier and more careless and more adventurous. And astonishingly beautiful. You used to lead me to the mirror and say: “Look at us: don’t we just look better together? Don’t we just feel better together?”
      How I wish those were not just empty, shallow words.
      I go back to my hotel room. I feel tired, tired of myself, tired of everything. Of this endless waiting for someone who is not going to show up.
      This whole trip idea was a mistake. Begging my boss for a sabbatical, leaving my flat in a rush, planning haphazardly a trip across Eastern Europe, since I had stuck mostly to the Western part.
      As I lay in my bed, I do something I had sworn not to do: I open up my pc and go through my emails. Sure as hell, your name pops up. Something about a poem you hated, and then one question: when will you come back? And my heart stops, because you are not asking me what’s next, or when will I go back; but when will I  come back.
      I know it is preposterous and stupid. I know you don’t mean coming back to you. But all of a sudden, I cannot stand being here anymore. I start packing, tossing stuff without really looking at it. Packing for Romania, as I planned to do, or packing for coming back to you?
      Words are a powerful – and dangerous –  tool. A single verb can change everything.
      I stop packing and undress slowly, and, in front of my mirror, start getting dressed, putting the same clothes I had on the first time I met you – your transparent eyes, your baby blue shirt, your tousled hair. The first time I stopped existing an individual entity and started existing as a third part. And in the moment, in this moment, you are mine again. More than ever.

      (scroll up for the English version)
                                                *********************************

