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  • Tag: Ian McEwan

    • Il Calendario dell’Avvento letterario #4: Merry Christmas, Sally Rooney

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 4, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Nellie di Just another point

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      Caro Babbo Natale,

      ti scrivo perché quest’anno sono tornata in Irlanda e non solo una volta, addirittura due. È stato bello anche se decisamente malinconico perché era dal 2014 che non la respiravo quell’aria del Nord, che non ne volevo sapere di tornare a Dublino pur avendola amata dal profondo del cuore. Eppure mi sono armata di coraggio, sono andata in libreria e ho letto i primi due romanzi di Sally Rooney, classe 1991, e tanti capitoli che stanno facendo il giro del mondo e insomma, lo devo ammettere: è stato proprio meraviglioso.

      È stato dopo aver letto Parlarne tra amici (edito da Einaudi in Italia) e Normal People (edito da Faber & Faber) che ho deciso che per questo 25 dicembre voglio un regalo speciale, specialissimo, qualcosa che non si fa tutti gli anni ma ogni tanto sì. Perché anche quest’anno, caro Babbo Natale, la lista di libri che troverai qua sotto non è per me ma per una donna speciale che ha reso questi ultimi sei mesi più belli, più veri, più vissuti e che con i suoi libri mi ha fatto sentire meno sbagliata, meno diversa, più simile a tanti altri che sono soprattutto Frances e Marianne. Insomma, questi regali sono proprio per lei: Sally Rooney. E ovviamente, inutile dirlo, sono tutti romanzi che mi hanno scosso così tanto che sarebbe bello avere il suo parere.

      Il primo libro che vorrei regalarle è Dove mi trovo di Jhumpa Lahiri (edito da Guanda) perché secondo me Sally Rooney è una che se la fa spesso questa domanda, che se lo chiede in che parte del mondo sta vivendo, con quali sogni e aspettative. Il romanzo scritto in italiano dalla scrittrice statunitense, nata a Londra da genitori bengalesi, è il regalo per chi non smette mai di farsi domande, proprio come la mente che ha fatto nascere storie così complicate nella loro semplicità come sono quelle di Parlarne tra amici e Normal People. Eppure, è da quelle domande che Sally Rooney e Jhumpa Lahiri trovano una risposta, una collocazione più o meno precisa di dove al momento stanno vivendo.

      Un altro libro che vorrei regalare a Sally Rooney, poi, è La ragazza del convenience store di Sayaka Murata (edito Edizioni E/O) perché il Giappone è un mondo lontano, sì, ma quello di Keiko, la protagonista del libro, è soprattutto un mondo isolato nella propria mente, un continuo tentativo di raggiungere ciò che desidera che mi ricorda tanto Frances, la protagonista di Parlarne tra amici. Vorrei tanto sapere cosa ne penserebbe Sally Rooney di Keiko, del Giappone, del mondo all’interno dei konbini con tutte le vite che ci girano attorno da osservare 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

      Per Sally Rooney, caro Babbo Natale, vorrei anche una copia di Manuale per ragazze  rivoluzionarie di Giulia Blasi (edito da Rizzoli). Perché il femminismo ci rende felici solo che le protagoniste dei libri di Sally Rooney a volte se lo dimenticano. Sia Frances che Marianne si fanno scorrere la vita addosso, cercano di non prendere una posizione e se lo fanno è quella più semplice e meno coraggiosa. Un atto, forse, che la scrittrice vuole portare in modo inconscio in entrambi i romanzi per trasmettere al meglio il desiderio di rivalsa che dovrebbe scorrere nelle vene, quella voglia di farsi sentire perché, questo è da dire, una scelta spesso c’è. Serve solo il coraggio di sceglierla e percorrerla.

