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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Storie di expat

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 26, 2016


      Da un po’ di tempo mi interrogo sulla condizione dell’expat, per ovvie ragioni. Vivo fuori da più di sei anni, e mi ritrovo ad un punto in cui devo decidere cosa fare nel mio futuro prossimo. Nell’ambito delle mie considerazioni, mi sono resa conto, con estrema amarezza e con un certo disincantato stupore, di non avere più un posto da chiamare casa.

      Qui mi sono sentita sempre di passaggio, ho visto amici traslocare, colleghi cambiare lavoro, le vite degli altri scorrere più o meno veloci, più o meno lente, e ho messo la mia un po’ in stand by.

      Un paio di volte all’anno mi prende la voglia di tornare a casa. Coincide col Natale o con l’arrivo dell’estate, con la voglia di quel sole sulla pelle che qui è così difficile da reperire. Ogni rientro è caratterizzato da una sorta di sfasamento, dal vuoto spazio-temporale tra chiudere la porta di una casa e aprire la porta di un’altra, solo per percorrere con lo sguardo stanze straordinariamente familiari e al tempo stesso ormai così estranee da diventare quasi ostili: basta un libro spostato, un mobile nuovo, il giardino potato di recente per aumentare quel senso di malessere e di non appartenenza.

      La vita dell’expat (quantomeno la mia) è cosi: divisa tra due mondi e due realtà diverse, scissa dal disagio profondo di non appartenere poi veramente a nessuna delle due. Ogni andata, ogni ritorno diventa un po’ come dover imparare di nuovo una lingua appresa molto tempo prima e poi dimenticata: si ha la testa sott’acqua e le parole galleggiano sulla superficie, e si cerca di afferrarle, di impadronirsi di nuovo della loro essenza, di riempirsi la bocca e le orecchie del loro suono.

      Mi sono sempre detta che molto dipende dal posto, e probabilmente è così: io e Bruxelles non abbiamo mai fatto davvero amicizia, siamo rimaste due conoscenti che si guardano di sottecchi, con diffidenza. Quando torno a Londra, dove scappo appena posso, è un’altra storia: le sue strade sono piene di ricordi di una me più giovane e più leggera che vi abitava quasi danzandovi, depositaria di un futuro pieno di possibilità, succoso come le prime pesche della stagione.

      Negli ultimi mesi mi sono imbattuta in due letture che hanno accompagnato e condiviso il mio stato d’animo: due storie di expat, Brooklyn di Colm Tóibín (che ho comprato a New York in quest’edizione, ma che potete trovare nella traduzione italiana di V. Vega, pubblicato da Bompiani) e Anche noi l’America di Cristina Henríquez, edito da NN nella traduzione di R. Serrai.

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      Brooklyn (da cui è tratto l’omonimo film, con una bravissima Saoirse Ronan) racconta la storia di Eilis, giovane irlandese che non riesce a trovare lavoro (mal comune) ad Enniscorthy, sonnolenta cittadina nel sudest dell’Irlanda degli anni cinquanta; un’Irlanda cosparsa di uno spesso strato di malinconia per un benessere che non esiste più, un’età d’oro che sembra ormai lontanissima.

      Eilis, spronata dall’adorata sorella Rose, che sogna per lei una vita migliore e orizzonti più vasti, decide di partite alla volta della grande mela.

      Durante i primi mesi, la ragazza vive appunto con la testa sott’acqua: ammalata di nostalgia e di mancanza di qualcosa di indefinito e intangibile, si trascina stancamente tra giornate sempre uguali, il cuore diviso tra la Eilis di prima, la ragazza di Enniscorthy, e la nuova Eilis di Brooklyn:

      “It made her feel strangely as though she were two people, one who had battled against two cold winters and many hard days in Brooklyn and fallen in love there, and the other who was her mother’s daughter, the Eilis whom everyone knew, or thought they knew.”

      (Aveva la sensazione stranissima di essere due persone diverse: la prima era la ragazza che aveva combattuto due gelidi inverni e una moltitudine di giornate difficili a Brooklyn e si era innamorata lì; l’altra era la figlia di sua madre, la Eilis che tutti conoscevano, o pensavano di conoscere).

