Impressions chosen from another time

Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

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      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

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      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
    • Vorrei essere leggera.

      Posted at 11:50 pm07 by ophelinhap, on July 15, 2013

      And you want to travel with her
      And you want to travel blind
      And you know that she will trust you
      For you’ve touched her perfect body with your mind…
      Suzanne, Leonard Cohen
       
       
       
       

      Vorrei essere leggera, come quella ragazza che oggi andava davanti a me in bicicletta, top rosa e capelli biondi al vento, mentre io in bicicletta non so più se so ancora andarci.
      Vorrei essere leggera, lasciarmi trasportare dal vento frizzante dei miei anni, di un’età anagrafica ancora – relativamente – fresca ma strozzata dall’insostenibile pesantezza del mio essere.
      Vorrei essere leggera, fare tabula rasa di tanti troppi momenti da dimenticare, di quei pensieri negativi che si annidano come erbacce nel mio giardino e impediscono ai fiori di sbocciare, liberarmi di questa cappa soffocante di Greyville, dalle convenzioni, dai lunedì avvilenti, dai se e dai forse. Dal pensiero di non potercela fare, di non essere abbastanza, di dover cercare di essere quella che tutti pensano dovrei essere anche se io proprio non ci riesco. E recitare, recitare una parte gravosa, portare una maschera pesante, alterare la voce in un falsetto che non mi appartiene.
      Vorrei essere leggera, smettere di dover essere e semplicemente esistere, una farfalla, un fiore, una coccinella, un pensiero di bellezza, un’impressione che si esaurisce in un attimo ma esiste, semplicemente, in quel momento, nel momento. E tutta la sua esistenza è tesa soltanto verso quell’istante.
      Vorrei essere leggera, fermarmi a pescare nel mio baule pieno di gente un eteronimo leggiadro e soave, una ninfa, una ballerina, una piccola Ofelia dei boschi innocente dagli occhi pieni di meraviglia, una gitana un saltimbanco una piccola signorina Felicita come nelle poesia di Gozzano, semplice e priva di affascinanti complicazioni.
      Vorrei essere leggera e non avere paura di fermarmi a dare una vita una voce e un cuore a quel baule di personaggi che mi popolano, senza lasciarmi inibire da decaloghi sullo scrivere, da ansie di prestazione, dalla paura di non saper fare nemmeno questo, la cantastorie, un ibrido tra don Chisciotte e Cyrano de Bergerac.
      Vorrei essere leggera e non aver paura di andare sulle montagne russe o saltare col paracadute o tuffarmi da punti troppo alti, perchè tanto la vita è troppo breve per covare queste paure, queste preoccupazioni, che altro non mascherano se non l’ansia del domani, quel domani incerto che arriva come ospite indesiderato di incubi che strozzano il respiro.
      Vorrei essere leggera, vestirmi a colori, dipingermi le labbra e le unghie del rosso più intenso e scendere per strada a ballare, senza paura di essere goffa e rendermi ridicola, come se non ci fosse un domani, perchè alla fine forse è proprio questo che manca, un domani da inventare e reiventare e modellare e ampliare ogni giorno e colorare con le sfumature di infinite possibilità.
      Vorrei essere leggera e intravedere una possibilità ad ogni angolo, un nuovo incontro in ogni viso, una nuova storia in ogni conversazione, una sfida in ogni ostacolo.
      Vorrei essere leggera e non aver paura di ammettere la mia pesantezza e il mio pessimismo, ma guardarli in faccia e sfidarli ad armi pari. E non aver paura di innamorarmi della vita, ogni giorno, correndo il rischio di restare col cuore spezzato.

      Posted in Ophelinha scrive | 3 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Eteronimi, Le notti bianche, Me myself and I, Mine vaganti, Ofelia, Ophelinha, Si sta facendo sempre più tardi
    • L’indicibile solitudine degli eteronimi

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 27, 2013
      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

       