      Ultimo, ma non per importanza, vorrei che sotto l’albero di Natale di Sally Rooney ci fosse anche una copia di Chesil Beach di Ian McEwan (edito da Einaudi) perché con questo scrittore ci avevo litigato, lo ammetto, ma con questo romanzo breve ci ho poi rifatto pace. Sarà che la protagonista della trasposizione cinematografica è Saoirse Ronan; sarà che Chesil Beach parla di una relazione, tutto quello che sta alla base di Normal People ma anche in Parlarne tra amici: quella spiaggia è entrata nel mio immaginario ed è il luogo dove vorrei andare a guardare le onde e dove Sally Rooney, ne sono quasi certa, si troverebbe davvero bene.

       Caro Babbo Natale, un’ultima cosa prima di andare: non ti dimenticare di lasciare insieme ai libri anche tanti dolci, che Sally Rooney un po’ di amarezza può anche dimenticarsela per un giorno. Ringraziala per tutte le storie che scrive, che ogni volta che vedo i suoi romanzi nella mia libreria è come agganciare lo sguardo a un’ancora di salvezza, qualcosa che è lì e ci ricorda perché siamo qui. Il potere della letteratura, non è forse così?

      Merry Christmas, Sally Rooney.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 4 Comments | Tagged Chesil beach, conversations with friends, Edizioni E/O, Giulia Blasi, Ian McEwan, Just Another Point, Manuale per ragazze rivoluzionarie, Nellie Airoldi, Rizzoli, Sally Rooney, Sayaka Murata
    • Letture d’autunno

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 27, 2018

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      L’arrivo dell’autunno mi trasmette sempre emozioni contrastanti: da un lato, le zucche, i caminetti accesi, le infinite tazze di tè caldo, tutti quei rituali un po’ hygge, un po’Instagram che mi sforzo inutilmente di replicare, con poca costanza e scarsi risultati; dall’altro, le giornate grigie e corte, la pioggia, la nebbia e quella malinconia raccontata magistralmente da Cardarelli:

       

      Ora passa e declina,

      in quest’autunno che incede

      con lentezza indicibile,

      il miglior tempo della nostra vita

      e lungamente ci dice addio.

       

      Ci vorrebbero le letture adatte, quindi. Letture che magari cambino colore come le foglie, che penetrino la malinconia e aiutino ad interpretarla e ad accettarla, che regalino nuove prospettive. Di seguito un paio di spunti per accompagnarvi nella nuova stagione – mi raccontate le vostre letture autunnali?

       

      1. Un libro sulla depressione: My year of rest and relaxation, Ottessa Moshfegh

       

      Se avete voglia di un libro diverso dal solito, Ottessa Moshfegh fa al caso vostro: My year of rest and relaxation è un libro cupo, sarcastico, imprevedibile. È la storia di una ragazza senza nome: bella, magra e biondissima, un appartamento a New York, una laurea in storia dell’arte alla Columbia university e un enorme vuoto dentro. L’anonima narratrice perde in poco tempo entrambi i genitori, con i quali aveva un rapporto freddo e distante; perde il lavoro in una galleria d’arte, dove viene scoperta più volte a dormire durante l’orario di lavoro. Grazie all’eredità lasciatale dal padre, non ha bisogno di lavorare ed escogita una via d’uscita: un anno di sonno, di ibernazione, senza contatto col mondo esterno. Un anno per non sentire niente. Un anno per guarire.

      Le uniche persone con cui ha contatti sono la sua terapista, una macchietta che racchiude tutti i peggiori stereotipi e luoghi comuni sullo stato della psicoterapia in America: distratta, disinteressata ai suoi pazienti, non esita a prescrivere alla ragazza cocktail di sonniferi e antidepressivi, senza essere capace di annotare né di ricordare il benché minimo particolare sulla sua situazione personale, senza preoccuparsi dell’uso che la ragazza potrebbe farne; la sua migliore amica, Reva, amante dei manuali di auto-aiuto, invidiosa della sua magrezza e della sua ricchezza; il suo ex ragazzo, Trevor, dalle tendenze decisamente sadiche; i proprietari della bodega sotto casa, dove si reca puntualmente a prendere il caffè e a comprare cose che, senza l’effetto degli psicofarmaci, non si sognerebbe mai di acquistare.

