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Frammenti di letteratura, poesia, impressioni
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    • La libreria che vorrei

      Posted at 11:50 am01 by ophelinhap, on January 21, 2015

      post4La libreria che vorrei è grande e luminosa. Ha il parquet o la moquette, perché spesso c’è bisogno di guardarli dal basso, i libri, o di sedersi e accarezzarli.

      Nella libreria che vorrei il tempo si ferma. Non ci sono orologi, se non quello del Bianconiglio, che tanto è sempre in ritardo. Nessuno ha fretta: tanto i commessi quanto i clienti si prendono il tempo di accarezzarli con lo sguardo, i libri, confrontare le edizioni, sdilinquirsi davanti allo scaffale delle edizioni rare e costose. Sentire l’odore della pelle, della carta, del cartone. Quando qualcuno urta un lettore distratto non si arrabbia: ci si scambia uno sguardo di intesa, che in fondo si è complici in questo mondo parallelo.

      Nella libreria che vorrei il cliente/lettore ha tempo di sedersi per terra/sulla poltrona/ su una panca e sfogliarlo, un libro. Questione di feeling, a volte. Conoscerlo, capire se si tratta dell’accoppiamento giusto. In fondo è un po’ come l’amore, no? Si vuole essere sicuri che ci piaccia, quella persona (in questo caso, libro) che ci portiamo a casa. E questa serendipità non può accadere se commessi sgradevoli e sgarbati ti fulminano con lo sguardo o ti invitano dopo due minuti con pochissima cortesia a riporlo, il libro (è un bene di consumo! Non si può sbirciarlo prima di comprarlo!)

      Nella libreria che vorrei ci sono i gruppi di lettura. Ma non fatti all’acqua di rose, eh. Tematici, e in lingue diverse, che ormai il multilinguismo è una realtà assodata, quantomeno nelle capitali, vero?

      E ci sono corsi di letteratura strepitosi, come quelli dell’amica Marta di LaMcMusa. E ci sono reading di poesia, ché non mi fido di coloro che non amano la poesia, o la ripudiano come forma d’arte elitaria o “difficile da comprendere”. La poesia è democratica e appartiene a tutti. Tutti siamo poeti, in fondo, ma non tutti siamo in grado di accendere quella luce che poi sfocia nei versi: una grande, grandissima, eccentrica poetessa, Emily Dickinson, scriveva che la funzione dei poeti è accendere lampade, e scriveva che

      Vedere il Cielo d’Estate
      È Poesia, anche se mai in un Libro costretta –
      Le vere Poesie fuggono –

      (Traduzione a cura di Giuseppe Ierolli)

      Ma ve la ricordate, la bellissima scena de Il Postino in cui il postino – Troisi e Neruda – Noiret discutono di metafore?

      Neruda: La metafora…come dirti…è quando parli di una cosa paragonandola a un’altra…per esempio quando dici “Il cielo piange” che cosa vuol dire?”
      Troisi: “Che…che sta piovendo?
      Neruda: “Sì, bravo. Questa è una metafora.”
      Troisi: “Allora è semplice…ebbè perché ci ha questo nome così complicato?”
      Neruda: “Gli uomini non hanno niente a che vedere con la semplicità o la complessità delle cose.”

      (A proposito, se non avete ancora mai letto il bellissimo libro di Antonio Skármeta da cui è stato tratto il film, correte al più presto ai ripari!)

      Credo sia inevitabile interrogarsi sull’ “utilità” della poesia, specie in un’epoca in cui le cose per esistere devono essere fruibili, vendibili, pubblicizzabili; tuttavia – l’ho già detto e lo ripeto – è proprio per questo che abbiamo bisogno di poesia, oggi più che mai. Perché si ha bisogno di essere consolati. Si ha bisogno di essere compresi, e di comprendere se stessi. Soprattutto, si ha bisogno di trovare un po’ di bellezza, anche quando sembra che non ce ne sia proprio più a disposizione. Si avrà bisogno di poesia finché l’ultimo cuore umano batterà. Ma divago.

      Nella libreria che vorrei la sezione dedicata alla poesia non è un misero scaffale tra la X e la Y della narrativa, e non comprende solo raccolte dai titoli obbrobriosi, tipo Poesie per i matrimoni o Poesie per la tua amata, né striminzite antologie di Whitman, di Cummings, di Lee Masters (per striminzite intendo una trentina di pagine). No, la mia libreria ideale avrebbe scaffali e scaffali di edizioni bellissime, con tutti i poeti (intendo tutti, non solo i soliti sospetti: l’onnipresente Alda Merini, Neruda, Bukowski, la mia amata Szymborska, e poco altro) religiosamente catalogati in ordine alfabetico. Se la mia libreria ideale esistesse, non avrei dovuto cercare Mark Strand in tre capitali europee diverse, farmi portare un’edizione decente di Puskin direttamente dalla Russia e essere guardata in tralice quando chiedo raccolte della Manguso, della Achmatova, di Blok o del mio ultimo coup de foudre, Svetlana Kekova.

      Nella libreria che vorrei c’è una sezione dedicata ai giovani lettori, che non devono annoiarsi mentre i genitori li trascinano di scaffale in scaffale; una sezione colorata, piena di giocattoli per i più piccoli, con elfi e fate gentili che leggono storie e aiutano a scegliere un libro da portare a casa. Perché non è mai troppo presto per diventare lettori, e qual è la cosa che i bambini amano di più, se non le storie?

      Infine, nella libreria che vorrei c’è un caffè spazioso dove i lettori infreddoliti (o accaldati, a seconda delle stagioni) possono sedersi, bere qualcosa come una cioccolata calda con i marshmallows (o un bicchiere di Chablis)  e iniziare a leggere. Un caffè silenzioso, con musica classica o jazz in sottofondo. Un caffè in cui i tavolini non sono attaccati e le sedie non fanno quell’odiosissimo rumore che fa accapponare la pelle quando vengono spostate. Sui tavolini ci sono lampade che diffondono una luce morbida, soffusa.

      Un caffè in cui le sedie sono poltrone , magari tutte diverse tra di loro, e c’è qualche vecchio gioco di società negli scaffali, come nei pub inglesi vecchio stile. E no, non c’è il WiFi, perché in alcuni momenti bisognerà pure staccare, no?

      Se una libreria così esiste davvero, vi prego di segnalarmela. Io non l’ho ancora trovata.

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      PS: le immagini del post sono ovviamente tutte tratte dal (bellissimo) film con Meg Ryan e Tom Hanks, C’è posta per te

      Posted in Frammenti di poesia, Ophelinha legge | 12 Comments | Tagged Bookworms, Dreams, Emily Dickinson, Poetry
    • Sognando Macondo

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 6, 2014
      Apártense vacas, que la vida es corta
      Scostatevi vacche, che la vita è breve
      Gabriel García Márquez
      Ieri notte ho fatto un sogno stranissimo, che ricominciava ogni volta che mi addormentavo.
      Ho sognato di essere a Macondo, circondata dai personaggi di Cent’anni di solitudine. Ho sognato di essere amica di Rebeca – che poi non è nemmeno uno dei personaggi che mi stanno più simpatici, vuoi per l’inspiegabile rifiuto di sposare Pietro Crespi dopo esserne stata tanto innamorata ed aver affrontato la rivalità della sorellastra Amaranta; vuoi per l’altrettanto inspiegabile omicidio del marito José Arcadio, del quale rimane l’unica, insospettabile sospettata nell’ambito di un matrimonio felice e senza nuvole.
      Mi chiedevo se Ursula avesse poi davvero perdonato Rebeca, perché dopo il matrimonio col figlio l’aveva bandita dalla famiglia (lei non era sua figlia, era un’orfanella, figlia di lontani cugini di cui nessuno si ricordava più; ma Ursula aveva vissuto lo stesso questo matrimonio come un tradimento quasi incestuoso). Volevo andare a parlare con Ursula, andarle a chiedere se davvero, nella sua lungimiranza di centenaria impegnata a non far capire a nessuno di essere diventata cieca, avesse poi capito che il cuore inaridito di Amaranta soffocava una tenerezza senza fine, che il grande Aureliano Buendia non aveva mai amato nessuno (nemmeno sua madre, nemmeno le sue sorelle, nemmeno la bellissima moglie-bambina, Remedios, nemmeno tutti i 17 Aureliano nati durante i lunghi anni di quella guerra combattuta per orgoglio e superbia, brutalmente uccisi nel corso di una settimana – tutti meno uno), e che invece la tanto disprezzata Rebeca, la bambina che non voleva parlare, la ragazza che mangiava rabbiosamente terra e calce, era in realtà la figlia che avrebbe sempre voluto avere. Rebeca, l’unica che non aveva bevuto il suo latte; Rebeca che era arrivata a casa di Ursula con un fagottino contenente le ossa dei genitori sconosciuti, Rebeca dal cuore impaziente e dal ventre ribelle, era l’unica ad aver posseduto quel coraggio sfrenato che Ursula aveva desiderato per i discendenti della sua stirpe.
      Ma poi mi ricordavo che negli ultimi anni di vita Ursula si era trasformata in una donna-neonata, in un feto mummificato, in una prugna secca persa dentro il vestito troppo largo, alimentata a cucchiaiate di acqua e zucchero, impegnata nella sua lotta contro le tenebre, e pensavo che era troppo tardi ormai per chiederle qualsiasi cosa.
      Incontravo poi Arcadio, il figlio illegittimo di José Arcadio e Pilar Ternera, l’insegnante assetato di potere che, quando il colonnello Buendia era partito da Macondo, ne aveva assunto il controllo, costituendo un esercito con i suoi allievi. Mi diceva che non era giusto che fosse stato fucilato dai Conservatori dopo la caduta dei Liberali mentre Aureliano Buendia, che davanti al plotone d’esecuzione aveva pensato al giorno in cui suo padre l’aveva portato a vedere il ghiaccio, non era poi mai stato giustiziato.
       
