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  • Tag: Langston Hughes

    • Storie di expat

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 26, 2016


      Da un po’ di tempo mi interrogo sulla condizione dell’expat, per ovvie ragioni. Vivo fuori da più di sei anni, e mi ritrovo ad un punto in cui devo decidere cosa fare nel mio futuro prossimo. Nell’ambito delle mie considerazioni, mi sono resa conto, con estrema amarezza e con un certo disincantato stupore, di non avere più un posto da chiamare casa.

      Qui mi sono sentita sempre di passaggio, ho visto amici traslocare, colleghi cambiare lavoro, le vite degli altri scorrere più o meno veloci, più o meno lente, e ho messo la mia un po’ in stand by.

      Un paio di volte all’anno mi prende la voglia di tornare a casa. Coincide col Natale o con l’arrivo dell’estate, con la voglia di quel sole sulla pelle che qui è così difficile da reperire. Ogni rientro è caratterizzato da una sorta di sfasamento, dal vuoto spazio-temporale tra chiudere la porta di una casa e aprire la porta di un’altra, solo per percorrere con lo sguardo stanze straordinariamente familiari e al tempo stesso ormai così estranee da diventare quasi ostili: basta un libro spostato, un mobile nuovo, il giardino potato di recente per aumentare quel senso di malessere e di non appartenenza.

      La vita dell’expat (quantomeno la mia) è cosi: divisa tra due mondi e due realtà diverse, scissa dal disagio profondo di non appartenere poi veramente a nessuna delle due. Ogni andata, ogni ritorno diventa un po’ come dover imparare di nuovo una lingua appresa molto tempo prima e poi dimenticata: si ha la testa sott’acqua e le parole galleggiano sulla superficie, e si cerca di afferrarle, di impadronirsi di nuovo della loro essenza, di riempirsi la bocca e le orecchie del loro suono.

      Mi sono sempre detta che molto dipende dal posto, e probabilmente è così: io e Bruxelles non abbiamo mai fatto davvero amicizia, siamo rimaste due conoscenti che si guardano di sottecchi, con diffidenza. Quando torno a Londra, dove scappo appena posso, è un’altra storia: le sue strade sono piene di ricordi di una me più giovane e più leggera che vi abitava quasi danzandovi, depositaria di un futuro pieno di possibilità, succoso come le prime pesche della stagione.

      Negli ultimi mesi mi sono imbattuta in due letture che hanno accompagnato e condiviso il mio stato d’animo: due storie di expat, Brooklyn di Colm Tóibín (che ho comprato a New York in quest’edizione, ma che potete trovare nella traduzione italiana di V. Vega, pubblicato da Bompiani) e Anche noi l’America di Cristina Henríquez, edito da NN nella traduzione di R. Serrai.

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      Brooklyn (da cui è tratto l’omonimo film, con una bravissima Saoirse Ronan) racconta la storia di Eilis, giovane irlandese che non riesce a trovare lavoro (mal comune) ad Enniscorthy, sonnolenta cittadina nel sudest dell’Irlanda degli anni cinquanta; un’Irlanda cosparsa di uno spesso strato di malinconia per un benessere che non esiste più, un’età d’oro che sembra ormai lontanissima.

      Eilis, spronata dall’adorata sorella Rose, che sogna per lei una vita migliore e orizzonti più vasti, decide di partite alla volta della grande mela.

      Durante i primi mesi, la ragazza vive appunto con la testa sott’acqua: ammalata di nostalgia e di mancanza di qualcosa di indefinito e intangibile, si trascina stancamente tra giornate sempre uguali, il cuore diviso tra la Eilis di prima, la ragazza di Enniscorthy, e la nuova Eilis di Brooklyn:

      “It made her feel strangely as though she were two people, one who had battled against two cold winters and many hard days in Brooklyn and fallen in love there, and the other who was her mother’s daughter, the Eilis whom everyone knew, or thought they knew.”

      (Aveva la sensazione stranissima di essere due persone diverse: la prima era la ragazza che aveva combattuto due gelidi inverni e una moltitudine di giornate difficili a Brooklyn e si era innamorata lì; l’altra era la figlia di sua madre, la Eilis che tutti conoscevano, o pensavano di conoscere).