      La volontà della protagonista di eclissarsi – almeno temporaneamente – dalla faccia della terra deriva dal fatto che quasi tutti nella sua vita l’hanno respinta o cancellata: il padre anaffettivo, la madre alcolizzata, l’ex ragazzo violento, l’amica bulimica e distante.

      Moshfegh racconta una storia di privilegio, alienazione e dolore, ma riesce a renderla leggera, sarcastica, a tratti divertente. Anche quando le vicende rasentano l’assurdo, quando la protagonista è all’apice della sua alienazione e solitudine, la narrazione è tenuta insieme da un filo sottile di ironia, che regala po’ d’aria fresca al rancido appartamento newyorchese. Intervengono poi i fatti dell’11 settembre a riportare la protagonista a una realtà che deve imparare ad accettare.

      Da leggere se si ha voglia di un libro diverso dal solito e per riflettere su quello che è il peso specifico della depressione, dell’alienazione, della perdita, della solitudine.

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      2. Un libro sui rapporti umani: Parlarne tra amici, Sally Rooney

      Ho letto questo libro contagiata dall’entusiasmo dell’infaticabile Nellie, e non me ne sono pentita: la giovanissima Rooney tesse una tela di complicati, fragilissimi rapporti umani tra Frances e Bobbi, due amiche ed ex amanti ventenni, e Melissa e Nick, una coppia di trentenni che si mostra molto aperta ed ospitale nei confronti delle due ragazze. Se Bobbi si prende una cotta per l’estroversa Melissa, fotografa affascinante e (apparentemente) sicura di sé, l’introversa Frances è invece attratta dal bel Nick, attore di un certo successo di qualche anno più giovane della moglie.

      Frances è isolata, circondata da una rete di rapporti frammentati e poco sani: quello col padre alcolizzato, alimentato dal senso di colpa; quello con l’indeciso Nick, alimentato dalla confusione; quello con Bobbi, alimentato da un affetto che negli anni non è riuscito a crescere e trasformarsi, rimanendo vincolato a una gelosia sempre meno sottile. Tuttavia, il rapporto più difficile da sviscerare per Frances è quello con se stessa, con la sua malattia, col suo desiderio di punirsi, col suo soffocato bisogno di attenzioni e di amore.

      Il romanzo di esordio di Sally Rooney, tradotto in italiano da Maurizia Balmelli per Einaudi, colpisce e conquista per la forza dei personaggi e l’originalità della voce narrante: mi ha invece lasciato un po’ perplessa il suo secondo romanzo, Normal people, di recente pubblicato da Faber&Faber, che, a mio parere, non riesce a mantenere le brillanti promesse di Parlarne tra amici e brilla di una luce un po’ offuscata.

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      3. Un libro sul lutto: Il dolore è una cosa con le piume, Max Porter

      Il delicato libricino di Porter affronta il tema della perdita e del conseguente ottundimento che ne deriva, del dolore irrazionale, incontrollabile e selvaggio in modo quasi fiabesco. Una famiglia (mamma, papà, due bambini) viene tranciata dall’improvvisa perdita della madre. I tre membri superstiti ricevono la visita di un enorme corvo, che annuncia che rimarrà con loro finché sarà necessario. Non è un caso che il padre sia uno studioso di Ted Hughes, poeta che ha fatto del corvo uno dei principali simboli del suo immaginario poetico che ricorre con frequenza e assiduità nelle poesie scritte dopo il suicidio della moglie Sylvia Plath e dell’amante, Assia Wevill.

      Il corvo, come il dolore, è invadente, maleducato, maleodorante, sconsiderato e arriva nel momento più sbagliato – ma c’è un momento giusto, per perdere una persona cara?

