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  • Tag: Harry ti presento Sally

    • Non siamo mai veramente pronti a dire addio: New York Stories

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 8, 2016
      NY.jpg

      Grazia a Laura per il graditissimo regalo

       

      New York è senza alcun dubbio la città più difficile da raccontare.

      Prima di esistere in quanto città, in quanto microcosmo reale e tangibile affollato da milioni di vite, incroci di strade, grattacieli e taxi gialli, esiste per ognuno di noi come mito.

      New York è una vera e propria creatura mitologica, alimentata da secoli di letteratura e da decenni di tradizione cinematografica: c’è chi ci va convinto di incontrare qualcuno nell’osservatorio dell’Empire State Building, ritrovare un numero di telefono dentro una copia di Cent’anni di solitudine in una bancarella, sentirsi spiegare il significato di Auld Lang Sine la notte di Capodanno da un Harry che è corso a piedi dalla sua Sally, perché quando capisci di amare qualcuno, eccetera.

      C’è chi arriva convinto di trovarvi party stratosferici e la mistica luce verde di Gatsby, gli insopportabili brooklynite dell’altrettanto insopportabile Nathaniel P, Holly Golightly che cura i suoi mean reds tra vodka e colazioni da Tiffany. Ognuno di noi arriva a New York per trovare qualcosa: l’ispirazione per scrivere una storia, una mini-fuga dalla realtà, l’amore, quel senso di infinita possibilità che probabilmente esiste da nessun’altra parte – non nello stesso modo, non nella stessa misura.

      Per qualcun altro, come il capitano Paolo Cognetti, New York è una finestra senza tende: New York Stories, l’antologia di racconti che ha curato per Einaudi, è un tentativo di ripulire i vetri di questa finestra, di ricostruirne l’essenza mitologica attraverso i decenni e attraverso ventidue voci, da Fitzgerald a Yates, da Dorothy Parker a Mario Soldati, da Don DeLillo a Joan Didion.

      Questo viaggio è funzionale a uno scopo ben preciso: decostruire il mito, eliminare stucchi ed orpelli e restituire al lettore New York come città. Una città che ha significato qualcosa di diverso per ciascuno degli scrittori interpellati, a cui ha dato o ha tolto in modi e misure diverse, quasi come se New York fosse una sorta di dea bendata e agisse secondo il capriccio del momento.

      Una cosa è certa: nessuna di queste voci è uscita indenne dall’incontro con New York. La città cambia le persone, le persone cambiano la città: c’è chi si perde, chi si ritrova, chi la ripercorre palmo a palmo per ritrovare brandelli di passato, chi la seduce e chi ne è sedotto, chi scappa e chi rimane. Quasi tutti approdano a New York inseguendo un sogno: un sogno che, realizzato o meno, viene comunque modificato dall’impatto con la città. Una città che è pronta anche ad essere un’amante incostante e infedele e a dispensare cocenti delusioni.

      Una delle definizioni più belle dell’incontro con New York è quella di Pier Paolo Pasolini all’interno del racconto di Oriana Fallaci, Un marxista a New York:

       

      “Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo stare qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che lo vuole, che deve mangiarli tutti. Uno a uno. E, nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via”.

       

      New York è la giostra più grande e più bella della festa di paese, quella a cui tutti i bambini ambiscono, che abbiano la monetina per pagare il giro o no. Diventa insieme una sfida e una promessa: prima o poi ci salirò, prima o poi ci tornerò. E quel primo giro può risultare in un amore a prima vista o in una delusione completa, ma può anche far girare la testa, come nel mio caso.