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      L’amore ci mette lo zampino, nella persona di Tony, un ragazzo di origini italiane che intraprende l’ardua impresa di far amare Brooklyn a Eilis; quando la ragazza ritrova il sorriso e si sente tranquilla e sicura in una vita che le è diventata familiare, che le sembra ormai l’unica vita possibile, lo spettro della Eilis di prima la richiama bruscamente in Irlanda. Tornare a casa si rivela tristemente molto diverso dalle aspettative:

      “She had put no thought into what it would be like to come home because she had expected that it would be easy; she had longed so much for the familiarity of these rooms that she had presumed she would be happy and relieved to step back into them, but, instead, on this first morning, all she could do was count the days before she went back. This made her feel strange and guilty; she curled up in the bed and closed her eyes in the hope that she might sleep.”

      (Non aveva pensato a come sarebbe stato tornare a casa perché si aspettava che sarebbe stato facile; aveva desiderato così ardentemente la familiarità di quelle stanze che aveva dato per scontato che sarebbe stata contenta e sollevata di rimettervi piede; invece, nel corso della sua prima mattina a casa, non era riuscita a fare altro che contare i giorni che mancavano al suo rientro. Questo l’aveva fatta sentire strana e colpevole; si era accoccolata nel letto e aveva chiuso gli occhi, sperando di dormire).

      Tony diventa un ponte che unisce e al tempo stesso separa i due mondi di Eilis, un sentimento nascosto da uno spesso strato di sensi di colpa che la ragazza non riesce a vivere nella sua interezza. Solo quando Eilis inizierà ad accettare che ci sono incontri che cambiano le persone, insinuandosi sotto la loro pelle e modificando l’idea di casa, riuscirà ad appartenere ad un posto, a farsi abitare da un luogo, a ritrovare il suo Heimat.

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      Anche noi, l’America raccoglie le voci di quell’America che nessuno racconta: un Paese di invisibili, le cui vite apparentemente piccole e semplici nascondono un’epopea di rinunce, di speranze andate a male, di scommesse col destino, di sogni realizzati e sogni naufragati.

      Un anonimo palazzone del Delaware nasconde un cuore pulsante di messicani, panamensi, portoricani, paraguensi: in questo non luogo, in questa periferia dell’anima sbocciano storie tra le erbacce e i calcinacci. Storie come quella di Maribel, ragazza messicana che ha subito una lesione cerebrale in seguito ad una brutta caduta ed è stata portata negli USA dai genitori per frequentare una scuola adeguata alle sue nuove necessità, e Mayor, figlio dei vicini di casa, che riesce a vedere oltre la lentezza e la diversità di Maribel: ne vede tutta la bellezza di farfalla fragile e palpitante, intrappolata sotto un bicchiere di vetro.

       Maribel con gli occhi assonnati e i capelli spettinati, seduta a gambe accavallate sul sedile, che mi volta e mi guarda. Non sarebbe stato un problema, pensai, se non mi avesse trovato. Era come aveva detto lei: per trovare una cosa prima devi perderla. Da allora in poi saremmo stati lontani migliaia di chilometri e saremmo andati aventi con le nostre vite e saremmo cresciuti e cambiati e invecchiati, ma non avremmo mai dovuto cercarci. Dentro ciascuno di noi, ne ero sicuro, c’era un posto per l’altro. Niente di ciò che era successo e niente di ciò che sarebbe mai successo avrebbe reso tutto questo meno vero.

      Si cerca un posto dentro l’altro, per sentirsi più a casa, per combattere ondate di nostalgia spessa come melassa. Si mangia tamales (piatto messicano a base di pasta di mais ripiena), tacos, chicharrones (maiale o pollo fritto) finché ci sono abbastanza soldi, prima di essere costretti a passare ai discount americani e a troppi hot dog: il cibo diventa una sinfonia di appartenenza, una celebrazione della propria identità.

      Perché un posto ti può fare molto male, ma se è casa tua o lo è stato una volta, lo ami comunque. Funziona così.

