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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati (Nietzsche)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 13, 2014

       

       

      Caro 2014, così non va bene.

       

      Sei iniziato davvero male, giocando tiri mancini, sferrando altri colpi che si vanno ad aggiungere a quelli del tuo degno compare, il 2013, che mi ha lasciato come eredità una riga profonda che solca il viso e mi fa sentire ancora più stanca, e avvilita.

       

       

       

      Caro 2014, mi sto disamorando. Delle cose che mi circondano, del quotidiano, e di me stessa.

       

       

       

      Mi sto disamorando dei miei sogni ad occhi aperti e occhi chiusi, perché tanto la realtà ci pensa sempre a sporcarli, a corromperli, a rovinarli. E allora, ne vale la pena? Sono fiori delicati, rari e inebrianti, che non possono fiorire in mezzo alla spazzatura.

       

       

       

      Caro 2014, quest’anno per me si conclude un altro decennio, e si sta facendo sempre più tardi, eccetera eccetera. E io ho bisogno di innamorarmi di tutto, ho bisogno di sentirmi viva ogni giorno, ho bisogno di passioni vaste e sconfinate, di colori sgargianti, di parole semplici, leggiadre, leggere, che siano poco pretenziose ma aprano il cuore. Ho bisogno di vivere col cuore in gola.

       

       

       

       

       

      C’è una frase di Nietzsche che da giorni mi frulla in testa, Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa – benedicendola, più che restandone innamorati.

       

       

       

      Non so, caro 2014. Spero solo di essere in grado di prendere congedo dalla vita benedicendola per tutte le cose che mi ha regalato e restandone fedelmente, malinconicamente innamorata, non di liquidarla con un freddo cenno del capo, uno svolazzo di mani di cera, oppressa dal peso dei rimpianti e delle cose che non avrò fatto e delle cose che avrei voluto fare diversamente.

       

       

       

      Caro 2014, voglio liberarmi di tutto questo grigiume che è come una seconda pelle, un profumo stantio, un sapore amaro di noia e rassegnazione.

       

       

       

      Voglio fermarmi in mezzo alla strada a guardare incantata un tramonto o un bambino paffuto che ride e mi fa ciao. Voglio svegliarmi di notte perché ho interrotto la lettura in un punto interessantissimo e devo assolutamente riprenderla. Voglio fermarmi in ogni angolo a buttare giù scarabocchi di pensieri. Voglio trovate il coraggio di raccontare le storie che mi abitano. Voglio bagnarmi di poesia.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di trovare il mio posto nel mondo, non continuare a nascondermi, con codarda rassegnazione.

       

       

       

      Voglio trovare il coraggio di cambiare quelle cose che proprio non mi vanno giù e che si sono insediate sulla bocca dello stomaco, impedendomi di respirare.

       

       

       

      Voglio tornare a casa, in Italia, senza averlo tanto pianificato, e trovare mia nonna al suo posto vicino al fuoco, che mi sorride e mi prepara i perperoni sotto la brace e mi racconta per l’ennesima volta la storia di come ha incontrato mio nonno, quella storia magica e bellissima che non cessa mai di incantarmi.

       

       

       

      Soprattutto, voglio trovare il coraggio di essere me stessa.

       

       

       

      Ti ho chiesto un segno, e finora mi hai solo depistato. E so bene che sono passati sono 13 giorni, ma cosa ci vuoi fare? È l’entusiasmo, la rabbia, la fretta della mia ultima ondata di giovinezza a parlare.

       

       

       

      Allora sai cosa faccio, caro 2014? Esco da questo ufficio grigio e stantio e vado a comprarmi un vestito bellissimo e costoso in modo ridicolo e spropositato, che non posso assolutamente permettermi.

       

       

       

      Sarò la ragazza col rossetto rosso più intenso che tu abbia mai visto e col vestito senza maniche, che beve champagne rigorosamente all’aperto, anche se qui a Greyville è tempo di montoni e vacche grasse.

       

       

      PS: sì, l’ombrelllo rosso fa parte del piano.
      Posted in Ophelinha scrive | 1 Comment | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Great Expectations, Memorie di una precaria perbene, Mine vaganti, non se ne parla mai abbastanza, Ophelinha, Si sta facendo sempre più tardi, Words
    • Un sogno possibile per il 2013 (premiazione giveaway)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 1, 2013
      Smile though your heart is aching
      Smile even though it’s breaking
      When there are clouds in the sky, you’ll get by
      If you smile through your fear and sorrow
      Smile and maybe tomorrow
      You’ll see the sun come shining through for you
      Nat King Cole
       

      Ogni fine e – ogni nuovo inizio –  incutono una certa decadente malinconia: per tutti i momenti che scivolano lentamente nell’oblio del tempo, sia quelli belli che quelli brutti; perchè ogni nuovo inizio incute sempre un certo timore, una certa diffidenza.
      Insieme all’entusiasmo dell’ignoto, della possibilità, di 365 giorni da scartare come regali accatastati sotto un immenso abete natalizio.

