Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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  • Tag: Fernando Pessoa

    • Quando Nabokov incontrò la sua Vera

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 8, 2017

      vv

      È l’otto maggio 1923. Lui è un giovane poeta ventiquattrenne in cerca di affermazione e successo, lei una ventunenne pronta a sfidare il suo destino. Lo sfondo è quello di una festa di beneficenza a uso e consumo degli émigrés di Berlino.

      La ragazza si materializza davanti al poeta. Indossando una maschera da Arlecchino, che si rifiuta di togliere, inizia a declamare i versi di una delle poesie di Nabokov, ritagliata dal giornale russo liberale Rul’ qualche mese prima e imparata a memoria. È un incontro quasi shakesperiano, che richiama il destino di altre  coppie letteraria – Pessoa si dichiara a Ofelinha usando i versi dell’Amleto; Olga Ivanskaja (eternata come Lara in Dottor Zhivago – anche se il suo ruolo di musa ispiratrice è tuttora contestato) si innamora di Pasternak attraverso le poesie di lui, dopo averlo conosciuto confessa a un’amica di aver ‘parlato con Dio’ e lo incontra ogni giorno sotto la statua di Pushkin a Mosca.

      Nabokov esce da un periodo di dolore ovattato, in cui la fine del suo primo amore si fonde con la morte del padre. Svetlana Siewert, sua promessa sposa, ha infatti rotto il fidanzamento col giovane poeta, cedendo alle pressioni della sua famiglia, dubbiosa sul futuro e sulle possibilità economiche di Nabokov come marito; il padre dello scrittore, Vladimir Dmitrievich Nabokov, avvocato, statista e giornalista, viene ucciso dal monarchico Pavel Milyukov, lasciando un vuoto incolmabile nella vita di Vladimir, e un’eco tragica e profonda nella sua poetica.

      L’incontro con Vera fende la nebbia della sua sofferenza e della sua confusione e regala a Nabokov una nuova, luminosa speranza: quella di poter essere amato, di poter essere compreso, di essere riuscito a trovare qualcuno in cui rispecchiarsi (my mirror twin, my next of kin, scriveva Leonard Cohen: mio specchio, sangue del mio sangue). Grazie a Vera, Nabokov riscopre una rinnovata fiducia nella vita e nella possibilità di essere felice. Vera diventerà non solo sua moglie e madre di suo figlio, ma sua partner in crime, sua compagna in senso più simbiotico del termine: assistente, amministratrice, autista (Nabokov ha paura di guidare), archivista, stenografa in quattro lingue diverse, bodyguard (inizia a portare una pistola nella borsetta dopo la pubblicazione di Lolita, paventando la possibilità di attentati a seguito delle tematiche scottanti presenti nel romanzo). Vera salverà anche il destino della stessa Lolita, eterna, ribelle, ineffabile ninfetta, sottraendo il romanzo dalle fiamme in cui Vladimir l’ha gettato.

      A luglio 1923, appena due mesi dopo il fatale incontro, Vladimir scrive a Vera:

      I won’t hide it: I’m so unused to being — well, understood, perhaps, — so unused to it, that in the very first minutes of our meeting I thought: this is a joke… But then… You are lovely…

      (Non posso nasconderlo: non sono abituato a essere – beh, compreso, probabilmente. Sono così poco avvezzo a questa sensazione che già durante i primi minuti del nostro incontro ho pensato: è uno scherzo. E invece… Sei adorabile…)

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      Nabokov eterna la magia dell’incontro con Vera nella poesia The encounter, un trionfo di immagini ricche di suggestioni: la notte vellutata, il profilo da lupo di Vera, le sue labbra tenere, la seduzione dei castagni. Forse una sorta di romantica pietà commuove l’innominata seduttrice, facendole intravedere il suo destino: Vera è colei che Nabokov ha tanto atteso. Il fato ha scoccato i suoi inesorabili strali, e la possibilità di soffrire aleggia come uno spettro sulla giovane coppia: il cuore del poeta esplode allora in una supplica accorata, pregando Vera che non lo lasci viaggiare da solo, ma condivida gioie e fardelli di questo nuovo, inevitabile, meraviglioso destino condiviso.

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      The Encounter (enchanted by this strange proximity)

      Longing, and mystery, and delight…
      as if from the swaying blackness
      of some slow-motion masquerade
      onto the dim bridge you came.

      And night flowed, and silent there floated
      into its satin streams
      that black mask’s wolf-like profile
      and those tender lips of yours.

      And under the chestnuts, along the canal
      you passed, luring me askance.
      What did my heart discern in you,
      how did you move me so?

      In your momentary tenderness,
      or in the changing contour of your shoulders,
      did I experience a dim sketch
      of other — irrevocable — encounters?

      Perhaps romantic pity
      led you to understand
      what had set trembling that arrow
      now piercing through my verse?

      I know nothing. Strangely
      the verse vibrates, and in it, an arrow…
      Perhaps you, still nameless, were
      the genuine, the awaited one?

      But sorrow not yet quite cried out
      perturbed our starry hour.
      Into the night returned the double fissure
      of your eyes, eyes not yet illumed.

      For long? For ever? Far off
      I wander, and strain to hear
      the movement of the stars above our encounter
      and what if you are to be my fate…

      Longing, and mystery, and delight,
      and like a distant supplication….
      My heart must travel on.
      But if you are to be my fate…

      vv3

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 6 Comments | Tagged Boris Pasternak, Dottor Zivago, Fernando Pessoa, Letteratura e dintorni, Letteratura russa, Lettere d'amore, Lolita, Ofélia Queiroz, Olga Ivinskaya, Storie dietro la storia, Vera Nabokov, Vladimir Nabokov
    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

      libri

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

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      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • Love Stories (sui pericoli di innamorarsi delle parole)

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 12, 2015

      love

      L’amore mi sfugge.
      Un tempo scrivevo racconti e tante, tantissime poesie d’amore. Mi piaceva pensare all’amore, analizzarlo, osservarlo, metterlo in discussione, cercare di capire il suo rapporto con la felicità e col dolore. Trovarlo ovunque, re-inventarlo, celebrarlo, accusarlo, cercare di comprenderlo.
      Ora mi sfugge, letteralmente, e non riesco a riacciuffarlo. Elude il mio comprendonio e la mia immaginazione, rimanendo quel mistero così difficile da afferrare e da raccontare, come insegna anche Carver. Pessoa scrive (e Vecchioni canta) che più ridicolo di colui che scrive d’amore è colui che non ne scrive, mai. Non pensavo sarei mai rientrata in questa seconda categoria e invece ci sono finita. Sarà l’età, sarà la timidezza, sarà la mancanza di coraggio o di onestà con me stessa.
      Continuo a cercarlo in quello che leggo, come in quest’articolo della Paris Review scritto da Phoebe Connelly. È il genere di storia d’amore che preferisco: eterea, surreale, nata sui libri, condannata fin dall’inizio da un’estrema difficoltà, quasi impossibilità di concretizzarsi.
      Cosa succede quando ci si innamora delle parole? Una volta il mio motto era “le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare, le parole fanno guarire”: me l’aveva scritto una persona che, pur conoscendomi pochissimo, è riuscita a vedere in me e a capire quanto bisogno avessi di credere nel potere taumaturgico delle parole. Ho perso un po’ di vista questa fede cieca dei vent’anni, così come ho perso di vista la persona che ero a vent’anni: mi capita di intravederla, di incrociarla, ogni tanto, col suo disordine discreto dentro al cuore, per parafrasare De Andrè, in mezzo a un marasma di dubbi, di scelte, di confusione. Ma dove hai lasciato il tuo cuore?
      Anche Phoebe, come la me ventenne, è affascinata dal potere delle parole, e racconta in questa storia – che mi ha gentilmente concesso di tradurre – le conseguenze dell’amore. Quell’amore nato sui libri, in un vortice di parole, personaggi, storie.
      Buona lettura.

