Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Un anno senza Leonard Cohen

      Posted at 11:50 am11 by ophelinhap, on November 7, 2017

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      And what can I tell you my brother, my killer

      What can I possibly say?

      I guess that I miss you, I guess I forgive you

      I’m glad you stood in my way

      (Famous Blue Raincoat, Songs of Love and Hate, 1971)

      Le mancanze funzionano in modo strano: si può cercare di evitarle e riuscire ad andare avanti con la propria routine per giorni, settimane, mesi. Basta però un dettaglio – una parola, un sapore, un sogno, un déjà-vu, un odore – a cancellare mesi di paziente rassegnazione e a riportare la parte lesa (lesa perché offesa, zoppicante perché è inciampata nel dosso della perdita, gonfia per un livido insanabile nell’anima, spaventata come una lumaca senza guscio o una lucertola senza coda) nel mezzo di quello sbandamento causato dal senso di perdita.

      Il primo segno tangibile del fatto che tu non ci fossi più per davvero è arrivato solo alla fine di settembre. Nei mesi precedenti ho semplicemente fatto finta che fossi lontano ma ancora presente, come quando rompi con qualcuno che vive all’estero: la distanza cancella il fatto che l’altra persona non ti ami più e non ci sia più nella tua vita di tutti i giorni, ad augurarti il buongiorno con una foto stupida e farti vedere su Facetime se i pantaloni che ha comprato gli cadono bene.

      Settembre è però il mese del tuo compleanno (era? E l’incompiutezza del congiuntivo diventa una vertigine). Nel 2014, subito dopo il tuo ottantesimo compleanno, hai rilasciato Popular problems, incantandomi ancora una volta con la struggente malinconia di My Oh My e Did I ever love you e con la sardonica autoironia di Slow (Let me catch my breath/ I thought we had all night/ I like to take my time/ I like to linger as it flies/ A weekend on your lips/ A lifetime in your eyes…)

      L’anno scorso hai festeggiato il tuo ottantaduesimo compleanno rilasciando il singolo You want it darker, solenne e cupa esplorazione della dimensione religiosa dell’animo umano; una canzone che ho dovuto ascoltare un paio di volte per evitare di farmi avvolgere dalla sua oscurità, appiccicosa come la melassa (If you are the dealer, let me out of the game/ If you are the healer, I’m broken and lame/ If thine is the glory, mine must be the shame/ You want it darker/ Hineni, hineni/ Hineni, hineni/ I’m ready, My Lord). Il singolo lasciava presagire quello che sarebbe stato il tono dell’album, uscito appena due settimane prima di quel 7 novembre: l’accorato, appassionato commiato di qualcuno che ha amato, ha lottato, ha sbagliato, ha vissuto a pieno ed è pronto ad alzarsi dal tavolo e ad andarsene (I don’t need a reason/ For what I became/ I’ve got these excuses/ They’re tired and lame/ I don’t need a pardon, no, no, no, no, no/ There’s no one left to blame/ I’m leaving the table/ I’m out of the game).

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      Quest’anno settembre è arrivato ed è passato in silenzio, senza una nuova canzone, senza un nuovo album, e ho finalmente realizzato, e la mancanza è esplosa come una pentola a pressione il cui coperchio sia stato aperto troppo presto.

      Quel fatidico 11 novembre, quando la tua famiglia ha annunciato che te n’eri andato quattro giorni prima, mi ero appena svegliata e stavo per fare colazione quando, disattivando la modalità aereo che segna la linea di separazione notturna tra me e il mio Iphone, ho trovato il messaggio di mia madre con la notizia. È stata una giornata paradossale, durante la quale ho appreso di non aver ottenuto il lavoro che volevo con tutta me stessa e di averne ottenuto un altro che desideravo molto di meno. Per settimane non ho smesso di ascoltare ossessivamente You want it darker, cercando un significato nascosto, un messaggio nella bottiglia lasciato solo per me, in un momento in cui mi sentivo persa e scoraggiata e sola. Non l’ho trovato e, dopo le prime settimane, non sono riuscita ad ascoltare nessuna delle tue canzoni, per mesi.

