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  • Tag: Elizabeth Strout

    • Il Calendario dell’avvento letterario #9: di verità perfette, crepe e comunità

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Debora di Critica letteraria

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      Quando Manuela mi ha proposto di partecipare al suo delizioso calendario dell’avvento letterario ho subito accettato con entusiasmo, felicissima di prendere parte ad un progetto che finora avevo sempre seguito da lettrice e più che lieta di avere un’ottima ragione per lanciarmi in una lunga riflessione su Natale, libri, tradizione. È quel periodo dell’anno che adoro, entro in modalità elfo con un anticipo imbarazzante e anno dopo anno mi coccolo con piccoli rituali e tradizioni che via via si arricchiscono di nuove abitudini: la maratona dei film a tema, le gite ai mercatini di Natale, la rilettura come ogni anno di A Christmas Carol di Dickens (rigorosamente sdraiata ai piedi dell’albero addobbato), le mille candele profumate che già da sole fanno atmosfera. Insomma, il più tradizionale mood natalizio ad accompagnarmi verso il 25 Dicembre. Ma se la leggerezza calviniana che mi contraddistingue non è mai venuta meno, neanche di fronte a quelle prove che certo non avrei voluto dover affrontare, non ancora, almeno, in questi ultimi anni è diventato necessario creare anche nuove tradizioni, per non perdere lo spirito del Natale e la gioia del periodo, il piacere di stare insieme alle persone che amo.

      I libri, le storie, ancora una volta sanno arrivare a noi quando più ne abbiamo bisogno, spingendoci ad osservare la realtà da un punto di vista differente, destabilizzarci, mettere in discussione le nostre certezze o scaldarci il cuore con un inaspettato messaggio di speranza. Chi mi conosce sa che ho un debole per la letteratura angloamericana e così quest’anno, sbirciando nella mia libreria per questo progetto – a rischio di non uscirne mai più, persa tra gli scaffali – e, lo ammetto, cercando tutt’altro, sono tre le storie, ognuna in qualche modo legata al Natale, che ho deciso di proporre per questo avvento letterario, un piccolissimo viaggio nella narrativa statunitense contemporanea, fra solitudini, crepe, nostalgia, senso di comunità, famiglia. E poi, come un lampo di luce abbagliante, un sentimento di speranza e possibilità, il regalo più bello di una scrittrice che amo profondamente per la grazia con cui sa guardare il mondo.

      Poche cose urlano a gran voce “Natale” come le immagini di New York innevata, le strade piene di luci, i negozi addobbati; è anche lo sguardo curioso di chi arrivato per la prima volta in città ne resta abbagliato ma ne intravede anche le crepe dietro la facciata:

      La neve avvolgeva come un drappo i cespugli, disegnando con cura tutti i rami di tutti gli alberi – una linea di bianco per ogni linea di nero. Il Madison Square Garden, enorme e fresco di inaugurazione, mi sembrava etereo e fiabesco, e la Diana di Saint Gaudens, di cui mi aveva parlato Mrs Henshawe, si stagliava libera e spavalda nell’aria grigia. Indugiai a lungo accanto alla fontana intermittente. Il suo spruzzo regolare dava voce alla piazza. Si alzava e ricadeva con un profondo, allegro sospiro, e aveva un suono musicale, che pareva uscire dalla gola della primavera. […] Mi sembrava che lì, l’inverno non portasse desolazione; era domato, come un orso polare tenuto al guinzaglio da una bella signora.

      Ogni immagine, ogni parola, nel breve romanzo “Il mio nemico mortale”, di Willa Cather, è perfettamente calibrata e lì, appena dietro l’apparenza, oltre lo scintillio delle luci di New York immersa nell’atmosfera natalizia, si avverte il peso di un matrimonio che non è all’altezza di quanto ci si aspettava. Myra, bellissima e brillante, che rinuncia all’agio e alla famiglia per fuggire con l’uomo che ama, e tutto quel che ne riceve in cambio è la realtà, soltanto questa. Non basta il Natale, l’euforia forzata, le luci, la città, a nascondere del tutto gli angoli bui di quel matrimonio, delusioni e meschinità quotidiane, le incomprensioni, le difficoltà. Quelle crepe lungo tutta la facciata, il senso di dramma imminente che pervade il romanzo-racconto in cui i silenzi, gli spazi bianchi, le porte socchiuse, pesano più delle parole sulla pagina.

      Sull’importanza delle parole e sulle barriere, linguistiche o fisiche, un paio di anni fa Cristina Henrìquez ha pubblicato un libro molto bello – da cui si è sviluppato anche un progetto Tumblr correlato – , “Anche noi l’America”: una storia di speranza, difficoltà e sogni; di barriere da abbattere appunto, di nostalgia bruciante per quello che abbiamo perso o dovuto lasciare indietro, di desiderio di appartenenza e luoghi, persone, da poter chiamare casa. Henrìquez prova a dare voce a quegli Unknown Americans, immigrati o cittadini di seconda generazione e la difficile strada verso l’integrazione. Per molti di loro, per gli adulti soprattutto, è come essere sospesi fra due vite, tra il ricordo di ciò che era prima, di casa, famiglia, tradizioni e luoghi conosciuti, e ciò che è adesso la quotidianità, un Paese che troppo spesso guarda con diffidenza e ragiona per stereotipi, la solitudine e la nostalgia che si fa ancora più lacerante nel periodo di Natale.

      Eppure, in quella desolata e fredda cittadina del Delaware, tra problemi famigliari ed economici che difficilmente potranno essere superati, lì, in quel condominio fatiscente, nel giorno di Natale si crea la comunità: si apre la porta di casa Toro, tutti i vicini chiamati a riunirsi, festeggiare, mettere da parte per un momento differenze e problemi e ritrovarsi come comunità. Come famiglia. Messico, Panama, Nicaragua, Paraguay, Venezuela, sono tutti lì, in quell’appartamento riscaldato dalle risate, dalle voci, dal desiderio di sentirsi vicini e ritrovare un pezzetto di casa:

      […] con tanta gente stipata nel nostro appartamento, cominciammo a sentire un po’ di più lo spirito del Natale. Tutti rabbrividivano e ridevano e bevevano e parlavano. Quando finimmo il caffè mia madre preparò una pentola di cacao bollente mischiando un po’ di panna intera e delle tavolette di cioccolato che aveva trovato in fondo a un pensile e aveva squagliato sui fornelli. Il señor Rivera domandò se aveva dei bastoncini di cannella da mettere nelle tazze per fare la cioccolata alla messicana e mia madre recuperò un vasetto di cannella in polvere da un altro pensile e l’aggiunse alla pentola.

       Infine, c’è un libro, ma forse per meglio dire una scrittrice, che più di ogni altra riesce a colmare di grazia e speranza ogni pagina, anche le più dure, con il dono di una scrittura perfetta, ma soprattutto con quello ancora più straordinario di riuscire a vedere quegli “attimi di grazia” nel caos della vita. Ogni pagina che leggo – e rileggo, ancora e ancora – di Elizabeth Strout riesce in qualche modo a riappacificarmi con la scrittura e con il mondo: avevo amato “Olive Kitteridge” e “Mi chiamo Lucy Barton”, ma è nelle pagine finali di “Tutto è possibile” – un libro arrivato, come le cose migliori, esattamente nel momento in cui più ne avevo bisogno – che ho capito davvero a cosa Strout si riferisse, a quella verità perfetta e meravigliosa.

      In quella storia che chiude il romanzo-racconto della piccola comunità di Amgash, Illinois, quel microcosmo di umanità e imperfezioni, ci sono lampi di bellezza abbaglianti. La vigilia di Natale, la recita a cui ogni anno la famiglia di Abel non manca di assistere, i piccoli significativi dettagli rivelatori che qualcosa non va come ci si aspetterebbe nella vita ordinata dei Blaine: piccole sfumature, un sorriso tirato, un tono sbrigativo, il battito del cuore un po’ troppo accelerato, il buio che improvvisamente cala nella sala a metà spettacolo e gli istanti di panico. Lì, in quella notte di Natale, il meccanismo si inceppa, ma è anche l’occasione per riflettere davvero sul tempo, su ciò che è stato, sulle parti che recitiamo. Sulle solitudini che ci portiamo dentro. E che lì, in un teatro rimasto vuoto, creano appunto quell’attimo di grazia e di umana connessione. Perché si, non smetterò mai di credere che tutto è davvero possibile.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged A Christmas Carol, Anche noi l'America, Charles Dickens, Cristina Henríquez, Critica letteraria, Elizabeth Strout, Il mio nemico mortale, Lucy Barton, Olive Kitteridge, Willa Cather
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #3: se il Natale durasse un mese

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 3, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Nellie di Just Another Point

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      Se Natale non fosse un giorno ma un intero mese saremmo tutti più felici e meno stressati. Avete dubbi? Stento a crederlo.

