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  • Tag: Charles Dickens

    • Il Calendario dell’avvento letterario #9: di verità perfette, crepe e comunità

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Debora di Critica letteraria

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      Quando Manuela mi ha proposto di partecipare al suo delizioso calendario dell’avvento letterario ho subito accettato con entusiasmo, felicissima di prendere parte ad un progetto che finora avevo sempre seguito da lettrice e più che lieta di avere un’ottima ragione per lanciarmi in una lunga riflessione su Natale, libri, tradizione. È quel periodo dell’anno che adoro, entro in modalità elfo con un anticipo imbarazzante e anno dopo anno mi coccolo con piccoli rituali e tradizioni che via via si arricchiscono di nuove abitudini: la maratona dei film a tema, le gite ai mercatini di Natale, la rilettura come ogni anno di A Christmas Carol di Dickens (rigorosamente sdraiata ai piedi dell’albero addobbato), le mille candele profumate che già da sole fanno atmosfera. Insomma, il più tradizionale mood natalizio ad accompagnarmi verso il 25 Dicembre. Ma se la leggerezza calviniana che mi contraddistingue non è mai venuta meno, neanche di fronte a quelle prove che certo non avrei voluto dover affrontare, non ancora, almeno, in questi ultimi anni è diventato necessario creare anche nuove tradizioni, per non perdere lo spirito del Natale e la gioia del periodo, il piacere di stare insieme alle persone che amo.

      I libri, le storie, ancora una volta sanno arrivare a noi quando più ne abbiamo bisogno, spingendoci ad osservare la realtà da un punto di vista differente, destabilizzarci, mettere in discussione le nostre certezze o scaldarci il cuore con un inaspettato messaggio di speranza. Chi mi conosce sa che ho un debole per la letteratura angloamericana e così quest’anno, sbirciando nella mia libreria per questo progetto – a rischio di non uscirne mai più, persa tra gli scaffali – e, lo ammetto, cercando tutt’altro, sono tre le storie, ognuna in qualche modo legata al Natale, che ho deciso di proporre per questo avvento letterario, un piccolissimo viaggio nella narrativa statunitense contemporanea, fra solitudini, crepe, nostalgia, senso di comunità, famiglia. E poi, come un lampo di luce abbagliante, un sentimento di speranza e possibilità, il regalo più bello di una scrittrice che amo profondamente per la grazia con cui sa guardare il mondo.

      Poche cose urlano a gran voce “Natale” come le immagini di New York innevata, le strade piene di luci, i negozi addobbati; è anche lo sguardo curioso di chi arrivato per la prima volta in città ne resta abbagliato ma ne intravede anche le crepe dietro la facciata:

      La neve avvolgeva come un drappo i cespugli, disegnando con cura tutti i rami di tutti gli alberi – una linea di bianco per ogni linea di nero. Il Madison Square Garden, enorme e fresco di inaugurazione, mi sembrava etereo e fiabesco, e la Diana di Saint Gaudens, di cui mi aveva parlato Mrs Henshawe, si stagliava libera e spavalda nell’aria grigia. Indugiai a lungo accanto alla fontana intermittente. Il suo spruzzo regolare dava voce alla piazza. Si alzava e ricadeva con un profondo, allegro sospiro, e aveva un suono musicale, che pareva uscire dalla gola della primavera. […] Mi sembrava che lì, l’inverno non portasse desolazione; era domato, come un orso polare tenuto al guinzaglio da una bella signora.

      Ogni immagine, ogni parola, nel breve romanzo “Il mio nemico mortale”, di Willa Cather, è perfettamente calibrata e lì, appena dietro l’apparenza, oltre lo scintillio delle luci di New York immersa nell’atmosfera natalizia, si avverte il peso di un matrimonio che non è all’altezza di quanto ci si aspettava. Myra, bellissima e brillante, che rinuncia all’agio e alla famiglia per fuggire con l’uomo che ama, e tutto quel che ne riceve in cambio è la realtà, soltanto questa. Non basta il Natale, l’euforia forzata, le luci, la città, a nascondere del tutto gli angoli bui di quel matrimonio, delusioni e meschinità quotidiane, le incomprensioni, le difficoltà. Quelle crepe lungo tutta la facciata, il senso di dramma imminente che pervade il romanzo-racconto in cui i silenzi, gli spazi bianchi, le porte socchiuse, pesano più delle parole sulla pagina.