      Il primo dell’anno è il giorno dei buoni propositi, o dei propositi in generale; ma, soprattutto, dei desideri. E dei sogni.

      Grazie di avermi raccontato i vostri sogni possibili. Tutti bellissimi.

      Oggi voglio regalarvi quello di Chiara Maria. che mi ha colpito per l’eleganza della sua metafora, di barberyana memoria (avete letto L’Eleganza del riccio? Ecco un proposito di lettura per il 2013….)

      Nel mio caso,mi disegnerò una porta su ogni occhio e ogni sguardo sarà un incontro. Acconcerò i miei capelli con un tetto a mò di tegole e ogni parola sarà un velo di protezione. E poi licenzierò la portinaia che vive dentro di me e che non parla per voce sua ma per voce del condominio che la paga. E se non basta,mi accovaccerò in terra e tramuterò in roccia e sarò casa della mia casa. Perché non c’è nulla di più spaventoso di dove sei libero di essere te stesso. Il sogno che custodisco è per l’appunto questo,in chiave metaforica,s’intende.
       

      Cara Chiara Maria, che il 2013 sia per te un anno di incontri fortuiti e inaspettati, di sguardi obliqui e in controluce, di parole non solo come veli di protezione, ma come ponti verso mondi sconosciuti, verso l’altro da sè. Come chiavi magiche per aprire la porta – la tua, e quella degli altri. E se proprio devi assumere una portiera per il tuo stabile, cerca una Renée, che faccia finta di guardare le soap opera e guardi invece raffinati film giapponesi collezionando attimi di bellezza ed edizioni vintage di Anna Karenina. Attendo i tuoi recapiti perchè tu possa continuare a sognare con Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili di Paola Calvetti.

      Auguri, sognatori in cerca del tempo perduto.

      Il più bello dei mari
      è quello che non navigammo.
      Il più bello dei nostri figli
      non è ancora cresciuto.
      I più belli dei nostri giorni
      non li abbiamo ancora vissuti.
      E quello
      che vorrei dirti di più bello
      non te l’ho ancora detto.

      Nazim Hikmet
       

      Posted in Ophelinha legge | 8 Comments | Tagged Bookworms, Dreams, Giveaway, Great Expectations
    • La solitudine degli anni dispari

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 28, 2012
      This is your life. Do what you love, and do it often. If you don’t like something, change it. If you don’t like your job, quit. If you don’t have enough time, stop watching TV. If you are looking for the love of your life, stop; they will be waiting for you when you start doing things you love  (The Holstee Manifesto)
       
      The Holstee Manifesto
      from Alice in Wonderland by Lewis Carroll, with Artwork by Yayoi Kusama

        

      Un altro anno agli sgoccioli. Un’altra manciata di giorni, gocce distillate, ore agrodolci in cui stendere gli ultimi bilanci. In Inglese c’è un’espressione che rende benissimo sia l’idea che l’immagine di questo (im)paziente lavorio di fine anno: take stock of, fare il bilancio di qualcosa, valutare una situazione, esaminarla attentamente e tirare le somme.

      E’ stato un 2012 molto lungo, che mi vede boccheggiare attraversando i suoi ultimi giorni, le sue ultime ore, quasi in punta di piedi, come per non lasciare traccia, ansiosa di depositare l’anno che sta per finire come un fardello, chiuderlo dentro una scatola e archiviarlo dentro l’armadio dei ricordi. E ricominciare, leggera, leggera, risvegliarmi la mattina del primo dell’anno come una farfalla appena uscita dal bozzo. Non avere, almeno per un momento, timori, o rimpianti, o ansie. Aprirmi semplicemente al nuovo, all’inesplorato.

      Parto ogni anno con la mia bella lista di buoni propositi, raccolti nel corso dei mesi, scribacchiati distrattamente e disordinatamente qui e lì. Archiviati nella memoria.

      La lista per il 2012 era lunga e ambiziosa. Volevo fosse un anno all’insegna della ricerca della felicità, perchè alla fine non è possibile che ogni essere umano non abbia il diritto di cercare di essere felice almeno una volta al giorno, da prescrizione medica, anche se è difficile, anche se le circostanze non sono ideali, anche se si rischia di fare male a chi ci circonda – e a noi stessi. Volevo fosse un anno orientato alla riscoperta della vera me stessa, della me stessa che volevo essere.

      Ho pianto perché il processo grazie al quale sono divenuta donna è stato doloroso. Ho pianto perché non sono più una bambina con la fede cieca di una bambina. Ho pianto perché i miei occhi sono aperti sulla realtà. Ho pianto perché non posso più credere e io amo credere. Posso ancora amare appassionatamente anche senza credere. Questo significa che amo umanamente.
      Ho pianto perché d’ora in avanti piangerò meno.
      Ho pianto perché ho perso il mio dolore e non sono ancora abituata alla sua assenza.