      Can’t seem to loosen my grip

      On the past

      And I miss you so much

      There’s no one in sight

      And we’re still making love

      In my secret life

      (In my secret life, Ten new songs, 2001) 

      Nei mesi successive, dopo il trasferimento, dopo i primi mesi di giornate lavorative confuse e lunghissime, sei tornato nella mia vita di tutti i giorni naturalmente, come l’aria, con le tue poesie e con le tue canzoni, nelle parole dei vari fan group su Facebook a te dedicati e sempre pieni di notizie e chiavi d’interpretazione interessanti. Non ci sarà mai più una nuova canzone, è vero, ma non hai smesso di riservarci soprese: prima fra tutte, il concerto commemorativo che si terrà a Montreal a un anno dalla tua morte, Tower of song, con la partecipazione di tuo figlio Adam, The Lumineers, Damien Rice, Sting, Elvis Costello e Lana del Rey, tanto per citare alcuni dei miei preferiti.

      But you’ll be hearing from me baby, long after I’m gone.

      I’ll be speaking to you sweetly from a window in the Tower of Song

      (Tower of Song, I’m Your Man, 1988)

      Tower-of-Song-Poster-608x900

      Nelle tue istruzioni ad Adam, hai chiesto di essere sepolto in una bara di pino vicino ai tuoi genitori. Hai chiesto un funerale ristretto, sobrio, a Los Angeles. Infine, hai specificato che un eventuale tributo pubblico si sarebbe dovuto tenere nella tua Montreal. E hai lanciato nell’immenso mare dell’ignoto ancora un’altra bottiglia: un libro, The Flame, il capitolo finale della tua carriera letteraria, una raccolta di poesie edite ed inedite, selezionate e ordinate nei mesi prima che te ne andassi. La raccolta verrà pubblicata l’anno prossimo, ad ottobre, ingannando così gli appuntamenti autunnali a cui non ti presenterai più, espandendo la geografia dell’attesa.

      Anch’io ho ricevuto la mia bottiglia, il mio messaggio personale. Un paio di giorni fa ero a Londra, la mia città del cuore, con la mia persona preferita. Avevo da poco rivisto una delle mie migliori amiche e mangiato i dumpling più buoni della storia a Chinatown. Uscita dal ristorante, sono stata avvolta dalle luci, dalle voci e dall’incessante, rassicurante movimento di una città che non dorme e non si ferma mai, e dalla dolcezza di note conosciute. Nel mezzo di Chinatown, con in mano un gelato al tè matcha avvolto nel waffle (conoscete Bubblewrap? Se passate da Londra provatevelo, non ve ne pentirete), ho ascoltato una bellissima cover di Hallelujah, avvolgente come una coperta nel freddo pungente di una serata novembrina; una cover così appassionata e sentita da aver lasciato gli spettatori in lacrime. E lì, in quel momento perfetto, era contenuto il nostro arrivederci. So long, Leonard.

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      Posted in Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged a thousand kisses deep, famous blue raincoat, Leonard Cohen, London, Londra, musica che amo, Poetry, tower of song, You want it darker
    • Leonard, that’s no way to say goodbye

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 11, 2016

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      È tremendamente difficile cercare di spiegare quanto ci si possa sentire toccati dalla scomparsa di qualcuno che non abbiamo mai incontrato. È difficile cercare di spiegare che ci sono persone che incidono più di tante altre nella nostra formazione, crescita, maturazione, aiutandoci a definire i nostri gusti grazie alla forza della loro musica e delle loro parole.

      Per me, Leonard Cohen è tutto questo. È la persona che, grazie alla sua musica e alle sue parole, è entrata nella mia vita quotidiana, diventandone la colonna sonora costante.

      Mi sono innamorata con le sue canzoni; le sue parole hanno curato il mio cuore spezzato. Ogni volta che sono stanca o triste o scoraggiata o ho una delle mie emicranie, la sua è l’unica voce che riesce a calmarmi, a rassicurarmi, a ricordarmi che, anche quando niente sembra più avere senso, c’è sempre una fessura da cui entra un po’ di luce.