      Così diciamo addio alle armi

      Mi sto abituando a vestirmi solo per me stessa. Qui, nella mia stanza d’albergo a Budapest, il tempo passa lentamente, secondo il mio capriccio. Ho sempre avuto problemi di insonnia, ancora di più in un letto che non sia il mio; ancora di più durante la mia prima vacanza da sola – senza te, senza l’idea di te.
      Vestirmi per me soltanto è semplice e al tempo stesso immensamente difficile. Il vantaggio è che posso seguire il mio istinto, le mie oscillazioni d’umore. Posso essere vintage per un giorno, sportiva il successivo, elegante quando mi va di esserlo.
      Tuttavia, la tentazione di ignorare lo specchio e tirare fuori dall’armadio la prima cosa che capita è forte. Scegliere cosa indossare era – con te, per te – un rituale sacro: andavo a fare spese e, in modo più o meno consapevole, guardavo solo quei vestiti che sapevo tu avresti amato, per lo più romantici vestiti vintage. Ogni mattina, ogni sera, mentre mi vestivo e mi spogliavo, mi vedevo riflessa nei tuoi occhi. Mi vedevo attraverso i tuoi occhi. Potevo intravedere quella scintilla, quei puntini luminosi agli angoli dei tuoi larghi occhi, ambigui, luminosi.
      Ogni singolo indumento veniva scelto con amore: nulla veniva lasciato al destino. Perché non sapevo mai quando ti avrei visto, e le mie ore sofferte si allungavano nell’agonia e nell’estasi dell’attesa. Un’attesa infinita. Ma sapevo che, nel momento esatto in cui mi avresti intravista, sarei diventata liquida e fragile, senza contorni, diluita in te, nel tuo respiro.
      Mi trascino svogliatamente lungo il Danubio, ammirando il modo in cui la Duma si innamora del suo riflesso nell’acqua, elegante e maestoso Narciso sempiterno che passeggia lungo la riva del fiume. Cercando di ricordare il momento in cui mi sono rotta in mille pezzi, il momento in cui ho dovuto abbandonare tutto e andare via da te. Il momento in cui ho lasciato quella città in cui ti avevo incontrato, il piccolo mondo sicuro che avevo costruito intorno a me.
      Era uno strano giorno di fine inverno. Avrei dovuto capire che qualcosa stava per succedere. Avevo ripreso, da un paio di giorni, a vestirmi per te. Era uno strano mercoledì, il sole brillava luminoso e avevo sentito il bisogno di uscire in terrazza – quel bisogno impellente che ti coglie solo quando vivi in paesi del Nord Europa e sai vene che una giornata di sole, tiepida e senza nuvole, è un lusso, un’opportunità da cogliere, da conservare nella memoria come un tesoro – e fare qualcosa che non facevo da tempo: fumare.
      Solo una, in ricordo dei bei vecchi tempi. Avrei dovuto dare retta al mio sesto senso: eri lì, nell’ultimo posto in cui mi sarei aspettata di incontrarti, seduto sul gradino dei nostri incontri spezzati, una Coca in mano, gli occhi chiusi, il sole che accarezzava i tuoi capelli dorati. Hai socchiuso gli occhi, e ho intravisto il tuo sguardo – quello sguardo – studiare con cura il mio abbigliamento, inconsciamente studiato con cura, come se per giorni mi fossi preparata a quel momento, a quell’incontro: strati di T-shirt accuratamente scoordinate, un’eccentrica gonna da zingara, calze colorate, stivali da cowboy. Ma indossavo anche confusione, e il mio cuore che batteva selvaggiamente mentre mi avvicinavo a le, lentamente. Non hai nemmeno sollevato lo sguardo; hai detto soltanto: “Hai un taglio diverso; mi piacevano più prima, i tuoi capelli”.
      Mi sono seduta e abbiamo parlato – di libri, come sempre; il nostro porto sicuro, il nostro coprifuoco. Mentre parlavamo, ti sei fermato di scatto e hai detto: “e così diciamo addio alle armi”.
      Ai tempi di me e te (non saprei che definizione usare; non avevi mai voluto etichette) mi avevi chiesto una volta che libro avessi scelto se mi fosse rimasta una manciata di ore da vivere. Avevo istintivamente saltato i miei amato classici, come Orgoglio e Pregiudizio o Cime tempestose, e anche la mia amata Anna Karenina: avevo scelto Addio alle armi di Hemingway, pensando che, in un momento come quello, avrebbe avuto senso leggere della bellezza selvaggia della vita, della lotta sempiterna tra eros e thanatos.
      Tuttavia, quando hai menzionato quel titolo sono rimasta seduta sul gradino, immobile, perché sapevo non stavi ripensando alla nostra conversazione: avevi semplicemente capito che avevo smesso di lottare per te. Ero esausta, allo stremo delle mie forze. Ero vuota.
      Non sentivo niente. Non volevo niente al di fuori dell’oblio.
      Sedevo lì, e mentre la tua spalla sfiorava casualmente la mia – il primo contatto dopo mesi – non potevo impedirmi di pensare al fatto che quello era il petto sul quale ero solita dormire. Quelli erano gli stessi occhi da gatto, insolenti e provocatori, dei quali mi ero innamorata, a prima vista. Quelle erano le rughe sottili che ero solita baciate, una ad una. Continuavi a parlare, ma non ti ascoltavo più: ero persa nel ricordo di una canzone del nostro cantante preferito, Leonard Cohen, o, come ti piaceva definirlo, “il santo patrono dei finali tristi”:

      I loved you in the morning, our kisses deep and warm,
      your hair upon the pillow like a sleepy golden storm
      Ti ho amato al mattino, i nostri baci caldi e profondi,
      i tuoi capelli sul cuscino come una tempesta d’oro insonnolita