      Ho letto questo libricino in un momento per me difficilissimo, ritrovandovi echi della mia Sylvia, attraverso Hughes, e di Emily Dickinson (il titolo inglese, Grief is the thing with feathers, riprende un verso della poetessa americana, Hope is the thing with feathers) e strascichi della battaglia, universale e solitaria, contro il dolore della separazione:

      Il concetto di voltar pagina e andare avanti funziona per gli stupidi, perché chiunque abbia un po’ di buonsenso sa che il dolore è un progetto a lungo termine.

      Il dolore è una cosa con le piume è pubblicato in Italia da Guanda nella traduzione di Silvia Piraccini.

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      4. Un libro sul cambiamento: Se tu lo vuoi, Valeria Fioretta

      Cosa succede quando finisce una storia d’amore? Si soffre. Si prova rabbia. Si dubita di se stessi. Ci si confronta con gli amici. Ci si isola. Si cerca di cambiare qualcosa – nel proprio aspetto, nelle proprie giornate – per rinascere e trovare la forza di andare avanti.

      È quello che succede a Margherita, la protagonista del romanzo d’esordio di Valeria Fioretta, che scrive sul blog Gynepraio e che ha partecipato al nostro calendario dell’avvento letterario dell’anno scorso.

      Margherita si ritrova a trascorrere una lunga e torrida estate solitaria a Torino, che decide di impiegare facendo del volontariato. La sua scelta la porta ad un incontro inaspettato, che modifica il corso della sua estate.

      Apprezzo la penna mordace e ironica di Valeria e il suo primo romanzo non mi ha deluso: più della storia in sé, ho apprezzato la scrittura scorrevole e piacevole, che lo rende una perfetta lettura pomeriggio autunnale in poltrona o semplicemente un’occasione ideale per staccare da tutto e passare un’estate a Torino, tra tè freddo, gite in Maremma e amicizie inaspettate.

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      5. Un libro sul matrimonio: Chesil beach, Ian McEwan

      Nella mitologia del matrimonio, la prima notte di notte è probabilmente inflazionata: c’è dietro tutto lo stress della celebrazione e della festa, si fa tardi, si mangia poco e si beve troppo. Eppure, nel romanzo di McEwan, la prima notte di matrimonio diventa invece occasione di divorzio. Succede a Florence e Edward, una giovane coppia inglese che decide di convolare a nozze negli anni Sessanta: lei è una giovane musicista di buona famiglia che sogna di sfondare col suo quartetto, lui si è appena laureato in storia, ama il rock’n’roll e proviene da una famiglia più modesta, mandata alla deriva dai problemi mentali della madre. I due sono entrambi alle prime armi e si sposano senza conoscersi veramente, vedendosi impossibilitati a consumare la loro unione. Nello sfondo, la facilità alla rabbia di Edward e i terrori di Florence, segnata dalla relazione con un padre dominante e probabilmente violento. La storia è tutta racchiusa nelle sfumature dei personaggi e nei flashback che gettano luce sul loro carattere e sul loro acerbo amore.

      Vi consiglio anche il film di Dominic Cooke, tutto incentrato sull’intensità dei due protagonisti, interpretati rispettivamente dalla – bravissima – Saoirse Ronan e da Billy Howle

      Spero di avervi dato un paio di idee sulle prossime letture autunnali e aspetto i vostri suggerimenti!

       

       

      Posted in Ophelinha legge | 5 Comments | Tagged Cardarelli, Chesil beach, Gynepraio, Ian McEwan, Max Porter, Ottessa Moshfegh, Sally Rooney, Valeria Fioretta
    • Love Stories (sui pericoli di innamorarsi delle parole)