      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

      Cos’è un eteronimo? Dal greco héteros, diverso, altro da sé, e onoma, nome, è un personaggio fittizio, che possiede però una sua personalità e una sua biografia diversa da quella del suo “creatore”.
      È un “altro da sé” a cui si affidano aspetti del proprio carattere che non si riescono ad accettare, sogni e speranze che non si sono riuscite a concretizzare. Qualcuno che fa scelte diverse dal suo autore, che ad un incrocio sceglie una direzione diversa, che naviga tra le infinite possibilità della vita con maggiore disinvoltura e sicurezza.
      O forse, ci si crea un eteronimo quando la vita non è abbastanza, quando si hanno dentro mondi diversi da quello quotidiano, da quello che si vede. Quando si coltiva un’innata ed infinita irrequietezza. Quando non si accettano alcuni aspetti del proprio carattere che sono però i più veri, i più autentici. E si affidano all’eteronimo.
      A volte, l’eteronimo, o gli eteronimi, diventano noms de plume, e, dietro la loro maschera, si scrive, si compone, si dipinge in modo molto più spontaneo ed autentico, tirando fuori la parte più genuina e sincera di sé.

      Il più famoso creatore di eteronimi è ovviamente Fernando Pessoa, che spiega la genesi di questi suoi “altri da sé” in una lettera a Adolfo Casais Monteiro – scrittore, poeta, saggista e traduttore portoghese –  pubblicata in Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (a cura di Antonio Tabucchi) e inserita nell’appendice del libro di Luciana Stegagno Picchio Nel segno di Orfeo.

      Ecco alcuni stralci della lettera:

      Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

      Casella Postale 147
      Lisbona, 13 gennaio 1935

      Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (…) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. (…)

      Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Ala fine, in un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile.

      Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la risposta di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.

      Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e di derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. (…)

      Come scrivo col nome dei tre? … Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).

      Tabucchi, Antonio
      Un baule pieno di gente
      Feltrinelli, 1990

      La migliore definizione degli eteronimi di Pessoa è, a mio parere, quella di Luciana Stegagno Picchio, una delle massime autorità italiane di lingua e letteratura portoghese e brasiliana, che in un’intervista su RaiLibro ha dichiarato:

      (…) Queste “persone”, questi “autori altri”, non sono pseudonimi: lo pseudonimo, infatti, abbraccia l’intera personalità dello scrittore. Nel caso di Pessoa, invece, quando si parla di eteronimi, ci si riferisce a una parte della personalità, quei segmenti di sé non espressi.
      Parlare è di per sé una mutilazione: quando un essere umano si esprime, mutila, “esclude” in quello stesso momento le cose che non dice e tutti gli altri personaggi che dentro di lui direbbero altre cose.
      In Pessoa erano presenti tante voci diverse – si è arrivati a calcolare addirittura ottanta, novanta eteronimi. E mi sono sempre chiesta cosa sarebbe stato Pessoa se non fosse morto precocemente.

      E ancora:

      (…) Sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati, basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita.
      Ad ognuno di essi attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale… Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
      Eppure, al di là di questi aspetti “contingenti”, tutti loro hanno in comune il fatto di essere persone di sesso maschile, sole, della stessa età, anche simili fisicamente: caratteristiche che alla fine si riuniscono in un unico uomo, che si chiama Fernando Pessoa.

      A volte gli eteronimi smettono di essere finzione e invadono la vita reale del poeta. È il caso della sua tormentata e surreale relazione con Ophélia Queiroz, unica “fidanzata” del poeta,  ostacolata, tra le altre cose, dalla gelosia dell’eteronimo Alvaro de Campos, omosessuale e geloso della giovane.

      Come Ophélia stessa racconta nella prefazione di Lettere alla fidanzata a cura di Antonio Tabucchi (edito da Adelphi):

      Fernando era una persona molto speciale. Tutta la sua maniera di essere, perfino nel vestire, era speciale. Ma forse io allora non me ne accorgevo, perchè ero troppo innamorata. La sua sensibilità, la sua tenerezza, la sua timidezza, la sua eccentricità mi incantavano. A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Alvaro de Campos. Mi diceva: “Sai, oggi non ero io, al mio posto è venuto il mio amico Alvaro de Campos..”.

      In quei momenti si comportava in un modo completamente diverso dal suo: era sconclusionato, diceva cosa senza senso. Un giorno mi disse: “Gentile signorina, ho una commissione per lei: dovrebbe buttare l’abietta immagine di quel tale Fernando Pessoa in un secchio pieno d’acqua, a testa in giù”.

      Io gli obiettai: “Detesto Alvaro de Campos, mi piace solo Fernando Pessoa”.

      “Chissà poi perchè”, riprese lui, “guarda che invece a Campos piaci molto”.