      Cohen, con la sua celebrazione e sublimazione della malinconia, mi ha insegnato che la tristezza non è una colpa, ma uno stato animo da cui farsi abitare, con cui imparare a convivere, da cui tirare fuori una poesia infinita.

      Mi ha insegnato che tutti si sentono persi, a un certo punto, e che va bene così: bisogna perdersi, per ritrovarsi interi. Bisogna accettare il rischio di perdere, di rimanere col cuore spezzato, per imparare ad amare.

      Mi ha insegnato che bisogna mettersi in discussione, sempre, esplorare la propria interiorità e la propria spiritualità, senza avere la presunzione di delimitarne i confini.

      Prima di andarsene, Leonard ha lasciato un messaggio di addio: il suo ultimo disco, You want it darker, pervaso da una malinconia struggente, registrato quasi interamente da una poltrona speciale in cui era costretto a stare seduto a causa del tumore che lo stava corrodendo. È l’addio di un uomo, un padre, un amante, un artista che ha amato e celebrato la vita in tutte le sue sfumature, anche le più cupe, le più tormentate. È l’addio di una persona che ha vissuto appieno, e si sente pronta a quello che verrà, qualunque cosa sia:

      You want it darker
      Hineni, hineni
      I’m ready, my Lord

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      You want it darker è una toccante celebrazione della vita, uno struggente inno a quell’amore che la rende reale:

      If the sun would lose its light

      And we lived in an endless night

      And there was nothing left that you could feel

      If the sea were sand alone

      And the flowers made of stone

      And no one that you hurt could ever heal

      Well that’s how broken I would be

      What my life would seem to me

      If I didn’t have your love to make it real

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      E Cohen non ha mai smesso di celebrarlo, l’amore, in tutta la sua trascendenza. We are so lightly here. It is in love that we are made. In love we disappear, siamo fatti d’amore e a un certo punto vi facciamo ritorno, cantava in Boogie street. La mia canzone preferita, Famous blue raincoat, è una bellissima lettera d’amore, un triangolo amoroso di difficile definizione, un tentativo di esplorare le sfumature più nascoste, più recondite, più oscure di questo sentimento universale ed eterno.

      Un paio di mesi fa, Cohen ha mandato questa lettera alla sua eterna musa, Marianne Ihlen, qualche giorno prima della morte di lei:

      Well Marianne it’s come to this time when we are really so old and our bodies are falling apart and I think I will follow you very soon. Know that I am so close behind you that if you stretch out your hand, I think you can reach mine. And you know that I’ve always loved you for your beauty and your wisdom, but I don’t need to say anything more about that because you know all about that. But now, I just want to wish you a very good journey. Goodbye old friend. Endless love, see you down the road.

       (Marianne, siamo ormai vecchi e i nostri corpi stanno andando a pezzi, e penso che ti seguirò molto presto. Sappi che sono dietro di te, così vicino che, se allunghi la mano, credo che riuscirai a toccare la mia. E sai che ti ho sempre amato per la tua bellezza e saggezza, ma non c’è bisogno che aggiunga altro, perché sai già tutto quello che c’è da sapere. Ora voglio solo augurarti buon viaggio. Arrivederci, amica mia. Amore infinito, ci vediamo in fondo alla strada). So long, Marianne.

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      Questa è invece la mia lettera per te, Leonard, sconosciuto amico, amante, maestro: grazie per aver trovato sempre le parole giuste, le parole che nessuno è mai riuscito a trovare. Grazie di avermi fatto sentire meno sola. Grazie di esserti preso cura della mia educazione musicale – e sentimentale. Grazie di avermi fatto guardare dentro di me. Grazie di avermi dato degli stimoli, delle risposte. Grazie di avermi rassicurata. Grazie di avermi fatto emozionare. Grazie di avermi toccato col tuo guanto, di aver ballato con me fino alla fine dell’amore, a mille baci di profondità. Leonard, that’s no way to say goodbye.

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      Posted in Ophelinha scrive | 13 Comments | Tagged a thousand kisses deep, boogie street, famous blue raincoat, Leonard Cohen, Marianne Ihlen, so long marianne, that's no way to say goodbye, You want it darker
    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

      libri

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

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      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
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