      Sull’importanza delle parole e sulle barriere, linguistiche o fisiche, un paio di anni fa Cristina Henrìquez ha pubblicato un libro molto bello – da cui si è sviluppato anche un progetto Tumblr correlato – , “Anche noi l’America”: una storia di speranza, difficoltà e sogni; di barriere da abbattere appunto, di nostalgia bruciante per quello che abbiamo perso o dovuto lasciare indietro, di desiderio di appartenenza e luoghi, persone, da poter chiamare casa. Henrìquez prova a dare voce a quegli Unknown Americans, immigrati o cittadini di seconda generazione e la difficile strada verso l’integrazione. Per molti di loro, per gli adulti soprattutto, è come essere sospesi fra due vite, tra il ricordo di ciò che era prima, di casa, famiglia, tradizioni e luoghi conosciuti, e ciò che è adesso la quotidianità, un Paese che troppo spesso guarda con diffidenza e ragiona per stereotipi, la solitudine e la nostalgia che si fa ancora più lacerante nel periodo di Natale.

      Eppure, in quella desolata e fredda cittadina del Delaware, tra problemi famigliari ed economici che difficilmente potranno essere superati, lì, in quel condominio fatiscente, nel giorno di Natale si crea la comunità: si apre la porta di casa Toro, tutti i vicini chiamati a riunirsi, festeggiare, mettere da parte per un momento differenze e problemi e ritrovarsi come comunità. Come famiglia. Messico, Panama, Nicaragua, Paraguay, Venezuela, sono tutti lì, in quell’appartamento riscaldato dalle risate, dalle voci, dal desiderio di sentirsi vicini e ritrovare un pezzetto di casa:

      […] con tanta gente stipata nel nostro appartamento, cominciammo a sentire un po’ di più lo spirito del Natale. Tutti rabbrividivano e ridevano e bevevano e parlavano. Quando finimmo il caffè mia madre preparò una pentola di cacao bollente mischiando un po’ di panna intera e delle tavolette di cioccolato che aveva trovato in fondo a un pensile e aveva squagliato sui fornelli. Il señor Rivera domandò se aveva dei bastoncini di cannella da mettere nelle tazze per fare la cioccolata alla messicana e mia madre recuperò un vasetto di cannella in polvere da un altro pensile e l’aggiunse alla pentola.

       Infine, c’è un libro, ma forse per meglio dire una scrittrice, che più di ogni altra riesce a colmare di grazia e speranza ogni pagina, anche le più dure, con il dono di una scrittura perfetta, ma soprattutto con quello ancora più straordinario di riuscire a vedere quegli “attimi di grazia” nel caos della vita. Ogni pagina che leggo – e rileggo, ancora e ancora – di Elizabeth Strout riesce in qualche modo a riappacificarmi con la scrittura e con il mondo: avevo amato “Olive Kitteridge” e “Mi chiamo Lucy Barton”, ma è nelle pagine finali di “Tutto è possibile” – un libro arrivato, come le cose migliori, esattamente nel momento in cui più ne avevo bisogno – che ho capito davvero a cosa Strout si riferisse, a quella verità perfetta e meravigliosa.

      In quella storia che chiude il romanzo-racconto della piccola comunità di Amgash, Illinois, quel microcosmo di umanità e imperfezioni, ci sono lampi di bellezza abbaglianti. La vigilia di Natale, la recita a cui ogni anno la famiglia di Abel non manca di assistere, i piccoli significativi dettagli rivelatori che qualcosa non va come ci si aspetterebbe nella vita ordinata dei Blaine: piccole sfumature, un sorriso tirato, un tono sbrigativo, il battito del cuore un po’ troppo accelerato, il buio che improvvisamente cala nella sala a metà spettacolo e gli istanti di panico. Lì, in quella notte di Natale, il meccanismo si inceppa, ma è anche l’occasione per riflettere davvero sul tempo, su ciò che è stato, sulle parti che recitiamo. Sulle solitudini che ci portiamo dentro. E che lì, in un teatro rimasto vuoto, creano appunto quell’attimo di grazia e di umana connessione. Perché si, non smetterò mai di credere che tutto è davvero possibile.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged A Christmas Carol, Anche noi l'America, Charles Dickens, Cristina Henríquez, Critica letteraria, Elizabeth Strout, Il mio nemico mortale, Lucy Barton, Olive Kitteridge, Willa Cather
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #8: #vestitiperilibri – Dickens in verde e rosso

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 8, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Marina di Interno storie

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      Se si pensa al Natale nella sua versione più culturale vengono subito in mente i classici della letteratura anglosassone moderna, il cui iniziatore è proprio Charles Dickens.