      Se Natale durasse un mese non ci sarebbe l’ansia del regalo, tanto prima o dopo che differenza farebbe? Natale arriverebbe e sarebbe bello svegliarsi ogni giorno per un mese aspettando un regalo fin quando una mattina, a nostra insaputa, quel dono arriva davvero. Sarebbe un po’ come un mese di Non Compleanno e Alice ne sarebbe felicissima (sì, quell’Alice che sta persa nel mondo delle meraviglie).

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      Se Natale durasse un mese, dicevo, non ci sarebbe l’ansia del regalo e quindi si sceglierebbe con calma, si valuterebbero i pro e i contro di ciascuna scelta. Taccuino o agenda? C’è tutto il tempo per indagare. Ma, soprattutto, classico o ultima uscita? Libro nuovo o di seconda mano? Chissà quanti giri in librerie per poter trovare pagine perfette. Perché si sa, Natale è soprattutto lettura. Fra un pranzo e l’altro, fra la visita di un parente e quella di amici che non si vedono da tempo; fra l’arrosto di tacchino e il pandoro con la crema di mascarpone; fra il bicchiere di vino e l’amaro che verrà seguito da un altro bicchierino e poi un altro ancora: a Natale, di tempo per leggere due pagine e molte altre in più, ce n’è in abbondanza.

      Perché Natale è soprattutto quel periodo dell’anno in cui si decide quale dei libri composti da tanti volumi e da tante pagine leggere. Epopea americana di Joyce Carol Oates o rilettura di Queste oscure materie di Philip Pullman? Che poi sarebbe come dire, scelgo la realtà o la fantasia? Scelgo parole dirette pronte a conficcarsi nel cuore o un filtro che mi faccia vedere quello che voglio? Se Natale durasse un mese non si creerebbero questi problemi, anzi, ci sarebbe pure tempo per un’autobiografia, qualche fumetto e una storia da divorare in fretta furia. Avete dubbi? Giorni selvaggi di William Finnegan sarebbe lì ad aspettarvi, Amy & Isabelle morirebbero dalla voglia di farvi immergere nel loro mondo, quello descritto divinamente da Elizabeth Strout, mentre Flavia Biondi vi prenderebbe per mano per portarvi a Bologna (e non solo!) fra le tavole de La Giusta Mezura.

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      E poi ci sarebbero i libri di fotografia, la voglia di tornare nel mondo dell’arte così bella da ammirare dal vivo e ancora di più da sognare ad occhi aperti davanti ai libri. Dalle meravigliose foto di Sebastião Salgado raccolte in Dalla mia terra alla Terra alle Lettere appassionate di Frida Kahlo, è un continuo viaggio fra passato e presente con romanzi, come La vedova Van Gogh di Camilo Sánchez, che raccontano storie vere con quel tocco di magia in più.

      Caro Babbo Natale, che ne dici se il mio regalo quest’anno è un mese intero di letture davanti al fuocherello di un camino, seduta su una poltrona con biscotti e latte caldo vicini?

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      Posted in Letteratura e dintorni | 8 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Alice nel Paese delle meraviglie, Amy & Isabelle, Camilo Sánchez, Dalla mia terra alla Terra, Elizabeth Strout, Epopea americana, Flavia Biondi, Frida Kahlo, Giorni Selvaggi, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Joyce Carol Oates, Just Another Point, La Giusta Mezura, La vedova Van Gogh, Lettere appassionate, Nellie Airoldi, Philip Pullman, Queste oscure materie, Sebastião Salgado, William Finnegan
    • #libriinvaligia6: scrittrici da portare in vacanza

      Posted at 11:50 am07 by ophelinhap, on July 19, 2017

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      Lo so, ne avete fin sopra i capelli delle liste di libri per le vacanze (e siamo solo a luglio).

      Ho però una scusa validissima: fra trasloco, cambio lavoro e mirabolanti oscillazioni umorali, contraddistinte da mille sfumature di ansia, sono riuscita a scrivere pochissimo nel corso di questi ultimi mesi. Ho invece letto tanto: sono state tutte letture molto belle, che mi hanno intrattenuto, fatto compagnia in innumerevoli viaggi in macchina e in treno, distratto nei giorni più difficili e fatto (quasi) dimenticare l’assenza di Netflix nel mese e mezzo che ho trascorso senza Internet a casa nuova.

      Di conseguenza, vi beccate un post bello lungo, pieno di letture tutte al femminile che vi consiglio senza esitazioni, sia che ve le vogliate portare sotto l’ombrellone, sia che vogliate addolcirvi la rentrée a settembre. Pronti?

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      1)   Anything is Possible, Elizabeth Strout

      Voglio iniziare partendo dall’ultimo libro che ho letto, finora la più bella lettura del mio 2017 (e ho il sospetto che sarà difficile sostituirlo). Quella della Strout è pura magia, un viaggio sola andata nella cittadina di Amgash, in Illinois, a un paio d’ore (e parecchi universi) da Chicago.

      Amgash ha un cuore rurale, conservatore, immobile. Negli anni, tutto resta uguale a se stesso: anche gli abitanti, quelli che non sono riusciti a scappare, quelli che ce l’hanno fatta ma vivono comunque intrappolati nel passato, in gabbie arrugginite di rimorsi e rimpianti. Tutti i personaggi gravitano intorno a Lucy Barton, protagonista della precedente fatica letteraria della Strout. Lucy è riuscita ad evadere dallo squallore di un’esistenza di stenti, da una situazione familiare tesa e difficile da penetrare e comprendere, sia per lei che per i suoi fratelli; ha vinto una borsa di studio, è approdata a New York, è diventata una scrittrice di successo.

      Lucy è lo standard inaccessibile in base al quale tutti i protagonisti dei racconti si misurano: che guardino a lei con soffusa ammirazione, con malcelata antipatia o indiscriminato risentimento, la sua piccola figura vestita di nero tiene insieme le fila dei loro destini, e racconta nelle sue pagine quei fantasmi che sembrano avere infestato ogni famiglia della cittadina, pulsando come la sua arteria più viva, rifiutandosi di essere messi da parte o dimenticati.

      This was the skin that protected you from the world—this loving of another person you shared your life with.

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      2)    Radio Girls, Sarah-Jane Stratford

      Londra, 1926: la giovane Maisie è elettrizzata dalla prospettiva di iniziare a lavorare come segretaria alla BBC. è intelligente, entusiasta, timida, insicura: si ritrova improvvisamente col suo unico paio di collant e l’unico vestito buono in un ambiente smaccatamente maschilista, in cui le donne possono essere esclusivamente segretarie e stenografe e devono stare bene attente a non esprimere idee e opinioni, per non rischiare di essere immediatamente messe al loro posto dal superiore di turno. Hilda Matheson è invece una forza della natura: colta, intelligentissima, creativa, intraprendente e poco rispettosa delle convenzioni, è la prima donna manager della BBC, intenta a iniziare la conservatrice BBC alla stupefacente novità dei programmi radiofonici. Se Maisie è frutto della fantasia della Stratford, la strabiliante Hilda è invece realmente esistita: prima donna manager della BBC, ha avuto il merito di inventare il format del talk show radiofonico. Purtroppo, la Matheson viene spesso ricordata solo per le sue amanti celebri, tra cui Vita Sackville-West, che nel suo obituario la ricorda come un pony cocciuto; in Radio Girls, la Stratford vuole invece celebrarla come la straordinaria pioniera che, dopo essere stata reclutata da Lawrence D’Arabia per la celebre agenzia segreta inglese MI5, diventa la segretaria politica di Lady Astor, la prima parlamentare donna della storia del Regno Unito, e procede poi a rivoluzionare la storia della radio e della BBC.