      Raramente parlava di Caeiro, di Reis o di Soares.

      Da queste pagine, dalle loro lettere, dalla loro tormentata storia è nata la mia curiosità per Ophélia Queiroz, minuta e vivace fanciulla della media borghesia lisbonese, che, diciannovenne, viene assunta come segretaria dal Diàrio de Notícias e si innamora di questo ometto strambo, che si dichiara a lei con le stesse parole che Amleto usa per promettere amore eterno alla sua Ofelia. Seguono mesi di namoro tormentato, fatto di bigliettini segreti, baci rubati negli androni dei portoni, dato che Fernando non vuole rendere il fidanzamento ufficiale presentandosi a casa sua (Sai, devi capire che è una cosa da persone comuni, e io non sono una persona comune).

      E Ophélia lo accetta, e lo ama per quello che è, per tutti i suoi io, per le promesse mai mantenute di sposarla. Lo ama nonostante il malcontento della famiglia, nonostante quella lettera del 29 novembre del 1920 con la quale Fernando mette fine alla loro storia:

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?  

      Ophélia non si sposerà mai. E mi piace credere che sia rimasta sempre innamorata del suo Nininho, che, pochi giorni prima di morire, chiedendo sue notizie al nipote Mario, con gli occhi pieni di lacrime esclama Che anima bella! Che anima bella!

      Ophelinha diventa così per me la regina degli amori mai realizzati, degli amori impossibili, di quelli sognati e accarezzati col pensiero ma mai vissuti. La destinataria di lettere d’amore che fanno ridere, ma farebbero ridere ancora di più se non venissero mai scritte. Diventa una piccola donna anticonformista, forte e indipendente, capace di amare un uomo geniale e imprevedibile come il suo Nininho, d’un amore tenero e capriccioso, ma sempre costante.

      Nel corso dell’ultimo anno, Ophelinha è diventata la mia maschera, il mio naturale eteronimo che mi aderisce come una seconda pelle.

      Perchè preferisco Ophelinha a me stessa? Perchè Ophelinha non ha paura di parlare in prima persona.
      Perchè la vedo così, uno scricciolo controcorrente, del tutto incurante delle tradizioni, a cui non importa un fico secco del matrimonio borghese e si innamora del poeta da strapazzo che le declama i versi con cui Amleto si dichiara a Ofelia, e le ruba un bacio.
      Perché a lei non importa nulla del parere della gente. Perché gioca a nascondino con Nininho dentro anditi e portoni sotto la pioggia. Perché è orgogliosa di essere chi è, di essere quello che è, e non fa nulla per nascondersi o per conformarsi.
      Ophelinha non ha paura. Non ha paura di piangere. Non ha paura di mettersi in gioco, anche se potrebbe significare perdere, e ha il terrore dell’abbandono, e ogni schiena che si allontana le spezza il cuore.
      Non si astiene dall’indulgere nel piacere masochista dei ricordi, degli amori passati, delle cose che erano e non sono più.

      E Ophelinha scrive d’amore, anche se fa ridere. Anche quando l’ha perso, e non può fare nulla per riaverlo indietro.

       

      E non si vergogna della natura malinconica del suo carattere, del bovarismo accentuato, del bisogno di frequentare personaggi fittizi più di quelli reali. Non adotta maschere per fingersi sempre allegra e superficialmente spensierata. Per cercare di piacere agli altri, e di essere accettata.
      È incapace di vivere a pieno il presente, e vive nel passato, crogiolandosi nei ricordi, annaspando tra i se e i forse.

      Così, protetta da questo schermo virtuale, divento Ophelinha e scrivo di quei mondi che nessuno vede e in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore della vita quotidiana.

      Ci sono anche eteronimi che non funzionano, che si provano e poi si mettono da parte per sempre, come un vestito troppo stretto e troppo corto. È il caso della frivola contessina Aspasia, un tentativo di trovare un eteronimo più leggero e civettuolo, più frivolo, per l’appunto.

      Ma no, non è andata. E allora, che Ophelinha sia. In questo strano mondo di eteronimi fin troppo soli.

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 13 Comments | Tagged Caos calmo, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, Eteronimi, Fernando Pessoa, Lettere d'amore, Literature and Beyond, Me myself and I, Nininho, Ophelinha, Si legge e si racconta di libri, Words
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