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      F. mi è stato presentato da un amico comune durante un viaggio a Los Angeles. Vivevo a D.C., ero da poco single e lavoravo per una rivista di politica. Mi ero data una regola ferrea: mai uscire con giornalisti. In una sonnolente cittadina aziendale* dove, per motivi etici, dovevo evitare coinvolgimenti romantici con le mie fonti, iniziavo a credere di essermi condannata a restare da sola.
      F. era uno scrittore che aveva appena finito il suo primo film e si occupava di rubriche di spettacoli per passare il tempo. A volte giocava a tennis con la mia migliore amica. “Ti piacerà” mi aveva promesso mandandogli un messaggio, mentre io ficcavo la mia borsa nel sedile posteriore della sua macchina all’aereoporto internazionale di Los Angeles (LAX). “Gli dirò di incontrarci per bere qualcosa insieme in questo locale tedesco all’aperto”. Ci siamo piaciuti subito.
      Tutto è iniziato con una sfida. Quella prima sera, gli ho detto che avevo trovato Il verificazionista di Donald Antrim troppo affettato, così ha fatto scivolare I cento fratelli nel mio bagaglio a mano per il volo notturno che mi avrebbe riportato ad est. La moltiplicazione costante dei fratelli di Antrim e la sua prosa claustrofobica si addicevano benissimo ai monotonia degli spazi del LAX. Il mio profumo si è aperto in valigia durante il volo, ma gli ho restituito lo stesso la sua copia insieme a un biglietto scritto a mano, con lo stesso odore della mia nuca.
      Abbiamo passato i due anni successivi a corteggiarci con le parole – le nostre, ma anche quelle di qualsiasi scrittore per mezzo del quale pensavamo di fare colpo. Non eravamo di certo i primi a intraprendere questo cammino; tuttavia, come in ogni storia d’amore – e lista di libri da leggere- che si rispetti, ci sembrava di essere gli unici. La domanda “cosa stai leggendo?” diventava una scusa molto conveniente per iniziare a parlare ogni volta che eravamo tutt’e due online, per mandarci link, per scriverci lettere lunghe e complicate il cui messaggio subliminale era il desiderio.
      Per lui ho letto Sportwriter di Richard Ford, che avevo scartato, etichettandolo come troppo sessista, prima ancora di leggerlo. (La mia opinione non è migliorata di molto dopo la lettura, ma lui sosteneva che il protagonista offrisse una rappresentazione fedele del maschio scrittore). Gli ho mandato La talpa di John le Carré, dopo avergli citato una descrizione della moglie di Smiley fuori contesto. Mi ha detto che il fatto che la citazione non arrivasse fino alla penultima scena del libro l’aveva fatto quasi uscire fuori di testa.
      Ho iniziato a leggere compulsivamente libri ambientati nella West Coast. Ho passato un luglio umido ad appiccicoso a completare la mia serie di Lew Archer; ho fatto scorta di malconci libri in brossura di James M. Cain, sognando pomeriggi all’insegna dello smog e inverni senza neve. Mi stavo innamorando di F. o dell’idea di una città che si prestava così facilmente alla narrazione? All’epoca non me lo sono chiesto. Ero grata di avere un posto nuovo da abitare, anche se questo avveniva solo in weekend rubati e nei titoli della Library of Congress.
      Un paio di mesi dopo il nostro incontro, Farrar, Straus e Giroux ha pubblicato la corrispondenza completa tra Elizabeth Bishop e Robert Lowell. Abbiamo studiato attentamente i dettagli delle loro rispettive esperienza a D.C. come poeti insigni e consulenti di poesia presso la Library of Congress; gli ho scritto una lettera durante una noiosa lezione sulla politica del deficit presso il Cosmos Club, dove Lowell aveva vissuto nel 1947 e nel 1948. “Il clima invernale di Washington è come quello di Parigi, ma senza compensazioni” osservava seccamente la Bishop in una lettera a Lowell nel dicembre 1949.
      Thomas Travisano scrive nell’introduzione che “quelle lettere erano diventate parte della loro persistenza: parte di quell’enorme pezzo di vita che avevano condiviso, vicini e lontani, attraverso trent’anni di corrispondenza intima e acuta”
      Quando arrivavo a casa, mi sdraiavo in un letto solitario con quel volume, trovando nelle loro poesie un mezzo per esprimere tutto ciò che io e F. esitavamo a dirci.
      “A volte/ sorprendo la mia mente/ ruotare intorno a te con occhi di vetro-/ il mio amore perduto a caccia/ del tuo viso perduto”. La nostra corrispondenza manteneva un tono stranamente cortese e formale, nonostante il flirt. I romanzi spediti dall’altra parte del continente, le caustiche osservazioni dei due poeti: tutto ciò ci permetteva di fingere che si trattasse di un gioco letterario, che non coinvolgesse i nostri cuori pulsanti, ad alto rischio di spezzarsi.
      Dimmi perchè ami questo libro, gli chiedevo, e lui me lo spiegava.
      I libri sostituivano il sesso, reso impossibile dalla distanza. Gli avevo mandato La biblioteca della piscina di Alan Hollinghurst; durante una delle mie puntatine a L.A., ci siamo infiltrati nel Los Angeles Athletic Club, prossimo alla chiusura, e abbiamo trascorso un’ora di felicità a galla nella piscina circondata da colonne del 1910, scambiandoci baci al cloro. Avevamo una sorta di romantico riflesso condizionato: immergerci in quegli scenari che avevamo condiviso attraverso la lettura. Mi aveva mandato Dieci giorni sulle colline di Jane Smiley, ambientato a L.A., che ho abbandonato più o meno alla metà del Quarto Giorno. “Leggere di politica per me è come lavorare”, gli ho confessato. “Magari leggo solo le parti sexy”.
      Dopo un anno di libri spediti, occasionali fine settimana insieme, e molte lacrimevoli telefonate su quanto difficile stesse diventando stare lontani, F. ha fatto le valigie e si è trasferito ad est. Era impaziente di sperimentare un’altra città: la superficialità di L.A. lo stava logorando, diceva. Invidiava il fatto che ogni notte passata in un bar di D.C. sfociasse in infiniti dibattiti. Aveva iniziato a lavorare nella mia libreria preferita e a dedicarsi seriamente alla scrittura. Io continuavo a dedicarmi al giornalismo politico.
      Ma il nostro circospetto corteggiamento letterario continuava. Lui mi aveva trovato una copia del 1997 della rivista Granta, dedicata alla Francia, in previsione del mio primo viaggio a Parigi, e al mio ritorno mi aveva aspettato a Dulles con una copia di Il flâneur. Vagabondando tra i paradossi di Parigi di Edmund White, che avevo letto durante il mio viaggio. Appoggiati al cofano della sua macchina, nel parcheggio dell’aeroporto avvolto dal crepuscolo rosa di una sera di fine marzo, avevamo fumato sigarette e ripercorso i nostri rispettivi viaggi a Parigi – il mio effettivo, il suo letterario.

      Aveva imparato a memoria il contenuto della mia libreria. “Quello ce l’hai già, Connelly. Stessa copertina, ma edizione anni ’80” mi ha avvertito quando ho preso in mano una copia di La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. Le Guin. Sono andata alla ricerca di un memoir sulla manifattura tessile nel Sud per un articolo che aveva pensato di scrivere. Ma continuava a rimandare; gli spunti per una nuova sceneggiatura erano in continua revisione, e la routine lavorativa faceva a pezzi il resto. Nonostante vivessimo ora nella stessa città, la nostra storia necessitava di manutenzione.
      Ognuno di noi aveva il suo appartamento. Quando passavo il weekend da lui, cercavo qualcosa da leggere tra i suoi scaffali. Ho pescato da lì uno dei primi Ian McEwan che non avevo mai letto, e, nel corso dei mesi, ho riletto Territori londinesi di Martin Amis. Teneva una copia del Decameron in bagno, e la mattina mi ritrovavo appollaiata sul davanzale della finestra a leggere anzichè prepararmi per andare a lavorare.
      F. sapeva quanto mi mancassero i libri che non mi ero portata dietro quando mi ero trasferita a D.C. Per il mio ventinovesimo compleanno, dopo aver festeggiato in un bar invaso da un’orda di miei amici, arrivati a casa mi aveva passato una pila di tascabili Pocket Press di Joan Didion. In cima troneggiava una prima edizione di The White Album. La sua dedica, “A Phoebe, per il suo trentesimo compleanno”, voleva prendermi in giro per la mia abitudine di aggiungere un anno o due alla mia età effettiva.