      “Give that woman an inch and she takes the entire British Isles.”     

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      3) Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood

      Difficile sfuggire a tutte le segnalazioni che, nel corso degli ultimi mesi, hanno sottolineato il valore letterario e profetico della scrittrice canadese. Io ho letto Il racconto dell’ancella tutto d’un fiato andando in macchina da Lussemburgo a Parigi (sono una di quelle fortunata persone che riescono a leggere in macchina, bus, aereo, vasca da bagno e forse anche sommergibile), affascinata e terrorizzata. Affascinata, perché è impossibile non cedere al ritmo della narrazione della Atwood; terrorizzata, perché, tra Trump e Family Day vari, la distopia di una dittatura in cui il valore delle donne diventa unicamente la loro capacità di riprodursi (senza amore, senza consapevolezza, senza speranza, senza scelta) e la donna stessa viene ridotta a incubatrice senza sentimenti sembra tristemente più possibile di quanto dovrebbe.

      Come nel caso dell’orrore descritto da Orwell in 1984, le pagine della Atwood diventano un memento dei mostri generati dal sonno della ragione, degli incubi che si materializzano in un mondo senza amore e senza rispetto della dignità umana. Offred, Ofglen e le altre ancelle,  perennemente vestite di rosso per esaltare la loro condizione di donne fertili, hanno perso il diritto ad avere un nome, adottando una sorta di patronimico che indica la loro appartenenza a una casa, a un padrone, a una ‘famiglia’. Una frase in latino maccheronico, Nolite te bastardes carborundorum (non lasciare che i bastardi ti schiaccino) diventa il motto della protesta delle ancelle, più o meno nascosta e silenziosa, e del loro desiderio di riappropriarsi della propria identità e di amare, ancora.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate nella traduzione di Camillo Pennisi, edito da Ponte Alle Grazie. Non ho ancora guardato la tanto discussa serie tv di Hulu tratta dal romanzo (ho appena finito la nuova stagione di House of Cards e quella di Orange is The New Black, e aspetto la domenica con ansia per guardare la terza stagione del mio amato Poldark): qualcuno di voi l’ha vista? Me la consigliate?

      Se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna. È difficile resistere, credimi. Ricorda, però, che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, forse il più grande.

      Non si tratta del controllo di una persona sull’altra. Forse non si tratta di chi può stare seduto e di chi deve invece inginocchiarsi, alzarsi o sdraiarsi, a gambe divaricate. Forse si tratta del potere di fare qualcosa e poi essere perdonato.

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      4) Le cure domestiche, Marylinne Robinson

      Non avevo mai letto la Robinson prima, ed è stato amore: Le cure domestiche è una malinconica riflessione sulla perdita e sulla memoria, piena di poesia e di nostalgia.

      È un romanzo d’acqua: uno dei protagonisti principali è il lago dell’oscura cittadina di Fingerbone, nel Midwest americano, che ha inghiottito numerose vite e permette ai fantasmi di riaffiorare in superficie, facendo in modo che il tempo diventi circolare e che sia abitanti che passanti cedano alle lusinghe del passato. È anche un romanzo sull’adolescenza, sulla ricerca di identità, sulla ricerca di risposte, sul disperato bisogno di conformarsi, di smettere di sentirsi un pesce fuor d’acqua (per rimanere nella metafora marina): le due sorelle Ruth e Lucille indossano il lutto per la perdita della madre, morta suicida nel lago, come un rivestimento coriaceo pesante e soffocante, che impedisce loro di crescere e di sbocciare nelle giovani donne che vorrebbero diventare.

      Sylvie, la stramba zia dalla vocazione errabonda alla quale le due ragazzine vengono affidate, cerca di ovviare alla loro vita disordinata e senza certezze attraverso le sue bizzarre cure domestiche, che sembrano rafforzare l’idea che tutto scorra, come l’acqua, tutto sia passeggero, e che nemmeno l’idea di casa possa arginare questa precarietà.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate in italiano nella traduzione di traduzione di Delfina Vezzoli per Einaudi.

      La forza che sta dietro il movimento del tempo è un lutto che non sarà confortato.

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      5) Lila, Marilynne Robinson

      Galvanizzata dalla lettura di Le cure domestiche, sono andata avanti con Lila, che mi sono regalata per il mio compleanno. Avrei dovuto invece rimandare la lettura: Lila è il terzo volume della trilogia di Gilead (preceduta da Gilead e Casa, tutti pubblicati da Einaudi).

      Poco male: anche questa lettura mi ha incantato. Come le sorelle di Le cure domestiche, anche Lila non ha radici né passato: viene allevata da Doll, una solitaria vagabonda con uno sfregio sul viso e la paura nel cuore. Doll le regala un nome – Lila appunto, un cognome – Dahl, che altro non è che la storpiatura del nome di Doll e che regala alla ragazzina un passato immaginario dal vago sentore scandinavo.

      Lila è intelligente, solitaria, totalmente indipendente e autosufficiente: viaggia leggera, vestitino e coltellaccio dal manico arrugginito, in compagnia dei suoi pensieri. Un giorno arriva nella sperduta Gilead, il cui nome biblico evoca la straordinaria natura dell’esperienza che Lila sta per vivere: l’amore, nella persona di un reverendo che ha il doppio dei suoi anni e porta con sé un bagaglio doloroso. E Lila, selvaggia e solitaria, si ritrova da un giorno all’altro sposata e deve imparare, per la prima volta nella vita, a condividere le sue giornate e i suoi pensieri. Soprattutto, Lila deve imparare a farsi amare. Lui la ama: di un amore intenso e silenzioso che, secondo i dettami della Bibbia, tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta: anche il passato da prostituta di Lila, anche i suoi tentativi di fuga, anche i suoi silenzi testardi. È un amore umile, che si nutre di piccole cose: il profumo di un maglione appoggiato sulle spalle; la passeggiata insieme, quando lui torna dal lavoro; le conversazioni sulle rose del giardino, e quelle sull’immortalità dell’anima.

      Ho letto il romanzo in lingua originale, ma lo trovate in italiano nella traduzione di traduzione di Delfina Eva Kampmann per Einaudi.

      Era bellissimo sentirlo camminare al suo fianco. Bello come il riposo e il silenzio, come qualcosa di cui potevi fare a meno ma di cui avevi comunque bisogno. Di cui dovevi imparare a sentire la mancanza, per poi non smettere mai di sentirla.

      Credo di avere qualcosa che non va, vecchio. Non riesco ad amarti quanto ti amo. Non riesco a essere felice quanto lo sono.

      Siete riusciti ad arrivare fino a qui? Oltre a complimentarmi con voi per l’impavido coraggio, e buone letture!

      Soundtrack: Those Lazy Crazy Hazy Days of Summer, Nat King Cole

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      Posted in Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Anything is possible, BBC, BBC radio, Elizabeth Strout, Hilda Matheson, Housekeeping, Il racconto dell'ancella, Le cure domestiche, Lila, Lucy Barton, Margaret Atwood, Marilynne Robinson, Radio Girls, Sarah Jane Stratford, The Handmaid Tale, Vita Sackville-West
    • Un’ora con…Norma Amitrano di Il soffitto si riempie di nuvole

      Posted at 11:50 am10 by ophelinhap, on October 25, 2016

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      Quello di Norma è un bel mondo.

      È un mondo colorato, pieno di intraprendenza, di fantasia e di creatività.

      È un mondo delicato, intessuto di ricordi e memorie leggere come quelle nuvole che riempiono il soffitto del blog.

      È un mondo genuino, creato da una persona che non si sforza di adattarsi alle mode e non cerca di piacere a tutti i costi, ma rimane se stessa, sempre.

      È un mondo ironico, in cui spesso l’ansia fa capolino, ma viene decostruita e sdrammatizzata con leggerezza.

      Ora però ve lo faccio raccontare da Norma, il suo mondo, che è meglio.

       

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      Il soffitto si riempie di nuvole: come e perché?

      Quando ero adolescente scrivevo poesie. In ogni classe che si rispetti c’è sempre la ragazzetta pallida col trucco sbavato di nero che scrive poesie, nella mia classe si era deciso che dovessi essere io. Di solito si trattava di versucoli malinconici, pervasi da quello che mi pareva spleen ma in realtà erano i 17 anni. Ogni tanto, però, sbucavano dal nulla sprazzi di speranza, colori chiari, cieli azzurri, voli di rondini, soffitti pieni di nuvole.