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       Si passa dalla dolcezza dello spagnolo, che si scioglie in bocca come i besitos de coco (pasticcini al cocco), all’asprezza di una lingua sconosciuta, che si attacca al palato e sembra non essere in grado di tramutare esigenze, pensieri, sentimenti in frasi di senso compiuto.

      ‘L’inglese era una lingua così densa, contratta. Non si apriva nelle vocali come lo spagnolo. La gola aperta, la bocca aperta, i cuori aperti. In inglese i suoni sono chiusi. Cadevano a terra, con un tonfo. Eppure c’era qualcosa di maestoso.’

       Ho apprezzato moltissimo la scelta di Serrai nella traduzione del titolo (quello originale è The Book of Unknown Americans): una scelta poetica, ispirata ai versi di I, Too, Sing America di Langston Hughes; una scelta che vuole incarnare il senso di possibilità che pervade l’odissea di tutti i protagonisti del romanzo.

       I, too, sing America.

      I am the darker brother.

      They send me to eat in the kitchen

      When company comes,

      But I laugh,

      And eat well,

      And grow strong.

       

      Tomorrow,

      I’ll be at the table

      When company comes.

      Nobody’ll dare

      Say to me,

      “Eat in the kitchen,”

      Then.

       

      Besides,

      They’ll see how beautiful I am

      And be ashamed—

       

      I, too, am America.

       

      Si possono avere tante case, e riuscire ad amarle tutte. Si può lasciare un pezzetto di sé, della propria storia, degli incontri che le hanno regalato sfumature nuove e impensate in tutti in posti che si visitano, che si abitano. La cosa difficile è lasciarsi abitare. Perché, come scriveva Gabo nell’indimenticabile Cent’anni di solitudine, non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra, letteralmente o allegoricamente: abitiamo un posto quando vi lasciamo scheletri di una versione di noi che non esiste più, fantasmi di amori scaduti o andati a male, briciole di progetti e di sogni.

      Soundtrack: stavolta doppia, in onore alle due storie.

      • The Hands That Built America, U2
      • Sin documentos, Los Rodriguez
      Posted in Ophelinha legge | 9 Comments | Tagged Anche noi l'America, Bompiani, Brooklyn, Cent'anni di solitudine, Colm Tóibín, Cristina Henríquez, Gabo, Gabriel García Márquez, Langston Hughes, Londra, Memorie di una precaria perbene, NN editore, R. Serrai, Saoirse Ronan, The Book of Unknown Americans, V. Vega
    • Frammenti di un discorso amoroso#2: dell’amore e di altri demoni