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 12, 2015

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      L’amore mi sfugge.
      Un tempo scrivevo racconti e tante, tantissime poesie d’amore. Mi piaceva pensare all’amore, analizzarlo, osservarlo, metterlo in discussione, cercare di capire il suo rapporto con la felicità e col dolore. Trovarlo ovunque, re-inventarlo, celebrarlo, accusarlo, cercare di comprenderlo.
      Ora mi sfugge, letteralmente, e non riesco a riacciuffarlo. Elude il mio comprendonio e la mia immaginazione, rimanendo quel mistero così difficile da afferrare e da raccontare, come insegna anche Carver. Pessoa scrive (e Vecchioni canta) che più ridicolo di colui che scrive d’amore è colui che non ne scrive, mai. Non pensavo sarei mai rientrata in questa seconda categoria e invece ci sono finita. Sarà l’età, sarà la timidezza, sarà la mancanza di coraggio o di onestà con me stessa.
      Continuo a cercarlo in quello che leggo, come in quest’articolo della Paris Review scritto da Phoebe Connelly. È il genere di storia d’amore che preferisco: eterea, surreale, nata sui libri, condannata fin dall’inizio da un’estrema difficoltà, quasi impossibilità di concretizzarsi.
      Cosa succede quando ci si innamora delle parole? Una volta il mio motto era “le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire”: me l’aveva scritto una persona che, pur conoscendomi pochissimo, è riuscita a vedere in me e a capire quanto bisogno avessi di credere nel potere taumaturgico delle parole. Ho perso un po’ di vista questa fede cieca dei vent’anni, così come ho perso di vista la persona che ero a vent’anni: mi capita di intravederla, di incrociarla, ogni tanto, col suo disordine discreto dentro al cuore, per parafrasare De Andrè, in mezzo a un marasma di dubbi, di scelte, di confusione. Ma dove hai lasciato il tuo cuore?
      Anche Phoebe, come la me ventenne, è affascinata dal potere delle parole, e racconta in questa storia – che mi ha gentilmente concesso di tradurre – le conseguenze dell’amore. Quell’amore nato sui libri, in un vortice di parole, personaggi, storie.
      Buona lettura.