      E infatti Il soffitto si riempie di nuvole è il verso iniziale di un componimento, per il resto dimenticabile, che dovrei aver scritto da qualche parte in un diario del 2005.

      Non mi è più tornato in mente fino al 2011, quando decisi di aprire un blog. Non sapevo cosa mai avrei potuto scriverci dentro, sapevo solo che doveva essere azzurro e leggero.

       

      Chi c’è dietro Il soffitto si riempie di nuvole?

      Norma, 30 anni, perenne indecisa e perfezionista, di fronte alla richiesta di una presentazione si blocca come un cerbiatto che ha appena udito un fruscio tra le foglie, certo della morte imminente.

      Questa presentazione in particolare l’ho cominciata, penso, 720 volte.

      Sono curiosa, cocciuta, idealista e suscettibile. Il mio ruolo nel mondo è dare risposta alla domanda “Insicurezza e narcisismo sono conciliabili?” 1

      Lavoro come copywriter e come barista, a volte nello stesso momento.

      Leggo appena posso, cammino sempre, potrei essere presa come testimonial delle linee di autobus della mia città.

      Sono afflitta da una lieve ossessione per i quaderni: ne ho uno per ogni occasione. Il mio primo diario risale al 1994. Rileggendoli a distanza di tempo, scopro che ci scrivo dentro quasi sempre le stesse cose: “Cambierò? Migliorerò? Supererò questo e quest’altro? Diventerò all’improvviso una persona meno ansiosa?” 2

      Amo i travestimenti, la recitazione e il teatro. Sì, amo anche il palcoscenico, camminare finalmente sulle assi di legno diseguali dopo mesi di prove in uno stanzone, sentire il calore delle luci sulla testa e l’odore polveroso del sipario nelle narici, mettermi nei panni del personaggio, guardarmi allo specchio e riconoscermi. Sì, sono reduce da uno spettacolo, non parlatemi della realtà, è troppo difficile.

       

      1 La risposta è naturalmente sì

      2 La risposta è naturalmente no

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      Il tuo scaffale d’oro

      Lo prendo e lo spargo sul tavolo, mescolando le età, facendo incontrare i personaggi tra di loro.

      Ci sono Le correzioni di Franzen, Revolutionary Road di Yates, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Ci sono Anna Karenina ed Emma Bovary. Oh, e c’è Lolita. E Julien Sorel, mio adorato stronzetto, dove ti eri nascosto?

      C’è Neil Gaiman che sa sempre in quale mondo portarmi a spasso.

      C’è Harry Potter: ho iniziato a leggerlo solo un anno fa, mi chiedo perché non l’abbia fatto prima. C’è Sylvia Plath, sempre e da sempre. C’è Rimbaud, che, anche se non lo leggo da anni, è ancora lì che passeggia mani in tasca, Petit-Poucet rêveur. Ci sono i Wu Ming. C’è Calvino con le sue città invisibili, c’è L’isola di Arturo col suo incanto senza fine.

      Ci sono i libri di quando ero bambina, come Piccole donne o qualsiasi romanzo di Bianca Pitzorno, Le streghe di Roahl Dahl, Il Mistero di Agnes Cecilia di Maria Gripe (che ha decisamente vinto il premio di Libro più letto dalla sottoscritta).

       

      Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Per motivi che prima o poi mi diventeranno lampanti, tendo a immedesimarmi quasi sempre nei personaggi antipatici e insopportabili. Inizia subito un rapporto d’odio che si trasforma piano piano in comprensione e infine in riconoscimento.

      Mi è successo soprattutto con Emma Woodhouse, la protagonista del romanzo di Jane Austen, che mi ha messo di fronte a uno specchio con questa frase:

      “Che cosa meritate?”
      “Oh, merito sempre il trattamento migliore, perché non ne accetto altri.”

      Mi sono sentita e mi sento tuttora Emma Bovary, Julien Sorel, Cathy Earnshaw – irrequietezza allo stato puro.

      Alle elementari, invece, mi immedesimavo decisamente in Harriet la spia, la protagonista di Professione? Spia! di Louise Fitzhugh, tant’è che per un periodo me ne sono andata in giro scrivendo sul taccuino ogni cosa o movimento che vedessi, alla ricerca di chissà quali scoop di paese.

      Se invece dovessi scegliere il personaggio di una serie, la parte di me più altera e snob sta già trasformandosi in Lady Mary mentre scende la scalinata di Downton Abbey. E lì siamo ben oltre l’antipatia e l’insopportabilità, ma sarei abbigliata benissimo e andrei a cavallo e potrei finalmente alzare il sopracciglio con aria di superiorità di fronte alla maggior parte delle cose della vita – sarebbe bellissimo.

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      Termino col personaggio di un film che amo molto: Ofelia de Il labirinto del fauno. Le lacrime che piango quando lo guardo sono per lei e per me.

      (Perdonami Manuela, tu mi hai chiesto un personaggio, io te ne ho scritti 79. E pensare che all’inizio non me ne veniva in mente neanche uno!) Ma figurati! Anzi, come sempre, mi stupisco della quantità di cose che abbiamo in comune…)

       

      Se il tuo blog fosse una canzone…

      Nothing brings me down di Emiliana Torrini. Mi piacerebbe riuscire a trasmettere la stessa dolcezza e purezza, lo stesso incanto.

      Invece, se il mio blog fosse il pezzo che ascolto quasi sempre quando scrivo, sarebbe Friends of the night dei Mogwai (messo su in loop fino a che non ho finito, se no l’atmosfera cambia e la qui presente autrice della domenica perde l’ispirazione).

       

      Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Ho sempre amato scrivere, ma ammetto con candore che da bambina era più facile. Se la mia testolina pensava a una storia, dopo cinque minuti la mia mano la stava scrivendo. Ho avuto la fase “Storie a tema miominipony” e la fase “Storie del mistero”, in cui impavidi gruppi di dodicenni risolvevano questo o l’altro caso, di solito dopo essere scappati di casa.

      Questo rapporto ideale si è incrinato crescendo, quando sono sopraggiunte domande esistenziali come “Ma perché mai dovrei fare lo sforzo di scrivere questa scemenza?”.

      L’abitudine di scrivere per me stessa però non l’ho mai persa: non viaggio mai senza il mio diario, bisognerebbe avere sempre qualcosa di sensazionale da leggere in treno, direbbe la mia cara Gwendoline Fairfax.

      Per lavoro, mi è capitato di scrivere di qualsiasi argomento, pure di biomagneti e urne funerarie (non necessariamente nello stesso testo).

      Sul blog, scrivo soprattutto per desiderio di leggerezza. La domanda di cui sopra continuo comunque sempre a farmela.

      La lettura ha seguito all’incirca le stesse fasi: esplosione da bambina, timore misto a senso di colpa crescendo. Ho ricominciato a leggere con tranquillità e gusto solo da alcuni anni. Forse non leggo tanto quanto vorrei, ma non me ne faccio un cruccio. Mi distraggo facilmente e se in testa ho altri pensieri, altre storie o qualcuna delle mie fantamirabolanti idee geniali, non riesco a mettermi col naso su un libro.

      Detto ciò, sono una lettrice viziata: a casa ho una sessantina di libri ancora da leggere e sono capace di non trovare nulla che possa concorrere al titolo di Prossima Lettura.

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      Progetti in cantiere

      Il mio blog è un cantiere perenne, anche se non si vede. Da mesi mi ripeto che devo dargli una sistemata, ma rimando e rimando e rimando. A giugno mi ero promessa che entro settembre l’avrei fatto. No, non fatemi notare che ormai è ottobre.

      Ho delle rubriche in mente e vorrei portarle avanti con costanza, che non è di certo una delle mie virtù principali. Ad esempio, ci sono Le guide definitiveLe guide definitive, ovvero: come affrontare cose più o meno pratiche della vita di tutti i giorni se sei una persona poco pratica come la sottoscritta. Però non posso programmarle, perché mi vengono in mente sempre e solo quando è troppo tardi e sto già sclerando e l’unico modo per superare la frustrazione è riderci su scrivendo.