      Mi sono svegliata convinta di essere a Macondo – e delusa di non trovarmici – chiedendomi perché Rebeca e Jose’ Arcadio non avessero mai avuto figli, e perché Rebeca si fosse sepolta viva in casa dopo la morte del marito, morendo poi di solitudine in mezzo alle ragnatele e ai calcinacci.
       

      Forse questo è il realismo magico del grande Gabo (Gabriel Garcia Marquez), venuto a mancare pochissimo tempo fa (il 17 aprile scorso): in Cent’anni di solitudine inventa un microcosmo – Macondo – e attraverso sette generazioni di Buendia racconta la Storia, mescolando mito e realtà, quotidiano e straordinario, creando personaggi indimenticabili che continuano a vivere nel lettore, col lettore, nella fantasia del lettore..e a volta anche nei suoi sogni: Remedios la Bella, così bella che la sua vicinanza uccide gli uomini che le si avvicinano, che ascende al cielo in un vortice di lenzuola pulite; Amaranta, che ama alla follia i suoi due spasimanti, ma si brucia la mano pur di non sposarne uno e si chiude in camera per non vedere l’altro, soccombendo alla subdola lotta del suo cuore tra amore e vigliaccheria; e lui, il colonnello Buendia, nato con gli occhi aperti, capace di prevedere il futuro, incapace di amare, instancabile orefice di pesciolini d’oro. Fino ad arrivare all’ultima coppia di Buendia – Amaranta Ursula e suo nipote, Aureliano Babilonia, che generano un figlio con la coda di maiale, come predetto da Ursula tanti anni prima. La madre muore dissanguata, il bambino muore, dimenticato in casa dal padre impazzito di dolore, che negli ultimi istanti di vita riesce finalmente a decifrare le pergamene dello zingaro Melquiades, comprendendo prima di arrivare al verso finale che non sarebbe più uscito dalla sua stanza perché era previsto nelle profezie del gitano che la città degli specchi fosse rasa al suolo dal vento e sradicata dalla memoria degli uomini, e che tutto questo si sarebbe ripetuto in eterno, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra.

       

      Soundtrack: il bellissimo album Terra e libertà dei Modena City Ramblers, contenente quattro canzoni ispirate a Cent’anni di solitudine, tra cui la stupenda ballata Remedios la bella.

      Posted in Letteratura e dintorni, Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Cent'anni di solitudine, Dreams, Gabriel García Márquez, Literature and Beyond, Si legge e si racconta di libri
    • Le lettere di Natale di J.R.R. Tolkien

      Posted at 11:50 pm12 by ophelinhap, on December 29, 2013
      Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano).
      Antoine de Saint-Exupéry
       
       

       
      Lo so, sono in ritardo. A mia discolpa, quest’anno un mix tra il Grinch e il vecchio Scrooge si è impadronito di me, dopo un autunno lungo e difficile, rendendomi meno natalizia che mai. Ma i tre fantasmi sono sempre in agguato; ergo, avendo riscattato il Natale passato con la traduzione del bellissimo editoriale del New York Sun, Si Virginia, Babbo Natale esiste davvero, anticipo il natale futuro, dato che quello presente me lo sono giocato, e condivido con voi la traduzione di una bellissima lettera di Tolkien ai suoi bambini, trovata sul geniale Open Culture.
      J.R.R. Tolkien, oltre ad essere il grande scrittore che conosciamo nonché inventore di mondi magici, con tanto di mappe geografiche e lingue elfiche, oltre ad essere docente di studi anglosassoni presso l’università di Oxford, era anche un padre devoto ed affettuoso, che adorava i suoi figli.

      Nel 1920, pochi anni dopo essere tornato a casa dopo la fine della prima guerra mondiale, Tolkien aveva dato inizio a una tradizione natalizia magica e speciale, durata ben ventitré anni. Dopo la nascita del suo primogenito – John – Tolkien aveva infatti iniziato a scrivere lettere ai suoi figli – quattro – fingendosi Babbo Natale. Tolkien, che era anche un abile illustratore, era solito corredare le letterine di deliziosi, incantevoli disegni.

      Le lettere sono state raccolte in un volume intitolato Letters from Father Christmas.


      Ogni Dicembre, quindi, i piccoli di casa Tolkien ricevevano una busta con un francobollo del Polo Nord, contenente una lettera fitta di una calligrafia arzigogolata, da ragno, arricchita dai disegni paterni, con la firma di Babbo Natale. Le lettere raccontavano storie bellissime sulla vita di Babbo Natale al Polo Nord: le sue scaramucce coi goblin, che vivevano in una caverna sotto la sua casa;  i tentativi di fuga delle renne, con relativa dispersione dei regali; i pasticci combinati dall’orso polare, che aveva cercato di scalare il Polo Nord ed era caduto sul tetto della casa di Babbo Natale, sfondandolo e finendo nel suo soggiorno.

      Godetevi questa lettera del 1925 ed immergetevi nel mondo fantastico che un padre straordinario come Tolkien riusciva a creare per i suoi amatissimi figli, grazie alla sua vivacissima, irrefrenabile immaginazione. Un mondo magico, che profuma di cannella, cioccolata e buccia d’arancia, decorato dalle strisce bianche e rosse dei candy canes.

      Cliff House
      Top of the World
      Near the North Pole
      Xmas 1925
      My dear boys,
      I am dreadfully busy this year — it makes my hand more shaky than ever when I think of it — and not very rich. In fact, awful things have been happening, and some of the presents have got spoilt and I haven’t got the North Polar Bear to help me and I have had to move house just before Christmas, so you can imagine what a state everything is in, and you will see why I have a new address, and why I can only write one letter between you both. It all happened like this: one very windy day last November my hood blew off and went and stuck on the top of the North Pole.
      I told him not to, but the N.P.Bear climbed up to the thin top to get it down — and he did. The pole broke in the middle and fell on the roof of my house, and the N.P.Bear fell through the hole it made into the dining room with my hood over his nose, and all the snow fell off the roof into the house and melted and put out all the fires and ran down into the cellars where I was collecting this year’s presents, and the N.P.Bear’s leg got broken. He is well again now, but I was so cross with him that he says he won’t try to help me again. I expect his temper is hurt, and will be mended by next Christmas. I send you a picture of the accident, and of my new house on the cliffs above the N.P. (with beautiful cellars in the cliffs). If John can’t read my old shaky writing (1925 years old) he must get his father to. When is Michael going to learn to read, and write his own letters to me? Lots of love to you both and Christopher, whose name is rather like mine.
      That’s all. Goodbye.
      Father Christmas
       
                                 ***************************************************
       
      Cliff House
      In cima al mondo
      Vicino al Polo Nord
       
      Natale del 1925
      Miei cari ragazzi
      sono tremendamente occupato quest’anno – quando ci penso la mia mano trema ancora più del solito – e non molto ricco. In effetti, sono successe cose terribili, alcuni regali sono stati danneggiati, l’Orso polare non era qui ad aiutarmi e ho dovuto cambiare casa proprio prima di Natale, quindi potete immaginarvi la situazione, e capirete perché ho un nuovo indirizzo, e perché posso scrivere una sola lettera indirizzata a entrambi. E’ successo questo: lo scorso Novembre, durante una giornata molto ventosa, il mio cappuccio è volato via ed è finito sulla cima del Polo Nord, dov’è rimasto incastrato.
      Gli ho detto di non farlo, ma l’Orso Polare si è arrampicato su fino all’esile cima per riprenderlo – e ce l’ha fatta. Il Polo si è spezzato a metà ed è caduto sul tetto di casa mia, e l’Orso Polare è caduto giù per il buco fino al mio salotto, col mio cappuccio sul naso, e tutta la neve è caduta dal tetto nella casa e si è sciolta e ha spento tutti i fuochi ed è scesa fino alle cantine dove conservavo i regali per quest’anno, e l’Orso Polare si è rotto una gamba. Ora sta bene, ma mi sono così arrabbiato con lui che mi ha detto che non avrebbe più provato ad aiutarmi. E’ davvero offeso, ma dovrebbe riprendersi entro il prossimo Natale. Vi mando un’immagine dell’incidente, e della mia nuova casa sulla colline sovrastanti il Polo Nord (con bellissimi scantinati nelle colline). Se John non può leggere la mia vecchia scrittura tremolante (vecchia di 1925 anni) si faccia aiutare da suo padre. Quando imparerà a leggere Michael, e a scrivermi lettere di suo pugno? Tutto il mio affetto a te e a Christopher, il cui nome è alquanto simile al mio.
      Questo è tutto. Arrivederci.
       