      Avevamo tutte le carte in regola: se potevo parlare di libri con lui, se capiva perchè piangevo su un romanzo, perchè sognavo rubriche, tutto il resto doveva venire da sè. Ma le parole, da sole, non ci sono bastate. Dopo due anni e un trasferimento dall’altra parte del continente, ci siamo lasciati.
      “Mi dispiace non averti risposto prima” mi ha confessato nella sua ultima lettera. “Ci ho provato un paio di volte, ma non ho mai trovato le parole giuste. Anzi, non le ho trovate proprio, le parole”

      *(Ndrm – nota della redazione mia : le company town sono città in cui la maggior parte o tutti gli immobili, sia residenziali che commerciali, sono di proprietà di una singola azienda che provvede, in genere, anche alla pianificazione urbana)

      Soundtrack: Half the world away, Aurora (cover della celeberrima canzone degli Oasis)

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    • L’indicibile solitudine degli eteronimi

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 27, 2013
      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

       

      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

      Cos’è un eteronimo? Dal greco héteros, diverso, altro da sé, e onoma, nome, è un personaggio fittizio, che possiede però una sua personalità e una sua biografia diversa da quella del suo “creatore”.
      È un “altro da sé” a cui si affidano aspetti del proprio carattere che non si riescono ad accettare, sogni e speranze che non si sono riuscite a concretizzare. Qualcuno che fa scelte diverse dal suo autore, che ad un incrocio sceglie una direzione diversa, che naviga tra le infinite possibilità della vita con maggiore disinvoltura e sicurezza.
      O forse, ci si crea un eteronimo quando la vita non è abbastanza, quando si hanno dentro mondi diversi da quello quotidiano, da quello che si vede. Quando si coltiva un’innata ed infinita irrequietezza. Quando non si accettano alcuni aspetti del proprio carattere che sono però i più veri, i più autentici. E si affidano all’eteronimo.
      A volte, l’eteronimo, o gli eteronimi, diventano noms de plume, e, dietro la loro maschera, si scrive, si compone, si dipinge in modo molto più spontaneo ed autentico, tirando fuori la parte più genuina e sincera di sé.

      Il più famoso creatore di eteronimi è ovviamente Fernando Pessoa, che spiega la genesi di questi suoi “altri da sé” in una lettera a Adolfo Casais Monteiro – scrittore, poeta, saggista e traduttore portoghese –  pubblicata in Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (a cura di Antonio Tabucchi) e inserita nell’appendice del libro di Luciana Stegagno Picchio Nel segno di Orfeo.

      Ecco alcuni stralci della lettera:

      Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

      Casella Postale 147
      Lisbona, 13 gennaio 1935

      Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (…) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. (…)

      Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Ala fine, in un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile.

      Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la risposta di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.

      Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e di derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. (…)

      Come scrivo col nome dei tre? … Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).

      Tabucchi, Antonio
      Un baule pieno di gente
      Feltrinelli, 1990

      La migliore definizione degli eteronimi di Pessoa è, a mio parere, quella di Luciana Stegagno Picchio, una delle massime autorità italiane di lingua e letteratura portoghese e brasiliana, che in un’intervista su RaiLibro ha dichiarato:

      (…) Queste “persone”, questi “autori altri”, non sono pseudonimi: lo pseudonimo, infatti, abbraccia l’intera personalità dello scrittore. Nel caso di Pessoa, invece, quando si parla di eteronimi, ci si riferisce a una parte della personalità, quei segmenti di sé non espressi.
      Parlare è di per sé una mutilazione: quando un essere umano si esprime, mutila, “esclude” in quello stesso momento le cose che non dice e tutti gli altri personaggi che dentro di lui direbbero altre cose.
      In Pessoa erano presenti tante voci diverse – si è arrivati a calcolare addirittura ottanta, novanta eteronimi. E mi sono sempre chiesta cosa sarebbe stato Pessoa se non fosse morto precocemente.

      E ancora:

      (…) Sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati, basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita.
      Ad ognuno di essi attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale… Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
      Eppure, al di là di questi aspetti “contingenti”, tutti loro hanno in comune il fatto di essere persone di sesso maschile, sole, della stessa età, anche simili fisicamente: caratteristiche che alla fine si riuniscono in un unico uomo, che si chiama Fernando Pessoa.

      A volte gli eteronimi smettono di essere finzione e invadono la vita reale del poeta. È il caso della sua tormentata e surreale relazione con Ophélia Queiroz, unica “fidanzata” del poeta,  ostacolata, tra le altre cose, dalla gelosia dell’eteronimo Alvaro de Campos, omosessuale e geloso della giovane.

      Come Ophélia stessa racconta nella prefazione di Lettere alla fidanzata a cura di Antonio Tabucchi (edito da Adelphi):

      Fernando era una persona molto speciale. Tutta la sua maniera di essere, perfino nel vestire, era speciale. Ma forse io allora non me ne accorgevo, perchè ero troppo innamorata. La sua sensibilità, la sua tenerezza, la sua timidezza, la sua eccentricità mi incantavano. A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Alvaro de Campos. Mi diceva: “Sai, oggi non ero io, al mio posto è venuto il mio amico Alvaro de Campos..”.

      In quei momenti si comportava in un modo completamente diverso dal suo: era sconclusionato, diceva cosa senza senso. Un giorno mi disse: “Gentile signorina, ho una commissione per lei: dovrebbe buttare l’abietta immagine di quel tale Fernando Pessoa in un secchio pieno d’acqua, a testa in giù”.

      Io gli obiettai: “Detesto Alvaro de Campos, mi piace solo Fernando Pessoa”.

      “Chissà poi perchè”, riprese lui, “guarda che invece a Campos piaci molto”.

      Raramente parlava di Caeiro, di Reis o di Soares.

      Da queste pagine, dalle loro lettere, dalla loro tormentata storia è nata la mia curiosità per Ophélia Queiroz, minuta e vivace fanciulla della media borghesia lisbonese, che, diciannovenne, viene assunta come segretaria dal Diàrio de Notícias e si innamora di questo ometto strambo, che si dichiara a lei con le stesse parole che Amleto usa per promettere amore eterno alla sua Ofelia. Seguono mesi di namoro tormentato, fatto di bigliettini segreti, baci rubati negli androni dei portoni, dato che Fernando non vuole rendere il fidanzamento ufficiale presentandosi a casa sua (Sai, devi capire che è una cosa da persone comuni, e io non sono una persona comune).

      E Ophélia lo accetta, e lo ama per quello che è, per tutti i suoi io, per le promesse mai mantenute di sposarla. Lo ama nonostante il malcontento della famiglia, nonostante quella lettera del 29 novembre del 1920 con la quale Fernando mette fine alla loro storia:

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?  

      Ophélia non si sposerà mai. E mi piace credere che sia rimasta sempre innamorata del suo Nininho, che, pochi giorni prima di morire, chiedendo sue notizie al nipote Mario, con gli occhi pieni di lacrime esclama Che anima bella! Che anima bella!

      Ophelinha diventa così per me la regina degli amori mai realizzati, degli amori impossibili, di quelli sognati e accarezzati col pensiero ma mai vissuti. La destinataria di lettere d’amore che fanno ridere, ma farebbero ridere ancora di più se non venissero mai scritte. Diventa una piccola donna anticonformista, forte e indipendente, capace di amare un uomo geniale e imprevedibile come il suo Nininho, d’un amore tenero e capriccioso, ma sempre costante.

      Nel corso dell’ultimo anno, Ophelinha è diventata la mia maschera, il mio naturale eteronimo che mi aderisce come una seconda pelle.

      Perchè preferisco Ophelinha a me stessa? Perchè Ophelinha non ha paura di parlare in prima persona.
      Perchè la vedo così, uno scricciolo controcorrente, del tutto incurante delle tradizioni, a cui non importa un fico secco del matrimonio borghese e si innamora del poeta da strapazzo che le declama i versi con cui Amleto si dichiara a Ofelia, e le ruba un bacio.
      Perché a lei non importa nulla del parere della gente. Perché gioca a nascondino con Nininho dentro anditi e portoni sotto la pioggia. Perché è orgogliosa di essere chi è, di essere quello che è, e non fa nulla per nascondersi o per conformarsi.
      Ophelinha non ha paura. Non ha paura di piangere. Non ha paura di mettersi in gioco, anche se potrebbe significare perdere, e ha il terrore dell’abbandono, e ogni schiena che si allontana le spezza il cuore.
      Non si astiene dall’indulgere nel piacere masochista dei ricordi, degli amori passati, delle cose che erano e non sono più.

      E Ophelinha scrive d’amore, anche se fa ridere. Anche quando l’ha perso, e non può fare nulla per riaverlo indietro.

       

      E non si vergogna della natura malinconica del suo carattere, del bovarismo accentuato, del bisogno di frequentare personaggi fittizi più di quelli reali. Non adotta maschere per fingersi sempre allegra e superficialmente spensierata. Per cercare di piacere agli altri, e di essere accettata.
      È incapace di vivere a pieno il presente, e vive nel passato, crogiolandosi nei ricordi, annaspando tra i se e i forse.

      Così, protetta da questo schermo virtuale, divento Ophelinha e scrivo di quei mondi che nessuno vede e in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore della vita quotidiana.