      Una rubrica iniziata e subito abbandonata (forse perché nata nel momento sbagliato) è Interviste tra le nuvole. L’idea era quella di andare a trovare persone che mi piacciono che fanno cose che mi piacciono nei luoghi dove le fanno e raccontarle attraverso un’intervista libera e non programmata (quelle che di solito si chiamano chiacchiere). La vorrei riprendere, ma qualcosa mi blocca. Che dici Manuela, riparto? Sì J

      Di certo so che continuerò a invitare ospiti per la rubrica I libri dei ricordi, perché frugare tra gli scatoloni dei libri e dei momenti dell’infanzia mi fa sempre sorridere gli occhi.

      Posted in Guestpost e interviste | 9 Comments | Tagged Anna Karenina, Elizabeth Strout, Elsa Morante, emma bovary, Harry Potter, Il soffitto si riempie di nuvole, Jonathan Franzen, Julien Sorel, L'isola di Arturo, Le correzioni, Lolita, Neil Gaiman, Norma Amitrano, Olive Kitteridge, Revolutionary Road, Richard Yates, Rimbaud, Sylvia Plath
    • Un’ora con…Nellie Airoldi di Just Another Point

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 20, 2016

      Nellie è un’altra voce che mi sento di raccomandare senza alcuna esitazione: fresca, spontanea, brillante, innamorata delle verdi colline d’Irlanda, lettrice onnivora con il dono dell’ubiquità (la trovate sul blog, su Finzioni Magazine, su Salt Editions e mille altri posti ancora). Se a tutto ciò aggiungete i suoi ottimi gusti in fatto di musica e serie TV, avrete tredici buone ragioni (per parafrasare il tormentone di Zucchero) per correre a scoprirla.

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      1) Just another point: come e perché?

      Just Another Point è stata una di quelle che si chiamano scelte di vita sotto la doccia. Era il 25 marzo 2013 ed ero dottoressa in Beni Culturali da meno di una settimana quando avevo cominciato a capire che tutto quello che mi passava per la testa non lo volevo più condividere solo con i miei taccuini, e quindi un po’ per noia (la disoccupazione già mi stava stretta) e un po’ per divertimento (scrivere è un immenso piacere) ho deciso di aprire uno spazio tutto mio dove poter raccontare ciò che mi stava accadendo, ovvero il fortissimo bisogno di mettermi in gioco e pubblicare online ciò che fino a quel momento avevo fatto solo fra me e me. Il nome del blog, poi, è stata una scelta naturale in quanto il mio è semplicemente un altro dei tanti punti di vista che si trovano sul web e che negli ultimi anni sono nati e cresciuti sempre più. Anche io, però, volevo dire la mia.

       

      2) Chi c’è dietro Just another point?

      Nellie, tanta confusione ma soprattutto tanta curiosità in tutto ciò che sta nero su bianco,  soprattutto perché spero sempre di trovare fra le righe la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto, che sostanzialmente è 42 ma a me i numeri non sono mai piaciuti.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro ci sono 3 fumetti ogni 8 libri. Le storie disegnate, come quelle scritte, sono una fonte inestimabile di stimoli e proprio non riesco a rinunciarvi. Nel mio scaffale d’oro, quindi, c’è Asterios Polyp che amo infinitamente ed è il primo graphic novel che mi ha fatto innamorare. A fianco c’è Joan Didion che se la racconta con Calvino e di quella meraviglia che è Se una notte d’inverno un viaggiatore. C’è poi Mario Soldati, America Primo Amore è forse diventato uno dei miei libri preferiti, ma una vera lettrice sa di doversi tener pronta ad accettare l’arrivo di un altro capolavoro che si metterà fra i piedi come ha fatto Elizabeth Strout con Olive Kitteridge, Elena Ferrante con la sua quadrilogia, Paco Roca con la dolcezza di Rughe, Ágota Kristóf con La Trilogia di K. Insomma, lo scaffale d’oro è una vera e propria dimensione a sé stante sempre pronta a ingigantirsi e inglobare libri belli.

       

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Questa è veramente difficile. Quando lessi Nessuno Scompare Davvero mi ritrovai molto nelle parole di Elyria (“..e anzi alcune mattine, pur essendo me stessa, vorrei comunque essere una cosa che fugge lontano da me piuttosto che quella cosa cucita dentro di me per sempre”) eppure il bello di leggere è trovare la frase giusta al momento giusto quindi capita spesso di ritrovarmi nella parole di quella che magari è l’unica battuta triste di un personaggio protagonista di un libro comico. Vorrei però raccontarti un passaggio de L’anno del pensiero magico di Joan Didion e svelarti qual è la mia idea di felicità e quella che un giorno vorrei tanto provare.

       

      Il libro che aveva in mano era uno dei miei romanzi (..).

      La sequenza che lesse ad alta voce era (..) complicata (..). “Accidenti” mi disse John quando chiuse il libro. “Non venirmi mai più a raccontare che non sai scrivere. Ecco il mio dono per il tuo compleanno.”

      Ricordo che mi vennero le lacrime agli occhi.

      Le sento ancor oggi.

      Retrospettivamente, questo era stato il mio presagio, il mio messaggio, la prima nevicata, il regalo per il mio compleanno che nessun altro avrebbe potuto farmi.

       

      5) Se il tuo blog fosse una canzone..

      Una canzone di quelle che si ascoltano in treno a volume basso mentre ci si perde nel paesaggio guardando dal finestrino del treno. Potrebbe essere Holland Road dei Mumford & Sons anche se in realtà in queste settimane sto ascoltando tantissimo Free Stuff di Edward Sharpe & the Magnetic Zeros e forse sì, potrebbe essere il mio blog trasformato in canzone.

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Leggere è da anni una necessità. Ci sono mattine che il treno è talmente pieno che non riesco nemmeno a togliere il libro dallo zainetto: passare un’ora della giornata in piedi fra gente che parla dei fatti propri senza poter nuotare tra le parole mi uccide realmente. Con il tempo anche scrivere è diventato essenziale quanto la lettura, una logica conseguenza di un processo che è cominciato con il giornalino di famiglia quando ero bambina e che è cresciuto con i numerosi taccuini che si sono alternati durante gli anni delle superiori ma soprattutto dell’università. Ancora oggi non esco di casa senza un quadernetto nello zaino e una penna blu.

       

      7) Progetti in cantiere

      Scrivere scrivere scrivere! Da diversi anni collaboro con diversi magazine online, sono tutte collaborazioni che prendono il mio tempo libero ma lo faccio con molto piacere. È ciò che amo fare e non smetterò mai di crederci.

      Posted in Guestpost e interviste | 8 Comments | Tagged America Primo Amore, Ágota Kristóf, bookblogger, Catherine Lacey, Elena Ferrante, Elizabeth Strout, Finzioni Magazine, Italo Calvino, Joan Didion, Just Another Point, L'anno del pensiero magico, Mario Soldati, Nellie Airoldi, Nessuno Scompare Davvero, Olive Kitteridge, Paco Roca, Salt Editions, se una notte d'inverno un viaggiatore, Trilogia di K., un'ora con, vita da blogger
    • Un’estate in pillole di lettura

      Posted at 11:50 am09 by ophelinhap, on September 1, 2016

      Coe

      L’estate 2016 è stata un’estate aliena, almeno per me.

      Sono riuscita ad andare al mare pochissime volte (e aspetto questo momento tutto l’anno), ho fatto su e giù per l’Italia, non sono riuscita a rilassarmi e a staccare un po’ in vista di un autunno che si preannuncia lento e difficile, un boccone duro e amaro da buttare giù.

      In compenso, ho mangiato un’anguria intera guardando l’ultima serie di Orange is The New Black e, grazie al road trip molto improvvisato in un’improbabile (e scomodissima) Cinquecento, ho visitato posti bellissimi in giornate piene di sole: Salisburgo, di cui mi sono innamorata; Innsbruck, dove mi sono sentita molto Sissi; Verona, cittadina adorabile ma letteralmente infestata di turisti nei luoghi di Giulietta – sigh! Io mi aspettavo uno scenario alla Letters to Juliet, in cui incontravo le segretarie di Giulietta e magari mi univo a loro per l’estate; Lugano, dove ho riabbracciato un’amica di vecchissima data.