      Babbo Natale
       
       

       
       
       
       
      Posted in Letteratura e dintorni, Ophelinha legge | 2 Comments | Tagged Dreams, Literature and Beyond, Si legge e si racconta di libri, Storie dietro la storia
    • Buoni propositi per il 2014..dalla penna di Mark Twain

      Posted at 11:50 pm12 by ophelinhap, on December 28, 2013

      Questo è il periodo dell’anno in cui mi dedico, volente o nolente, a liste, elenchi puntati e numerati di buoni propositi, critica spassionata dell’anno perituro, tentativi di revisionismo storico di un 2013 che non vedo l’ora di archiviare (del resto, non ho mai nascosto la mia diffidenza ed antipatia innata nei confronti degli anni dispari).

      Ergo, quando ho scovato sul blog This page is about words! i nove consigli di Mark Twain per vivere una vita fantastica (a kick-ass life) non ho saputo resistere alla tentazione di modellare la mia lista sulla base di quella del caro vecchio Mark. Perché il 2014, essendo un anno pari, ha il dovere morale, l’obbligo di essere migliore. Oh, se deve esserlo…

      Una delle mie citazioni preferite di quel simpaticone di Twain è It’s no wonder that truth is stranger than fiction. Fiction has to make sense (non c’è da meravigliarsi se la realtà è più strana della finzione. La finzione deve avere senso). È vero che troppo spesso lottiamo con tutti noi stessi per attribuire un significato a una serie di eventi without reason nor rhyme, senza capo né coda, al peso di una quotidianità vuota e sempre uguale, a luminose promesse che si rivelano specchietti per le allodole, a parole usate ed abusate, fino ad essere svuotate dal loro significato originario.

      Il mio augurio per il 2014 è che questa sbirciatina alle pillole di saggezza di Twain vi faccia venire voglia di scappare su una zattera lungo il fiume Mississippi, come il picaresco Huckleberry Finn, personaggio dato alle stampe un secolo prima della mia nascita. E se non dovesse essere una zattera, che sia un aereo che vi porti a scoprire il vostro Heimat, un nuovo lavoro, un nuovo sogno, la realizzazione di un sogno nel cassetto….

       

      1. Approve of yourself.
      “A man cannot be comfortable without his own approval.”

      Approva il tuo modo di essere
      “Un uomo non può vivere in pace con se stesso se non si approva”.

      Siamo lo specchio più crudele e senza veli di noi stessi, il giudice più di parte, il critico più agguerrito. Molto spesso non riusciamo a vedere che i nostri difetti, i nostri sbagli, le nostre pecche, le nostre paure. Amarsi è un’impresa ardua, che inizia il giorno della nostra nascita e continua tutta la vita. Amarsi, o quantomeno accettarsi, è una condizione necessaria ed imprescindibile per aprirsi all’altro, per farlo entrare nella nostra vita, per amare l’altro.
      Piacersi, fidarsi di se stessi è essenziale per abbracciare la vita, per fare la valigia e ricominciare da capo, anche e soprattutto quando fa più paura, quando ci sono meno garanzie, meno certezze. Per intraprendere nuove avventure, per accettare quella scatola di cioccolatini senza sapere se contenga fondente al 70% o cioccolata al latte, per cadere in piedi, per riuscire a rialzarsi.
      Guardarsi allo specchio, riconoscersi, accettarsi, sorridersi. Sbagliare, forti della certezza di essere in grado di rimediare, sbagliare ancora, sbagliare meglio. Provare, fallire, provare ancora. E provare e provare.

      2. Your limitations may just be in your mind.
      “Age is an issue of mind over matter. If you don’t mind, it doesn’t matter.”

      È possibile che i tuoi limiti esistano solo nella tua mente.
      “L’età è una questione mentale. Se non ti importa, non importa”.

      La questione dei limiti è fortemente legata alla fiducia in se stessi, all’accettazione di se stessi per quelli che si è, brufoli e nevrosi alla Woody Allen. Un onesto esame di coscienza delle proprie capacità e delle proprie mancanze altro non dovrebbe essere che un incentivo a migliorare, a colmare quelle lacune, per poter poi fare quello che amiamo veramente, al di là dei “vorrei ma non posso”, “vorrei ma non ne sono capace”, “vorrei ma non serve a nulla”, “vorrei ma non ne ho il tempo”. Il tempo, quel tempo che scorre troppo velocemente o troppo lentamente, che incide i segni del suo passaggio sulla pelle, sul viso, sugli occhi, sulle mani, sui ricordi, sui sentimenti, sulle ferite. Quel tempo che misura l’età che incede con velocità irrefrenabile. Il 2014 ha in serbo per me un compleanno un po’ grande, almeno per me, un altro decennio, un altro giro di boa, che mi fa temere che si stia davvero facendo sempre più tardi e non potrò mai essere tutte le persone che avrei voluto essere, studiare viaggiare ricominciare sbagliare ricominciare fallire e ricominciare ancora, perché il numero di errori e fallimenti inizia a farsi sentire. E forse non riuscirò mai a scrivere un libro, o a frequentare la scuola di scrittura creativa ad Harvard, o a passare un’estate in Australia a raccogliere l’uva. Forse inizia ad esserci un limite al numero di volte in cui posso reiventarmi, anche se non dovessi piacermi più, neanche un po’.
      Qualche settimana fa ho visto un film davvero molto bello, di cui spero di poter parlare più diffusamente, più in là: About time, questioni di tempo. In sostanza, il protagonista, Tim, all’età di 21 anni scopre che tutti gli uomini della sua famiglia hanno la capacità di tornare indietro nel tempo: basta scegliere un momento definito, chiudersi in un luogo buio, pensarlo intensamente et voilà. Nonostante ciò, Tim scoprirà che nemmeno questo superpotere gli assicura una qualche forma di controllo sull’anarchia temporale: non può evitare la perdita, il dolore, non può riparare tutti gli sbagli, non può ricucire tutte le ferite, non può far tornare indietro persone amate. La chiave, l’unico segreto è scoprire, capire, custodire il valore del tempo, e vivere intensamente i momenti di improvvisa e abbacinante felicità, e custodirli nel cuore, nella memoria.

      3. Lighten up and have some fun.
      “Humor is mankind’s greatest blessing.”

      Prendetevi meno sul serio e divertitevi.
      “L’umorismo è la più grande benedizione del genere umano”.

      Sorridere tanto, con un sorriso che non si fermi alle labbra, ma parta dagli occhi e li illumini tutti di quella luce speciale, e arrivi a toccare il cuore. Ridere, ridere delle piccole cose, soffocare le risate di fronte  a una cosa buffa, ridere a sproposito, ridere di cuore. E, soprattutto, non prendersi mai sul serio, ridere di se stessi e delle cose che ci circondano, per esorcizzare le paure, per ridimensionare i problemi.
      Leggere Oscar Wilde e Tre uomini in barca di Jerome Klapka Jerome, andare a teatro, fare teatro (il più grande rimedio contro la timidezza, lo stress, la tristezza: quest’anno col mio gruppo abbiamo rappresentato Confusions di Alan Ayckbourn..quale modo migliore di prendere la vita per i fondelli del teatro dell’assurdo?)
      Fare proprio il verso di Milton every cloud has a silver lining, non tutto il male viene per nuocere.
      Imparare ad essere leggeri, ad usare parole leggere, smettere di dover essere e semplicemente esistere, una farfalla, un fiore, una coccinella, un pensiero di bellezza, un’impressione che si esaurisce in un attimo ma esiste, semplicemente, in quel momento, nel momento. E tutta la sua esistenza è tesa soltanto verso quell’istante.
      E, soprattutto, accettarsi per quello che si è, senza forzature eccessive (vedi punto uno). Non aver paura di ammettere la propria pesantezza e il proprio pessimismo, ma guardarli in faccia e sfidarli ad armi pari. E non aver paura di innamorarsi della vita, ogni giorno, correndo il rischio di restare col cuore spezzato.
      Io sono un’inguaribile pessimista, ad esempio, e per quanto mi sforzi non riuscirò mai a vedere il bicchiere mezzo pieno. Posso imparare ad apprezzare il fatto che sia almeno mezzo vuoto, però. Almeno credo. Almeno spero.