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      F. mi è stato presentato da un amico comune durante un viaggio a Los Angeles. Vivevo a D.C., ero da poco single e lavoravo per una rivista di politica. Mi ero data una regola ferrea: mai uscire con giornalisti. In una sonnolente cittadina aziendale* dove, per motivi etici, dovevo evitare coinvolgimenti romantici con le mie fonti, iniziavo a credere di essermi condannata a restare da sola.
      F. era uno scrittore che aveva appena finito il suo primo film e si occupava di rubriche di spettacoli per passare il tempo. A volte giocava a tennis con la mia migliore amica. “Ti piacerà” mi aveva promesso mandandogli un messaggio, mentre io ficcavo la mia borsa nel sedile posteriore della sua macchina all’aereoporto internazionale di Los Angeles (LAX). “Gli dirò di incontrarci per bere qualcosa insieme in questo locale tedesco all’aperto”. Ci siamo piaciuti subito.
      Tutto è iniziato con una sfida. Quella prima sera, gli ho detto che avevo trovato Il verificazionista di Donald Antrim troppo affettato, così ha fatto scivolare I cento fratelli nel mio bagaglio a mano per il volo notturno che mi avrebbe riportato ad est. La moltiplicazione costante dei fratelli di Antrim e la sua prosa claustrofobica si addicevano benissimo ai monotonia degli spazi del LAX. Il mio profumo si è aperto in valigia durante il volo, ma gli ho restituito lo stesso la sua copia insieme a un biglietto scritto a mano, con lo stesso odore della mia nuca.
      Abbiamo passato i due anni successivi a corteggiarci con le parole – le nostre, ma anche quelle di qualsiasi scrittore per mezzo del quale pensavamo di fare colpo. Non eravamo di certo i primi a intraprendere questo cammino; tuttavia, come in ogni storia d’amore – e lista di libri da leggere- che si rispetti, ci sembrava di essere gli unici. La domanda “cosa stai leggendo?” diventava una scusa molto conveniente per iniziare a parlare ogni volta che eravamo tutt’e due online, per mandarci link, per scriverci lettere lunghe e complicate il cui messaggio subliminale era il desiderio.
      Per lui ho letto Sportwriter di Richard Ford, che avevo scartato, etichettandolo come troppo sessista, prima ancora di leggerlo. (La mia opinione non è migliorata di molto dopo la lettura, ma lui sosteneva che il protagonista offrisse una rappresentazione fedele del maschio scrittore). Gli ho mandato La talpa di John le Carré, dopo avergli citato una descrizione della moglie di Smiley fuori contesto. Mi ha detto che il fatto che la citazione non arrivasse fino alla penultima scena del libro l’aveva fatto quasi uscire fuori di testa.
      Ho iniziato a leggere compulsivamente libri ambientati nella West Coast. Ho passato un luglio umido ad appiccicoso a completare la mia serie di Lew Archer; ho fatto scorta di malconci libri in brossura di James M. Cain, sognando pomeriggi all’insegna dello smog e inverni senza neve. Mi stavo innamorando di F. o dell’idea di una città che si prestava così facilmente alla narrazione? All’epoca non me lo sono chiesto. Ero grata di avere un posto nuovo da abitare, anche se questo avveniva solo in weekend rubati e nei titoli della Library of Congress.
      Un paio di mesi dopo il nostro incontro, Farrar, Straus e Giroux ha pubblicato la corrispondenza completa tra Elizabeth Bishop e Robert Lowell. Abbiamo studiato attentamente i dettagli delle loro rispettive esperienza a D.C. come poeti insigni e consulenti di poesia presso la Library of Congress; gli ho scritto una lettera durante una noiosa lezione sulla politica del deficit presso il Cosmos Club, dove Lowell aveva vissuto nel 1947 e nel 1948. “Il clima invernale di Washington è come quello di Parigi, ma senza compensazioni” osservava seccamente la Bishop in una lettera a Lowell nel dicembre 1949.
      Thomas Travisano scrive nell’introduzione che “quelle lettere erano diventate parte della loro persistenza: parte di quell’enorme pezzo di vita che avevano condiviso, vicini e lontani, attraverso trent’anni di corrispondenza intima e acuta”
      Quando arrivavo a casa, mi sdraiavo in un letto solitario con quel volume, trovando nelle loro poesie un mezzo per esprimere tutto ciò che io e F. esitavamo a dirci.
      “A volte/ sorprendo la mia mente/ ruotare intorno a te con occhi di vetro-/ il mio amore perduto a caccia/ del tuo viso perduto”. La nostra corrispondenza manteneva un tono stranamente cortese e formale, nonostante il flirt. I romanzi spediti dall’altra parte del continente, le caustiche osservazioni dei due poeti: tutto ciò ci permetteva di fingere che si trattasse di un gioco letterario, che non coinvolgesse i nostri cuori pulsanti, ad alto rischio di spezzarsi.
      Dimmi perchè ami questo libro, gli chiedevo, e lui me lo spiegava.
      I libri sostituivano il sesso, reso impossibile dalla distanza. Gli avevo mandato La biblioteca della piscina di Alan Hollinghurst; durante una delle mie puntatine a L.A., ci siamo infiltrati nel Los Angeles Athletic Club, prossimo alla chiusura, e abbiamo trascorso un’ora di felicità a galla nella piscina circondata da colonne del 1910, scambiandoci baci al cloro. Avevamo una sorta di romantico riflesso condizionato: immergerci in quegli scenari che avevamo condiviso attraverso la lettura. Mi aveva mandato Dieci giorni sulle colline di Jane Smiley, ambientato a L.A., che ho abbandonato più o meno alla metà del Quarto Giorno. “Leggere di politica per me è come lavorare”, gli ho confessato. “Magari leggo solo le parti sexy”.
      Dopo un anno di libri spediti, occasionali fine settimana insieme, e molte lacrimevoli telefonate su quanto difficile stesse diventando stare lontani, F. ha fatto le valigie e si è trasferito ad est. Era impaziente di sperimentare un’altra città: la superficialità di L.A. lo stava logorando, diceva. Invidiava il fatto che ogni notte passata in un bar di D.C. sfociasse in infiniti dibattiti. Aveva iniziato a lavorare nella mia libreria preferita e a dedicarsi seriamente alla scrittura. Io continuavo a dedicarmi al giornalismo politico.
      Ma il nostro circospetto corteggiamento letterario continuava. Lui mi aveva trovato una copia del 1997 della rivista Granta, dedicata alla Francia, in previsione del mio primo viaggio a Parigi, e al mio ritorno mi aveva aspettato a Dulles con una copia di Il flâneur. Vagabondando tra i paradossi di Parigi di Edmund White, che avevo letto durante il mio viaggio. Appoggiati al cofano della sua macchina, nel parcheggio dell’aeroporto avvolto dal crepuscolo rosa di una sera di fine marzo, avevamo fumato sigarette e ripercorso i nostri rispettivi viaggi a Parigi – il mio effettivo, il suo letterario.