      Nell’Inghilterra vittoriana prende corpo la celebrazione del Natale, grazie soprattutto al recupero antropologico ad opera di Thomas K. Hervey nel suo The Book of Christmas  (1837), dove ha indagato il passato più lontano per riportare a galla le consuetudini medievali, periodo in cui la festività ha assunto un aspetto importante. Perché dunque questa riappropriazione? Nei secoli avvenire è caduta nell’oblio, nonostante sia stata ricordata con nostalgia da Chaucer e Shakespeare. Si parla dunque di una riscoperta.

      Dickens è il vero autore moderno del Natale, scrive Adam Gopnik nell’Invenzione dell’inverno (Guanda), ha imparato la lezione di Hervey e ha catapultato questa festività nell’atmosfera magica della fiaba, corredando la sua bibliografia di un ciclo di libri destinato al 25 dicembre.

      Nel primo romanzo, Il circolo Pickwick, il «Natale è celebrato pattinando sul ghiaccio, mangiando e festeggiando nell’allegria generale».

      Da questo momento in poi diverrà una festa secolarizzata.

      Piccola parentesi frivola.

      #Vestitiperilibri è una rubrica che curo su Instagram, dedicata agli abiti e ai libri: accosta titoli per cromie e, a volte citazioni, con il guardaroba. E in questa occasione si veste delle due fiabe dickensiane, Il Grillo del Focolare e A Christmas Carol, entrambe curate e tradotte da Enrico De Luca per Caravaggio editore, comprese di note esplicative.

      I due colori per eccellenza del Natale, rosso e verde, giocano per opposizioni e piccole suggestioni letterarie.

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      A Christmas Carol rappresenta l’idea del Natale svincolato dalla religione: il dualismo tra capitalismo e carità, ricordi e cinismo, paternalismo e individualismo. Gli ingredienti per fare di Scrooge il rappresentante del materialismo ci sono tutti, ma fortunatamente ha la possibilità di redimersi.

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      Il Grillo del Focolare è una fiaba domestica, in cui equivoci, spiriti e fate hanno un ruolo non secondario. Anche qui troviamo uno Scrooge, Tackleton, ma le atmosfere e la posta in gioco sono differenti rispetto alla sua opera più nota, nonostante ciò il calore umano ha il potere sciogliere i cuori più freddi.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, #vestitiperilibri, A Christmas Carol, Adam Gopnik, Caravaggio editore, Charles Dickens, Guanda, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il circolo Pickwick, Il grillo del focolare, interno storie, Invenzione dell’inverno, Marina Grillo, The Book of Christmas, Thomas K. Hervey, Un Canto di Natale, un Natale inglese
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #12: “La Casa Sfitta” di Dickens, Collins, Gaskell, Procter

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 12, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Michela di Appuntario

      “[…] Avevo visto tutto questo durante la mia prima visita, e avevo fatto notare a Trottle che al cartello nero con i termini dell’affitto era caduto da un pezzo, che il resto era diventato illeggibile, e che perfino la pietra degli scalini d’ingresso era spaccata. Ciononostante, sedetti a fare colazione in quella mattina del cinque novembre, fissando la casa attraverso i miei occhiali, come se non l’avessi mai vista prima.”

      Cosa succederebbe se alcuni dei più grandi scrittori si riunissero sotto le festività natalizie per scrivere ognuno un racconto?

      Oggi accade che alcuni scrittori del momento vengano chiamati da una casa editrice per pubblicare una raccolta di racconti incentrata sul tema del Natale, ma nell’anno 1858 una tale pubblicazione divenne un clamoroso successo di pubblico; non soltanto per l’originalità e bellezza delle novelle, ma soprattutto per la celebrità dei suoi autori.

      Il sette dicembre di quell’anno, uscirono come supplemento per il periodico settimanale inglese “Household Words”, gestito dal romanziere Charles Dickens ( 1812-1870 ), quattro racconti di quattro dei più conosciuti esponenti letterari dell’epoca vittoriana : Elizabeth Gaskell ( 1810-1865 ), Wilkie Collins ( 1824-1889 ), Adelaide Anne Procter ( 1825-1864 ) e Dickens stesso.