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      Salisburgo

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      Salisburgo

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      Innsbruck

      E ho letto, tantissimo – almeno per i miei standard. Guidare è una delle cose che mi rende più nervose, quindi sono ben contenta di fare la passeggera e leggere a più non posso – complice anche il roaming, la batteria del telefono perennemente scarica e il fatto che fortunatamente non soffra di mal d’auto. Ho letto libri che rimandavo da tempo e libri che ho ritrovato quasi per caso nella mia biblioteca Kindle: quasi tutti mi hanno piacevolmente sorpreso, tutti sono riusciti a farmi dimenticare i chilometri e spegnere il lettore solo al momento dell’arrivo (e cercare di dimenticare  le due tre canzoni che ogni stazione radio trasmetteva in continuazione: Love yourself di Justin Bieber, 13 buone ragioni di Zucchero, Be the one di Dua Lipa – chi? Dovrò andare in terapia per liberarmi di queste canzoni…)

      Juliet

      Verona, Casa di Giulietta

      balcony

      Verona, Casa di Giulietta

      Ecco quindi la mia estate, in pillole (di lettura):

      • My Name is Lucy Barton, Elizabeth Strout (pubblicato in italiano da Einaudi, traduzione a cura di Susanna Basso): decisamente tra i libri più belli che abbia letto quest’anno, e non solo. Anch’io, come la protagonista, Lucy, ho un rapporto complicato con mia madre, fatto di parole non dette – o dette male – e piccoli gesti o silenzi che sono carichi di significati reconditi. Lucy si ammala, ed è costretta a trascorrere mesi in ospedale. Sente tantissimo la mancanza delle sue bambine, mediamente quella di suo marito (che si rifiuta di andarla a trovare, adducendo come pretesto la sua antipatia per gli ospedali). Un giorno Lucy riceve una visita a sorpresa: quella di sua madre, direttamente dalle campagne dell’Illinois. Il particolare che mi ha fatto più tenerezza è questo: per tutti i cinque giorni di permanenza all’ospedale, la madre di Lucy rifiuta ostinatamente la brandina che le viene offerta e dorme sulla sedia, quando le capita, aprendo gli occhi al primo movimento della figlia. La tela di silenzi tra le due è così intrecciata, la loro estraneità così consolidata che la madre di Lucy cerca rifugio nelle storie che le racconta: storie di persone che hanno toccato la vita di entrambe e che vanno a ricreare ed animare la cittadina di Amgash, Illinois, dalla quale Lucy era scappata appena possibile. Il loro tormentato rapporto e la decisione della madre di andarsene proprio quando Lucy è fragile e spaventata e ha più bisogno di lei ricorda al lettore quanto sia difficile evadere da modelli di comportamento che si sono consolidati negli anni, quanto sia difficile aprirsi di nuovo, davvero. Quanto sia difficile essere figlia, essere madre.
      • Belgravia, Julian Fellowes (pubblicato in italiano da Neri Pozza, traduzione a cura di Simona Fefè): siete aficionados di Downton Abbey? Allora ci sono tutti gli elementi perché Belgravia vi possa piacere: guerra, intrighi, matrimoni fasulli che poi non si rivelano tali, figli illegittimi ma nemmeno tanto, balli, macchinazioni, eredità, afternoon tea, sete e crinoline, amanti, tentati omicidi, criminali fuggitivi. Le vicende narrate sono inizialmente ambientate a Bruxelles, prima dell’arrivo di Napoleone e della battaglia di Waterloo; c’è poi un salto temporale di venticinque anni e l’azione si sposta a Londra, dove assistiamo alla nascita di Belgravia, uno dei quartieri più belli della città (che oggi ospita tra l’altro l’Istituto Italiano di cultura).
      • Fried Green Tomatoes At The Whistle Stop Cafe, Fannie Flagg (in italiano Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop, pubblicato da BUR nella traduzione di Olivia Crosio): arrivata a questo punto mi tocca una vergognosa confessione. Non solo non avevo mai letto il libro: non ho nemmeno visto il film (mi tocca riparare, lo so, lo so). Si tratta di una storia dentro la storia, o, meglio ancora, di un contenitore di storie: Evelyn, donna di mezza età in preda alla depressione e alla menopausa, diventa – suo malgrado – amica dell’irresistibile Ninny Threadgoode, che le fa compagnia nelle interminabili visite alla suocera in una casa di riposo, facendo rivivere per lei il caffè di Whistle Stop e le sue storie. Evelyn così si ritrova catapultata negli anni trenta, in compagnia della bellissima Ruth, l’impetuosa Idgie e il loro piccolo Stump. Idgie e Ruth gestiscono il caffè e offrono agli avventori buon cibo e generosità, risate e perfino l’occasionale omicidio. Le storie narrate dalla signora Threagoode fanno venire voglia di saltare su un aereo e andare a visitare l’Alabama, nonché assaggiare i tanto decantati pomodori verdi fritti (qualcuno li ha mai mangiati? Come sono?), i biscotti al buttermilk e il cobbler di mirtilli. Bonus per i foodie: in appendice trovate le ricette del Whistle Stop Cafè.
      • Tra le infinite cose, Julia Pierpoint (pubblicato da Mondadori, traduzione a cura di Carlo Prosperi): se nella prima metà rischia di essere l’ennesimo romanzo americano a base di famiglie disfunzionali, tradimenti e adolescenti difficili, appesantito da uno stile non sempre scorrevole e da continui salti temporali, nella seconda metà si riscatta egregiamente grazie alla figura di Kay, l’impacciata, confusa figlia dei due protagonisti, Deb e Jack. Deb è un’ex ballerina che, arrivata ai quaranta, inizia a chiedersi come sarebbe andata la sua vita se non avesse mollato le punte per sposare Jack, specie dopo il suo ultimo, doloroso tradimento; Jack è un artista di mezz’età in crisi con alle spalle una mostra fallimentare e il fantasma della sua ex amante. Kay incarna la confusione, l’inquietudine, il dolore dello sgretolamento del matrimonio dei suoi genitori, ricorrendo a gesti incomprensibili per rendersi visibile ai loro occhi e a quelli del fratello Simon, che trova invece rifugio nell’erba e nelle ragazze. Il titolo del libro è tratto da una bellissima poesia dell’americano Galway Kinnell:

       

      “Testolina addormentata che germoglia capelli alla luna,

      quando ritornerò

      usciremo insieme,

      cammineremo insieme

      tra le infinite cose,

      ciascuno segnato troppo tardi da questa consapevolezza, il salario

      del morire è l’amore“.