      Ci sono anche eteronimi che non funzionano, che si provano e poi si mettono da parte per sempre, come un vestito troppo stretto e troppo corto. È il caso della frivola contessina Aspasia, un tentativo di trovare un eteronimo più leggero e civettuolo, più frivolo, per l’appunto.

      Ma no, non è andata. E allora, che Ophelinha sia. In questo strano mondo di eteronimi fin troppo soli.

       

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    • Cartoline da Lisbona: a casa di Fernando Pessoa per il suo compleanno

      Posted at 11:50 pm06 by ophelinhap, on June 13, 2012

      Fotopost sull’amore per Pessoa e l’amore per Lisbona

       

      Aniversário

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu era feliz e ninguém estava morto.
      Na casa antiga, até eu fazer anos era uma tradição de há séculos,
      E a alegria de todos, e a minha, estava certa com uma religião qualquer.

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos,
      Eu tinha a grande saúde de não perceber coisa nenhuma,
      De ser inteligente para entre a família,
      E de não ter as esperanças que os outros tinham por mim.
      Quando vim a ter esperanças, já não sabia ter esperanças.
      Quando vim a olhar para a vida, perdera o sentido da vida.

      Sim, o que fui de suposto a mim-mesmo,
      O que fui de coração e parentesco.
      O que fui de serões de meia-província,
      O que fui de amarem-me e eu ser menino,
      O que fui — ai, meu Deus!, o que só hoje sei que fui…
      A que distância!…
      (Nem o acho…)
      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!

      O que eu sou hoje é como a umidade no corredor do fim da casa,
      Pondo grelado nas paredes…
      O que eu sou hoje (e a casa dos que me amaram treme através das minhas
      lágrimas),
      O que eu sou hoje é terem vendido a casa,
      É terem morrido todos,
      É estar eu sobrevivente a mim-mesmo como um fósforo frio…

      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…
      Que meu amor, como uma pessoa, esse tempo!
      Desejo físico da alma de se encontrar ali outra vez,
      Por uma viagem metafísica e carnal,
      Com uma dualidade de eu para mim…
      Comer o passado como pão de fome, sem tempo de manteiga nos dentes!

      Vejo tudo outra vez com uma nitidez que me cega para o que há aqui…
      A mesa posta com mais lugares, com melhores desenhos na loiça, com mais copos,
      O aparador com muitas coisas — doces, frutas o resto na sombra debaixo do alçado —,
      As tias velhas, os primos diferentes, e tudo era por minha causa,
      No tempo em que festejavam o dia dos meus anos…

      Pára, meu coração!
      Não penses! Deixa o pensar na cabeça!
      Ó meu Deus, meu Deus, meu Deus!
      Hoje já não faço anos.
      Duro.
      Somam-se-me dias.
      Serei velho quando o for.
      Mais nada.
      Raiva de não ter trazido o passado roubado na algibeira!…

      O tempo em que festejavam o dia dos meus anos!…

      ANNIVERSARIO

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      io ero felice e nessuno era morto.
      Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
      e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
      avevo la grande salute di non capire alcunché,
      di essere intelligente per quelli della famiglia,
      e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
      Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
      Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

      Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
      quello che fui di cuore e famiglia,
      quello che fui di veglie di semiprovincia,
      quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
      quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
      Com’è lontano!…
      (Nemmeno l’eco…)
      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

      Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
      che provoca muffa nelle pareti…
      Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
      [lacrime),
      ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
      è che tutti siano morti,
      è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

      Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
      Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
      Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
      attraverso un viaggio metafisico e carnale,
      con una dualità da me a me…
      Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

      Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
      La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
      [bicchieri in più,
      la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
      le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
      al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

      Fermati, cuore mio!
      Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
      Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
      Oggi non compio più gli anni.
      Perduro.
      I miei giorni si addizionano.
      Sarò vecchio quando lo sarò.
      Nient’altro.
      Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

      Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

      15 ottobre 1929

      Da: Fernando Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, (a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi), Adelphi, Milano 1993.

      Esattamente un anno fa ero a Lisbona. E’ stata la mia prima visita in una città già cara al mio immaginario, visitata con la fantasia attraverso le parole di Tabucchi, di Pessoa, di Saramago.
      Coincidenze astrali hanno fatto sì che mi trovassi a Lisbona proprio in corrispondenza del compleanno di Pessoa, nato il 13 giugno 1888, nello splendido panorama delle Festas de Lisboa.

       

      Tutti i quartieri sfilano con costumi colorati danzando e cantando in competizione. Finita la sfilata si riversano nelle stradine dei vari bairros cantando e facendo baldoria, mentre chioschi in ogni angolo arrostiscono le sarde che si mangiano con le mani su una fetta di pane.

      In Portogallo, Santo Antonio è il protettore dell’amore..e del matrimonio. La notte del 12 giugno, gli innamorati si scambiano piantine di basilico come pegno di amore e di fedeltà. Secondo la tradizione, bisogna prendersi cura della propria piantina, per evitare che la passione appassisca…
      Sempre in quest’occasione vengono celebrate nella chiesa di Sant’Antonio le nozze collettive (finanziate dal comune di Lisbona), che Pessoa celebra in questi versi:

      Manjerico, manjerico,

      Manjerico que te dei,

      A tristeza com que fico

      Inda amanhã a terei.

      O manjerico comprado

      Não é melhor que o que dão.

      Põe o manjerico ao lado

      E dá-me o teu coração.

      O manjerico e a bandeira

      Que há no cravo de papel-

      Tudo isso enche a noite inteira,

      Ó boca de sangue e mel.

      O vaso do manjerico

      Caiu da janela abaixo.

      Vai buscá-lo, que aqui fico

      A ver se sem ti te acho.

      Manjerico que te deram,

      Amor que te querem dar…

      Recebeste o manjerico.

      O amor fica a esperar.

       

      A chi avrà regalato il basilico Pessoa? A chi avrà chiesto di metterlo da parte per donargli il suo cuore? Mi piace pensare che si tratti di Ophelia Queiroz, ma capirete che sono di parte…
      Tornando a Nininho: l’anno scorso, in occasione del suo compleanno, la sua casa-museo era aperta. Quale occasione migliore per passarvi l’intera mattinata, curiosando tra i suoi oggetti, cullati dal portoghese musicale di guide volontarie ed appassionate?
      Buon compleanno, Nininho, parabéns. E alla prossima visita nella tua Lisbona vieni a infestarmi, come accadde a Tabucchi nel suo Requiem.
      Magari sarà la volta buona. Sarà la volta in cui ti toglierai gli occhiali e finalmente la vedrai, lei che ti ha aspettato tutta la vita.
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    • It all started like this… (post in prima persona)

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 25, 2012

      E’ iniziato tutto così…durante una giornata molto simile a questa*.
      Una giornata troppo grigia perfino per Greyville, con la pioggia gelida e il vento che ti sferza il viso e dissemina intorno a se una foresta di ombrelli rotti. La cosa più deprimente è il colore. Non è fumo di Londra, è un…non colore. E’ la completa assenza di tonalità. E’ la negazione del colore stesso.
      Guardo fuori dalla finestra del mio ufficio, questo cielo senza colore, questo palazzone dello stesso colore del cielo, and I cannot help but wonder (à la Carrie Bradshaw)…per l’ennesima volta nel corso dell’ultimo anno e mezzo…ma io, esattamente, cosa ci faccio qui? O, più precisamente, cosa sto facendo della mia vita?
      Se, circa undici anni fa, qualcuno mi avesse predetto che sarei diventata la persona che sono, che avrei abbandonato qualsiasi forma di ambizione riducendomi a vivere come l’ombra di me stessa…beh, mi sarei fatta una bella grassa sonora risata. Perché non sarebbe mai potuto accadere. Perché non ero così.
      Il problema deriva fondamentalmente da questo…non sono e non potrò mai essere diversa da quello che sono. Ma le circostanze sono cambiate, le persone intorno a me sono cambiate, c’è chi se n’è andato portandosi via pezzi di me e lasciandomi in eredità pesanti valige, chi è arrivato portando carichi di responsabilità che non ero proprio pronta ad affrontare…e ci sono giorni, come questo, in cui mi sento in bilico tra la leggerezza e la pesantezza dell’essere…non so se sono Tereza o Sabine, non so se sono Kitty o Anna Karenina**. Forse la verità è che non vedo i colori perché ho perso la capacità di vederli, insieme alla capacità di ridere, di tutto, di me stessa, di cuore.
      Tornando a noi: il trasferimento a Greyville, inizialmente accettato come un dono per evadere da una routine un po’ provinciale e da quella vocina interiore che sussurrava “you can do it better, can’t you?” (sorry ma le mie vocine interiori parlando in Inglese….)si e’ rivelato un vero disastro. Mai e poi mai avrei immaginato di finire a vivere in una città così fredda, così poco accogliente, dove gli amici e gli stimoli culturali vanno cercati col lanternino.
      Il lavoro non aiuta…così…burocratico, sempre uguale a se stesso, affatto stimolante…l’unico aggettivo che mi viene in mente è, ancora una volta, grigio…e mi chiedo…non dovrei essere da qualche altra parte a fare qualcosa di più meaningful, per me stessa e per gli altri? E mi viene in mente la dedica della mia tesi di laurea…You have to be the change you want to see in the world (Gandhi). Dov’è finita quell’idealista?
      Forse nascosta dietro una facciata di cinica poco convinta…
      Ho sempre pensato che quello che facciamo debba rispecchiare la parte migliore di quello che siamo. Che il posto in cui scegliamo di mettere radici debba essere l’Heimat.
      Bref, dovendo per il momento vivere, lavorare e respirare qui a Greyville, ho deciso di crearmi la mia Neverland, dove rifugiarmi, sognare e, perché no? Scambiare idee, racconti, storie, opinioni, poesie con altre persone sparse qui e lì nella galassia satellitare.
      Perché Impressions chosen form another time e perché Pessoa e Ophelinha.
      Perché la canzone di Brian Eno rispecchia come mi sento, attualmente, la maggior parte del tempo (oltre ad essere una bellissima canzone, dolce e malinconica al tempo stesso)