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 8, 2016
      Per te nacqui, per te ho vita, per te morirò e per te muoio.
      Garcilaso de La Vega
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       I Frammenti di un discorso amoroso sono citazioni letterarie per ricordare che love is not a dirty word, l’amore non è una parolaccia. Usciranno a cadenza imprevedibile, come imprevedibile è il resto del blog. Come imprevedibile è l’amore stesso.
      Il 26 ottobre 1949, nella cripta dello storico convento colombiano di Santa Clara, viene rinvenuto un cranio di ragazzina con una splendida chioma ramata, lunga ben ventidue metri e undici centimetri.
      A  Márquez, giornalista alle prime armi inviato a occuparsi della storia, questa chioma straordinaria ricorda una leggenda narratagli da sua nonna: quella di una marchesina di dodici anni dalla chioma lunga come un velo da sposa, morta per aver contratto la rabbia dopo il morso di un cane.
      La leggenda e il ritrovamento della cripta ispirano a  Márquez una delle sue storie più poetiche, Dell’amore e di altri demoni, da cui è tratto il frammento di oggi.
      Sierva María de Todos los Ángeles è una ragazzina magra, dalla timidezza irrimediabile, la pelle livida, gli occhi azzurri e silenziosi e una splendida chioma ramata. Cresce nel disinteresse totale dei genitori, affidata alle cure degli schiavi della casa paterna: parla svariate lingue africane, imita le voci degli uccelli e degli animali, si dipinge il viso di nero, indossa collane stregonesche, impara a camminare così silenziosamente che la madre le mette un campanello al collo per sentirla.
      Durante una spedizione al mercato per i festeggiamenti per il suo dodicesimo compleanno, Sierva María viene morsa da un cane nero con una stella bianca sulla fronte: contrae la rabbia, che viene scambiata per possessione demoniaca, e inizia il suo lento martirio.
      Cayetano Delaura è candidato per la carica di custode del fondo sefardita presso la biblioteca del Vaticano. È brillante, intelligente, benvoluto dal vescovo, che gli affida il caso di Sierva María, nonostante Cayetano non sia un esorcista.
      Cayetano ha poca dimestichezza con le donne: è spaventato da Sierva María più che dal diavolo. Intravede presto il vero problema della ragazzina, e decide di curarlo con i sonetti di Garcilaso de la Vega e non con gli esorcismi. Ma la poesia ha i suoi effetti collaterali, e i due si ritrovano presto prigionieri di un sentimento che può esistere solo all’interno degli esigui confini della cella di Sierva María, a riprova del fatto che l’amore va sempre preso molto sul serio.
      gabo
      Fino ad allora non aveva smesso di guardarla negli occhi e lei non dava mostra di arrendersi. Lui sospirò profondamente, e recitò:
      “Oh bel sembiante per mia sventura incontrato”.
      Lei non capì.
      “È un verso del nonno della mia trisnonna” le spiegò lui. “Ha scritto due egloghe, due elegie, cinque canzoni e quaranta sonetti. E quasi tutti per una portoghese senza grandi attrattive che non fu mai sua, in primo luogo perché lui era sposato, e in secondo perché lei si sposò con un altro e morì prima di lui”.
      “Frate pure lui?”
      “Soldato” disse Cayetano.
      Qualcosa si mosse nel cuore di Sierva Maria, perché volle riascoltare il verso. Lui lo ripeté, e questa volta proseguì, con voce intensa e ben articolata, fino all’ultimo dei quaranta sonetti del gentiluomo d’amore e armi, don Garcilaso de la Vega, morto nel fiore degli anni per una sassata in guerra.
      Quando ebbe finito, Cayetano prese la mano di Sierva Maria e se la posò sul cuore. Lei vi sentì dentro il fragore della sua bufera.
      “Sono sempre così” disse lui.
      E senza lasciare tempo al panico si liberò della materia torbida che gli impediva di vivere. Le confessò che non passava un istante senza pensare a lei, che tutto quanto mangiava e beveva aveva il sapore di lei, che la vita era lei a ogni ora e ovunque, come solo Dio aveva il diritto di esserlo, e che il godimento supremo del suo cuore sarebbe stata morire con lei. Continuò a parlarle senza guardarla, con la stessa fluidità e lo stesso calore con cui pregava, finché ebbe l’impressione che Sierva Maria si fosse addormentata. Ma era sveglia, con i suoi occhi da cerva impaurita fissi su di lui. Si azzardò solo a domandare:
      “E adesso?”
      “Adesso nulla” disse lui. “Mi basta che tu lo sappia”.
      Non gli fu possibile proseguire. Piangendo in silenzio passò un braccio sotto la testa di lei affinché le servisse da guanciale, e lei si rannicchiò contro il suo fianco. Rimasero così, senza dormire, senza parlare, fin quando cominciarono a cantare i galli, e lui dovette sbrigarsi per arrivare in tempo alla messa delle cinque.
      (…) Il panico era stato sostituito dall’affanno del cuore. Delaura non aveva tregua, faceva le cose come gli venivano, fluttuava, fino all’ora felice in cui fuggiva dall’ospedale per incontrare Sierva Maria. Arrivava ansante nella cella, inzuppato dalle piogge perpetue, e lei lo aspettava con tale inquietudine che il solo sorriso di lui le restituiva il respiro.
      (Dell’amore e di altri demoni, Gabriel García Márquez, traduzione a cura di Angelo Morino, Mondadori)
      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 4 Comments | Tagged Angelo Morino, Cayetano Delaura, Dell'amore e di altri demoni, Gabo, Gabriel García Márquez, Garcilaso de la Vega, In the mood for love, Libri Mondadori, Poetry, Sierva María de Todos los Ángeles
    • The rules of (literary) dating – un elenco semiserio di frequentazioni letterarie

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 22, 2015

      indexUn’educazione bovaristica e un’esposizione precoce a certi tipi di letture hanno l’indubbio svantaggio di generare aspettative che non potranno mai essere soddisfatte. Tuttavia, perché guardare il bicchiere mezzo vuoto? Se Jane Austen & company ci hanno insegnato qualcosa, è anche – e soprattutto – l’arte di percepire determinati segnali che, come campanelli d’allarme, gettano una nuova luce sul protagonista di una storia, rendendolo un eroe degno delle attenzioni della protagonista, un perfido cialtrone, un’insignificante macchietta.