      4. Let go of anger.
      “Anger is an acid that can do more harm to the vessel in which it is stored than to anything on which it is poured.”

      Liberatevi della rabbia.
      “La rabbia è un acido che può fare più male al recipiente che la contiene che a qualsiasi altra cosa su cui è riversata”.

      La rabbia è spesso un sentimento atavico, che si tende a comprimere, a non affrontare, a relegare in un angolo della mente, del cuore, della memoria, sperando che se ne stia zitta e buona e ci lasci in pace. Invece è sempre lì e affiora in superficie a tradimento, quando meno ce l’aspettiamo, quando meno lo vorremmo, e ci corrode, e danneggia le persone che ci circondano, e ci impedisce di abbandonarci alle situazioni e agli altri con più leggerezza, con più fiducia.
      Spesso la rabbia ha radici profonde: arriva a toccare l’infanzia, e avviluppa l’adolescenza. In poche parole, nella maggior parte dei casi non è facile da sradicare, da lasciare andare, da esorcizzare. Mi chiedo se sia possibile addomesticarla, per conviverci pacificamente, quantomeno.

       

      5. Release yourself from entitlement.
      “Don’t go around saying the world owes you a living. The world owes you nothing. It was here first.”

      Liberatevi dall’idea che le cose vi spettino di diritto.
      “Non andate in giro proclamando che il mondo vi deve qualcosa. Il mondo non vi deve niente. Era qui prima di voi”.

      Qui concordo e non concordo con Twain, nel senso che la mia generazione (e non solo la mia..magari!) è stata costretta ad abituarsi al fatto che il mondo non le deve un bel nulla, che multilinguismo, studi, preparazione, esperienza professionale spesso internazionale non equivalgano alla certezza di trovare un lavoro..per non parlare del lavoro dei propri sogni, utopia ormai relegata in fondo al cassetto dei calzini spaiati. Forse una cosa che si dovrebbe imparare a fare è liberarsi dalla pressione delle aspettative, quelle altrui in primis, e dall’ansia di prestazione, in tutti i settori. Dal dover essere, insomma.
      6. If you’re taking a different path, prepare for reactions.
      “A person with a new idea is a crank until the idea succeeds.”
      Se stai per intraprendere un nuovo percorso, preparati a reagire.
      “Una persona con una nuova idea è un folle finchè la sua idea non ha successo”.

      Un po’ di tempo fa ho letto una frase della poetessa statunitense Adrienne Rich che mi è rimasta appiccicata alla pelle: the moment of change is the only poem, il momento del cambiamento è la sola poesia. Peccato che cambiare, reinventarsi, trasferirsi, iniziare un nuovo lavoro, impegnarsi a realizzare il proprio sogno nel cassetto, che sia scrivere un libro o aprire un B&B in una spiaggetta bianca delle Seychelles, fa paura, una paura matta. Nonostante tutti i fail again, fail better beckettiani, la paura di fallire, di non essere in grado, di sbagliare tutto ancora una volta ci trattiene da nuove, grandiose, donchisciottesche imprese. Che il 2014 sia l’anno del cambiamento tanto sognato ed aspettato, l’anno in cui, per dirla con Robert Frost

      I shall be telling this with a sigh
      Somewhere ages and ages hence:
      Two roads diverged in a wood, and I —
      I took the one less travelled by,
      and that has made all the difference.

      Che sia l’anno in cui, fermi ad un incrocio, siamo capaci di scegliere la strada meno conosciuta, meno trafficata, meno asfaltata, più in salita, e che questa nostra scelta possa fare tutta la differenza.

       

      7. Keep your focus steadily on what you want.
      “Drag your thoughts away from your troubles… by the ears, by the heels, or any other way you can manage it.”

      Concentratevi costantemente su quello che volete.
      “Distogliete i vostri pensieri dai problemi..tirandoli per le orecchie, per i calcagni, o in qualsiasi altro modo funzioni per voi”.

      È difficile concentrarsi esclusivamente e a tempo pieno su quello che si vuole quando c’è una quotidianità da affrontare, le bollette da pagare, un contratto sempre in attesa di essere rinnovato, persone intorno a noi di cu siamo in qualche modo responsabili. Se potessi, vorrei ricominciare da capo, aprire un negozio di libri usati in Nuova Zelanda, iniziare un dottorato in letterature comparate negli Stati Uniti e scrivere articoli su articoli su come Anna Karenina abbia influenzato Simone de Beauvoir, Anais Nin, Sibilla Aleramo – o qualcosa del genere. Ma la consapevolezza del quotidiano e del mio non essere all’altezza (punto 1 dolente…) mi trattiene ancorata alla terra come una zavorra, e per ora tutti i timbri che vorrei vedere sul mio passaporto rimangono sogni ad occhi aperti, bolle di sapone. E di tutte le cose che vorrei scrivere scrivo solo un quarto, fossilizzata dalla mia paura di non essere brava abbastanza, di non essere in grado, di non avere nulla di nuovo da dire, di non saper trovare le parole giuste per dirlo. Che il 2014 sia un anno di training autogeni, di iniezioni di autostima, di sorprese mirabolanti.
      8. Don’t focus so much on making yourself feel good.
      “The best way to cheer yourself up is to try to cheer somebody else up.”

      Non soffermatevi troppo sul vostro benessere.
      “Il modo migliore di tirarsi su di morale è cercare di far sorridere qualcun altro”.

      Anche qui mi permetto di dissentire umilmente con zio Mark: se non si sta bene con se stessi, è difficile riuscire a star bene gli altri e a rallegrare gli altri. E’ anche vero che occuparsi dei problemi e dei dolori altrui, piccoli e grandi che siano, aiuta a ridimensionare e a mettere in prospettiva i nostri, e non c’è miglior balsamo né medicina di un sorriso che riusciamo a strappare a un amico in un momento di difficoltà. Che il 2014 sia l’anno in cui riusciamo a regalare sorrisi, a destra e a manca, a amici di vecchia data come a sconosciuti sulla metropolitana.

      dal film Love Actually

       

      9. Do what you want to do.
      “Twenty years from now you will be more disappointed by the things that you didn’t do than by the ones you did so. So throw off the bowlines. Sail away from the safe harbor. Catch the trade winds in your sails. Explore. Dream. Discover.”

      Fate quello che volete fare.
      “Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per le cose che avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.”

      Questo è un punto dolente per me. È il mio proposito di fine anno da tanto tempo ormai, ma gli anni passano e io divento più grassa e più vecchia e meno idealista e meno sognatrice e più spaventata.

      Il mio augurio per voi è di imparare a convivere con le vostre paure, di imparare ad amarvi, di innamorarvi ogni giorno, di tingervi i capelli di colori improbabili, di comprare QUEL biglietto, di rivoluzionare la vostra vita, di dimenticarvi della valigie, di partire senza più guardarvi indietro. Di inventarvi, di reinventarvi, di sognare ad occhi aperti, di essere distratti, di camminare a piedi nudi sull’erba, di correre fino a restare senza fiato, di cantare a squarciagola, di ballare sotto la pioggia, di portare colore ovunque voi andiate. Di sorprendervi, sempre.

      Buon anno pari, da me e Mark Twain.

       

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    • L’indicibile solitudine degli eteronimi

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 27, 2013
      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

       

      Fernando Pessoa e Ophélia Queiroz

      Cos’è un eteronimo? Dal greco héteros, diverso, altro da sé, e onoma, nome, è un personaggio fittizio, che possiede però una sua personalità e una sua biografia diversa da quella del suo “creatore”.
      È un “altro da sé” a cui si affidano aspetti del proprio carattere che non si riescono ad accettare, sogni e speranze che non si sono riuscite a concretizzare. Qualcuno che fa scelte diverse dal suo autore, che ad un incrocio sceglie una direzione diversa, che naviga tra le infinite possibilità della vita con maggiore disinvoltura e sicurezza.
      O forse, ci si crea un eteronimo quando la vita non è abbastanza, quando si hanno dentro mondi diversi da quello quotidiano, da quello che si vede. Quando si coltiva un’innata ed infinita irrequietezza. Quando non si accettano alcuni aspetti del proprio carattere che sono però i più veri, i più autentici. E si affidano all’eteronimo.
      A volte, l’eteronimo, o gli eteronimi, diventano noms de plume, e, dietro la loro maschera, si scrive, si compone, si dipinge in modo molto più spontaneo ed autentico, tirando fuori la parte più genuina e sincera di sé.