      Quello era il labirinto dei tuoi capelli d’oro, che finivano per intrecciarsi ai miei lunghi ricci scuri. Quella era la carne, la pelle, il sangue che avevo venerato, che avevo amato, goccia a goccia  -perché eravamo uno. Insieme eravamo migliori, finivamo per creare una sorta di entità terza, un noi esterno, estraneo alle nostre individualità. E noi eravamo più liberi e più felici e più distratti e più avventurosi. E belli, di una bellezza commovente. Mi portavi davanti allo specchio e mi dicevi: “Guardaci: non siamo più belli insieme? Non ci sentiamo migliori insieme?”
      Vorrei che queste non fossero state soltanto parole vuote, sterile.
      Torno alla mia stanza d’albergo, nauseata, stanca, stanca di me stessa, stanca di tutto. Dell’attesa perenne di qualcuno che non arriverà mai.
      Questo viaggio è stato un errore. Scongiurare il mio capo per un anno sabbatico, lasciare il mio appartamento in fretta e furia, pianificare a caso un viaggio attraverso l’Europa dell’est, dato che mi ero sempre limitata ad ovest.
      Mentre sono sdraiata a letto, faccio qualcosa che mi ero ripromessa di non fare: apro il mio computer e guardo le mie email. Ovviamente, il tuo nome. Un’email sconclusionata su una poesia che avevi odiato, e una domanda, quella domanda: quando torni? E il mio cuore si ferma, perché non mi chiedi quali sono i miei progetti futuri, né “quando vieni”, ma “quando torni?”
      So che è presuntuoso e stupido. So che non intendi chiedermi quando torno da te. Ma, improvvisamente, non posso sopportare un minuto di più il pensiero di essere qui. Mi manca l’aria. Inizio a fare le valigie, lanciandovi cose a caso, senza nemmeno guardarle. Fare le valigie per andare in Romania, secondo i piani, o per tornare, tornare da te?
      Le parole sono un’arma pericolosa. Un singolo verbo può cambiare un intero corso di azioni.
      Smetto di fare le valigie e mi spoglio lentamente, e, davanti allo specchio, mi rivesto, indossando gli stessi vestiti che avevo la prima volta che mi hai visto – i tuoi occhi trasparenti, la camicia azzurra, i capelli spettinati, il sorriso sornione. La prima volta che ho smesso di esistere come entità individuale e ho iniziato a vivere come terza parte. E nel momento, in questo momento, sei mio, di nuovo. Più che mai.

      Budapest, Feb 2013
      Posted in Anglophilia, Frammenti di un discorso amoroso, Ophelinha scrive | 1 Comment | Tagged In the mood for love, Leonard Cohen, Racconti, Tales of a Surreal Urban Storyteller
    • L’ (anti)eroina

      Posted at 11:50 pm07 by ophelinhap, on July 2, 2013
      I’m good at love, I’m good at hate
      It’s in between I freeze
      I’d work it out but it’s too late
      It’s been too late for years
      But you look good, you really do
      They love you on the street
      If you were here I’d kneel for you
      A thousand kisses deep
      A thousan kisses deep, a poem (Leonard Cohen)

       

      Se un giorno trovassi il coraggio di farlo – e fossi ancora in tempo.
      Se un giorno mi convincessi di poterlo fare. Di poterci riuscire. Di trovare le parole giuste, quelle che smuovono corde nascoste, invisibili all’occhio umano.
      In quel caso, non scriverei di moderne eroine indipendenti, che usano i loro lunghi capelli da spot Pantene per salvare se stesse, che fanno della loro forza e della loro indipendenza un’arma, in contrapposizione alle eroine della tradizione classica, che avevano invece bisogno di un principe. Oh, no.
      Se un giorno riuscissi a farlo, scriverei della ragazza della porta accanto, dell’antieroina dei nostri giorni, che si arrampica tra appuntamenti sbagliati e contratti precari, maternità arrivate troppo presto o troppo tardi o non arrivate.
      Quelle ragazza che affianca brufoli adolescenziali alle prime rughe, i cui capelli sono crespi come un cespo di lattuga.
      Quella ragazza che ha perso se stessa e il suo posto nel mondo. Che insegue un sogno – o più sogni – da quando era piccola, ma, al momento giusto, è mancata l’opportunità, la possibilità, il coraggio di seguirli. È intervenuta la vita, e ha scombinato tutte le carte in tavola.
      Una ragazza che vive in una città che non sente sua e che odia il suo lavoro (temporaneo, ovviamente) tanto da non riuscire a dormire la domenica, in previsione di quei lunedì così odiati.
      Una ragazza che brucia d’ambizione, ma non riesce ad accenderne lo stoppino.
      Una ragazza che si guarda allo specchio e non si piace, che si guarda allo specchio e non si riconosce.
      Una ragazza come tante, ammalata d’insonnia e di delusione, dannatamente fragile, emotivamente immatura, umorale, poco disposta ad indossare una maschera in un mondo che ha fatto dell’ipocrisia la sua bandiera.