      Anaïs Nin
       

      E, giunta alla fine di questo lunga corsa ad ostacoli, di queste montagne russe emozionali che sono state il 2012, non riesco ad esimermi dalla tentazione di redigere una lista. Ma, traendo ispirazione da Olivia, contemporanea eroina d’altri tempi, protagonista di Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili di Paola Calvetti, quest’anno non si tratta di buoni propositi, ma di sogni possibili. Sort of.
      Anche perchè non credo nei numeri dispari. Mi parlano di asperità, di ruvidità, di angolosità. Di inenarrabili solitudini. Ergo, ho bisogno di partire preparata.

      Eccoli:

      1) Cambiare lavoro. Lo so, non è un sogno probabile di questi giorni, anzi quasi impossibile. Ma le motivazioni di base sono due.

      – il mio contratto scade tra un anno, quindi trovare un altro lavoro diventa una sorta di imperativo categorico;

      – odio il mio lavoro. Lo odio così tanto che perfino io stessa mi sono stancata di ascoltare le mie lagne. Doveva essere una sistemazione provvisoria, di un paio di mesi che sono rotolati in un paio di anni, tipo valanga. Detesto il freddo e il grigio di Greyville, quella solitudine forzata. Avverto che il tempo passa, e ogni mese, ogni stagione mi allontana ancora di più dallo scoprire qual è la mia vera vocazione – se poi ne ho una. Dal riuscire a creare, produrre qualcosa che mi renda orgogliosa di me stessa, almeno un pochino. Dal trovare il mio posto nel mondo;

      2) Cercare di dormire più di quattro ore a notte, anziché addormentarmi quando si avvicina il mattino, ritardare la sveglia, alzarmi in preda al panico e arrivare in ritardo al lavoro tanto odiato menzionato al punto 1).

      3) Mangiare sano, anziché alternare orge caloriche ad alto tasso di carboidrati, zuccheri e sensi di colpa a pasti saltati.

      4) Esercitarmi al pensiero positivo, che per una pessimista cronica è un andare contro natura. Tornare a fare yoga? La seconda volta che ci ho provato mi si è infiammato il nervo sciatico…

      5) Scrivere un pensiero felice al giorno (vedi punto 4). Anche, e soprattutto, nelle giornate peggiori, nelle giornate più storte. Esercitarsi a cercare momenti di bellezza, quelli che la Barbery definisce i sempre nei mai.

      6) Gestire meglio il mio tempo. Perché la scusa del non ho tempo non regge. C’è sempre tempo da dedicare alle cose che si amano. Distinguere, come faceva quella cultura elegante e raffinatissima che è quella greca, così attenta alle sottigliezze del linguaggio, il chronos, il tempo cronologico, nozione meramente quantitativa, dal kairos, il tempo di qualità, un intervallo indefinito durante il quale accade qualcosa di speciale.

      7) Smettere di pretendere così tanto da me stessa e di aspettare che le cose accadano, o avere la pretesa di farle accadere. Imparare l’arte della pazienza, anche se è una medicina amara.

      8) Scrivere. Tanto. E non per essere letta, non nella speranza di pubblicare qualcosa di significativo, un giorno. Riassegnare alla scrittura quel valore che le davo da bambina: quello di una dimensione magica, curativa, balsamica. Dove le gioie, piccole o grandi che siano, vengano sublimate, i dolori attenuati. Una safety net. Qualcosa che sia mio e mio soltanto, dove lasciarmi libero sfogo, senza inibizioni.

      9) Seguire un corso di scrittura creativa (vedi punto 8). Il mio sogno sarebbe la summer school ad Harvard, ma questo non rientra nella lista dei sogni possibili, mi sa..almeno per ora.

      10) Imparare ad amarmi. O quantomeno, a volermi un po’ di bene.

      11) Essere meno arrabbiata. E’ andata così, in fondo.

      12) Accettare che ci sono alcune perdite dalle quali non ci si riprende mai, che hanno radici profonde, che affondano nell’infanzia. Accettare che ci sono vuoti che non si possono riempire. Accoglierli, anziché respingerli e negarne l’esistenza, e andare avanti.

      13) Leggere di più. Stilare una lista degli autori mai letti e di quelli da approfondire: Zadie Smith, Bukowski, Simone de Beauvoir, Kurt Vonnegut, John Fante, Sylvia Plath, le due Marguerite (Duras e Yourcenar), David Foster Wallace, i grandi della letteratura russa. Leggere sempre in lingua originale, quando possibile. Leggere tanta poesia.

      14) Leggere i giornali ogni giorno (non solo i titoli!)

      15) Non vergognarmi di piangere.