      La prima volta che sono stata a New York non sapevo da che parte guardare, per paura che mi sfuggisse un angolo, una prospettiva, una storia. La mia idea di New York conviveva con così tanti miti, illusioni, fantasie, descrizioni che mi sono sentita persa dentro un cuore che pulsava troppo veloce, come se tutto fosse troppo. C’è voluta una seconda volta, libera di aspettative e con in mente Bei tempi addio di Joan Didion (contenuto nella raccolta), per smettere di cercare di trovarvi quel tutto che mi immaginavo contenesse, smettere di cercare di capirla o analizzarla e lasciarmi semplicemente penetrare dalla bellezza delle sue infinite possibilità, come suggerisce appunto la Didion:

      “…ero innamorata di New York. E non è un modo di dire: ero davvero innamorata della città, la amavo come si ama la prima persona che ti tocca e come non amerai più nessun altro. (…) Credevo ancora nelle possibilità allora, avevo la sensazione, così caratteristica di New York, che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa di straordinario, da un giorno all’altro, da un mese all’altro.”

       

      C’è poi la questione degli addii. Che sia una cosa voluta o un’imposizione del destino, dire addio a New York, come cantano anche i REM, non sembra essere cosa facile, né indolore.

       

      Probabilmente per questo la voce che ho amato di più all’interno di quest’antologia (come mi succede ogni volta nel caso di antologie di poesie o di racconti, anche in New York stories ho ritrovato voci che amo, scoperto voci nuove che mi hanno colpito tantissimo e sono stata delusa da voci che mi hanno lasciato del tutto indifferente) è quella di Colson Whitehead nel racconto di chiusura, Limiti cittadini. Ognuno ha la sua versione di New York, necessariamente diversa da tutte le altre perché è una città che conosce un’evoluzione continua, un cambiamento così veloce che è impossibile bagnarsi due volte nelle stesse acque; le sue strade, le sue case, i suoi palazzi, i suoi esercizi commerciali sono disseminati delle versioni di noi che li hanno percorsi e abitati. Dire addio a una lavanderia, a un ristorante cinese, a un appartamento significa dire addio alla versione di noi che lì si è innamorata, ha sofferto, ha festeggiato, ha vissuto.

       

      “Non siamo mai veramente pronti a dire addio. Era il tuo ultimo viaggio su un taxi Checker e non lo sospettavi nemmeno. Era l’ultima volta che ordinavi i gamberetti del lago Tung Ting in quel ristorante cinese un po’ equivoco e non ne avevi idea. Se lo avessi saputo, forse, saresti andato dietro al banco a stringere le mani a tutti, avresti tirato fuori la macchina fotografica usa e getta e messo tutti in posa. Invece non ne avevi idea. Ci sono momenti inaspettati di ribaltamento, occasioni in cui, aprendo la porta di un appartamento, eri più vicino all’ultima volta che alla prima, e non lo sapevi nemmeno. Non sapevi che a ogni passaggio da quella soglia ti stavi congedando.”

       

      Soundtrack: Leaving New York, REM (It’s easier to leave than to be left behind
      Leaving was never my proud
      Leaving New York, never easy
      I saw the light fading out…)

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      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Adelle Waldman, Amori e disamori di Nathaniel P., Bei tempi addio, Cent'anni di solitudine, Colson Whitehead, Don DeLillo, Dorothy Parker, Einaudi editore, Empire State Building, Francis Scott Fitzgerald, Goodbye to all that, Harry ti presento Sally, Holly Golightly, Joan Didion, Leaving New York, Limiti cittadini, Mario Soldati, mean reds, New York, New York Stories, non sono brava a dire addio, Oriana Fallaci, Paolo Cognetti, Pier Paolo Pasolini, REM, Richard Yates, The Great Gatsby, Truman Capote, Turismo letterario, Un marxista a New York
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario#4: Natale con Piccole donne

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 4, 2015

      bannervale

      Questa casella è scritta e aperta da me medesima.