      Una ragazza che si allena ad essere ottimista e si vergogna del suo pessimismo cronico – storico – cosmico, senza tuttavia cedere alla tentazione di fingersi diversa da quello che è, senza scivolare in giochi della felicità al sapore di Prozac e di Pollyanna.
      Una ragazza che raccoglie decaloghi e si dimentica puntualmente di rispettarli, che compra agende e quaderni nel tentativo di rendere la sua caotica e precaria esistenza quotidiana quanto più possibile simile a quella di altre ragazze, dai capelli ordinati e dai pensieri ordinati e colorati di rosa – e li perde, puntualmente.

      Una ragazza che spesso si sveglia col piede storto, che non riesce mai a domare i suoi capelli, che dimentica sempre l’ombrello quando diluvia, che arriva sempre in ritardo, che non riesce ad abbinare i colori. Che si inerpica su sentieri desolati di bovaristica memoria, alimentando timidamente quelle illusioni romantiche che non riescono proprio a spegnersi, malgrado i reality check imposti dalla vita quotidiana.

      Una ragazza che trascina valigie pesanti, piene non di abiti griffati ma di ricordi e di fantasmi, persa tra le piattaforme e i binari di una stazione labirintica, avvolta dalla foschia, incerta sulla direzione da prendere. Ferma lì, ad osservare, ad immaginare, a cercare di raccontare. Di dare voce a ogni batticuore. A ogni cuore pulsante perso nella nebbia più fitta, che non riesce più ad orientarsi. A tutti coloro persi nel tentativo di risolvere gli algoritmi della ragione del cuore.
      A tutti coloro che aspettano treni che non arrivano mai, a chi ha perso le coincidenze, ha dimenticato le prenotazioni. A quei treni che partono vuoti.

      La ragazza sta lì, ferma, ad aspettare.

      E, nonostante tutto, nonostante la nebbia che le impedisce di vedere e la pioggia che la fa rabbrividire di freddo e l’ansia e la paura, non riesce proprio a smettere di sperare. Proprio non ci riesce.

      Soundtrack: Hero, Regina Spektor

      Posted in Ophelinha scrive | 2 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Le notti bianche, Leonard Cohen, Me myself and I, Mine vaganti
    • Se una lettera non fa primavera: #letteredamore2013

      Posted at 11:50 pm03 by ophelinhap, on March 21, 2013
       
       Your beauty lost to you yourself
      just as it was lost to them.
      Oh take this longing from my tongue,
      whatever useless things these hands have done.
      Let me see your beauty broken down
      like you would do for one you love
       
      Leonard Cohen, Take this longing
       
       

      Qui la primavera si fa aspettare, in questa sorta di perenne, lattiginoso inverno (non per nulla ho ribatezzato questa città Greyville…)
      In giornate come queste è difficile cercare la bellezza, e soprattutto trovarla.
      Ci si prova, ma si fa una fatica terribile.
      Oggi però avevo una missione da compiere: nella mia borsa, insieme alle migliaia di cose che porto con me ogni giorno (tra cui una copia dei bellissimi Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese..ma questa è un’altra storia, per un’altra sera di quasi primavera) batteva, quasi fosse un cuore, una lettera, dentro una vecchia copia di Pride and Prejudice di Jane Austen.
      Una lettera scritta a mano, con tanto di brutta copia (ho sempre avuto una grafia orribile, e la tendenza ad acciuffare idee e pensieri in maniera disordinata):

      Una lettera scritta tra un’insonnia e l’altra. Una lettera terapeutica, che mi ha spinto a confrontarmi con l’immensità bianca del foglio di carta, il mio amato Cohen in sottofondo, e a cercare di mettere a nudo quello che penso davvero dell’amore, in senso letterario e in senso reale, senza avere paura di essere etichettata come inguaribile romantica, sospesa in un mondo tutto suo.
      Una lettera in cui ho confessato le mie paure, alla quale ho affidato una memoria e un ricordo, una lacrima e un sorriso, una promessa e una speranza. Una lettera che ho messo dentro uno dei miei libri preferiti, sperando che approdi prima o poi in un porto sicuro. Che finisca nelle mani di qualcuno che non abbia paura di mettersi in gioco, di interrogarsi, di mettersi in discussione, di fidarsi, di piangere. Soprattutto, nelle mani di qualcuno che creda nel potere della parole, delle affinità elettive, delle empatie impreviste, che sfidano il tempo e le distanze, i fusi orari e le coordinate, le coincidenze e le prenotazioni.