      16) Non vergognarmi di parlare in prima persona.

      17) Circondarmi di colori. Intorno e addosso. Per combattere Greyville a armi pari.

      18) Non cullarmi nell’idea di un altro master. Cercarne uno che mi piaccia, e seguirlo.

      19) Il dottorato. Idea folle e balzana. Sogno impossibile. Ma assicurarsi di aver fatto di tutto per escludere ogni possibilità.

      20) Imparare a fidarmi. Degli altri. Di me stessa.

       

      Quali sono i vostri sogni possibili? Raccontantemeli per ricevere sotto il vostro albero una copia di Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili (il giveaway è aperto fino al 31 dicembre).

      Che il 2013 sia propizio a tutti i miei venticinque lettori di manzoniana memoria. Auguri, sognatori.

      Sylvia Plath
        

       

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    • Life is a box of chocolates…

      Posted at 11:50 pm10 by ophelinhap, on October 2, 2012

      …you never know what you are gonna get.

      La famosissima citazione, tratta dal celeberrimo Forrest Gump, tocca tutti noi. Inesorabilmente.

      E non tutti abbiamo le risorse di Forrest, che pure parte da una postazione di svantaggio. Stupid is as stupid does, gli ripete sempre quella figura incredibile che è sua madre. E Forrest sceglie di non essere stupido. O di trarre il meglio dalla sua “stupidità”.
      E segue il consiglio di Jenny: correre, correre sempre, quando è in pericolo, quando ha paura, quando è circondato dalle persone “normali”. Dai “non stupidi”.

      Forrest dedica tutto se stesso alla realizzazione del sogno del suo migliore amico, Bubba. Forrest, da sempre innamorato della sua unica amica, da sempre respinto, è lì quando lei ha bisogno, è lì fino alla fine. E sono convinta che sarà un ottimo padre, che amerà suo figlio tanto quanto sua madre è riuscita ad amare lui, proprio perchè speciale.

      C’è una frase che mi colpisce sempre, ogni volta che rivedo il film: I might not be the smartest man but I know what love is, Jenny.

      Quanti di noi possono affermare la stessa cosa? Quanti dei “normali” (e io non mi ci metto in mezzo, perchè mi sono convinta di non esserlo, nel mio piccolo, nelle mie stramberie quotidiane, nel mio bisogno di conferme, in quel vuoto che non si riempie mai, in queste notti infinite che si stendono davanti a me come lenzuola bianchissime e inamidate) possono definire l’amore, a parole loro, e affermare di aver fatto di tutto per guadagnarselo, per meritarselo? Quanti possono candidamente affermare di aver impiegato le loro risorse ed energie, seppure limitate, consacrandole totalmente ad un obiettivo, senza mai perderlo di vista, senza mai smettere di sperare?

      E ho in mente quella scena, lui col suo abito chiaro seduto sulla panchina con la sua scatola di cioccolatini che racconta ai passanti di lui e Jenny. E penso al fatto che quasi tutti amano la cioccolata, ma quando ti viene offerto un cioccolatino speri sempre sia uno di quelli che ti piacciono e non uno dei pochissimi che proprio non riesci a mandare giù. E invece, spesso, troppo spesso, quello che ti capita è l’extra dark o il cioccolatino al pistacchio o quello ripieno di caffè o di liquore alla ciliegia  – le varietà che proprio non sopporto – e per dovere, per educazione, per cortesia, per rispetto delle etichette, lo mangi.

      Perchè così è la vita. E’ quello che ti succede e ti sconvolge tutti i programmi, ti stravolge sogni e aspirazioni, ti fa perdere ogni fiducia in te stessa. Ogni certezza.
      Ti scarica ad un incrocio sotto la pioggia, senza un ombrello nè una valigia nè un programma. Spaventata. Disorientata. E il boccone ti va di traverso, e rischi di strozzarti.

      Forse dovrei seguire anch’io l’esempio di Forrest, e mettermi a correre senza fermarmi mai. Quantomeno finchè non avrò capito in che direzione voglio andare, e dove voglio arrivare.

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    • We are all haunted houses.