      Il più famoso creatore di eteronimi è ovviamente Fernando Pessoa, che spiega la genesi di questi suoi “altri da sé” in una lettera a Adolfo Casais Monteiro – scrittore, poeta, saggista e traduttore portoghese –  pubblicata in Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa (a cura di Antonio Tabucchi) e inserita nell’appendice del libro di Luciana Stegagno Picchio Nel segno di Orfeo.

      Ecco alcuni stralci della lettera:

      Lettera a Adolfo Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi

      Casella Postale 147
      Lisbona, 13 gennaio 1935

      Fin da bambino ho avuto la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (…) Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti, carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari abusivamente, la vita reale. (…)

      Un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sá-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno a elaborare il poeta ma non ne venne niente. Ala fine, in un giorno in cui avevo desistito – era l’8 marzo 1914 – mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile.

      Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Oblíqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente… Fu il ritorno di Fernando Pessoa-Alberto Caeiro al Fernando Pessoa-lui solo. O meglio, fu la risposta di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro.

      Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all’improvviso e di derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l’Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l’Ode con questo nome e l’uomo con il nome che ha. (…)

      Come scrivo col nome dei tre? … Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).

      Tabucchi, Antonio
      Un baule pieno di gente
      Feltrinelli, 1990

      La migliore definizione degli eteronimi di Pessoa è, a mio parere, quella di Luciana Stegagno Picchio, una delle massime autorità italiane di lingua e letteratura portoghese e brasiliana, che in un’intervista su RaiLibro ha dichiarato:

      (…) Queste “persone”, questi “autori altri”, non sono pseudonimi: lo pseudonimo, infatti, abbraccia l’intera personalità dello scrittore. Nel caso di Pessoa, invece, quando si parla di eteronimi, ci si riferisce a una parte della personalità, quei segmenti di sé non espressi.
      Parlare è di per sé una mutilazione: quando un essere umano si esprime, mutila, “esclude” in quello stesso momento le cose che non dice e tutti gli altri personaggi che dentro di lui direbbero altre cose.
      In Pessoa erano presenti tante voci diverse – si è arrivati a calcolare addirittura ottanta, novanta eteronimi. E mi sono sempre chiesta cosa sarebbe stato Pessoa se non fosse morto precocemente.

      E ancora:

      (…) Sono tutti personaggi fortemente delineati e caratterizzati, basta leggere la sua celebre lettera scritta ad Adolfo Casais Monteiro, in cui racconta il giorno della loro nascita.
      Ad ognuno di essi attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale… Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.
      Eppure, al di là di questi aspetti “contingenti”, tutti loro hanno in comune il fatto di essere persone di sesso maschile, sole, della stessa età, anche simili fisicamente: caratteristiche che alla fine si riuniscono in un unico uomo, che si chiama Fernando Pessoa.

      A volte gli eteronimi smettono di essere finzione e invadono la vita reale del poeta. È il caso della sua tormentata e surreale relazione con Ophélia Queiroz, unica “fidanzata” del poeta,  ostacolata, tra le altre cose, dalla gelosia dell’eteronimo Alvaro de Campos, omosessuale e geloso della giovane.

      Come Ophélia stessa racconta nella prefazione di Lettere alla fidanzata a cura di Antonio Tabucchi (edito da Adelphi):

      Fernando era una persona molto speciale. Tutta la sua maniera di essere, perfino nel vestire, era speciale. Ma forse io allora non me ne accorgevo, perchè ero troppo innamorata. La sua sensibilità, la sua tenerezza, la sua timidezza, la sua eccentricità mi incantavano. A volte era un po’ assente, ad esempio quando si presentava come Alvaro de Campos. Mi diceva: “Sai, oggi non ero io, al mio posto è venuto il mio amico Alvaro de Campos..”.

      In quei momenti si comportava in un modo completamente diverso dal suo: era sconclusionato, diceva cosa senza senso. Un giorno mi disse: “Gentile signorina, ho una commissione per lei: dovrebbe buttare l’abietta immagine di quel tale Fernando Pessoa in un secchio pieno d’acqua, a testa in giù”.

      Io gli obiettai: “Detesto Alvaro de Campos, mi piace solo Fernando Pessoa”.

      “Chissà poi perchè”, riprese lui, “guarda che invece a Campos piaci molto”.

      Raramente parlava di Caeiro, di Reis o di Soares.

      Da queste pagine, dalle loro lettere, dalla loro tormentata storia è nata la mia curiosità per Ophélia Queiroz, minuta e vivace fanciulla della media borghesia lisbonese, che, diciannovenne, viene assunta come segretaria dal Diàrio de Notícias e si innamora di questo ometto strambo, che si dichiara a lei con le stesse parole che Amleto usa per promettere amore eterno alla sua Ofelia. Seguono mesi di namoro tormentato, fatto di bigliettini segreti, baci rubati negli androni dei portoni, dato che Fernando non vuole rendere il fidanzamento ufficiale presentandosi a casa sua (Sai, devi capire che è una cosa da persone comuni, e io non sono una persona comune).

      E Ophélia lo accetta, e lo ama per quello che è, per tutti i suoi io, per le promesse mai mantenute di sposarla. Lo ama nonostante il malcontento della famiglia, nonostante quella lettera del 29 novembre del 1920 con la quale Fernando mette fine alla loro storia:

      Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancora più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perchè ha contratto abitudine a sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non vi sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perchè non possono credere che l’amore sia duraturo, nè, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.

      Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perchè non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le cose che sono solo parti della vita?  

      Ophélia non si sposerà mai. E mi piace credere che sia rimasta sempre innamorata del suo Nininho, che, pochi giorni prima di morire, chiedendo sue notizie al nipote Mario, con gli occhi pieni di lacrime esclama Che anima bella! Che anima bella!

      Ophelinha diventa così per me la regina degli amori mai realizzati, degli amori impossibili, di quelli sognati e accarezzati col pensiero ma mai vissuti. La destinataria di lettere d’amore che fanno ridere, ma farebbero ridere ancora di più se non venissero mai scritte. Diventa una piccola donna anticonformista, forte e indipendente, capace di amare un uomo geniale e imprevedibile come il suo Nininho, d’un amore tenero e capriccioso, ma sempre costante.

      Nel corso dell’ultimo anno, Ophelinha è diventata la mia maschera, il mio naturale eteronimo che mi aderisce come una seconda pelle.

      Perchè preferisco Ophelinha a me stessa? Perchè Ophelinha non ha paura di parlare in prima persona.
      Perchè la vedo così, uno scricciolo controcorrente, del tutto incurante delle tradizioni, a cui non importa un fico secco del matrimonio borghese e si innamora del poeta da strapazzo che le declama i versi con cui Amleto si dichiara a Ofelia, e le ruba un bacio.
      Perché a lei non importa nulla del parere della gente. Perché gioca a nascondino con Nininho dentro anditi e portoni sotto la pioggia. Perché è orgogliosa di essere chi è, di essere quello che è, e non fa nulla per nascondersi o per conformarsi.
      Ophelinha non ha paura. Non ha paura di piangere. Non ha paura di mettersi in gioco, anche se potrebbe significare perdere, e ha il terrore dell’abbandono, e ogni schiena che si allontana le spezza il cuore.
      Non si astiene dall’indulgere nel piacere masochista dei ricordi, degli amori passati, delle cose che erano e non sono più.

      E Ophelinha scrive d’amore, anche se fa ridere. Anche quando l’ha perso, e non può fare nulla per riaverlo indietro.

       

      E non si vergogna della natura malinconica del suo carattere, del bovarismo accentuato, del bisogno di frequentare personaggi fittizi più di quelli reali. Non adotta maschere per fingersi sempre allegra e superficialmente spensierata. Per cercare di piacere agli altri, e di essere accettata.
      È incapace di vivere a pieno il presente, e vive nel passato, crogiolandosi nei ricordi, annaspando tra i se e i forse.

      Così, protetta da questo schermo virtuale, divento Ophelinha e scrivo di quei mondi che nessuno vede e in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore della vita quotidiana.

      Ci sono anche eteronimi che non funzionano, che si provano e poi si mettono da parte per sempre, come un vestito troppo stretto e troppo corto. È il caso della frivola contessina Aspasia, un tentativo di trovare un eteronimo più leggero e civettuolo, più frivolo, per l’appunto.

      Ma no, non è andata. E allora, che Ophelinha sia. In questo strano mondo di eteronimi fin troppo soli.