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      La popolarità dell’opera suscitò gran fervore nella grigia Londra di metà Ottocento, soprattutto nella cosiddetta middle class, visto che questa sapeva unire il genere mistery, allora molto in voga, all’ happy ending che ci si doveva aspettare da una pubblicazione natalizia.

      L’idea di una collaborazione letteraria balenò nella mente del già apprezzato Dickens ( “Il Circolo Pickwick” 1836-37, “Le Avventure di Oliver Twist” 1837-38 ), insieme al suo protetto Collins, maestro del genere poliziesco e del sensational novel ( “La Donna in Bianco” 1859 ), l’opera doveva risultare di grande ambizioni : essi crearono l’ambientazione e la cornice di una storia che doveva essere formata ed ampliata dalle penne della Gaskell ( “Cranford” 1853, “Nord e Sud” 1855 ), e della Procter, giovanissima poetessa molto apprezzata dalla regina.

      Un’anziana signora zitella della vecchia aristocrazia inglese, Sophonisba, trascorre qualche mese nella capitale inglese per dare più brio e vivacità alla sua monotona vita secondo i consigli del suo medico. Acquista per questo una casa comoda e accogliente che come unico inconveniente presenta il fatto di essere adiacente ad una casa sfitta, malmessa e fatiscente da anni che cozza esteticamente con la graziosa strada. Sophonisba rimane turbata da quello scheletro di casa e insieme attratta, tutt’al più quando crede di vederne da un buco della persiana un occhio nascosto.

      Incuriosita dalla vicenda, le viene in soccorso un suo antico spasimante Jabez Jarber che si presta come investigatore. Di buona voglia indaga anche il maggiordomo di Sophonisba, Trottle, iniziando con Jarber una vera sfida su chi riuscirà a scoprirne il segreto di tanto abbandono.

      Jarber attraverso ricerche e consultazioni arriva a svelare alcuni dei precedenti inquilini che vi abitarono: iniziano qui i racconti.

      Il Matrimonio di Manchester. La casa originariamente apparteneva ad una ricca famiglia di Manchester, gli Openshaw. Di mano della Gaskell, questo racconto ci mostra la difficile storia della signora Openshaw, Alice, orfana di padre e madre che tra mille tormenti, dalla morte del marito alla malattia della figlia, riuscirà a condurre finalmente una esistenza tranquilla e serena accanto ad un uomo che la protegge. Forse il più bello e completo dei racconti, colpisce soprattutto per la profondità del personaggio femminile insieme ad una analisi introspettiva e psicologica e il sempre presente studio dell’ambiente provinciale inglese.

      Ingresso in Società. In seguito la casa venne occupata da un direttore di circo. Questo aveva tra i suoi dipendenti un nano, conosciuto col soprannome di Chops, che dopo una vittoria ad una lotteria, sentendosi inadeguato al suo stile di vita, tenta la scalata sociale entrando nell’ élite londinese. Deluso dalla tanta corruzione e dall’ipocrisia degli alti ceti, ritorna nel suo circo affermando quanto la società sia ben peggiore di un circo.

      “Quando ero fuori dalla Società, ero pagato poco per essere guardato. Quando sono entrato in Società, ho pagato caro per essere guardato.”

      Non è difficile in quest’ultimo racconto riconoscere la firma di Charles Dickens, da sempre acuto esaminatore della società contemporanea mediante la focalizzazione sulla povertà e sulle discriminazioni sociali, qui presentate con l’aggiunta del grottesco e del surreale, rendono la complessa genialità dell’autore evidente e confermata.

      Nella terza “fonte”, Tre Sere nella Casa, Adelaide Procter da forma ad un lungo poema dove la protagonista Bertha dopo aver dato la sua vita per la cura e le attenzioni al fratello, trascurando la sua giovinezza, si vede sostituita da una giovane moglie. Alla morte di quest’ultimo deve subire anche il dolore di vedere la cognata sposare l’uomo che ha sempre amato.

      Uno struggimento ritmico che evidenzia il fervente cattolicesimo simbolico della poetessa.