      Posted at 11:50 pm07 by ophelinhap, on July 30, 2012

      Non siamo villette unifamiliari stile Mulino Bianco, con le pareti imbiancate di fresco e i vasi di fiori al balcone. Siamo vecchi castelli, magioni abbandonate, e tutti abbiamo i nostri scheletri negli armadi, le ragnatele in soffitta, il salone chiuso con la torta nuziale mai mangiata popolata dai topi, l’orologio fermo e una Miss Havisham perennemente vestita nel suo abito nuziale che aspetta chi non arriverà mai. E soprattutto, tutti noi abbiamo i nostri fantasmi.
      Quelli che tengono svegli in piena notte. Quelli che fanno più paura, perchè non si possono vedere, nè sentire: quelli che opprimono il petto e non ti lasciano respirare, quelli che ti serrano la gola e la bocca dello stomaco. Quelli che ti lasciano ad annaspare, boccheggiante, alla ricerca di un po’ d’ossigeno.
      Quelli che ti fanno temere quelle notti eterne, e tirare un sospiro di sollievo solo alle prime luci dell’alba. Quelli che ti fanno bramare l’oscurità, quel buio dolce e buono che scende come una coperta a proteggerti da quello che non vuoi vedere.
      Quei fantasmi che sono strascici di sentimenti che non riesci a buttare via, le ultime scintille di incendi che non riesci a sedare del tutto, mai. Quei fantasmi che sono ombre di persone che ci sono state e non ci sono più. Dettagli. Barlumi di visi. Scorci di sguardi. Pezzi di sorrisi che si riflettono in uno specchio scheggiato.
      Fantasmi di parole mai dette, di cose mai fatte, di lettere mai scritte. Di addii alla stazione. Fantasmi di persone che abbiamo lasciato andare via e ora sono solo ombre, gocce di memoria, lacrime distillate di rimpianto.
      Tuttavia, credo che i peggiori siano quelli che ci portiamo dietro dall’infanzia. Quelli che vivono dentro di noi ma che cerchiamo di ignorare anzichè affrontarli a colpi di kick-boxing.
      Quei compartimenti stagni che non permettiamo a nessuno di aprire. Quelle vicende che ci hanno segnati rendendoci inesorabilmente quello che siamo. Anche se non vogliamo, anche se non possiamo accettarlo, questi fantasmi sono parte di noi. La mattina, allo specchio, si possono intravedere, nel grigiore della pelle, nel nero delle occhiaie, in quel guizzo di vitalità in meno nello sguardo.
      Noi siamo i nostri fantasmi. E non vogliamo ammetterlo perchè è scomodo, davanti a noi stessi prima che agli altri. Non vogliamo ammetterlo perchè abbiamo paura di giudicarci e di essere giudicati.
      Ma solo vivendole, quelle paure, solo affrontandole nei corridoi e nei labirinti intricati dei nostri castelli infestati, saremo forse in grado di capirci qualcosa. Qualcosa di quel grande mistero che siamo noi stessi.
      Per quanto ci costi ammetterlo, per quanto possiamo vergognarcene, siamo fatti di luce ed ombra, di leggerezza e pesantezza, per quanto quest’ultima spesso abbia la meglio, come nel mio caso.
      Forse solo ammettendo questa tensione, questa dicotomia costante, e vivendola fino a fondo si può trasformarla in qualcosa di…positivo. In una turbolenza creativa. In un vortice di pensieri e parole, sogni e insonnia in cui cercare di rivederci per quei bambini che eravamo, spaventati dal buio o dal lupo o dall’uomo nero o dall’abbandono di un genitore. O traumatizzati da quest’abbandono.
      Forse quello che facciamo, giorno dopo giorno, è comprimere, senza mai decomprimere. E’ cercare di soffocare quel bambino che continua a vivere dentro di noi, senza mai dargli voce, anche se richiede le nostre cure, la nostra attenzione, e, soprattutto, quello che gli abbiamo sempre negato: il nostro amore incondizionato. La nostra accettazione.

      Siamo tutti vecchi castelli infestati da fantasmi. E no, non possiamo venderci come dimore storiche di lusso finchè non riusciamo ad esorcizzarne almeno un paio.
      E non si può smettere di frequentare il passato se non si scende a patti con lui. Almeno in parte.

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    • There was a time (but it was already some time ago)

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 24, 2012

      Magritte

      There was a time, but it was already some time ago.
      There was a time when we were younger, and we thought we were going to be real changemakers, and we could have an impact on the world we lived in. There was a time we collected speeches, articles, we subscribed to petitions, we supported everything was green, was fair, was in line with our values.
      And yes, we had great values. And we were sure we were going to make something big out of them, something important, like writing a novel or writing poetry, because our words were our swords.
      Or we were going to become war reporters, and write about the atrocities of conflicts. Whatever we were going to become, we were going to be proud of ourselves. We were going to be able to look at our image in the mirror every morning and feel good about ourselves.
      There was a time, but this was really long time ago, when we fell in love. Falling in love was simple and complicated at the same time. We could fall in love with a movie and cry our eyes out. With a book. With a line. With a rhyme.
      We could fall in love one summer evening in the Coliseum with an American guy who was going to leave in two days, spend the night thinking about him and spend the following day looking frantically for him in every hotel in the area he had mentioned he lived. But oh, the moment we found him. That kiss. How many buses we let go before letting him go.
      We could fall in love with someone we had never seen, living far away from us, for his writing, because we wanted to be the woman he was so clearly – or had been  – in love with. We could fall in love out of curiosity. We could write to him, holding our breath for his reply. He could surprise him by coming to visit us. But oh, the moment we first laid eyes on him, under the Cupid statue in Piccadilly. That moment. And the loss, afterwards. The sense of loss. The excruciating pain.
      We could fall in love while stile at uni, with someone who was preparing his speech for his simulation of a UN Security Council meeting. He would repeat his speech by whispering it in our ear, while holding our hand, at the Christmas market.
      And there was a time when we really fell in love, and that was really it. When we were in the same room, the two of us, a room crowded with people, full of noise and music, our eyes would lock, and everything else wouldn’t make sense anymore. No more noise, no more people. Ignore he or she who is talking to you. Just the two of us. Except that it was horribly wrong, and it couldn’t be, and it broke our heart. It really hurt, like hell. And that was it, folks. We lost a big piece of ourselves and we are still engaged in a neverending quest to find it. Do we still fall in love? Yes we do. Does it fell the same??? Does it???
      There was a time we felt pretty. There was a time we felt free. There was a time in which even making the wrong things made sense.