      • Funny Girl, Nick Hornby ( qui in italiano, trad. a cura di Silvia Piraccini): non aspettatevi il Nick Hornby di About a boy o Non buttiamoci giù, ma una penna più matura che, attraverso la storia della starlette Barbara e della troupe della serie TV di cui diventa la protagonista, ricostruisce un pezzo di storia e cultura britannica attraverso l’evoluzione della televisione e dei gusti degli spettatori. Non si tratta della storia di Barbara, ma della storia di un’epoca: la nascita e il successo di una serie tv in una Londra che inizia ad essere la città che non dorme mai, fulcro ed epicentro di ogni nuovo movimento artistico e manifestazione culturale. È un romanzo lento e nostalgico, pervaso della malinconia dei tempi che cambiano, e delle persone che spesso non riescono a stare dietro al flusso instancabile di novità, e a cambiare con esse. Il nuovo Hornby mi ricorda un po’ Jonathan Coe nella sua volontà di dissezionare la società britannica e studiarne le evoluzioni e involuzioni più intrinseche ed invisibili all’occhio nudo (leggete sotto).
      • The Rotters’ Club:, Jonathan Coe (La banda dei brocchi, pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di R. Serrai): adoro Coe e lo considero il massimo scrittore inglese vivente, una delle poche voci della narrativa contemporanea capace di fare della vera critica politica e sociale, di smascherare le bugie, il classismo, il razzismo di una società, quella britannica, che a volte sembra ancora vivere nell’illusione dell’impero coloniale (Brexit docet). Ne La banda dei brocchi, che ho riletto in originale a un paio d’anni dalla prima lettura, le storie dei fratelli Rotter (l’aspirante intellettuale Ben, l’inquietante fratellino Paul, sfegatato conservatore a soli nove anni, la sfortunata sorella Lois, reduce da un terribile incidente) raccontano in realtà la storia dell’Inghilterra degli anni settanta, tra scioperi, movimenti operai e IRA, guerra di classe e avvento dell’era Thatcher, in un mondo che pare disgregarsi e le cui contraddizioni non fanno che esacerbare le difficoltà dell’adolescenza e della scoperta di se stessi. La banda dei brocchi fa parte di una sorta di trittico, di cui Circolo chiuso è il seguito cronologico (arrivando fine alla sciagurata decisione di Blair di intervenire nella guerra in Iraq), mentre La famiglia Winshaw costituisce un pezzo a sé stante, un ritratto degli sconvolgimenti sociali derivanti dalla sfrenata politica liberista attuata da Margaret Thatcher, i cui disastrosi effetti sono incarnati dai disfunzionali, eccentrici membri della famiglia Winshaw. I Winshaw ritornano anche nell’ultimo capolavoro di Coe, Numero undici, un intricato labirinto di storie e allusioni dal finale inaspettato. Inutile dire che ve li consiglio tutti, di cuore.
      • Americanah, Chimamanda Ngozi Adichie (pubblicato in italiano da Einaudi, traduzione a cura di Andrea Sirotti): questo è uno di quei libri che mi aspettavo di amare moltissimo. Invece mi è piaciuto, ma con moderazione. Lo stile dell’autrice non mi ha permesso di immedesimarmi – come faccio sempre quando un libro mi piace tanto – nel personaggio di Ifemelu, nelle sue difficoltà a ambientarsi e costruirsi una vita in America, nella sua apparentemente incomprensibile decisione di tornare in Nigeria, anche nella speranza di ritrovare il primo amore, Obinze, ormai sposato e dedito a una proficua carriera di dubbia legalità.
      • Harry Potter and The Cursed Child/em> (in italiano Harry Potter e la maledizione dell’erede, in uscita il 24 settembre nella traduzione di L. Spagnol per Salani): sicuramente non si tratta dell’ottavo volume della saga del mago più famoso del mondo, colui che è riuscito a sopravvivere all’ira funesta dello spietato Voldemort. Tanto per cominciare, non si tratta di un romanzo, ma di un’opera teatrale; inoltre, il protagonista non è Harry, ma suo figlio Albus (un Serpeverde!), il cui migliore amico è il timido, impacciato figlio dell’arci-nemico di Potter, Draco Malfoy. Scorpius, l’erede della dinastia dei Malfoy, non ha una vita molto facile ad Hogwarts, dove aleggia il sospetto che lui sia figlio di Voldemort in persona e Bellatrix Lestrange; lo stesso Albus, poco atletico e abbastanza impacciato negli incantesimi, vive nell’ombra del celeberrimo padre, condizione che lo fa soffrire non poco. I due si imbarcano in una serie di rocamboleschi viaggi nel tempo, che, se da una parte disturbano il tessuto narrativo e la sua continuità, sarebbero davvero interessanti da vedere a teatro. In realtà, mentre leggevo il copione (che si legge tranquillamente in un paio d’ore), non potevo fare a meno di pensare a quali soluzioni e quali effetti speciali possano essere utilizzati durante lo spettacolo per scene come la seconda prova del Torneo Tre Maghi, che si svolge quasi interamente sottacqua (nel lago nero). The Cursed Child non è un capolavoro, ma è godibile e permette al lettore di sbirciare nella vita di Harry adulto, nel suo difficile rapporto col figlio Albus Severus, nel suo matrimonio – d’altro canto, tutti noi lettori coltiviamo una sorta di istinto voyeuristico per i nostri personaggi preferiti…

      Mi piacerebbe tantissimo vederlo a teatro, ma è sold out fino a maggio 2017, quindi non mi resta che continuare a partecipare alle lotterie che si tengono ogni tanto su Pottermore o sul sito dello spettacolo.

      Nel frattempo vi auguro un ottimo inizio, e un settembre pieno di belle letture.

      potter

      Bonifati, Calabria

      Bonifati, Calabria

      Posted in Ophelinha legge | 13 Comments | Tagged About a boy, Americanah, Belgravia, Bur, Calabria, Chimamanda Ngozi Adichie, circolo chiuso, Downton Abbey, Elizabeth Strout, Feltrinelli, Fried Green Tomatoes at the Whistle Stop Café,, Funny Girl, Galway Kinnell, Harry Potter and The Cursed Child, Harry Potter e la maledizione dell'erede, innsbruck, Jonathan Coe, Julia Pierpoint, Julian Fellowes, La banda dei brocchi, la famiglia winshaw, le segretarie di giulietta, Margaret Thatcher, Mondadori, My name is Lucy Barton, Nick Hornby, Non buttiamoci giù, number 11, Orange is the new black, Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop, R. Serrai, Romeo e Giulietta, salisburgo, the closed circle, the rotters'club, Tony Blair, Tra le infinite cose, verona
    • Un’ora con…Ophelinha

      Posted at 11:50 am05 by ophelinhap, on May 27, 2016

      me

       

      Questa puntata di Un’ora con è un po’ fuori dalle righe e diversa dalle altre, perché a rispondere alle domande…sarò io 😉

      È da tempo infatti che volevo fare un po’ il punto della situazione: parlare di com’è nato il blog, come si è evoluto nel corso degli anni, come vorrei che continuasse a cambiare. Avrei voluto farlo a novembre, in occasione del quarto compleanno del blog, ma eravamo in fase di preparazione del calendario dell’Avvento letterario, un’esperienza molto divertente che spero di ripetere anche quest’anno (voi della ciurma, ci sarete tutti, vero?)

      Approfitto dell’occasione anche per parlare un po’ di me: sono schiva, riservata e mi viene sempre più facile nascondermi dietro Ophelinha che far venire fuori Manuela. Voglio provare comunque a mettermi, per una volta, dall’altra parte e provare a raccontarmi. Pronti?

       

      1) Impressions chosen from another time: come e perché?

      Il mio blog nasce in un brumoso pomeriggio del lontano novembre 2011. Avevo già scritto su altri blog e testate (tipo qui o qui), occupandomi prevalentemente di politica europea; quando poi questa passione è diventata anche un po’ (all’incirca pressappoco) il mio lavoro, ma non nei termini o nelle misure che speravo (quasi per niente), ho sentito la necessità di dare sfogo ad altre passioni che mi rappresentassero maggiormente: la lettura, la letteratura, la scrittura, il cinema, il teatro.

      Avevo un numero imprecisato di quaderni pieni di appunti, poesie, racconti, e ho pensato – anche per smettere di perderli – di iniziare a ricopiarli in questa sorta di finestrella virtuale che mi era creata su blogger. Vorrei poter dire che la ragione per cui ho iniziato a scrivere sul blog è qualcosa di eroico, nobile ed elevato, ma non è così: era un pomeriggio di novembre, mi ero ri-trasferita da circa un annetto (dopo aver vissuto a Roma, Londra, di nuovo Roma, di nuovo Londra, di nuovo Roma e una prima volta a Bruxelles), c’era un sacco di nebbia e faceva freddissimo. L’inverno 2011 è stato il secondo inverno più freddo di quelli che ho trascorso in Belgio: ha nevicato fino ad aprile e per me è stata dura abituarmi sia al freddo che a un contesto professionale molto diverso.

      Nel primo post ho copiato semplicemente una poesia che avevo scritto a Londra nel 2008, Un altro finale, perché era quello che mi auguravo: di trovare il mio lieto fine, un posto in cui stare bene, un lavoro che mi appagasse, un contesto socio-professionale (e climatico) che mi si confacesse di più. Non l’ho ancora trovato (segno che dovrei ritirarmi nella campagna inglese e fare l’eremita) e mi auguro ancora esattamente le stesse cose, ma da un annetto a questa parte ho iniziato a provarci sul serio, e spero di trovare presto quello che sto cercando.

      Il titolo del blog è tratto da una canzone di Brian Eno, By this river, colonna sonora de la stanza del figlio di Nanni Moretti. Amo le canzoni malinconiche (sono un’allegrona), e il testo di By this river è davvero bellissimo, oltre a riflettere lo stato d’animo in cui mi trovavo nel periodo in cui ho aperto il blog (e in cui mi ritrovo a momenti alterni): così confusa e lontana dalle cose importanti per me da sentirmi con la testa sott’acqua, cercando di carpire l’eco di parole troppo lontane per risultare intellegibili (suona drammatico, lo so, ma non lo è: abbiate pazienza, sono una drama queen) .