       

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    • Un sogno possibile per il 2013 (premiazione giveaway)

      Posted at 11:50 pm01 by ophelinhap, on January 1, 2013
      Smile though your heart is aching
      Smile even though it’s breaking
      When there are clouds in the sky, you’ll get by
      If you smile through your fear and sorrow
      Smile and maybe tomorrow
      You’ll see the sun come shining through for you
      Nat King Cole
       

      Ogni fine e – ogni nuovo inizio –  incutono una certa decadente malinconia: per tutti i momenti che scivolano lentamente nell’oblio del tempo, sia quelli belli che quelli brutti; perchè ogni nuovo inizio incute sempre un certo timore, una certa diffidenza.
      Insieme all’entusiasmo dell’ignoto, della possibilità, di 365 giorni da scartare come regali accatastati sotto un immenso abete natalizio.

      Il primo dell’anno è il giorno dei buoni propositi, o dei propositi in generale; ma, soprattutto, dei desideri. E dei sogni.

      Grazie di avermi raccontato i vostri sogni possibili. Tutti bellissimi.

      Oggi voglio regalarvi quello di Chiara Maria. che mi ha colpito per l’eleganza della sua metafora, di barberyana memoria (avete letto L’Eleganza del riccio? Ecco un proposito di lettura per il 2013….)

      Nel mio caso,mi disegnerò una porta su ogni occhio e ogni sguardo sarà un incontro. Acconcerò i miei capelli con un tetto a mò di tegole e ogni parola sarà un velo di protezione. E poi licenzierò la portinaia che vive dentro di me e che non parla per voce sua ma per voce del condominio che la paga. E se non basta,mi accovaccerò in terra e tramuterò in roccia e sarò casa della mia casa. Perché non c’è nulla di più spaventoso di dove sei libero di essere te stesso. Il sogno che custodisco è per l’appunto questo,in chiave metaforica,s’intende.
       

      Cara Chiara Maria, che il 2013 sia per te un anno di incontri fortuiti e inaspettati, di sguardi obliqui e in controluce, di parole non solo come veli di protezione, ma come ponti verso mondi sconosciuti, verso l’altro da sè. Come chiavi magiche per aprire la porta – la tua, e quella degli altri. E se proprio devi assumere una portiera per il tuo stabile, cerca una Renée, che faccia finta di guardare le soap opera e guardi invece raffinati film giapponesi collezionando attimi di bellezza ed edizioni vintage di Anna Karenina. Attendo i tuoi recapiti perchè tu possa continuare a sognare con Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili di Paola Calvetti.

      Auguri, sognatori in cerca del tempo perduto.

      Il più bello dei mari
      è quello che non navigammo.
      Il più bello dei nostri figli
      non è ancora cresciuto.
      I più belli dei nostri giorni
      non li abbiamo ancora vissuti.
      E quello
      che vorrei dirti di più bello
      non te l’ho ancora detto.

      Nazim Hikmet
       

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    • La solitudine degli anni dispari

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 28, 2012
      This is your life. Do what you love, and do it often. If you don’t like something, change it. If you don’t like your job, quit. If you don’t have enough time, stop watching TV. If you are looking for the love of your life, stop; they will be waiting for you when you start doing things you love  (The Holstee Manifesto)
       
      The Holstee Manifesto
      from Alice in Wonderland by Lewis Carroll, with Artwork by Yayoi Kusama

        

      Un altro anno agli sgoccioli. Un’altra manciata di giorni, gocce distillate, ore agrodolci in cui stendere gli ultimi bilanci. In Inglese c’è un’espressione che rende benissimo sia l’idea che l’immagine di questo (im)paziente lavorio di fine anno: take stock of, fare il bilancio di qualcosa, valutare una situazione, esaminarla attentamente e tirare le somme.

      E’ stato un 2012 molto lungo, che mi vede boccheggiare attraversando i suoi ultimi giorni, le sue ultime ore, quasi in punta di piedi, come per non lasciare traccia, ansiosa di depositare l’anno che sta per finire come un fardello, chiuderlo dentro una scatola e archiviarlo dentro l’armadio dei ricordi. E ricominciare, leggera, leggera, risvegliarmi la mattina del primo dell’anno come una farfalla appena uscita dal bozzo. Non avere, almeno per un momento, timori, o rimpianti, o ansie. Aprirmi semplicemente al nuovo, all’inesplorato.

      Parto ogni anno con la mia bella lista di buoni propositi, raccolti nel corso dei mesi, scribacchiati distrattamente e disordinatamente qui e lì. Archiviati nella memoria.

      La lista per il 2012 era lunga e ambiziosa. Volevo fosse un anno all’insegna della ricerca della felicità, perchè alla fine non è possibile che ogni essere umano non abbia il diritto di cercare di essere felice almeno una volta al giorno, da prescrizione medica, anche se è difficile, anche se le circostanze non sono ideali, anche se si rischia di fare male a chi ci circonda – e a noi stessi. Volevo fosse un anno orientato alla riscoperta della vera me stessa, della me stessa che volevo essere.

      Ho pianto perché il processo grazie al quale sono divenuta donna è stato doloroso. Ho pianto perché non sono più una bambina con la fede cieca di una bambina. Ho pianto perché i miei occhi sono aperti sulla realtà. Ho pianto perché non posso più credere e io amo credere. Posso ancora amare appassionatamente anche senza credere. Questo significa che amo umanamente.
      Ho pianto perché d’ora in avanti piangerò meno.
      Ho pianto perché ho perso il mio dolore e non sono ancora abituata alla sua assenza.

      Anaïs Nin
       

      E, giunta alla fine di questo lunga corsa ad ostacoli, di queste montagne russe emozionali che sono state il 2012, non riesco ad esimermi dalla tentazione di redigere una lista. Ma, traendo ispirazione da Olivia, contemporanea eroina d’altri tempi, protagonista di Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili di Paola Calvetti, quest’anno non si tratta di buoni propositi, ma di sogni possibili. Sort of.
      Anche perchè non credo nei numeri dispari. Mi parlano di asperità, di ruvidità, di angolosità. Di inenarrabili solitudini. Ergo, ho bisogno di partire preparata.

      Eccoli:

      1) Cambiare lavoro. Lo so, non è un sogno probabile di questi giorni, anzi quasi impossibile. Ma le motivazioni di base sono due.

      – il mio contratto scade tra un anno, quindi trovare un altro lavoro diventa una sorta di imperativo categorico;

      – odio il mio lavoro. Lo odio così tanto che perfino io stessa mi sono stancata di ascoltare le mie lagne. Doveva essere una sistemazione provvisoria, di un paio di mesi che sono rotolati in un paio di anni, tipo valanga. Detesto il freddo e il grigio di Greyville, quella solitudine forzata. Avverto che il tempo passa, e ogni mese, ogni stagione mi allontana ancora di più dallo scoprire qual è la mia vera vocazione – se poi ne ho una. Dal riuscire a creare, produrre qualcosa che mi renda orgogliosa di me stessa, almeno un pochino. Dal trovare il mio posto nel mondo;

      2) Cercare di dormire più di quattro ore a notte, anziché addormentarmi quando si avvicina il mattino, ritardare la sveglia, alzarmi in preda al panico e arrivare in ritardo al lavoro tanto odiato menzionato al punto 1).

      3) Mangiare sano, anziché alternare orge caloriche ad alto tasso di carboidrati, zuccheri e sensi di colpa a pasti saltati.

      4) Esercitarmi al pensiero positivo, che per una pessimista cronica è un andare contro natura. Tornare a fare yoga? La seconda volta che ci ho provato mi si è infiammato il nervo sciatico…

      5) Scrivere un pensiero felice al giorno (vedi punto 4). Anche, e soprattutto, nelle giornate peggiori, nelle giornate più storte. Esercitarsi a cercare momenti di bellezza, quelli che la Barbery definisce i sempre nei mai.

      6) Gestire meglio il mio tempo. Perché la scusa del non ho tempo non regge. C’è sempre tempo da dedicare alle cose che si amano. Distinguere, come faceva quella cultura elegante e raffinatissima che è quella greca, così attenta alle sottigliezze del linguaggio, il chronos, il tempo cronologico, nozione meramente quantitativa, dal kairos, il tempo di qualità, un intervallo indefinito durante il quale accade qualcosa di speciale.

      7) Smettere di pretendere così tanto da me stessa e di aspettare che le cose accadano, o avere la pretesa di farle accadere. Imparare l’arte della pazienza, anche se è una medicina amara.

      8) Scrivere. Tanto. E non per essere letta, non nella speranza di pubblicare qualcosa di significativo, un giorno. Riassegnare alla scrittura quel valore che le davo da bambina: quello di una dimensione magica, curativa, balsamica. Dove le gioie, piccole o grandi che siano, vengano sublimate, i dolori attenuati. Una safety net. Qualcosa che sia mio e mio soltanto, dove lasciarmi libero sfogo, senza inibizioni.