      By this river

      Here we are
      Stuck by this river,
      You and I
      Underneath a sky that’s ever falling down, down, down
      Ever falling down

      Through the day
      As if on an ocean
      Waiting here,
      Always failing to remember why we came, came, came:
      I wonder why we came

      You talk to me
      As if from a distance
      And I reply
      With impressions chosen from another time, time, time,
      From another time

      Eccoci qui

      Al fianco di questo fiume

      Tu ed io

      Sotto un cielo che continua a cadere giù, giù, giù

      Sempre più giù

      Attraverso il giorno

      Come fosse un oceano

      Fermi qui in attesa

      Non riusciamo mai a ricordarci perché ci siamo arrivati

      Mi chiedo perché ci siamo arrivati

      Mi parli

      Come da distanze remote

      E io ti rispondo

      Con impressioni provenienti da un tempo ormai lontano

      Da un tempo ormai lontano

      (Traduzione @OphelinhaPequena)

      La traduzione è un po’ libera e rispecchia esattamente come mi sento: con la testa sott’acqua, le orecchie tappate e gli occhi chiusi, e tutto quello che mi arriva sono suoni e rumori attutiti dall’acqua e…ricordi, fantasmi del passato, cose e persone che mi trattengono sott’acqua e mi impediscono di risalire in superficie e let it go. Una cosa però mi arriva, anche sott’acqua: la voglia di scappare via, via….
      Perché Nininho (Fernando Pessoa).  Un pomeriggio di tanti (ma non tantissimi J ) anni fa ero in biblioteca a studiare per l’esame di Lingua e Letteratura portoghese. Tra i vari libri, ho trovato questo libricino, Lettere alla fidanzata (a cura di Antonio Tabucchi), la corrispondenza tra Pessoa e l’unica donna della sua vita, Ophelia Queiroz (ne ho gia’ parlato qui).
      Queste lettere mi hanno colpito: per la spontaneita’, l’irruente ingenuita’, il bisogno di amore di lei, il desiderio tutto femminile di passare dalla poesia alla prosa e di vivere concretamente il sentimento per Nininho nella vita quotidiana; e quel celeste distacco di lui, geloso, poi sfuggente, preso a farsi scudo dietro i suoi eteronimi, a cercare la vera vita lì dove non c’era, la vita. C’erano tante cose; c’erano parole, c’era poesia, ma c’era anche la sua incapacita’ di amare concretamente, di smettere di nascondersi dietro tanti nomi per offrirsi nudo e semplice a lei, a Ophelia, che in un attacco di deliziosa e maliziosa ingenuita’ in una delle sue lettere si firma “Ophelia Pessoa (magari!)”.
      Il carteggio tra Nininho ed Ophelinha mi è tornato in mente al momento di aprire il blog, dopo aver letto un articolo di Tabucchi (Pessoa, Amori veri e amori ridicoli) nell’archivio storico del Corriere della Sera.
      Era un momento in cui anch’io avevo bisogno di rifugiarmi dietro un altro nome, per essere capace di osservarmi dall’esterno ed eliminare quella fastidiosa sensazione che provo ogni volta che parlo di me in prima persona. Così nasce la mia Ophelinha, una figura ibrida, mezza me mezza creatura letteraria. Una creatura libera di sottrarsi al grigiore quotidiano e sognare, sognare, sognare, rifugiandosi in conversazioni immaginarie con personaggi romanzeschi, in amori letterari ed incompiuti che rimarranno sempre e per sempre pefetti perché non verranno mai intaccati nè corrosi dalla realtà che si vede, ma vivranno solo nella realta che si crede.
      Anche il “mio” Nininho non è una persona, ma l’insieme delle persone che hanno toccato e continuano in parte a toccare la mia vita, l’hanno trasformata e mi hanno cambiata, portandosi via in alcuni casi pezzi di me. E’ l’insieme degli obiettivi mai raggiunti, la wishlist delle cose che avrei sempre voluto per me e non sono ancora riuscita ad ottenere.
      E’ la speranza di tempi migliori. E’ lo specchio che mi riflette, criticamente, naked, unveiled, al giudizio del quale non posso sottrarmi. E’ la parte più autentica e genuina di me, quella che non si vergogna di parlare in prima persona e non sente il bisogno di fingere di essere di più. Più forte, più intelligente, più indipendente, più sicura di sè.
      Sei mesi fa, ho inaugurato questo blog con una delle mie poesie, Un altro finale. Perchè è questo che desidero: per me, per Ophelinha, per tutti coloro che leggono queste righe e sono magari alla ricerca di risposte a domande che non hanno nemmeno il coraggio di formulare.
      Un finale semplice, pulito, trasparente. Che non faccia male e ridoni la capacita di sorridere.

      * strano ma vero, oggi che pubblico questo post, c’è il sole.
      ** ho riletto Anna Karenina, a dodici anni di distanza dalla prima lettura, e non ho dubbi: non potrei mai essere Kitty. I just cannot get rid of the feeling that she is kind of…settling down? Non potrei mai innamorarmi di Levin. Ma di Vronskij, si. Cosi’ come se fossi Cathy di Wuthering Heights non potrei mai prendere in considerazione l’idea di sposarmi con Linton, ma ci sarebbe Heathcliff, solo Heathcliff.

      “… A che scopo sarei io stata creata se fossi interamente contenuta in me stessa? Le mie grandi pene in questo mondo sono state le pene di Heathcliff, e io le ho conosciute e le ho sentite tutte una a una dal principio; la sola ragione di vivere per me è lui. Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e, se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo si cambierebbe per me in un’immensa cosa estranea; non mi parrebbe più di essere una parte di esso. Il mio amore per Linton è simile al fogliame del bosco; il tempo lo muterà , ne sono sicura, come l’inverno muta gli alberi; il mio amore per Heathcliff somiglia alle eterne rocce che stanno sottoterra: una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nella mia mente; non come un piacere, come neppur io sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più della nostra separazione: è impossibile…”

       
      E che dire di Elizabeth Bennet di Pride and Prejudice? Wickam e’ chiaramente solo una piccola infatuazione. Mr Darcy, Mr Darcy. Per questo, Nininho.
      Posted in Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged Anna Karenina, Antonio Tabucchi, Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Emily Brontë, Fernando Pessoa, Literature and Beyond, Me myself and I, Memorie di una precaria perbene, Memories, Nininho, Ophelinha, Poetry
    • Love letters +SECOND GIVEAWAY(s)

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 2, 2012
      Fernando e Ophelinha, Casa Pessoa, Lisbona. Giugno 2011

      Ho evitato il mio piccolo spazio privato per un po’ di giorni, in parte di proposito, un po’ per mancanza di tempo, un po’ per non mettere nero su bianco pensieri che ultimamente frullano nella mia testolina bacata..perchè una volta che sono messi per iscritto esistono, e forse non voglio confrontarmi con loro, non adesso, non qui. Basti sapere che ho sbagliato strada ad un incrocio e ora non riesco a trovare il modo di fare inversione di marcia.