       

      2) Chi c’è dietro Impressions chosen from another time?

      Ci sono io, Manuela. C’è Ophelinha, che è nata come una crasi tra l’ineffabile Ofelia shakesperiana, scritta all’inglese (Ophelia) e la malinconica Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa. L’incomprensibile grafia vuole essere metà anglofona, metà lusofona: finora quasi nessuno è riuscito a scriverla correttamente, ma non riesco a liberarmene, per ragioni che ora cerco di spiegarvi. Abbiate pazienza, e sopportatemi!

      L’eteronimia mi ha sempre affascinato: ho iniziato a studiare il portoghese al secondo anno di università e mi sono innamorata di Pessoa. Ophelinha (Pequena, scritto come nella versione portoghese, perché Pessoa, tra altri nomignoli e vezzeggiativi, chiamava la fidanzata “la sua piccola Ofelia”) è diventata per me un posto felice, un repositorio di cose belle nel quale rifugiarmi e dietro al quale nascondere la mia timidezza (Lucio Battisti usava i suoi ricci, io uso Ophelinha, anche un po’ i ricci, a dire il vero). Ophelinha è un po’ la regina di quelle storie d’amore infelici e contrastate di cui ho sempre voluto farmi paladina, ed è rétro e antiquata quanto basta per piacermi.

      Dietro Ophelinha c’è Manuela, timida, disordinata, idealista, donchisciottesca, nevrotica, insonne, perennemente alla ricerca di qualcosa.

      Amo leggere, scrivere quando ne ho voglia, viaggiare (specie se si tratta di andare a Londra, il mio posto preferito in assoluto, o se si tratta di andare da qualche parte dove c’è il mare e possibilmente il sole). Amo il teatro (ho fatto parte di un gruppo anglofono fino a due anni fa e mi manca un sacco), la campagna inglese, i frullati di frutta, un buon vino bianco (aziende vinicole, vero che volete farvi sponsorizzare da me?), la focaccia, la musica di Leonard Cohen e di Joni Mitchell (non ascolto solo musica deprimente, lo giuro).

      Mi interessano la politica internazionale e il mondo della comunicazione e dei new media, che sto cercando di approfondire, essendo da qualche mese tornata a studiare.

      Non amo le polemiche (specie quelle sui social media – a cui comunque sono troppo pigra per rispondere), i posti troppo affollati, la mancanza di gentilezza, l’opportunismo, l’arroganza, il freddo e la neve. Sto cercando di trovare il giusto equilibrio tra l’eccesso di condivisione e l’essere diventata una privacy freak: le cose più belle e personali, però, me le tengo per me, ben strette.

       

      3) Il tuo scaffale d’oro

      Nel mio scaffale d’oro metterei in primis i libri che mi hanno insegnato ad amare la lettura: Piccole donne di Louisa May Alcott, Cime tempestose di Emily Brontë, tutta Jane Austen. Ci sarebbe tanta poesia: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Federico García Lorca, Eugenio Montale, Jacques Prévert, TS Eliot, Sylvia Plath, Emily Dickinson, ee cummings, Wislawa Szymborska, Leonard Cohen, Pablo Neruda, solo per citarne alcuni. Ci sarebbero le lettere di Pessoa alla fidanzata e quelle di Sylvia Plath alla madre. Ci sarebbero i racconti di Alice Munro e l’Ernest Hemingway di Addio alle armi, Per chi suona la campana e Fiesta. Ci sarebbe l’incredibile Gabo con le meraviglie di Macondo e l’idilliaca Port William di Wendell Berry. Non potrebbe mancare una rappresentanza russa, Anna Karenina e Lolita in cima al mucchietto. Ci sarebbe un libro che ho amato in un momento particolare della mia vita, L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, qualche biografia e qualche bella saga familiare, tipo I viceré di De Roberto. Non potrebbe mancare qualche testo teatrale – l’Amleto shakespeariano, Casa di bambola di Ibsen, La Locandiera di Goldoni per un amarcord di tutto rispetto. Ci sarebbe Il grande Gatsby, col suo finale che mi fa rabbrividire ogni volta che lo leggo, e L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. Ci sarebbero vecchi amici – La coscienza di Zeno di Svevo, il Coe de La banda dei brocchi e La casa del sonno, Via col Vento della Mitchell, Sostiene Pereira di Tabucchi, nuovi amori – Jonathan Franzen, nuove scoperte – Miriam Toews e Elizabeth Strout.

      E ci sarebbe un bel po’ di spazio per i libri che verranno.

      libri

      4) Un personaggio in cui ti immedesimi particolarmente

      Sono un po’ Ofelia, un po’ Rossella O’Hara di Via col Vento: testarda, ostinata, sono bravissima a fare pessime scelte e a rimpiangerle per molto, moltissimo tempo. La mattina del mio ventiquattresimo compleanno ho trovato sulla porta della mia stanza (abitavo in uno studentato) un post-it con l’aggettivo quixotic, e non a torto: ho in comune con Don Chisciotte la tendenza a battermi per le cause perse  e a essere romanticamente idealista (e a sentirmi fuori posto abbastanza spesso).

      5) Se il tuo blog fosse una canzone…

      …sarebbe la canzone che gli ha dato il titolo (vedi risposta uno), con un tocco di Famous blue raincoat di Leonard Cohen e di Both sides now di Joni Mitchell (cantata a squarciagola sotto la doccia).

       

      6) Il tuo rapporto con la scrittura/con la lettura

      Con la lettura è sempre andata abbastanza bene, anche se il trucco nel mio caso è trovare il libro che funzioni a seconda delle situazioni, ispirazioni, stati d’animo, livelli di stress e stanchezza.

      Con la scrittura è molto più altalenante: non scrivo quando non ne ho voglia, non scrivo quando non ho effettivamente qualcosa da dire. La scrittura – specie quella personale, che non va a finire necessariamente nel blog, almeno per ora – va spesso per me di pari passo con stati d’animo riflessivi e malinconici: per dirla con Luigi Tenco (o Bruno Lauzi, dato che non ci si mette d’accordo sulla paternità di questa citazione), quando sono felice esco.

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      7) Progetti in cantiere

      Mi piacerebbe tornare a dare al blog un taglio più personale: parlare di letteratura e raccontare storie mettendoci anche pezzi di me. La realtà è che, al momento, scrivo prevalentemente lettere di motivazione da affiancare al curriculum, e, per quanto inizi seriamente a pensare che alla redazione di cv e affini andrebbe dedicato un intero genre, non credo che il mondo sia ancora pronto a canonizzarlo. In definitiva, mi tocca mettermi a ricercare la mia voce eccetera, sperando che il processo non sia troppo lungo o doloroso e che non includa meditazione o affini (ho provato a meditare una volta e sono andata in spin: devo pensare a un posto felice – non mi viene in mente un posto felice – ma ho attaccato la lavatrice stamattina? – ma che ansia.)

      Vorrei anche ripetere a dicembre il calendario dell’Avvento letterario e continuare a organizzare iniziative insieme a gente che mi piace.

       

      Sono prolissa, lo so. Se siete arrivati fino a qui sotto meritate un premio 😉

       

      Posted in Guestpost e interviste | 7 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Addio alle armi, Antonio Tabucchi, Both sides now, Brian Eno, Casa di bambola, Cime tempestose, Don Chisciotte, Elizabeth Strout, Emily Brontë, Emily Dickinson, Ernest Hemingway, Eteronimi, famous blue raincoat, Federico García Lorca, Fernando Pessoa, Francis Scott Fitzgerald, Ibsen, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Janeite, Jonathan Coe, Jonathan Franzen, Joni Mitchell, Juan Ramón Jiménez, L'eleganza del riccio, l'insostenibile leggerezza dell'essere, La banda dei brocchi, la coscienza di zeno, Leonard Cohen, Me myself and I, Milan Kundera, Miriam Toews, Muriel Barbey, Ofélia Queiroz, Ophelia, Pablo Neruda, per chi suona la campana, Piccole donne, Rossella O'Hara, Shakespeare, Sostiene Pereira, Sylvia Plath, The Great Gatsby, ts eliot, Via col vento, Margaret Mitchell, Wendell Berry, Wislawa Szymborska
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