      9) Seguire un corso di scrittura creativa (vedi punto 8). Il mio sogno sarebbe la summer school ad Harvard, ma questo non rientra nella lista dei sogni possibili, mi sa..almeno per ora.

      10) Imparare ad amarmi. O quantomeno, a volermi un po’ di bene.

      11) Essere meno arrabbiata. E’ andata così, in fondo.

      12) Accettare che ci sono alcune perdite dalle quali non ci si riprende mai, che hanno radici profonde, che affondano nell’infanzia. Accettare che ci sono vuoti che non si possono riempire. Accoglierli, anziché respingerli e negarne l’esistenza, e andare avanti.

      13) Leggere di più. Stilare una lista degli autori mai letti e di quelli da approfondire: Zadie Smith, Bukowski, Simone de Beauvoir, Kurt Vonnegut, John Fante, Sylvia Plath, le due Marguerite (Duras e Yourcenar), David Foster Wallace, i grandi della letteratura russa. Leggere sempre in lingua originale, quando possibile. Leggere tanta poesia.

      14) Leggere i giornali ogni giorno (non solo i titoli!)

      15) Non vergognarmi di piangere.

      16) Non vergognarmi di parlare in prima persona.

      17) Circondarmi di colori. Intorno e addosso. Per combattere Greyville a armi pari.

      18) Non cullarmi nell’idea di un altro master. Cercarne uno che mi piaccia, e seguirlo.

      19) Il dottorato. Idea folle e balzana. Sogno impossibile. Ma assicurarsi di aver fatto di tutto per escludere ogni possibilità.

      20) Imparare a fidarmi. Degli altri. Di me stessa.

       

      Quali sono i vostri sogni possibili? Raccontantemeli per ricevere sotto il vostro albero una copia di Olivia, ovvero la lista dei sogni possibili (il giveaway è aperto fino al 31 dicembre).

      Che il 2013 sia propizio a tutti i miei venticinque lettori di manzoniana memoria. Auguri, sognatori.

      Sylvia Plath
        

       

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    • Si, Virginia, Babbo Natale esiste (ovvero un editoriale che ha fatto la storia)

      Posted at 11:50 pm12 by ophelinhap, on December 11, 2012

      Tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano.

                                          Antoine De Saint-Exupéry

      Non so voi, ma, da qualche anno a questa parte, faccio sempre più fatica a calarmi nello spirito natalizio. A tracciare una linea di demarcazione tra i buoni propositi e il buonismo.
      A districarmi tra l’eccitazione di tornare nella casa dove sono cresciuta e ritrovare gli stessi profumi, gli stessi sapori, gli stessi colori di Natali ormai lontani e l’ansia da prestazione in famiglie sempre più allargate, correndo staffette per dividere il poco tempo da expat rientrata in patria.
      Per non parlare dela corsa ai regali, quei regali che spesso diventano mere formalità anzichè piccoli atti d’amore, piccoli gesti per ravvivare antiche consuetudini, come il soffietto sulle braci quasi spente.
      In breve, non sono della disposizione migliore: vorrei piuttosto nascondermi sotto un piumone caldo e morbido e andare in letargo fino a metà gennaio.

      Tuttavia. Tuttavia a volte mi capita di imbattermi in qualcosa che mi fa sorridere, e mi fa essere ancora quella bambina dagli occhi grandi, i ricci scuri e le guanciotte rosse, che addobba accuratamente il vecchio albero di plastica con le palline spaiate, perchè noi bambini le rompevamo tutte.

      E’ per questo che voglio raccontarvi questa storia. Più di un secolo fa, nel 1897 per la precisione, a Manhattan la piccola Virginia (otto anni) chiede al padre, il dottor Philip O’Hanlon, se Babbo Natale esiste davvero. Questa storia non la convince poi più di tanto, dato che la maggior parte dei suoi compagni di classe affermano il contrario..
      Il padre, forse ansioso di scaricare la patata bollente, forse per rassicurarla, le consiglia di scrivere al New York Sun (importante quotidiano dell’epoca di tendenze conservatrici), dicendole che “se lo dice il New York Sun, allora è vero”.

      Questa è la lettera di Virginia:

      Caro direttore, ho otto anni. Alcuni dei miei amici dicono che Babbo Natale non esiste. Mio papà mi ha detto: “se lo vedi scritto sul Sun, sarà vero”. La prego di dirmi la verità: esiste Babbo Natale? Virginia O’Hanlon
       

      Il direttore del Sun, Edward T. Mitchell, affida l’incarico di rispondere alla lettera a Francis Pharcellus Church, uno dei veterani della redazione. Indignato per l’incarico di poco conto affidatogli, Church butta giù in quattro e quattr’otto un pezzo per rispondere alla bambina. Ecco il suo famoso editoriale:

      Virginia, i tuoi amici si sbagliano. Sono stati contagiati dallo scetticismo tipico di questa era piena di scettici. Non credono a nulla se non a quello che vedono. Credono che niente possa esistere se non è comprensibile alle loro piccole menti. Tutte le menti, Virginia, sia degli uomini che dei bambini, sono piccole. In questo nostro grande universo, l’uomo ha l’intelletto di un semplice insetto, di una formica, se lo paragoniamo al mondo senza confini che lo circonda e se lo misuriamo dall’intelligenza che dimostra nel cercare di afferrare la verità e la conoscenza.

      Sì, Virginia, Babbo Natale esiste. Esiste così come esistono l’amore, la generosità e la devozione, e tu sai che abbondano per dare alla tua vita bellezza e gioia. Cielo, come sarebbe triste il mondo se Babbo Natale non esistesse! Sarebbe triste anche se non esistessero delle Virginie. Non ci sarebbe nessuna fede infantile, né poesia, né romanticismo a rendere sopportabile la nostra esistenza. Non avremmo altra gioia se non quella dei sensi e dalla vista. La luce eterna con cui l’infanzia riempie il mondo si spegnerebbe.

      Non credere in Babbo Natale! È come non credere alle fate! Puoi anche fare chiedere a tuo padre che mandi delle persone a tenere d’occhio tutti i comignoli del mondo per vederlo, ma se anche nessuno lo vedesse venire giù, che cosa avrebbero provato? Nessuno vede Babbo Natale, ma non significa che non esista. Le cose più vere del mondo sono proprio quelle che né i bimbi né i grandi riescono a vedere. Hai mai visto le fate ballare sul prato? Naturalmente no, ma questa non è la prova che non siano veramente lì. Nessuno può concepire o immaginare tutte le meraviglie del mondo che non si possono vedere.

      Puoi rompere a metà il sonaglio dei bebé e vedere da dove viene il suo rumore, ma esiste un velo che ricopre il mondo invisibile che nemmeno l’uomo più forte, nemmeno la forza di tutti gli uomini più forti del mondo, potrebbe strappare. Solo la fede, la poesia, l’amore possono spostare quella tenda e mostrare la bellezza e la meraviglia che nasconde. Ma è tutto vero? Ah, Virginia, in tutto il mondo non esiste nient’altro di più vero e durevole. Nessun Babbo Natale? Grazie a Dio lui è vivo e vivrà per sempre. Anche tra mille anni, Virginia, dieci volte diecimila anni da ora, continuerà a far felici i cuori dei bambini.
       

      Senza voler indulgere in vuoti buonismi (perchè non esiste un periodo dell’anno in cui essere più buoni; esiste però forse un periodo in cui ci si permette di fermarsi un attimo, e di rilassarsi un attimo, e di fare l’inventario dell’anno che sta per passare) alla libro Cuore, nè in retoriche vuote e stereotipate, arrivo subito al dunque:  non è dell’esistenza o meno di Babbo Natale che si discute, ma dell’esistenza di lei, Virginia. Quando Church scrive “Sarebbe triste se non esistessero delle Virginie!” scrive una cosa bellissima, e vera nella sua semplicità. Perchè nel momento in cui smetteranno di esistere piccole o grandi Virginie, siano esse O’Hanlon o Woolf, che smetteranno di essere curiose, smetteranno di interrogarsi in maniera critica ma con gli occhi e col cuore aperti alle infinite possibilità dell’invisibile, del remoto, dell’immaginario…allora dovremo accettare che la realtà sia semplicemente quella che si vede e non quella che si crede.

      Non esiste un tempo per essere buoni. Non esiste un tempo per sognare. Non esiste un tempo per allenarsi sul trapezio dell’immaginazione, in bilico tra il possibile e il probabile, tra i desideri e piccole azioni quotidiane tese alla loro realizzazione. Esiste forse un momento in cui fermarsi, guardarsi allo specchio e cercare di vedersi non per quello che si è, ma per quello che si vorrebbe essere. Per l’idea che si ha di se stessi.
      Esiste forse un periodo in cui spalancare le proprie finestre al vento gelido e corroborante della poesia, delle parole, delle storie, per contrastare lo scetticismo di un mondo di scettici. Può questo periodo essere il Natale?