      Perché allora non utilizzare questo “superpotere” anche nella vita di tutti i giorni? In fondo, la letteratura è imitazione della vita, no?

      Quindi vi propongo un inventario semiserio (che mi sono divertita un sacco a compilare) di tipologie di eroi/vili marrani in cui ogni lettrice che si rispetti è incappata, prima o poi, tanto tra le pagine di un libro che nella vita vera.

      In quale tipologia vi rispecchiate maggiormente? In ogni caso, niente panico: come scriveva Jane Austen alla nipote Fanny Knight

      Non andare di fretta; abbi fiducia, l’Uomo giusto alla fine arriverà; nel corso dei prossimi due o tre anni, incontrerai qualcuno più unanimemente ineccepibile di chiunque tu abbia già conosciuto, che ti amerà con un ardore che Lui non ha mai avuto, e che ti affascinerà in modo così totale, da farti sembrare di non aver mai veramente amato prima.

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      Tipologia A – Il Mr Darcy (Orgoglio e Pregiudizio, Jane Austen)

      Non è sicuramente il tipo adatto a fare il +1 ad un matrimonio, un compleanno, una cena di lavoro, nè il partner ideale per il corso di tango, dal momento che si rifiuta di ballare. A pensarci bene, non è solo il ballo il problema: la sua vita sociale è fortemente limitata dalla sua scarsa disponibilità a mescolarsi con la gente che non conosce, da quella sua tendenza a fare un po’ l’orso della situazione e a starsene in disparte, con un’espressione tra il serio e l’annoiato, studiando attentamente i titoli della libreria del padrone di casa di turno (probabilmente per criticarne segretamente gusti e scelte).

      Non ha un grandissimo senso dell’umorismo, è riservato e ha bisogno di (tanto) tempo per aprirsi, e accordare la sua fiducia: tempo che passerete cercando di capire cosa gli passi veramente per la testa. In fondo è un po’ come un riccio, irto e irsuto fuori, sorprendentemente dolce e gentile dentro. Onesto, leale, generoso, è sempre pronto a dare una mano, specie se si tratta di tirare fuori dai guai la fanciulla che occupa gran parte dei suoi (criptici) pensieri, magari a sua insaputa. Dire che ha un brutto carattere è un eufemismo: è spesso burbero e cupo, tremendamente orgoglioso (potremmo dire pieno di sé..): una volta persa, la sua stima è persa per sempre. Testardo fino all’esasperazione, non darà soddisfazione alle insicure in cerca di conferme: ma le sue (rarissime) dichiarazioni, lungamente represse, sono sincere e impetuose, e non ci si dimentica facilmente della sua ardente stima e ammirazione.

      Il Mr Darcy scrive inoltre bellissime lettere, ma le amanti del genere epistolare non dovrebbero nutrire illusioni: le sue missive sono infatti volte a riparare qualche suo errore di giudizio tremendamente stupido, che avrà diminuito infinitamente il suo valore agli occhi della Lizzie di turno, incline, a sua volta, a cadere vittima dei suoi pregiudizi. Ma, in fondo, il bel tenebroso piace anche per questo, no? Lunghe passeggiate all’aria aperta possono rivelarsi il metodo migliore per superare le (innumerevoli) controversie, perché, ammettiamolo, quando ci innamoriamo perdiamo tutti la ragione (vero, zia Jane?)