      Nel risolutivo racconto Il Rapporto di Trottle, troviamo il fido e audace maggiordomo di Sophonisba, scoprire ciò che veramente si nasconde nella casa sfitta, lasciando il lettore sopraffatto dalla sorpresa, ma non sorpreso dalla firma che porta l’autore della narrazione : Wilkie Collins. Collins si distingueva nel suo stile con storie di mistero, melodrammatiche, con elementi di suspense e composte con minuzioso realismo e dagli intrecci complessi, comunque non molto evidenti qui, data la brevità del racconto.

      Nel conclusivo capitolo, scritto a quattro mani dalla coppia Dickens-Collins (ma con più tracce del primo), l’anziana Sophonisba dal cuore e dalla mente rischiarati dalla gioia, trova il giusto finale di questi misteriosi avvenimenti.

      La collaborazione, dato il successo, si ripeté l’anno dopo, questa volta in una nuova rivista “All the Year Round” con il titolo “La Casa dei Fantasmi”.

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      Il carattere filantropico ed edificante dell’opera rimane il vero motivo della sua nascita, come era insito nella letteratura vittoriana.

      Il finale pecca sicuramente di mielosità e di una vena fin troppo sentimentale e patetica, ma per il giorno di Natale è una colpa che si può ben facilmente dimenticare.

      Posted in Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Adelaide Anne Procter, Appuntario, Charles Dickens, Cranford, Elizabeth Gaskell, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il circolo Pickwick, La donna in bianco, Le avventure di Oliver Twist, Michela Piccarozzi, Nord e Sud, Wilkie Collins
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #11: il circolo Pickwick

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 11, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Laura de Il tè tostato

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      11 Dicembre. Il mio compleanno. Quattordici giorni a Natale.

      Ho ricevuto un regalo in anticipo ed è il più natalizio di tutti, un librone grande e infinito, da leggere sul divano con la coperta sulle gambe, mente brillano le lucine dell’albero. Non ho avuto questa pazienza, però. Non ho aspettato le vacanze, l’ho aperto e divorato a un ritmo di cento pagine al giorno e a volte di più, in queste notti insonni di dicembre.

      Il circolo Pickwick di Charles Dickens, il mio ultimo viaggio in un mondo letterario che non muore mai. Nemmeno quando il libro finisce. Perché Pickwick resta addosso, almeno per un po’.

      Ci sono quattro signori inglesi (un numero molto britannico evidentemente), Augustus Snodgrass (il poeta), Nathaniel Winkler (il presunto sportivo), Tracy Tupman (l’uomo che -pare- piaccia alle donne) e naturalmente Samuel Pickwick (il mio dolce e amabile Pickwick), che nel 1827 attraversano l’Inghilterra descrivendone luoghi e personaggi strani, ed è questa l’attività del circolo, una specie di esplorazione geografica e antropologica. Chiaro è che in ottocento pagine succede di tutto, truffe, amori e nuove amicizie, ma sempre accade che Dickens (l’uomo del mortifero Natale futuro) doni una luce lieta e accogliente allo sguardo dei suoi quattro uomini, di Pickwick in modo particolare. Così, le bizzarrie umane diventano benevoli racconti di un mondo che fu e di una natura che profondamente resta, che sia civettuola, sbadata, fedele, arguta, subdola o disperata. Pickwick osserva tutti con curiosa propensione e con lui Dickens costruisce un percorso lungo e divertente, perché si ride ad alta voce sul quel divano vacanziero con lucine, ma poi, quando arriva il Natale, ci si ferma a leggere di cosa davvero sia quella strana aria frizzate che ci gira intorno. Perché la felicità e il luccichio di dicembre si portano dietro quel dolorino nostalgico che ci fa guardare lucine e nastri rossi già col vuoto di quando saranno smontati, già col pensiero che un altro anno si sta preparando a scomparire per sempre, ed è stato un attimo, e con lui se ne sono andate persone e cose, persone e momenti, persone e sentimenti, ma arriverà altro, che sappiamo mai rimpiazzerà ciò che col 31 dicembre si allontana. Ma arriverà di certo, e sarà di nuovo la nostra vita. Un Natale dietro l’altro, gioia e nostalgia, e Charles Dickens lo racconta meglio di tutti, qui nella traduzione di Marco Rossari, dall’edizione appena uscita per Einaudi:

      Industriosi come api, se non leggeri come piume, i quattro Pickwickiani si riunirono la mattina del ventidue dicembre, nell’anno di grazia in cui si svolsero le loro avventure, qui fedelmente riportate. Natale era alle porte, in tutta la sua schietta e allegra cordialità: era la stagione dell’accoglienza, dell’allegria e della bontà. Come un vecchio filosofo, l’anno passato si apprestava a convocare gli amici intimi al proprio capezzale e, con l’eco dei bagordi e dei brindisi in lontananza, a passare placidamente a miglior vita. Lieta e gioiosa era quella stagione e lieti e gioiosi almeno quattro dei tanti cuori rallegrati dal suo sopraggiungere.