      Qui fuori è grigio e freddo, come quel pomeriggio di sette mesi fa in cui ho iniziato a depositare in questa finestrella pensieri, impressioni, versi, appunti di passaggio. Nemmeno maggio è stato in grado di donarci un po’ di primavera, ma solo pioggia e una nebbia sottile che confonde ancora di più idee ed emozioni, ragioni della testa e ragioni del cuore. In un pomeriggio di novembre simile a questo maggio autunnale che sembra quasi inverno, nell’archivio storico del Corriere della Sera ho trovato due bellissimi articoli, che vi raccomando caldamente: Pessoa in ginocchio da Ofelia e Amori veri e amori ridicoli, a firma del grande Tabucchi. E mi sono tornate in mente tanti piccoli particolari: la biblioteca dell’università, i pomeriggi bui e polverosi, l’edizione Adelphi di Lettere alla fidanzata. Tutte le volte in cui mi sono sentita ridicola, in cui mi sono immedesimata nell’eterea Ophelinha, che rifiuta ogni pretendente e inizia a scrivere all’incostante Fernando. Entrambi sono impiegati nello stesso ufficio, e un giorno l’imprevedibile Nininho, l’Ibis della sua anima, le si dichiara con gli stessi immortali versi che Amleto aveva usato nella tragedia shakesperiana per dichiararsi alla sua Ofelia:

      Oh! Cara Ofelia! Maneggio male i miei versi, ho poca arte per misurare i miei sospiri, ma ti amo all’estremo! Oh, fino all’ultimo estremo, credilo!

      E Fernando la bacia improvvisamente, appassionatamente. E Ophelinha inizia a scrivergli. Lettere quotidiane, lettere semplici. Lettere di fuoco, lettere appassionate.
      Oggi voglio regalarvi una lettera, la mia preferita. La lettera che Fernando scrive ad Ophelia e chiusura della prima fase del loro namoro (fidanzamento), il 29 novembre 1920.
      I due riprenderanno a scriversi anni dopo, nel 1929: ma Fernando è cambiato, è totalmente ossessionato all’opera poetica alla quale si è consacrato, le interferenze di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi di Pessoa, sono sempre più ingerenti.
      Tornerò a parlare di Nininho e Ophelinha: per ora vorrei solo che ve li immaginaste così, uno scricciolo diciannovenne che insegue un amore impossibile a scapito di altri ben più reali e un ometto con cappello scuro e gli occhiali che ha paura di vivere, e si rifugia dietro altri io, dietro fogli, dietro parole di carta.

      La traduzione della lettera riportata di seguito è tratta da Lettere alla fidanzata di Antonio Tabucchi, fonte che ho usato per scrivere questo post insieme a Finzioni d’amore, a cura di Paolo Collo (Passigli Editore).

      Ophélia Queiroz all’epoca del namoro con Fernando Pessoa

      29 novembre 1920

      Ophelinha,

      la ringrazio per la sua lettera. Essa mi ha portato dolore e sollievo allo stesso tempo. Dolore, perchè queste cose addolorano sempre; sollievo perchè in verità l’unica soluzione è questa: non prolungare oltre una situazione che ormai non trova più giustificazione nell’amore, nè da una parte nè dall’altra. Da parte mia, almeno, resta una stima profonda, un’amicizia inalterabile.

      Lei non mi negherà altrettanto, vero?

      Nè lei, Ophelinha, nè io, abbiamo colpa di tutto questo. Solo il Destino ne avrebbe la colpa, se il Destino fosse una persona a cui potere attribuire delle colpe.

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?

      Nella sua lettera (nella lettera del 27 novembre Ophelina chiude il namoro con Fernando, a causa delle lettere mai arrivate, della sua presunta o vera che fosse mancanza di interesse, terminando con le parole “E’ stata fatta la sua volontà. Le auguro di essere felice”, ndr) è ingiusta con me, ma la comprendo e la scuso. Certo l’ha scritta con irritazione, forse perfino con dolore: ma la maggior parte della gente – uomini e donne – avrebbe scritto, nel suo caso, in un tono ancora più acerbo e in termini ancora più ingiusti. Ma lei, Ophelinha, ha un meraviglioso carattere, e perfino la sua irritazione non riesce ad essere cattiva. Quando si sposerà, se non avrà la felicità che merita, certamente non sarà colpa sua.

      Quanto a me…

      L’amore è passato. Ma le mantengo un affetto inalterabile,e non la dimenticherò mai – mai, lo creda – nè la sua figurina graziosa e i suoi modi di ragazzina, nè la sua tenerezza, la sua dedizione, la sua adorabile indole, può essere che mi sbagli, e che queste qualità che le attribuisco fossero una mia illusione: ma non credo lo fossero nè, se lo sono state, sarei villano ad attribuirgliele.

      Non so cosa desidera che le restituisca: lettere o che altro ancora.

      Io preferirei non restituirle niente, conservare le sue lettere come il ricordo vivo di un passato morto come ogni passato: come un qualcosa di commovente in una vita quale la mia, in cui l’avanzare negli anni va di pari passo con l’avanzare nell’infelicità e nella delusione.

      Le chiedo di non fare come la gente comune, che è sempre grossolana: che non giri la testa quando ci incontreremo; nè abbia di me un ricordo in cui ci sia spazio per il rancore.

      La prego, siamo l’uno con l’altro come due persone che si conoscono dall’infanzia, che si amarono da bambini e, sebbene nella vita adulta seguano altre strade e altri affetti, conservano sempre, in una piega dell’animo, il ricordo profondo del loro amore antico e inutile.

      Per quanto forse “altri affetti” e “altre strade” possano concernere lei, Ophelinha, non cero me stesso. Il mio destino appartiene ad altra Legge (la Poesia, ndr), della cui esistenza lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre di più all’obbedienza a Maestri (gli eteronimi? ndr) che non permettono e non perdonano.

      Ma non è necessario che capisca quanto dico. Basta che mi conservi affettuosamente nel suo ricordo come io, sempre, la conserverò nel mio.

      Fernando

      Come si sarà sentita dopo questa lettera, la nostra virgoletta graziosa che, il 23 marzo 1920, si firmava “molto tua Ofélia Pessoa (fosse vero)”?
      E come si sarà sentito lui, Fernando, che tirava Ophelia per il braccio per baciarla negli anditi e nei portoni, ma non è stato mai capace di uscire fuori da quelle pagine e di vivere una vita vera, con lei? Come avrebbe cantato Roberto Vecchioni in Le lettere d’amore

      …dimenticando Ophelia
      per cercare un senso che non c’è
      e alla fine chiederle “scusa
      se ho lasciato le tue mani,
      ma io dovevo solo scrivere, scrivere
      e scrivere di me”…

       E ora la parola a voi. Vi chiedo di scegliere una delle lettere d’amore presentate tra l’1 e il 14 febbraio (ad eccezione della giornata di silenzio per la scomparsa di Wislawa Szymborska) o la lettera di cui abbiamo appena parlato. Basta un commento, un’emozione, un’impressione.

      I giveaway(s) in palio sono due:

      – primo classificato: la raccolta di lettere d’amore “Ti amo come l’hanno detto gli uomini famosi” di Ursula Doyle ( di cui abbiamo già parlato qui)

      – secondo classificato: gli orecchini Valentine’s Lollipop Earrings gentilmente offerti dalla mia cara The Italian Girlfriend ( il cui shop su etsy è semplicemente delizioso)…

      Le regole, come al solito, sono poche e semplici:

      – essere follower di Impressions chosen from another time su Blogger, Facebook o Twitter;
      – come al solito, il punto summenzionato è opzionale…what really matters are your impressions. Quindi passate da qui e commentate, criticate, emozionatevi, lasciate le vostre impressioni.
      Avete tempo fino al 20 maggio!

      Boa noite,

      Ophelinha

      NB: ho deciso di prolungare il giveway di qualche altro giorno..aspetto i vostri commenti!!!Share some love, leave your impressions! 🙂

      Posted in Frammenti di un discorso amoroso | 29 Comments | Tagged Antonio Tabucchi, Confessions of a Dangerous Mind, Fernando Pessoa, Giveaway, In the mood for love, Lettere d'amore, Literature and Beyond, Me myself and I, Nininho, Ophelinha
    • E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare.

      Posted at 11:50 pm03 by ophelinhap, on March 25, 2012

      E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare.
      E per addormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda.

      Antonio Tabucchi, Si Sta Facendo Sempre Più Tardi

      La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro

      Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira

      Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di metter su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo.

      Quanto non vorrei aver letto i giornali, tardi, con un’emicrania battente, e aver letto della scomparsa di Tabucchi.