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      L’amore ci mette lo zampino, nella persona di Tony, un ragazzo di origini italiane che intraprende l’ardua impresa di far amare Brooklyn a Eilis; quando la ragazza ritrova il sorriso e si sente tranquilla e sicura in una vita che le è diventata familiare, che le sembra ormai l’unica vita possibile, lo spettro della Eilis di prima la richiama bruscamente in Irlanda. Tornare a casa si rivela tristemente molto diverso dalle aspettative:

      “She had put no thought into what it would be like to come home because she had expected that it would be easy; she had longed so much for the familiarity of these rooms that she had presumed she would be happy and relieved to step back into them, but, instead, on this first morning, all she could do was count the days before she went back. This made her feel strange and guilty; she curled up in the bed and closed her eyes in the hope that she might sleep.”

      (Non aveva pensato a come sarebbe stato tornare a casa perché si aspettava che sarebbe stato facile; aveva desiderato così ardentemente la familiarità di quelle stanze che aveva dato per scontato che sarebbe stata contenta e sollevata di rimettervi piede; invece, nel corso della sua prima mattina a casa, non era riuscita a fare altro che contare i giorni che mancavano al suo rientro. Questo l’aveva fatta sentire strana e colpevole; si era accoccolata nel letto e aveva chiuso gli occhi, sperando di dormire).

      Tony diventa un ponte che unisce e al tempo stesso separa i due mondi di Eilis, un sentimento nascosto da uno spesso strato di sensi di colpa che la ragazza non riesce a vivere nella sua interezza. Solo quando Eilis inizierà ad accettare che ci sono incontri che cambiano le persone, insinuandosi sotto la loro pelle e modificando l’idea di casa, riuscirà ad appartenere ad un posto, a farsi abitare da un luogo, a ritrovare il suo Heimat.

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      Anche noi, l’America raccoglie le voci di quell’America che nessuno racconta: un Paese di invisibili, le cui vite apparentemente piccole e semplici nascondono un’epopea di rinunce, di speranze andate a male, di scommesse col destino, di sogni realizzati e sogni naufragati.

      Un anonimo palazzone del Delaware nasconde un cuore pulsante di messicani, panamensi, portoricani, paraguensi: in questo non luogo, in questa periferia dell’anima sbocciano storie tra le erbacce e i calcinacci. Storie come quella di Maribel, ragazza messicana che ha subito una lesione cerebrale in seguito ad una brutta caduta ed è stata portata negli USA dai genitori per frequentare una scuola adeguata alle sue nuove necessità, e Mayor, figlio dei vicini di casa, che riesce a vedere oltre la lentezza e la diversità di Maribel: ne vede tutta la bellezza di farfalla fragile e palpitante, intrappolata sotto un bicchiere di vetro.

       Maribel con gli occhi assonnati e i capelli spettinati, seduta a gambe accavallate sul sedile, che mi volta e mi guarda. Non sarebbe stato un problema, pensai, se non mi avesse trovato. Era come aveva detto lei: per trovare una cosa prima devi perderla. Da allora in poi saremmo stati lontani migliaia di chilometri e saremmo andati aventi con le nostre vite e saremmo cresciuti e cambiati e invecchiati, ma non avremmo mai dovuto cercarci. Dentro ciascuno di noi, ne ero sicuro, c’era un posto per l’altro. Niente di ciò che era successo e niente di ciò che sarebbe mai successo avrebbe reso tutto questo meno vero.

      Si cerca un posto dentro l’altro, per sentirsi più a casa, per combattere ondate di nostalgia spessa come melassa. Si mangia tamales (piatto messicano a base di pasta di mais ripiena), tacos, chicharrones (maiale o pollo fritto) finché ci sono abbastanza soldi, prima di essere costretti a passare ai discount americani e a troppi hot dog: il cibo diventa una sinfonia di appartenenza, una celebrazione della propria identità.

      Perché un posto ti può fare molto male, ma se è casa tua o lo è stato una volta, lo ami comunque. Funziona così.

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       Si passa dalla dolcezza dello spagnolo, che si scioglie in bocca come i besitos de coco (pasticcini al cocco), all’asprezza di una lingua sconosciuta, che si attacca al palato e sembra non essere in grado di tramutare esigenze, pensieri, sentimenti in frasi di senso compiuto.