      Specie in un giorno come oggi, che, oltre a sancire (almeno sul calendario) l’inizio della primavera, è dedicato alla poesia. Proprio qualche giorno fa riflettevo, non senza una certa amarezza, sul ruolo esiguo al quale il poeta è costretto nella società odierna, in cui sembra quasi che non ci sia più bisogno di poesia. A tal proposito, voglio citare un estratto del discorso di oggi di Irina Bokova, direttore generale dell’UNESCO, in occasione della giornata mondiale della poesia:




      “In celebrating World Poetry Day, UNESCO wishes also to promote the values that poetry conveys, for poetry is a journey – not in a dream world, but often close to individual emotions, aspirations and hopes. Poetry gives form to the dreams of peoples and expresses their spirituality in the strongest terms– it emboldens all of us also to change the world”.

      (Nel celebrare la giornata mondiale della poesia, l’UNESCO vuole altresì promuovere i valori veicolati dalla poesia stessa: perchè la poesia è un viaggio, che non avviene in un mondo di sogno, ma spesso a stretto contatto con le emozioni, le aspirazioni e le speranze del singolo. La poesia dà forma ai sogni delle persone ed esprime al massimo la loro spiritualità, conferendo a noi tutti l’audacia di cambiare il mondo).

      E ho pensato che finchè ci sarà poesia, e libri da leggere, e una lettera da trovare, lasciata da uno sconosciuto, saremo sempre in grado di trovare la bellezza, anche lì dove sembra essersi smarrita, essersi fatta invisibile. E questo percorso di riscoperta del genere epistolare e della scrittura a mano è stato reso più bello dalla presenza delle mie favolose compagne di viaggio – Rose Mel, Audrey, Tiziana, Strawberry, Federica e Chiara Maria – alle quali va un sentito grazie. Così come a tutti coloro che si saranno seduti, o si siederanno, e prenderanno in mano un vecchio taccuino e una Bic mangiucchiata, e cominceranno a scarabocchiare parole. Riscaldandosi alle ceneri di un vecchio amore, o sognandone uno nuovo.


       

       
       

      Se siete interessati a scoprire dove sono andate a finire le nostre lettere, vi invito a cercarci su Instagram con l’hashtag #letteredamore2013.
      E per chi fosse curioso di sapere dove ho lasciato la mia, dirò soltanto che ho lasciato Pride and Prejudice in compagnia di tanti altri libri.. 🙂

      Perchè, come canta Vecchioni, forse le lettere d’amore fanno solo ridere, ma ci renderemmo ancora più ridicoli se non le scrivessimo, mai….

       
       

      
       
       
       
       
       
       http://youtube.googleapis.com/v/5dpwJS1-uYM&source=uds
       
       
       
       
      La lettera e il libro di Tiziana (e il suo post)
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
      La lettera e il libro di Federica
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
       
      Il libro e la lettera di Audrey
       
       
       
      Il libro e la lettera di Valentina
       
       
       
       
       
       
       
      Posted in Uncategorized | 9 Comments | Tagged Bookworms, Confessions of a Dangerous Mind, Greyville, In the mood for love, Jane Austen, Janeite, Leonard Cohen, Lettere d'amore, Me myself and I, Ophelinha
    ← Older posts
    • Chasing Impressions

    • Categories

      • Anglophilia
      • Cartoline
      • Frammenti di poesia
      • Frammenti di un discorso amoroso
      • Guestpost e interviste
      • Il Calendario dell'Avvento Letterario
      • Letteratura americana
      • Letteratura e dintorni
      • Ophelinha legge
      • Ophelinha scrive
      • Rileggendo i classici
      • Uncategorized
    • Goodreads

Blog at WordPress.com.

Impressions chosen from another time
Blog at WordPress.com.
Cancel

 
Loading Comments...
Comment
    ×
  • Nel rispetto del provvedimento emanato in data 8 maggio 2014 dall'Autorità garante per la protezione dei dati personali, si avvisano i lettori che questo blog usa dei cookie per fornire servizi e per effettuare analisi statistiche completamente anonime. Pertanto proseguendo con la navigazione si accetta l'uso dei cookie. Per un maggiore approfondimento clicca qui.