      There was a time we didn’t know our place in the world, and we were afraid, but this made sense too, because we were confident we were going to get there, and, once there, we would just know. Love at first sight.
      And now? Now we are plain scared, because we are older but none the wiser, we still are helpless and clueless and we don’t belong anywhere. We just don’t belong.

      I have used “we” because I really hope that, in all this ranting, some of you have felt the same…at least once..at least a little bit..that I am not tha scary odd bugger out of a mad, but still comfortably homogeneous, crowd.

      Have you ever felt the same? Have you?

      There was a time, Guns N’ Roses

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    • Melancholia di Jon Fosse, Cime tempestose di Emily Brontë

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 7, 2012

       

      Things We Forget: #301: vivocity, singapore
      Things We Forget: #301: vivocity, singapore

      “Ho preso la sua mano nella mia, e siamo andati fuori del luogo in rovina…e non ho visto l’ombra di un altro distacco da lei”. (Charles Dickens, Great Expectations – Grandi speranze)

      Bernard Shaw su Grandi Speranze: “The novel is too serious a book to be a trivially happy one. Its beginning is unhappy; its middle is unhappy; and the conventional happy ending is an outrage on it.”

      Non potevo non iniziare il post di oggi se non ricordando che duecento anni fa nasceva un genio della letteratura, inglese e non solo: Charles Dickens (per A Christmas Carol leggere qui)

       

      Great Expectations, Penguin Popular Classics


      Dall’amore felice, all’amore contrastato, all’amore dannato, all’amore come ossessione. Vi propongo qui di seguito alcuni estratti di un libro che mi ha molto colpito, Melancholia di Jon Fosse, una sorta di lunga lettera – sfogo – introspezione del pittore Lars Hertevig. Prendete Jon Fosse, il massimo scrittore norvegese vivente. Prendete Lars Hertevig, uno dei più grandi paesaggisti norvegesi dell’Ottocento, le cui malattie nervose gli valsero l’internamento in manicomio. Metteteci dentro pure la bella quindicenne Helene, nipote del proprietario della pensione presso la quale Lars alloggiava, e shakerate bene. Il risultato? Un fiume di colori e parole, una tensione costante, tra amore e ossessione, tra sprazzi di lucidità e follia, del pittore verso la sua bella. Il tutto è narrato dal punto di vista psicotico e visionario del pittore norvegese, che dà vita a pagine davvero intense, e davvero belle. Leggere per credere.

      “Lui, Lars da Hattarvagen sta abbracciando Helene Winckelmann ed è così
      tranquillo, colmo di qualcosa che non sa cosa sia. Lars Hertervig è con
      Helene Winckelmann.E non è più se stesso, è con lei. Si trova dentro
      qualcosa che non sa cosa sia. È con lei. La cinge con le braccia e ora
      lei lo abbraccia.
      Lui preme il suo viso nei suoi capelli, sulle sue spalle.Si trova
      dentro qualcosa che non ha mai conosciuto prima, qualcosa che non sa
      cosa sia e lui, il paesaggista Lars Hertevig, non ha idea di cosa sia,
      ma all’improvviso se ne rende conto, ed è in quel momento che capisce, è proprio in quel momento che sa di trovarsi dentro qualcosa verso cui il suo quadro tende, qualcosa che è nel suo quadro, quando sta
      dipingendo al meglio, è lì che si trova lui ora, lo sa, perchè ci è
      già stato prima nelle vicinanze di questo qualcosa all’interno del
      quale ora si trova, mai ci era entrato prima, mai come adesso, lì dove
      il pittore Lars Hertevig respira attraverso i capelli di Helene
      Winckelmann. E non fa altro che restare nella sua luce, in qualcosa
      che lo colma.