      ‘L’inglese era una lingua così densa, contratta. Non si apriva nelle vocali come lo spagnolo. La gola aperta, la bocca aperta, i cuori aperti. In inglese i suoni sono chiusi. Cadevano a terra, con un tonfo. Eppure c’era qualcosa di maestoso.’

       Ho apprezzato moltissimo la scelta di Serrai nella traduzione del titolo (quello originale è The Book of Unknown Americans): una scelta poetica, ispirata ai versi di I, Too, Sing America di Langston Hughes; una scelta che vuole incarnare il senso di possibilità che pervade l’odissea di tutti i protagonisti del romanzo.

       I, too, sing America.

      I am the darker brother.

      They send me to eat in the kitchen

      When company comes,

      But I laugh,

      And eat well,

      And grow strong.

       

      Tomorrow,

      I’ll be at the table

      When company comes.

      Nobody’ll dare

      Say to me,

      “Eat in the kitchen,”

      Then.

       

      Besides,

      They’ll see how beautiful I am

      And be ashamed—

       

      I, too, am America.

       

      Si possono avere tante case, e riuscire ad amarle tutte. Si può lasciare un pezzetto di sé, della propria storia, degli incontri che le hanno regalato sfumature nuove e impensate in tutti in posti che si visitano, che si abitano. La cosa difficile è lasciarsi abitare. Perché, come scriveva Gabo nell’indimenticabile Cent’anni di solitudine, non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra, letteralmente o allegoricamente: abitiamo un posto quando vi lasciamo scheletri di una versione di noi che non esiste più, fantasmi di amori scaduti o andati a male, briciole di progetti e di sogni.

      Soundtrack: stavolta doppia, in onore alle due storie.

      • The Hands That Built America, U2
      • Sin documentos, Los Rodriguez
      Posted in Ophelinha legge | 9 Comments | Tagged Anche noi l'America, Bompiani, Brooklyn, Cent'anni di solitudine, Colm Tóibín, Cristina Henríquez, Gabo, Gabriel García Márquez, Langston Hughes, Londra, Memorie di una precaria perbene, NN editore, R. Serrai, Saoirse Ronan, The Book of Unknown Americans, V. Vega
    • Cartoline da New York: passeggiate letterarie

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 20, 2016

      Ho un rapporto un po’ strano con New York. Nel senso, non è stato amore a prima vista, anzi. Ci sono andata per la prima volta tre anni e mezzo fa. Arrivavo da Boston, dal mio New England, dal verdissimo campus di Harvard: New York mi era sembrata troppo. C’è anche da dire che in ogni viaggio cerco qualcosa di quella Albione che possiede il mio cuore da decenni ormai: in questo sono un po’ come Henry James, lo scrittore sospeso tra due continenti, che viveva a Washington Square (che sembra quasi londinese), sostenendo che fosse la parte “più squisita” di New York, più quieta, più ricca, più onorevole. Oggi al posto della casa di Henry James c’è una delle facoltà della NYU, ma Washington Square (dove abitavano anche Edith Warthon, la regina dei salotti newyorchesi, e Edward Hopper) mantiene quell’aspetto un po’ romantico, un po’ decadente, un po’ demodé che mi fa sempre sognare ad occhi aperti.

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      Washington Square

       

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      Qui ha vissuto Edith Wharton

       

       

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      Qui ha vissuto Edward Hopper

      Comunque, avevo cercato di mettere nero su bianco i miei alti e bassi con New York in un racconto (che trovate qui) ispirato ad una canzone di Leonard Cohen.
      Questa volta, la mia esperienza con New York è stata diversa: sarà stato il Natale, sarà stata la ferrea volontà di cercare di non fare la turista e di andare semplicemente alla ricerca delle cose che mi piacciono, senza orari né programmi.