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      Tipologia B – L’ Heatchcliff (Cime tempestose, Emily Brontë)

      Ammettetelo: vi piacciono i bad boy, i tipi cupi, tormentati, misteriosi, irrequieti, inquieti, sempre fuori posto e fuori tempo. Se è cosi, Heathcliff, il selvatico e appassionato protagonista maschile di Cime tempestose, la cui complicata personalità, a cavallo tra bene e male, incarna quelle lande selvagge e desolate dello Yorkshire che fanno da sfondo alla sua storia d’amore con la capricciosa Cathy, fa al caso vostro.

      Non potreste mai invitarlo a mangiare la lasagna a casa di vostra madre la domenica, anche perché, diciamocela tutta, molto probabilmente non si presenterebbe (senza nemmeno avvisarvi): ma riuscirebbe comunque a farsi perdonare il bidone, perché il ragazzo sa farci con le parole, quando vuole.

      Non è di certo una persona convenzionale o ortodossa: gli piace distinguersi e fare l’alternativo, e poco gli importa dell’opinione altrui.

      Nessuno potrebbe mai capire il vostro amore: ma, anche se il mondo intero fosse contro di voi, non v’importerebbe, perché le vostre anime sono fatte esattamente della stessa sostanza. Il vostro amore non cambierà come le foglie d’autunno: piuttosto, somiglia alle rocce eterne che stanno sotto quegli alberi stessi, una fonte di piacere ben poco visibile, ma necessaria.

      Il problema è che, a volte, il suo comportamento fin troppo eccentrico e sprezzante potrebbe portarvi a vergognarvi di lui, e ad allontanarvi. In questo caso, l’Heatchliff sarebbe portato a farvi vedere la sua parte peggiore di sé: sprezzante, possessiva, gelosa, poco incline a perdonare e a dimenticare.

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      Tipologia C – Il Rhett Butler (Via col vento, Margaret Mitchell)

      (Vedi anche alla voce: potrei ma non voglio, vorrei ma non posso)

      Che strazio i se e i forse! Se non aveste sprecato tempo prezioso sospirando drammaticamente per qualcuno che, in fondo, non sarebbe mai stato quello giusto, forse vi sareste accorte prima di quel Rhett che vi stava accanto, aspettando solo di essere notato da voi.

      Il Rhett non corrisponde allo stereotipo di gentiluomo americano del Sud – anzi. Beve come una spugna, bestemmia come un camionista, non si sottrae mai a una rissa, e, francamente, se ne infischia dell’opinione altrui.

      Non si sdilinquisce in complimenti, dice sempre quello che pensa, è egoista ma generoso al momento opportuno, protettivo dei più deboli (Bella Waitling vi dice qualcosa?), e, udite! udite! Ama i bambini!

      La sua pazienza sconfina nella testardaggine: tuttavia, dopo aver superato un certo limite, francamente se ne infischia. Poco male: domani è un altro giorno, vero?

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      Tipologia D – Il Florentino Ariza (L’amore ai tempi del colera, Gabriel García Márquez)

      Il Florentino non è un tipo che si fa notare: è quasi insignificante, nascosto sotto un mantello dell’invisibilità di potteriana memoria. Eppure, ha un suo perché: scrive incantevoli lettere d’amore, e si distingue per la sua incredibile tenacia, che lo rende capace di attendere 51 anni, nove mesi e quattro giorni (beh, forse non così tanto: ma ho reso l’idea, no?), sfidando l’odore penetrante delle mandorle amare armato delle sua silenziosa pertinacia.

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      Tipologia E – Il Willoughby (Ragione e sentimento, Jane Austen)

      Fanciulle, fate attenzione: il Willoughby vi mentirà spudoratamente, negando davanti alla più palese evidenza; vi farà aspettare ore e ore (con conseguenti gastriti e insonnie) una sua chiamata (che non arriverà mai, ovviamente); vi farà credere di essere l’unica (ingenua, che crede che le “telefonate di lavoro” possano arrivare anche dopo mezzanotte). Arriverà perfino a chiedervi un ricciolo da tenere sempre con sé, e a farvi visitare (di nascosto, s’intende) la magione di sua zia che spera di ereditare, un giorno.