      cover

      “Natale non sarà Natale senza nemmeno un regalo” brontolò Jo sdraiata sul tappeto.
      “È terribile essere poveri” sospirò Meg guardando il suo vecchio vestito.
      “Non mi sembra giusto che tante ragazze abbiano un mucchio di belle cose ed altre proprio niente” aggiunse la piccola Amy tirando su il naso, imbronciata.
      “Abbiamo però la mamma, il papà e tutte noi” disse Beth, soddisfatta, dal suo cantuccio.
      I quattro giovani visi illuminati dai bagliori si rasserenarono a quelle liete parole, ma si rabbuiarono di nuovo quando Jo disse tristemente:
      “Non lo abbiamo, il papà, e chissà per quanto tempo non lo avremo!”
       Non disse: forse mai più, ma ciascuna lo aggiunse tacitamente pensando al padre tanto lontano sul campo di battaglia.
      Tutte tacquero per un poco; poi Meg ricominciò d’un tono mesto:
      “Voi sapete che la ragione per cui la mamma ha proposto di non farci regali a Natale è perché l’inverno sarà duro per tutti; e così lei pensa che non abbiamo il diritto di spendere denaro in divertimenti, quando i nostri uomini soffrono in guerra. Non possiamo far gran cosa noi, ma i nostri piccoli sacrifici dobbiamo farli e dovremmo anche farli volentieri. Ma io ho paura che non potrò – e Meg scosse il capo pensando tristemente a tutte le belle cose che desiderava.
      “Ma io non credo che il poco che abbiamo da spendere servirebbe a qualcosa. Abbiamo ciascuna un dollaro…e cos’è un dollaro per l’esercito, se glielo dessimo? Io sono d’accordo per non aspettare nulla dalla mamma e da voialtre, però vorrei comprarmi Undine e Sintram, lo desidero da tanto tempo!” disse Jo, che aveva una gran passione per i libri.
      “E io avevo pensato di comperarmi un po’ di nuova musica” disse Beth con un sospiro tanto lieve che nessuno lo udì, o forse soltanto la scopina del caminetto e la presina del bricco.
      “E io vorrei una bella scatola di matite colarate Faber, ne ho proprio bisogno” disse Amy risolutamente.
      “La mamma non ha parlato del nostro denaro e non credo che desideri che noi si riununci a tutto. Comperiamo allora quel che vogliamo e divertiamoci un po’! Mi sembra che lavoriamo abbastanza per meritarcelo!” gridò Jo guardandosi i tacchi delle scarpe nel suo modo maschile.
      (Giunti Editore, trad. Fausta Cialente)

      first page

      Inizia così uno dei classici più amati di tutti i tempi. Uno di quei libri che, insieme ad alcuni film – Harry ti presento Sally, C’è posta per te, Love actually, Miracolo sulla 34esima strada, Casablanca, Tutti insieme appassionatamente, My fair lady e quasi tutto con Audrey Hepburn – per me fa subito Natale: Piccole donne di Louisa May Alcott, un vero e proprio Bildungsroman per centinaia di ragazze nel corso dei decenni (che dico, dei secoli). Per me è un libro particolarmente significativo, perchè sono cresciuta insieme a Meg, Jo, Beth e Amy, e ho trascorso innumerevoli Natali insieme a loro.
      Piccole donne è il libro che mi ha insegnato ad amare la lettura, ed è rimasto una sorta di copertina di Linus, un libro che ho voglia di rileggere quando sono giù di morale, ho l’influenza, ho nostalgia di casa o intravedo per strada le prime luci e le prime decorazioni natalizie.
      La storia di Meg, Jo, Beth e Amy inizia proprio nel periodo natalizio: un Natale che si preannuncia particolarmente grigio e triste, con papà March in guerra e mamma March che, insieme alle figlie più grandi e alla fedele cuoca Hannah, cerca di far quadrare il magro bilancio familiare.
      Meg e Jo, le sorelle più grandi, cercano di aiutare come possono: Meg, giovane, carina e desiderosa di far parte della “bella società” e innamorarsi, fa la governante, mentre Jo, un maschiaccio indipendente che ama leggere e scrivere e non sopporta di tirarsi su i capelli, fa la dama di compagnia all’arcigna, noiosa zia March. Tutte loro desiderano comprarsi un regalo di Natale col loro dollaro: Meg desidera un vestito, Jo un libro, Beth della musica, Amy dei colori.