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      Rockefeller Center

      Attraversando a piedi il Brooklyn bridge la sera del ventisei dicembre ho capito finalmente cosa intendesse Joan Didion quando scriveva che a New York “tutto sarebbe potuto accadere, ogni minuto, ogni mese”: lasciandomi alle spalle la (relativa) oscurità di Brooklyn per farmi abbracciare dalle sfavillanti luci di Manhattan, ho pensato che in fondo la cosa che rende New York un posto assolutamente unico al mondo non sono gli sgargianti billboard di Times Square, né la silhouette dell’Empire State Building (o dell’elegante Chrysler, il mio preferito, o del buffo Flatiron). La cosa che rende New York unica al mondo è questo senso di possibilità, questa certezza quasi matematica (che magari dura solo mezz’ora, come nel caso della mia traversata) che tutto possa cambiare, che nella Grande Mela sia possibile lasciarsi tutto alle spalle, liberarsi dei fardelli del passato e respirare a pieni polmoni, reinventandosi, imparando di nuovo ad essere felice.

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      Con questa nuova sicurezza in tasca ho smesso di pianificare e, affidandomi semplicemente alle mie mappe letterarie di NYC, sono andata alla ricerca di librerie indipendenti e non, mostre, angoli meno popolati ma non per questo meno affascinanti. Ho camminato per ore per il Village sotto la pioggia, ritrovandomi poi a Little Italy e trovando rifugio nella McNally Jackson Books, dove ho afferrato una copia di All My Puny Sorrows (in italiano I miei piccoli dispiaceri, edito da Marcos y Marcos) di Miriam Toews e ne ho letto d’un fiato le prime quaranta pagine, per poi finire il libro nel Greyhound da New York a Philadelphia.

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      Tra un pretzel e un sidro di mele dello Union Square Farmers Marker, sono arrivata al mitico Strand Bookstore, che ospita 18 miglia di libri, un piano dedicato a magnifiche edizioni antiche, prime edizioni e edizioni per collezionisti e una sorta di immensa caverna sotterranea di libri usati. Quest’ultima mi ha però deluso: nella sezione saggistica e critica letteraria i libri non erano disposti in ordine alfabetico, ma un po’ a caso. La polvere e il gran numero di persone non aiutano poi a cercare con calma libri interessanti, e i prezzi dell’usato non sono molto bassi. Poco male: sulla Fifth Avenue ho trovato uno stand dello Strand Bookstore, di fronte all’elegante Plaza Hotel, dove ho potuto spulciare libri a piacimento (e all’aperto), nonostante l’aria frizzantina di un tardo pomeriggio dicembrino.

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      Copia di “Little failure” autografata da Gary Shteyngart

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      Copia di “Invisible Monsters” con autografo e dedica di Chuck Palahniuk

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      Sempre alla ricerca di libri usati e edizioni varie, sono finita al Brooklyn Flea Market (che durante i mesi invernali si tiene al chiuso), una vera chicca per gli amanti del vintage.

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      Amo i campus delle università americane. Sono così eleganti, così ordinati, dall’architettura raffinata e dalle biblioteche così accoglienti che ti fanno venire voglia di mollare tutto e sederti su una poltrona di pelle e avvicinarti a un tavolo di mogano, alla luce fioca di una lampada, e leggere fino all’orario di chiusura. Non potevo non visitare la Columbia University, dove hanno studiato Isaac Asimov, Paul Auster, Federico García Lorca, Allen Ginsberg, Langston Hughes, Jack Kerouac (che ha abbandonato gli studi prima di laurearsi), Ursula K. Le Guin, Carson McCullers, J.D. Salinger, Hunter S. Thompson, Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt e Madeline Albright, per citare un paio di nomi.
      La Columbia è famosa per la sua scuola di giornalismo, fondata da Joseph Pulitzer – sì, quello del premio, che è stato creato appunto dall’università e viene assegnato ogni anno ai fortunati vincitori nella Low Library.

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Columbia University Bookstore

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      Wendell Berry 🙂

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      Dalla Columbia sono passata a Central Park e sono andata alla ricerca delle anatre di Holden Caulfield (confermo che il lago era pieno di pennuti, probabilmente perchè è stato un Natale caldissimo a New York). Di Central Park amo le panchine: mi piace fermarmi a leggere le dediche sulle targhe, immaginare le vite delle persone che si sono intrecciate magari proprio tra gli alberi, le foglie e i sentieri del parco, i loro volti, le loro storie.