      Diciamocela tutta: è insopportabilmente affascinante, ha (o finge di avere) i vostri stessi gusti musicali e letterari, è sempre pronto a farvi da complice quando avete voglia di ridere di voi stesse e degli altri – specie di quel qualcuno timido e un po’ imbranato che cerca di ronzare dalle vostre parti (povero colonnello Brandon).

      Poi non dite che zia Jane non vi aveva messo in guardia: lettrice avvisata, mezza salvata.

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      Tipologia F – Il Rochester (Jane Eyre, Charlotte Brontë)

      Date retta a Charlotte Brontë: non uscite col vostro capo (o collega). Se proprio non riuscite a farne a meno (ah, l’ammmmore), cercate almeno di capire se avete a che fare con Il Rochester.

      Se fa finta di flirtare con fanciulle dal nome pretenzioso (Blanche, dico a te) e il suo comportamento oscilla schizofrenicamente tra il possessivo e il distaccato, è molto probabile che nasconda in soffitta qualche scheletro (o una moglie pazza).

      Tuttavia, se riuscite a fare breccia nel suo cuore di pietra, dirimere i nodi del suo oscuro e tormentato passato e raggiungere con lui un rapporto assolutamente paritario (senza aspettare che, per esempio, perda parzialmente la vista in un incendio per riconoscere che ha bisogno di voi, perché, per dirla tutta, è anche un po’ misogino) allora, lettrici, potreste anche arrivare a sposarvelo.

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      Tipologia G – L’Amleto (Amleto, William Shakespeare)

      V’ama, non v’ama, v’ama, non v’ama. Vi trova fin troppo belle, così belle che l’unico modo per preservare la vostra purezza e onestà è chiudervi in un convento. Ha problemi a casa (e che problemi, tra complesso di Edipo, di Medea, ecc.), il momento non è quello giusto, probabilmente frequenta compagnie (fantasmi) sbagliate (defunte).

      In ogni caso, i suoi problemi esistenziali sono decisamente più grandi di voi due messi insieme. Se passa troppo tempo a parlare da solo con un teschio in mano, non aspettate di fare la fine della dolce e bellissima Ofelia: scappate.

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      Tipologia H – L’Otello (Otello, William Shakespeare)

      Attenti alla gelosia, quel mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre!

      Tutto va bene tra voi; eppure, per qualche oscuro, recondito motivo, L’Otello avverte l’insana necessità di controllare costantemente il vostro telefono (appena vi girate dall’altra parte), giocare al piccolo hacker col vostro account Facebook, chiedere a un amico di sorvegliarvi.

      L’Otello sembra forte, ma ha una personalità molto debole: è facile manipolarlo e convincerlo del fatto che due più due faccia cinque, a scapito della vostra relazione (e della vostra salute mentale).

      Ricordatemi se queste cose finiscono bene, ché ho un’amnesia temporanea.

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      Tipologia I – L’Humbert Humbert (Lolita, Vladimir Nabokov)

      Magari è amore a prima vista, ultima vista, eterna vista, ma lui vi sembra forse lievemente ossessionato dal suo primo amore pre-adolescenziale e non riesce proprio a smettere di parlarne?

      Scappate.

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      Tipologia J : Il Vronskij (Anna Karenina, Leo Tolstoj)

      Il Vronskij non è tipo da tirarsi indietro davanti a una sfida: quando si prefigge un obiettivo, niente può fermarlo. Quando vuole qualcosa, deve averla. Più è difficile ottenerla, più la vuole. Niente e nessuno (che sia un noioso marito burocrate, o una madre desiderosa di farlo sposare per soldi) possono distoglierlo dalla meta prefissa.

      Il fatto che sia estremamente affascinante è innegabile: tuttavia, la sua esteriorità patinata spesso nasconde una personalità narcisistica e superficiale, interessante e profonda quanto i discorsi motivazionali delle candidate a Miss Italia.

      Siete sicure di aver veramente trovato l’anima gemella, e di voler sacrificare tutto per lui?

      Potete leggere questo post in Inglese qui.