      Aveva imparato a memoria il contenuto della mia libreria. “Quello ce l’hai già, Connelly. Stessa copertina, ma edizione anni ’80” mi ha avvertito quando ho preso in mano una copia di La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. Le Guin. Sono andata alla ricerca di un memoir sulla manifattura tessile nel Sud per un articolo che aveva pensato di scrivere. Ma continuava a rimandare; gli spunti per una nuova sceneggiatura erano in continua revisione, e la routine lavorativa faceva a pezzi il resto. Nonostante vivessimo ora nella stessa città, la nostra storia necessitava di manutenzione.
      Ognuno di noi aveva il suo appartamento. Quando passavo il weekend da lui, cercavo qualcosa da leggere tra i suoi scaffali. Ho pescato da lì uno dei primi Ian McEwan che non avevo mai letto, e, nel corso dei mesi, ho riletto Territori londinesi di Martin Amis. Teneva una copia del Decameron in bagno, e la mattina mi ritrovavo appollaiata sul davanzale della finestra a leggere anzichè prepararmi per andare a lavorare.
      F. sapeva quanto mi mancassero i libri che non mi ero portata dietro quando mi ero trasferita a D.C. Per il mio ventinovesimo compleanno, dopo aver festeggiato in un bar invaso da un’orda di miei amici, arrivati a casa mi aveva passato una pila di tascabili Pocket Press di Joan Didion. In cima troneggiava una prima edizione di The White Album. La sua dedica, “A Phoebe, per il suo trentesimo compleanno”, voleva prendermi in giro per la mia abitudine di aggiungere un anno o due alla mia età effettiva.

      Avevamo tutte le carte in regola: se potevo parlare di libri con lui, se capiva perchè piangevo su un romanzo, perchè sognavo rubriche, tutto il resto doveva venire da sè. Ma le parole, da sole, non ci sono bastate. Dopo due anni e un trasferimento dall’altra parte del continente, ci siamo lasciati.
      “Mi dispiace non averti risposto prima” mi ha confessato nella sua ultima lettera. “Ci ho provato un paio di volte, ma non ho mai trovato le parole giuste. Anzi, non le ho trovate proprio, le parole”

      *(Ndrm – nota della redazione mia : le company town sono città in cui la maggior parte o tutti gli immobili, sia residenziali che commerciali, sono di proprietà di una singola azienda che provvede, in genere, anche alla pianificazione urbana)

      Soundtrack: Half the world away, Aurora (cover della celeberrima canzone degli Oasis)

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      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 11 Comments | Tagged Alan Hollinghurst, D.C., Donald Antrim, Edmund White, Elizabeth Bishop, Fabrizio De André, Farrar, Fernando Pessoa, Granta, Ian McEwan, Il Decamerone, In the mood for love, James M. Cain, Jane Smiley, Joan Didion, John le Carré, le conseguenze dell'amore, Letteratura americana, Lettere d'amore, Lew Archer, Library of Congress, Los Angeles, Martin Amis, Parigi, Phoebe Connelly, Raymond Carver, Richard Ford, Robert Lowell, The Paris Review, The White Album, Thomas Travisano, Ursula K. Le Guin, Washington, What we talk about when we talk about love
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