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      Pensando a Walt Whitman e alla sua Crossing Brooklyn Ferry, ho preso il traghetto per Staten Island nel corso di una mattinata azzurra e freddissima, contemplando lo skyline di Manhattan e la Statua della Libertà.

      What is it, then, between us?

      What is the count of the scores or hundreds of years between us?

      Whatever it is, it avails not—distance avails not, and place avails not.

      Cosa c’è da fare a Staten Island? Poco e niente, come ho avuto modo di appurare. Nell’isola c’è una cittadina storica, Richmond, che avrei voluto visitare, ma dista una cinquantina di minuti dal porto e, nella città che non dorme mai, il tempo è tiranno. Mi sono rifatta con uno stupendo tramonto su Wall Street e una passeggiata a Williamsbourg.

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      Una delle tappe più piacevoli della mia vacanza newyorchese è stata la visita alla mostra dedicata a Hemingway, Ernest Hemingway: Between Two Wars, ospitata dalla Morgan Library & Museum. Sfortunatamente non si potevano scattare foto all’interno, ma era ricca di tesori per gli amanti di good ol’Ernest: lettere all’ultima moglie Mary, la lettera che Salinger gli scrisse nel 1945 e che rimane una testimonianza dell’amicizia tra i due scrittori, i divertenti carteggi tra Hemingway e Fitzgerald, le lettere di Dorothy Parker, che si preoccupava alquanto del giudizio di Hemingway. E poi ancora quaderni manoscrittti, progetti di scrittura, appunti: una vera e propria immersione nel mondo di Hemingway e nel ruolo che le due guerre mondiali e la guerra civile spagnola hanno giocato nel suo immaginario di scrittore. Nello shop del museo mi sono regalata Hemingway in love, un memoir su Ernest e le sue donne scritto dall’amico A.E. Hotchner, e una raccolta di racconti di Hemingway.

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      La notte del 31 dicembre mi sono ritrovata in mezzo a un milione di persone a Times Square, ad aspettare la caduta della palla. Non amo particolarmente l’ultimo dell’anno: arriva sempre col suo carico di rimpianti, di malinconia e di bilanci, di propositi per l’anno nuovo che verranno puntualmente riscritti o abbandonati nel corso delle prime due settimane di gennaio. Mi sono ritrovata ad osservare le persone intorno a me, armate di fischietti e di incontenibile entusiasmo, e mi sono ritrovata a chiedermi a cosa pensassero, cosa causasse quell’incontenibile allegria. Con la mezzanotte è arrivata anche la mia risposta: festeggiavano semplicemente il fatto di essere vivi, di essere riusciti a rimanere a galla per un altro anno, di essere circondati dalle persone che amavano, di avere la possibilità di dare il benvenuto al 2016 tra le luci sfavillanti di Times Square, nella città in cui ogni strada sembra una possibilità e nessun obiettivo sembra irraggiungibile. Nella città in cui sembra possibile lasciar andare gli errori del passato e ricominciare da zero, abbracciando con fiducioso entusiasmo tutto il futuro che ci sarà.

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      Soundtrack: New York, New York,  Frank Sinatra

      Posted in Cartoline | 22 Comments | Tagged A.E. Hotchner, All my puny sorrows, Brooklyn Bridge, Carson McCullers, Columbia University, Crossing Brooklyn Ferry, Dorothy Parker, Ernest Hemingway, Federico García Lorca, Francis Scott Fitzgerald, Frank Sinatra, Franklin Delano Roosevelt, Hemingway in Love, Henry James, Hunter S. Thompson, I miei piccoli dispiaceri, Il giovane Holden, Isaac Asimov, J.D. Salinger, Jack Kerouac, JD Salinger, Joan Didion, La lettrice rampante, Langston Hughes, Letteratura americana, Little Italy, Madeline Albright, Manhattan, Marcos y Marcos, McNally Jackson Books, Miriam Toews, Morgan Library, Paul Auster, Philadelphia, Premio Pulitzer, Staten Island, Strand Bookstore, Theodore Roosevelt, travelling, Turismo letterario, Ursula K. Le Guin, viaggi e altri viaggi, Walt Whitman, Washington Square
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