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      Versus

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni | 17 Comments | Tagged Amleto, Anna Karenina, aunt jane, Cathy Earnshaw, Charlotte Brontë, Cime tempestose, Emily Brontë, Fanny Knight, Florentino Ariza, Gabo, Gabriel García Márquez, Gone with the Wind, Hamlet, heathcliff, Humbert Humbert, Jane Austen, Jane Eyre, Janeite, L'amore ai tempi del colera, Lev Tolstoj, Lizzie Bennet, Lolita, Margaret Mitchell, Mr Darcy, Ofelia, Otello, Ragione e Sentimento, Rhett Butler, Rochester, Rossella O'Hara, Scarlett O'Hara, Sense and Sensibility, Shakespeare, Via col Vento, Vladimir Nabokov, Vronskij, Willoughby, Wuthering Heights
    • The Ophelinha Gazette#6 – articoli, segnalazioni, aneddoti e curiosità letterarie

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 13, 2015

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      Avete presente quando a Roma è nevicato, nel 2011? Guardavo sui social media le foto dei miei ex colleghi che, felici come bambini, dedicavano la loro pausa pranzo a battaglie con palle di neve.

      Qui a Greyville, signore e signori, c’è il sole. Avete capito bene: non il solito raggio di sole pallido dietro la nebbiolina, ma un sole arancione sullo sfondo di un cielo blu che mi fa sospirare di nostalgia per quello calabrese. Non un giorno di sole, non due, ma ben cinque.

      Ora, una settimana di sole a voi parrà niente, ma da queste parti è un evento raro e inspiegabile come, non so, non strappare i collant in giornata, non finire una bottiglia di Chablis, non guardare Anna Karenina perché il Crotone gioca contro il Trapani (Lupster, dico a te).

      Quindi, col senso di colpa tipico di chi vive su al Nord e sa che l’ebbrezza da luce solare non durerà, taglio corto e scappo al parco in maniche corte (ci sono 13 gradi, ma equivalgono a 23 in terra italica).

      La redazione augura a tutti un ottimo fine settimana assolato di camminate a piedi nudi nel parco.

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      1) Qualche notte fa ho fatto un sogno stranissimo (che s’inserisce nella mia lista di sogni deliranti). Ho sognato che Humbert Humbert mi declamava la poesia che compone per Lolita quando lei scappa con Clare Quilty (che è davvero bellissima, tra l’altro: se non la conoscete, correte ai ripari).

      Mi sono svegliata piena di parole, my Dolly, my folly. Quindi vi propongo un bellissimo articolo sulla biografia di Nabokov e sulla sua vita pre-ninfette, che poi è anche un’interessante riflessione sul concetto di autobiografia: non basta essere un ottimo scrittore, bisogna anche aver vissuto una vita straordinaria, fuori dal normale, piena di eventi interessanti.

      E un’altra lista (lo so, lo so, si era detto niente più liste. Ma è Nabokov, quindi facciamo un’eccezione) dei libri più belli del XX secolo (e di quelli più sopravvalutati).

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      2) Cosa rende un libro più o meno facile da leggere, e perché i libri che non ci piacciono ci risultano più difficili da leggere, benché siano apparentemente più “leggeri”?

      3) Il sei marzo Gabo e il suo realismo magico avrebbero compiuto 88 anni. Brain Pickings lo celebra ricordando i suoi difficili (e tardivi) inizi di scrittore, che sfatano il mito secondo il quale scrittori si nascerebbe, non si diventerebbe. Marquez voleva fare il musicista, invece ha creato l’universo di Macondo e vinto il Nobel per la letteratura. Come direbbe Svevo, la vita non è né bella né brutta, ma originale.

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      4) Janeite, vi siete mai chiesti quali biscotti Aunt Jane avrebbe scelto come accompagnamento al tè? Qui uno spunto interessante e goloso (con un intervento a sorpresa della sottoscritta, eheh).

      E, dato che siamo in tema, beccatevi quattordici consigli della Austen per dirimere i casini della vostra vita sentimentale e renderla Darcy-approved.

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      Photo courtesy Il Cavoletto di Bruxelles

      Posted in Anglophilia, Letteratura americana, Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged aunt jane, Brain Pickings, Cent'anni di solitudine, Gabo, Gabriel García Márquez, Jane Austen, Janeite, Lolita, Macondo, Mr Darcy, Vladimir Nabokov
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