      Alla fine, in pieno spirito natalizio, osservando le pantofole logore di mamma March, che rientra stanca e bagnata dalla pioggia dopo una lunga giornata di lavoro, decidono di rinunciare ai loro doni e comprare qualcosa per la mamma: delle pantofole, dei fazzoletti ricamati a mano, un paio di guanti, una bottiglia di colonia.
      La loro generosità non finisce qui: spinte dall’esempio materno, le quattro sorelle regalano la loro colazione di Natale a una famiglia povera, gli Hummel, e vengono ricompensate da un lauto pasto offerto dall’eccentrico, scorbutico vicino di casa, Mr Laurence, corredato da gelato e fiori freschi (qui trovate un pudding natalizio creato dal blog Romeo e&Julienne in onore di Jo March).
      Tutto ciò può suonare buonista fino a sfociare nel melenso; ma è Natale, e dopo le settimane terribili che hanno assistito allo scempio di un’Europa dilaniata questa semplice storia, queste parole, scritte nella seconda metà del XIX secolo, fanno bene al cuore. D’altronde, a riscattare l’atmosfera ci pensa Jo, la figura nella quale la Alcott ha riversato tanto di se stessa: irrequieta, ribelle, anticonformista, innamorata della lettura e della scrittura, Jo non vuole adattarsi a ricoprire il ruolo che la società vuole assegnare alla donna a tutti i costi. Perde i guanti, brucia il vestito buono (e i capelli di Meg, tentando di arricciarli), si sdraia sul tappeto, fischietta, impreca. Vorrebbe essere un uomo, per raggiungere il padre al fronte e combattere. Non si rassegna ad aspettare che gli eventi seguano il loro corso, che qualcosa succeda: vuole fare qualcosa, dare il suo contributo alla Storia. Per questo taglia e vende i suoi lunghi, bellissimi capelli castani, la sua unica vanità, per mandare il ricavato al padre malato.
      La Alcott, seconda di quattro figlie, è una femminista indipendente, aiuta la sua famiglia col suo lavoro, si batte per il diritto al voto per le donne ed è la prima donna che si registra per votare a Concord, MA.
      Per questa casellina del calendario ho scovato una chicca che piacerà a tutte le estimatrici di Piccole donne: A Little Women Christmas, curato da Heather Vogel Frederick e illustrato da Bagram Ibatoulline, un omaggio al celebre romanzo che racconta il Natale delle sorelle March con l’ausilio di splendide, delicate illustrazioni che faranno la gioia anche delle lettrici più giovani, rappresentando così un’originale strenna natalizia.

      albero di Natale

      Jo, la “pecorella tosata” che si è tagliata i capelli per mandare i soldi al fronte, è determinata a salvare il Natale per le sue sorelle. Convince così l’amico Laurie (e quante di noi facevano il tifo perchè si sposassero?) a fare una bambola di neve per la sorellina Beth, gravemente malata, e a fare in modo che ognuna delle sue sorelle riceva una sorpresina. La sorpresa più grande sarà il ritorno di papà March in tempo per la cena di Natale, restituendo così alla festività quell’aura di magia, quella speranza che la guerra sembrava essersi portata via con sé, al fronte.

      snowman

      Daddy

      together
      Soundtrack: Auld Lang Syne, poesia scozzese composta da Robert Burns nel 1788 e cantata con l’accompagnamento di una tradizionale melodia folk. Non so a voi, ma a me Auld Lang Syne fa pensare ogni volta al – bellissimo – finale di Harry ti presento Sally.

      Bonus extra: una selezione di calendari dell’avvento letterari che faranno la gioia di ogni bookworm (il mio preferito è questo del Bodleian Libraries Bookshop, che potete sbirciare anche nel mio Instagram)

      Posted in Letteratura e dintorni | 17 Comments | Tagged #AvventoLetterario, A Little Women Christmas, Audrey Hepburn, Auld Lang Syne, Bagram Ibatoulline, Beth, Bodleian library, Bookworms, C'è posta per te, Casablanca, Concord, Famiglia March, Giunti editore, Harry ti presento Sally, Heather Vogel Frederick, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Instagram, Jo, Louisa May Alcott, Love actually, MA, Meg, Miracolo sulla 34esima strada, My fair lady, Piccole donne, Robert Burns, Romeo & Julienne, Romeo e Julienne, Tutti insieme appassionatamente
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