      E ora, sdraiato sul letto, non riesce a ricordare quanto tempo è
      rimasto abbracciato a lei, alla sua cara, carissima Helene, ma certo
      deve essere stato parecchio, magari quasi un’ora era stato ad
      abbracciarla, mentre adesso se ne stava seduto sul letto con il suo
      abito malva ad ascoltare una bellissima musica”.

       

      “Ed è la mia amata Helene che sta suonando. E io, Lars de Hattarvagen,
      ho visto Helene sciogliersi i suoi bei capelli, l’ho vista in piedi
      davanti alla finestra della mia stanza e ho visto i suoi capelli
      biondi caderle ondeggianti lungo le spalle.E ho visto la luce dei suoi
      occhi. E sono stato dentro la sua luce. Sono entrato dentro la sua
      luce.Mi sono alzato dalla sedia, sono andato verso di lei e davanti
      alla sua luce…
      Tu sei come cielo e luce in me. Mi manchi così tanto, Helene. e adesso
      tu mi hai chiesto di venire da te. E io vado via dal Malkasten, mi
      avvicino alla via dove abiti tu, insieme a tua madre, con i tuoi
      fratellini.Vengo da te, mia cara Helene.Perchè tu sei in me. Tu sei in me. Io vengo da te. E tu sei in me.Tu sei me. Senza di te io sono solo un movimento, senza di te sono solamente un movimento vuoto, una curva. Una svolta verso di te. Un movimento verso di te, Helene. Verso di te, verso di te. Helene.
      Da quando mi sveglio a quando mi corico, sempre sono un movimento
      verso di te. Sono rivolto verso di te,sono un movimento verso di te.Ti
      vengo incontro perché mi hai chiesto di venire da te, e ora magari non
      vuoi vedermi, non vuoi che io venga, magari vuoi solo che io sparisca
      e non venga mai da te, forse non mi vuoi più vedere, magari i tuoi
      occhioni, così azzurri, così luminosi, non mi vogliono più vedere,
      magari tu non vuoi più avere niente a che fare con me, magari non mi
      vuoi più vedere, perché tua madre mi ha detto che non puoi più
      vedermi, un paesaggista norvegese, uno studente di belle arti, un uomo
      strano, appena un uomo.
      Cammino lungo la strada. Vado verso al casa dove tu abiti, verso il
      tuo volto alla finestra.
      I tuoi capelli biondi, ondeggianti.
      I tuoi occhi così azzurri, così chiari.
      E il tuo vestito bianco.
      E la tua voce che pronuncia il mio nome.
      Da quando mi sveglio fino a sera, posso sentire la tua voce.
      Posso vedere i tuoi occhi.
      Dentro di me, sei tu”.

      Melancholia 1, Jon Fosse, Fandango Libri

      Come può questo delirio amoroso non richiamare il destino turbolento di Cathy e Heathcliff, i protagonisti di Wuthering Heights, Cime tempestose, di Emily Brontë?
      L’amore come dannazione. L’amore oltre la vita. L’amore oltre la morte.
      L’amore che non ha il coraggio di sfidare le convenzioni sociali, ma finisce per sfidare addirittura il concetto di mortalità umana. La storia è ben nota: il padre di Cathy prende con sé il trovatello Heathcliff e lo alleva in seno alla sua famiglia; tuttavia, una volta morto il suo benefattore, Heathcliff viene degradato al rango di servo. Già dall’inzio è connotato come incarnazione stessa del male: la pelle scura, sporco, gli occhi come carboni, le marachelle più o meno ingenue combinate insieme alla sua compagna di giochi, Cathy.
      Tuttavia, pur amando Heathcliff, Cathy sposa il vicino di casa, il mite ed agiato Linton.
      Ecco come Cathy descrive il suo amore per Heathcliff:

      “Le mie grandi sofferenze in questo mondo sono state quelle di Heathcliff, e le ho viste e vissute tutte fin dal principio; il mio pensiero principale nella vita è lui. Se tutto il resto morisse, e lui rimanesse, io continuerei ad esistere; e se tutto il resto continuasse ad esistere e lui fosse annientato, l’universo si trasformerebbe in un completo estraneo: non ne sembrei parte. – Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi: il tempo lo cambierà, ne sono consapevole, come l’inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne che stanno sotto quegli alberi: una fonte di piacere ben poco visibile, ma necessaria. Nelly, io SONO Heathcliff! Lui è sempre sempre, sempre nella mia mente: non come una gioia, non più di quanto io lo sia per me stessa, ma come il mio stesso essere. Quindi non parlare più di separazione: non è possibile.” (cap. IX)