      Ho letto Sostiene Pereira per la prima volta tanti anni fa. La prima cosa che mi ha colpito del romanzo sono state le parole di Lalla Romano, sul retro della mia edizione economica: “E’ possibile che un libro, un romanzo metta a disagio perchè sembra troppo bello?Troppo, non perchè sospetto di voler piacere, ma proprio nel senso che si fa amare senza riserve”.
      Incuriosita, ho cominciato a leggere. Ed è stato amore a prima lettura. Attraverso Tabucchi e il suo Requiem ho scoperto Pessoa, ho scoperto le sue Lettere alla fidanzata, ho scoperto Ophelinha.
      E’ iniziato così il mio amore per il Portogallo e la letteratura portoghese.
      Un po’ di mesi fa, ho trovato due suoi articoli negli archivi storici del Corriere: Pessoa in ginocchio da Ofelia e Amori veri e amori ridicoli. E mi sono tornate in mente tante cose: i pomeriggi bui in biblioteca, il viaggio a Lisbona accuratamente pianificato, quella storia d’amore che mi aveva tanto colpito. Avevo bisogno di scrivere. Avevo bisogno di evadere. Ed è nata Ophelinha, e la mia Neverland è diventata una Lisbona assolata e decadente, infestata dal fantasma di un ometto pallido con gli occhiali rotondi ed il cappello nero a falde. Un ometto dalla personalità a dir poco ingombrante, dato che, a seconda dei giorni e dell’uomore, poteva essere il dottor Reis, o il poeta bucolico Alberto Caeiro, o scrivere di desassossego nelle vesti del modesto impiegato Bernardo Soares.
      Gli scrittori continuano a vivere finchè li leggiamo, ha dichiarato Ines Pedrosa, direttrice della Fondazione Pessoa, in occasione della scomparsa dello scrittore italiano che tanto amava il Portogallo.
      Mi sembra la dichiarazione d’amore più bella tra le tante – a volte troppe – parole scritte oggi.


      “le ragioni del cuore sono le più importanti,bisogna sempre seguire le ragioni del cuore, questo i dieci comandamenti non lo dicono, ma glielo dico io, comunque bisogna stare con gli occhi aperti,
      nonostante tutto, cuore, sì, sono d’accordo, ma anche gli occhi bene aperti…”
      (Pereira a Monteiro Rossi, Sostiene Pereira) 

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    • Di compleanni…e di nuvole

      Posted at 11:50 pm02 by ophelinhap, on February 22, 2012

      Rieccomi tra queste pagine virtuali…in un periodo un po’ strano e un po’ confuso, un po’ dolce e un po’ amaro…dopo altre candeline appena soffiate, che fanno sempre venire in mente altri compleanni… in cui tutto era meno complicato, in cui si mangiavano le chiacchiere, che saranno per sempre associate alla mia infanzia ed al mio compleanno, che cade quasi sempre durante il carnevale.

      Altri compleanni in cui tutto era semplice, in cui si poteva essere più egoisti e avere una torta tutta rosa… ed esprimere qualsiasi desiderio dopo aver soffiato le candeline, perchè  tanto c’era tutta una vita davanti, e le possibilità erano semplicemente infinite…si poteva essere tutto, si poteva diventare tutto, non c’erano limiti…It was my party and I could really cry out loud if I wanted to.

      Erano tempi in cui le responsabilità erano molto minori, in cui non si doveva moltiplicare tutto per tre e in cui si poteva perdere una buona ora e mezzo solo per decidere cosa indossare e un’altra ora e mezzo per truccarsi e pettinarsi. In cui si era più leggeri, il cuore era più leggero e si poteva avanzare lungo il percorso dei giorni, attraverso il percorso della vita pattinando, danzando, canticchiando a cuor leggero.
      Erano tempi in cui si poteva passare tutta la giornata in spiaggia o in veranda a prendere il sole e a leggere o a scrivere, fantasticando di diventare una giornalista o una scrittrice, di vivere a Londra e di viaggiare, viaggiare.

      Anni che passano, nuvole..e una lettera d’amore.
      Una lettera sull’amore trascorso, rivissuto in una memoria labile perché ovattata dalla sensazione di stordimento, nella mancanza.
      Il ricordo di una relazione amorosa appena conclusa è un cadere lento attraverso le nuvole, un passaggio e ricordo del passaggio, in una realtà nella quale ricordi vivi ma incerti si confondono con il presente perché il vissuto del cuore non procede nel tempo lineare, passato-presente-futuro. Il cuore è senza tempo e così si cade senza sosta nelle nuvole e oltre di esse; mentre la mente cerca di ancorarsi ai ricordi e di ritornare al proprio vissuto, la caduta non trova un’isola sulla quale arrestare il proprio moto. Gli oggetti intorno, reali e emozionali, sono influenzati dagli effetti combinati della forza gravitazionale e della forza centrifuga e costituiscono una corona, un anello, tutt’intorno mentre si cade (“Falling through the ring means falling through the spaces between the objects that together make the ring” – “Cadere attraverso la corona circolare significa cadere attraverso lo spazio fra gli oggetti che insieme formano l’anello” – Sarah Manguso, Lettera d’amore, che riporto in seguito).

      Anche il cuore, come la mente, cerca ancora la persona amata e gli oggetti condivisi nel vissuto; ma la forza della caduta e la potenza delle emozioni ci obbligano alla presenza, così la caduta non si arresta.
      Prendo in prestito le parole del mio Nininho:

       Nuvole… Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa.

      Nuvole… Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino.

      Nuvole… Corrono dall’imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all’avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l’ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati.

      Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente più il niente di me stesso.

      Nuvole… Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio!

      Nuvole… Continuano a passare,alcune così enormi ( poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione ) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento fredde.

      Nuvole… Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né faro niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l’ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo mio l’universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto.

      Nuvole… Esse sono tutto,crolli dell’altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili del tedio che loro attribuisco: nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti.

      Nuvole… Sono come me un passaggio figurato tra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l’oscurità, finzioni dell’intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo.

      Nuvole… Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto

      E la discesa non si arresta….

      (Nuvole, Fernando Pessoa)

       

      Love Letter (Clouds)

      By Sarah Manguso

       

      for B. H.

      I didn’t fall in love. I fell through it:

       

      Came out the other side moments later, hands full of matter, waking up from the dream of a bullet tearing through the middle of my body.

       

      I no longer understand anything for longer than a long moment, or the time it takes to receive the shot.

       

      This kind of gravity is like falling through a cloud, forgetting it all, and then being told about it later. On the day you fell through a cloud . . .

       

      It must be true. If it were not, then when did these strands of silver netting attach to my hair?

       

      The problem was finding that you were real and not just a dream of clouds.

       

      If you weren’t real, I would address this letter to one of two entities: myself, or everyone else. The effect would be equivalent.

       

      The act of falling happens in time. That is, it takes long enough for the falling to shear away from the moments before and the moments after, long enough for one to have thought I am falling. I have been falling. I continue to fall.

       

      Falling through a ring, in this case, would not mean falling through the center of the annulus—a planet floats there. Falling through the ring means falling through the spaces between the objects that together make the ring.

       

      On the way through, clasp your fists around the universe:

       

      Nothing but ice-gravel.

       

      But open your hands when you reach the other side. Quickly, before it melts.

       

      What did I leave you?



      Lettera d’amore (Nuvole)
      per B.H.

      Non mi sono innamorata. La mia è stata una caduta.
      Sono riemersa dall’altra parte qualche minuto dopo, le mani piene di materia, risvegliandomi dal sogno di un proiettile
      che lacerava il mio corpo a metà.
      Non capisco più niente se non per un lungo momento, o per il tempo necessario a ricevere il colpo.
      Questo tipo di gravità è simile al cadere attraverso una nuvola, dimenticando tutto, per poi sentirselo raccontare un momento dopo.
      Nel giorno in cui sei caduto attraverso una nuvola.
      Deve essere vero. Se non lo fosse, allora quando si sarebbero attaccati ai miei capelli questi fili di tulle argentato?
      Il problema è stato scoprire che eri tu ad essere vero e non un sogno di nuvole.
      Se tu non fossi reale, indirizzerei questa missiva a una di queste entità: me stessa, o chiunque altro.
      L’effetto sarebbe lo stesso.

      Cadere è un atto puntuale. Vale a dire, ci vuole abbastanza tempo perchè la caduta si stacchi dal momento anteriore e da quello successivo, abbastanza tempo perchè qualcuno pensi che io sto cadendo. Stavo cadendo. Continuo a cadere.