      E allora io scappo subito a rifugiarmi nella mia Dreamland/Neverland, almeno per stanotte, che poi solitamente al sorgere del sole l’incanto si spegne. E, se sono fortunata, spero di incontrarvi una bambina con le gote rosse e la vestaglia di flanella azzurra, naso e manine appiccicati al vetro della finestra del soggiorno, tutta intenta a scrutare le stelle e possibilmente a intravedere una carrozza trainata da renne. Una bambina per cui ancora tutto è possibile.

      Posted in Uncategorized | 4 Comments | Tagged Dreams, Ophelinha, Storie dietro la storia
    • Mad Girl’s Love Song (appunti disordinati)

      Posted at 11:50 pm11 by ophelinhap, on November 24, 2012

       

      Oggi sono un po’ così.
      Di quel così che mi rende taciturna e antipatica, che mi fa rinchiudere a riccio (l’hérisson, c’est moi) e che mi fa venire voglia di stare per conto mio.
      Di quel così che vorrebbe far uscire le parole che non riesce a trovare scrivendo, ma vigliaccamente si rifugia nella lettura (forse si legge perchè si ha paura di scrivere, e perchè è più facile vivere le vite degli altri e veder vivere la propria vita anzichè viverla. Forse leggere è il refugium peccatorum dello scrittore mancato).
      Di quel così che ti va a cercare, nelle pieghe più recondite e nascoste della mente, del cuore, della memoria. Di quel così che ti cerca anche dove sa che non potrebbe mai trovarti.
      Di quel così che avrebbe bisogno di essere rassicurata, di avere delle piccole certezze, di sapere che anche se non è si e non è no, magari forse. Delle possibilità ci si accontenta, in fondo. Basta dirle ad alta voce e metterle per iscritto, e diventano un po’ più vere.
      Di quel così che sa che un giorno mi guarderai e mi vedrai per quello che sono, per quella pesantezza dell’essere che Kundera ha così magistralmente incarnato in Tereza in opposizione a Sabine, lieve, leggera, complice, amante, ballerina, pittrice. O forse non avrai nemmeno bisogno di guardarmi per saperlo. Non avrai nemmeno bisogno di guardarmi perchè ti sveglierai una mattina e semplicemente lo saprai, che in un salone da ballo sarei stata Anna dal velluto nero e non Kitty dalla mussolina bianca.
      Saprai che sono Nausicaa dalle bianche braccia, negli occhi l’immagine dell’affascinante straniero, irretita dalle sue parole,

      Mi inchino a te, signora: sei una dea o una donna mortale?
      Se infatti sei una dea di quelle che abitano l’ampio cielo,
      Artemide sembri, figlia del grande Zeus,
      per l’aspetto e la figura slanciata;
      ma se sei una donna mortale, di quante abitano la terra,
      tre volte beati il padre e la madre veneranda,
      tre volte beati i fratelli: molto il loro cuore
      sempre si colma di gioia grazie a te,
      quando vedono un simile bocciolo intrecciare movenze di danza.
      Ma felice in cuore più di ogni altro
      chi, portando più doni, ti condurrà alla sua casa in sposa. (l.VI, vv.149-159)

      gli occhi pieni di quello straniero che deve ripartire, che deve andare per mare per far ritorno ad Itaca Itaca Itaca, che la sua casa ce l’ha solo là, dove l’algida e perfetta Penelope tesse e distrugge la sua tela nella sua attesa paziente e sicura di sè. Dell’arrivo di Odisseo.

      Saprai che ero Calipso, e una mattina ti sveglierai e scoprirai che non sarò stata capace di averti irretito con la mia bellezza di ninfa né con le mie promesse di immortalità.

      Ti sveglierai e lo saprai, semplicemente. E quella mattina inizierò a ricominciare a perderti. Per poi ritrovarti, se riuscirai ad accettare che le mie ombre spesso prevalgano sulle luci, la pesantezza sulla leggerezza. Se smetterai di rimproverarmi che non rido mai e imparerai ad accontentarti dei miei sorrisi.
      Altrimenti.
      Altrimenti ti avrò solo immaginato. Sarai stato solo una creazione della mia mente. Avrai vissuto solo nei miei pensieri.
      O forse, sarò stata io ad essere solo l’idea di me stessa, per te.

      “I shut my eyes and all the world drops dead;

      I lift my lids and all is born again.

      (I think I made you up inside my head.)

      The stars go waltzing out in blue and red,

      And arbitrary darkness gallops in:

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      I dreamed that you bewitched me into bed

      And sung me moon-struck, kissed me quite insane.

      (I think I made you up inside my head.)

      God topples from the sky, hell’s fires fade:

      Exit seraphim and Satan’s men:

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      I fancied you’d return the way you said,

      But I grow old and I forget your name.

      (I think I made you up inside my head.)

      I should have loved a thunderbird instead;

      At least when spring comes they roar back again.

      I shut my eyes and all the world drops dead.

      (I think I made you up inside my head.)”

      Sylvia Plath

       

      Soundtrack

      Ain’t no cure for love (Leonard Cohen)
      Walk the line (Johnny Cash e June Carter)
      Itaca (Lucio Dalla)

      Posted in Frammenti di poesia, Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Anna Karenina, Confessions of a Dangerous Mind, Dreams, Greyville, In the mood for love, Lettere d'amore, Me myself and I, Memories, Mine vaganti, Ophelinha, Poetry, Sylvia Plath
    • Il coraggio di chi parte, e il coraggio di chi resta

      Posted at 11:50 pm10 by ophelinhap, on October 23, 2012
      in_the_mood_for_love.jpg

       

      Ho sempre provato invidia ed ammirazione per le persone coraggiose. Quelle capaci di inventarsi e reinventarsi. Quelle capaci di cambiare se stesse, di realizzare in sé il cambiamento che vorrebbero vedere realizzato intorno a loro.
      Quelle che cambiano il mondo, pezzetto a pezzetto, e lo rendono un posto migliore. Perché ogni persona più felice, più soddisfatta, più realizzata, ogni persona capace di mettere sottosopra la sua realtà per trovare il suo posto nel mondo lo rende automaticamente un posto migliore.

      Amo le persone che non si rassegnano. Amo, di quell’amore che si può provare solo per gli sconosciuti che ci diventano improvvisamente vicinissimi ed affini per attimi di serendipità istantanea, coloro che rifiutano l’infelicità. Che fuggono verso nuove mete, i cuori leggeri come palloncini, citando Baudelaire. Che non si appiattiscono sotto il peso delle convenzioni, dei dover essere e dei dover fare. Amo coloro che fioriscono in mezzo alle sfide e alla necessità.
      Guardo con sospiri segreti e silenziosi coloro che si riservano il diritto di avere davanti a sé una gamma infinita di possibilità multicolori.

      Ma.

      Ultimamente, dopo giornate come quella di ieri, come quella di oggi, notte bianca dopo notte bianca, penso che in fondo tutti vorremmo poter scappare a realizzare quei sogni nel cassetto prima che il cassetto diventi troppo stretto e i sogni vengano travasati nel dimenticatoio.
      E, forse, restare è a suo modo una manifestazione di coraggio. Forse affrontare la quotidianità è la cosa che in fondo fa più paura. Specie quando la routine è così grigia, e alzarsi la mattina richiede uno sforzo sempre maggiore, e addormentarsi la notte diventa un’impresa impossibile.
      Quando si vorrebbe perdere la strada di casa e perdersi in generale per non ritrovarsi e non farsi più ritrovare e scappare, scappare, indulgendo nella fantasia che non è troppo tardi per ricominciare, che c’è ancora qualche asso nella manica. Che non si sta facendo sempre più tardi, ma c‘è tempo c’è tempo c’è tempo per questo mare infinito di gente, per dirla con Fossati.

      Eppure si rimane. Perché si deve rimanere. Anche se fa male. Anche se si vorrebbe urlare, ma si urla dentro e si cerca di sorridere, rischiando la paresi facciale.
      Anche se un pezzetto di noi muore ogni giorno. Si piantano piccoli semi, sperando diventino un giorno alberi nodosi, sotto le fronde dei quali ripararsi dalla pioggia come dal solleone.

      Si rimane, anche quando per rimanere si rinuncia a qualcuno, a qualcosa, a quella che è la parte migliore di noi stessi, forse.

      Mi piace pensare che anche questa sia una forma di coraggio e non di codardia.

      Posted in Ophelinha scrive | 11 Comments | Tagged Caos calmo, Dreams, Greyville, Le notti bianche, Si sta facendo sempre più tardi
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