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      Ma i due si separano: dopo aver sentito le prime parole di Cathy, Heathcliff scappa, senza dare alcuna notizia di sé, deciso a riscattarsi e a diventare degno dell’orgoglio di classe e dell’amore di Cathy. La sua vendetta è lunga e dolorosa: sposa la sorella di Linton, Isabella, solo per rendere Cathy gelosa, spezzando il cuore a Linton e rendendo la vita impossibile alla moglie, che finisce con lo scappare; gode della sua nuova condizione di ricco asservendo Hindley, fratello di Cathy, dedico all’alcool e al gioco dopo la morte della moglie, e il di lui figlio, Hareton, che costringe ad abbruttirsi. Cathy, malata e infelice, muore dando alla luce una figlia. Tuttavia, prima della sua morte, i due riescono a dichiararsi eterno ed imperituro amore:

       

      Cathy:
      – Vorrei tornare a essere una ragazza, quasi una selvaggia, e aspra e libera, che ride delle offese e non ne impazzisce! Perché sono tanto mutata? perché il mio sangue si agita tumultuosamente per poche parole? (cap. XII)
      – Ma, Heathcliff, se io ora ti sfidassi a farlo, ne avresti il coraggio? Se lo avrai ti terrò con me. Non giacerò là da sola. Possono seppellirmi dodici piedi sotto terra, e gettarmi sopra la chiesa intera; ma non riposerò fino a quando tu non starai con me. Mai! (cap. XII)

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      Heathcliff:
      – Ora dimmi come hai potuto essere così crudele con me, crudele e falsa. Perché mi disprezzasti? Perché ingannasti il tuo stesso cuore, Cathy? Non mi viene una sola parola di conforto. Tu meriti questo. Ti sei uccisa da sola. Sì, puoi baciarmi, e piangere; e strapparmi baci e lacrime; essi saranno la tua rovina… la tua dannazione. Tu mi amavi; che diritto avevi di lasciarmi? Che diritto? Rispondimi. Lasciarmi per quel misero capriccio che ti prese per Linton? Giacché né la miseria, né la degradazione, o la morte, né qualunque pena che Dio o Satana potessero infliggere, avrebbero potuto separarci, tu lo facesti di tua volontà. Non ho infranto il tuo cuore, tu l’hai infranto; e nell’infrangerlo, hai spezzato il mio. Tanto peggio per me che sono forte. Se voglio vivere? Che vita sarà quando tu… oh, Dio! Piacerebbe a te vivere con la tua anima nella tomba? (cap. XV)
      – È duro perdonare, e guardare codesti occhi, e toccare codeste mani consunte. Baciami ancora; e non farmi vedere i tuoi occhi! Ti perdono per quello che mi hai fatto. Io amo la mia assassina; ma il tuo assassino, come potrei perdonarlo? (cap. XV)
      – Ha mentito fino alla fine! Dov’è ora? Non è là, non in paradiso, non fra i morti, dov’è? Oh dicesti che non ti importava delle mie sofferenze! E io elevo una sola preghiera, la ripeterò fino a che la lingua non si sia seccata – Catherine Earnshaw, possa tu non trovare pace finché io avrò vita; dicesti che io ti avevo uccisa; perseguitami allora! Gli assassinati PERSEGUITANO i loro assassini, credo. So che dei fantasmi hanno vagato sulla terra. Sii sempre con me, assumi qualsiasi forma, fammi impazzire! Solo non lasciarmi in questo abisso dove non riesco a trovarti! Oh Dio! Non ci sono parole per dirlo! NON POSSO vivere senza la mia vita! NON POSSO vivere senza la mia anima! (cap. XVI)

      I propositi di vendetta del disperato Heathcliff non si attuano: alla fine del libro, Hareton e Cathy, figlia della sua amatissima Catherine, si innamorano, mettendo così fine alla faida e riportando risate e colori a Wuthering Heights.
      Si racconta che, dopo la morte di Heathcliff, due spiriti siano stati visti aggirarsi tra le brughiere innebbiate e desolate. D’altro canto, come scrisse la Brontë:
       

       

      There is not room for Death,
      Nor atom that his might could render void:
      Thou -Thou art Being and Breath,
      And what Thou art may never be destroyed.

       

      (No coward soul is mine)

       

      Non c’è spazio per la Morte,
      Non c’è atomo che la sua volontà
       possa annullare:
      Tu – Tu sei Vita e Respiro,
      Possa quello che sei mai essere distrutto!

      “What do they know of heaven or hell, Cathy, who know nothing of life ?”

      da Wuthering Heights (1939) regia di William Wyler con Merle Oberon (Cathy Linton), Laurence Olivier (Heathcliff), David Niven (Edgar Linton)

       


      “Ora mi degraderebbe sposare Heathcliff, così non saprà mai quanto io lo ami: e non perché sia bello, Nelly, ma perché lui è più me stessa di quanto non lo sia io. Di qualsiasi cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la medesima cosa; e quella di Linton è diversa quanto un raggio di luna da un lampo, o il gelo dal fuoco”. (cap. IX)

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 6 Comments | Tagged Dickens, Emily Brontë, Great Expectations, In the mood for love, Lettere d'amore, Poetry, Si legge e si racconta di libri
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