      Cadere attraveso un cerchio, in questo caso, non significherebbe cadere attraverso il centro dell’anello – un pianeta vi galleggia.
      Cadere attraverso un cerchio significa cadere attraverso lo spazio tra gli oggetti che insieme formano l’anello.
      Durante il percorso, afferrati all’universo coi pugni ben stretti:

      Null’altro che ghiaia gelata.
      Ma apri le tue mani quando arrivi dall’altra parte. Velocemente, prima che si sciolga.

      Che cosa ti ho lasciato?
      (Traduzione @OphelinhaPequena)

       

      Sarah Manguso, scrittrice e poetessa americana nata nel 1974, durante il suo primo anno ad Harvard inizia a soffrire della sindrome di Guillain-Barrè, una malattia molto rara che porta alla paralisi progressiva degli arti – nei casi peggiori entro ventiquattro ore.

      Racconta della sua tragica esperienza, così come del taumaturgico potere dell’amore e del sesso, nel suo libro Two kinds of decay.

      Per saperne di più:

      Una malattia mi ha rubato la giovinezza (La Repubblica, Dmemory)

      Sarah Manguso on The Bat Segundo Show

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    • Tutte le lettere d’amore sono ridicole

      Posted at 11:50 pm12 by ophelinhap, on December 13, 2011

          Todas as cartas de amor são
          Ridículas.
          Não seriam cartas de amor se não fossem
          Ridículas.

          Também escrevi em meu tempo cartas de amor,
          Como as outras,
          Ridículas.

          As cartas de amor, se há amor,
          Têm de ser
          Ridículas.

          Mas, afinal,
          Só as criaturas que nunca escreveram
          Cartas de amor
          É que são
          Ridículas.

          Quem me dera no tempo em que escrevia
          Sem dar por isso
          Cartas de amor
          Ridículas.

          A verdade é que hoje
          As minhas memórias
          Dessas cartas de amor
          É que são
          Ridículas.

          (Todas as palavras esdrúxulas,
          Como os sentimentos esdrúxulos,
          São naturalmente
          Ridículas.)

          Tutte le lettere d’amore sono
          ridicole.
          Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
          ridicole.

          Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
          come le altre,
          ridicole.

          Le lettere d’amore, se c’e’ l’amore,
          devono essere
          ridicole.

          Ma dopotutto
          solo coloro che non hanno mai scritto
          lettere d’amore
          sono
          ridicoli.

          Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
          senza accorgermene
          lettere d’amore
          ridicole.

          La verita’ e’ che oggi
          sono i miei ricordi
          di quelle lettere
          a essere ridicoli.

          (Tutte le parole sdrucciole,
          come tutti i sentimenti sdruccioli,
          sono naturalmente
          ridicole).

          (Fernando Pessoa)

      Quando si tratta di emozioni e sentimenti, è meglio tacere o sforzarsi di esprimersi, anche se fa male, anche se il groppo in gola fa da tappo, anche se non ci si sente all’altezza?

      Quante volte si vorrebbe prendere carta e penna (o il portatile) e scrivere, scrivere…fino a sentirsi svuotati. Quante volte si rinuncia, perché non ci si sente bravi abbastanza, perché non si sa scrivere. Perché non si e`bravi a parlare. Allora ci si affida alle parole di altri, scrittori, poeti, cantanti. E il peso delle parole mai dette si aggiunge al vuoto delle cose mai fatte.

      le lettere d`amore/che avevo immaginato/ma mi facevan ridere/magari fossi in tempo/per potertele scrivere

      canta Roberto Vecchioni nella bellissima canzone ispirata alla poesia di Nininho. Siamo noi ad essere ridicoli o le nostre parole? Ci rendiamo più ridicoli cercando di sforzarci di esprimere quello che proviamo, a rischio di scivolare dolcemente ma inesorabilmente verso un pastrocchio, o affidandoci a surrogati?

      Eppure c’è chi ha scritto, e ha amato attraverso le parole.
      Penso a due esempi: David Grossman e André Gorz. Entrambi scrittori, è vero: David Grossman ci racconta una storia d`amore intensa tanto da far male, appassionata, quasi d’altri tempi, stile Abelardo ed Eloisa. Yaris vede Myriam tra la gente. Eppure percepisce in lei il fascino discreto di chi, in un mondo pervaso dal rumore, riesce ancora a sentirsi solo. Le scrive una lettera e le chiede di accettare un rapporto che superi le normali congetture, i normali schemi e rigori, che vada al di là di qualsiasi altra relazione lei abbia mai vissuto. Le chiede di accettare un rapporto fatto solo di parole. E le chiede di affidare alla parola scritta solo ciò che lei di volta in volta si sentirà libera di voler raccontare.

      Anche Yaris è consapevole dei suoi limiti di scrittore:

      Come mi piacerebbe scriverti diversamente.Come mi piacerebbe essere uno che scrive in un altro modo.Le mie parole sono così pesanti.

      In fondo avrebbe potuto essere anche semplicissimo, no?Come quando si chiede: “Dimmi piccino, dov’è che ti fa male?”
      Allora chiuderei gli occhi e scriverei in fretta: volesse il cielo che due estranei vincessero l’estraneità.
      Il principio stesso dell’estraneità, carico di prescrizioni e conseguenze – il vertice del Cremlino, soddisfatto e sazio, che ci si è assestato nelle profondità dell’anima.
      Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un’iniezione di verità, per dirla, finalmente la verità.
      Sarei felici di poter dire: “Con lei ho stillato Verità!”
      Si, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anche io lo sarò per te, prometto.
      Un coltello affilato ma misericordioso …
      Le tue paure addormentale con me.

       

      La lunga lettera di André  Gorz è dolorosamente commovente. Gérard Horst, questo il suo vero nome, viennese, incontra Dorine, giovane attrice inglese, nel 1947 in Svizzera dove lui si era rifugiato e dove lei faceva teatro. Da quel momento non si sono più lasciati. Cinquantotto anni dopo ripercorre gli anni della giovinezza e della militanza, dai primi incerti inizi parigini dove Gorz inizia la carriera di traduttore, di giornalista, poi di filosofo. E’ una confessione senza veli, in cui il Gorz ammette di non aver sempre tenuto la moglie nella giusta considerazione, salvo poi riconoscere come l’intera sua opera porta il segno della presenza di Dorine, del suo sostegno, del dialogo sempre vivo tra loro. André e Dorine Gorz hanno attraversato insieme la seconda metà del Novecento, vivendo da comprimari le idee, le battaglie, le sfide sociali e personali di quest’ultima metà del secolo. Un racconto che è la storia di una vita, dell’impegno politico e intellettuale, ma anche il ritratto di un’epoca,

      Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quaranta chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile.
      Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai.
      Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie.
      […]
      Hai appena compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile.
      Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai.
      Recentemente mi sono innamorato di te un’altra volta e porto di nuovo in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie.
      La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un passaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io.
      Sei tu che il carro funebre trasporta.
      Non voglio assistere alla tua cremazione Sento la voce di Kathleen Ferrier che canta “Die Welt ist leer, Ich will nicht leben mehr” e mi sveglio.
      Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora.
      Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro.
      Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme.

       

      Gorz ha messo fine ai suoi giorni, insieme a sua moglie Dorine afflitta da una grave malattia, il 25 settembre 2007.
      C’è anche un altro aspetto da non sottovalutare.. quando si scrive una lettera, dall’altra parte del fiume c’è un destinatario ad aspettarla… pieno di aspettative, di paure, di speranza. Un destinatario che potrebbe ridere di quelle parole scritte con tanto sforzo, con tanta fatica. Forse anche questa persona ha paura. Di aspettare invano. Di covare illusioni. Di sentirsi ridicola. (Il ridicolo è il nemico dell’amore, insomma).

      Non raccontarmi storie d’amore infelici

      (Dopo aver visto Avanti! di Billy Wilder)

      Non mandarmi storie d’amore infelici.

      Voglio amori felici

      in cui la gente sorride, e ride, e sorride,
      e ride di se stessa.

      Non raccontarmi di amori infelici.

      Non enumerarmi amanti separati contrastati contestati
      divisi.

      Inventa per me un mondo nuovo,
      fatto solo di amori felici
      dove ci sia spazio per me – per te – per un povero amore
      vilipeso, vituperato, aborrito,
      nascosto, celato, rinnegato
      (tre volte l’hai rinnegato,
      tre volte l’ho rinnegato).

      Dargli acqua o lasciarlo appassire

      Dargli cibo o lasciarlo perire d’inedia.

      Non mandarmi storie d’amore infelici.

      Posted in Frammenti di poesia, Frammenti di un discorso amoroso, Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged André Gorz, Confessions of a Dangerous Mind, David Grossman, Fernando Pessoa, In the mood for love, Letteratura portoghese, Lettere d'amore, Nininho, Poetry
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