       

      Posted in Letteratura e dintorni | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, Charles Dickens, Einaudi editore, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il circolo Pickwick, Il tè tostato, Laura Ganzetti, Letteratura inglese, Marco Rossari, Natale inglese
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #9: un Natale di privazioni

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2017

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      Questa casella è scritta e aperta da Erica di La Leggivendola

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      Il Calendario dell’Avvento di Manuela è diventato una delle mie tradizioni natalizie preferite. Sarà anche che sono intollerante al lattosio, quindi se faccio tanto di avvicinarmi ai Calendari che si trovano nei supermercati, quelli coi cioccolatini al latte dentro, ecco, il Natale mi acquista tutto un altro significato fatto di dolore e sofferenza.

      Dal 2015 penso dunque a un tema simil-natalizio e ne chiacchiero gioiosamente su queste allegre lande internettiane, lasciando che una colonna sonora adeguata mi guidi nella scrittura del post. Oggi tocca allo Schiaccianoci di Tchaikovsij – o comunque intendiate scriverlo, che le possibilità non mancano.

      Il Natale nella letteratura ha molteplici sfaccettature; c’è il lato romantico, quello drammatico-familiare, il tema della redenzione. Cotanta festività è stata presa e ripresa così tante volte da sviluppare un numero indecifrabile di significati e sfumature.

      C’è però un particolare aspetto del Natale cui mi viene istintivo pensare, quando lo collego al magico mondo della narrativa, ed è la povertà. Il Natale inteso come modestia, sacrificio e privazioni.

      Natale in casa March è l’esempio perfetto. Piccole donne ne cattura l’essenza fin dall’incipit, con quella chiacchierata delle sorelle davanti al fuoco che decidono di fare a meno dei regali per quell’anno, in modo da poter rendere più lieto il Natale della madre. E che fa la madre, la mattina di Natale? Sceglie lei stessa di privarsi di una lauta colazione insieme alle ragazze, e di comune accordo con loro sfama piuttosto un’intera famiglia di umilissima estrazione.Ma forse sbaglio a iniziare il discorso con Piccole donne. So bene che il binomio “Sacrificio” e “Natale” porta alla mente in modo assai più diretto un’altra opera di narrativa, che tutti conosciamo soprattutto per via delle innumerevoli trasposizioni cinematografiche e animate. Mi riferisco ovviamente a Canto di Natale di Charles Dickens, i cui personaggi per me avranno sempre i volti affibbiati dalla Disney. Scusami, Charles, ma l’espressione più calzante del tuo Scrooge per me rimane Zio Paperone.

      C’è ancora un racconto di Hans Christian Andersen, il più grande traumatizzatore nella storia della letteratura. George R. R. Martin, fatti da parte, che la vera divinità del massacro è il vecchio Hans. Il soldatino di stagno sarà pure la mia favola preferita, ma diamine le lacrime. Ma non è la tragica vicenda del soldatino il magico legame tra Andersen e il Natale; non con La piccola fiammiferaia in giro per le nostre librerie. Un racconto dedicato interamente alla morte per congelamento di una bambina, con tanto di descrizione delle sue allucinazioni. E neanche una mezza lamentela dal Moige.

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      La piccola fammiferaia si collega facilmente al Natale di Martin di Lev Tolstoj; poche pagine irte di tristezza, sulla disgrazia di un ciabattino rimasto solo dopo aver perso sia la moglie che i figli. Notiamo subito la vena allegra che contraddistigue l’autore, e non è difficile intuire un finale di morte dato comunque per lieto: Martin si riunisce alla famiglia, col Vangelo tra le mani e un sorriso sulle labra.

      A pensarci bene non è affatto strano che una festa che siamo ormai abituati a vivere come un momento di allegria e ritrovo, calore, cibo e (doloroso) sperpero di denaro, fosse in altri tempi primariamente associata con povertà e privazioni. Che la datazione sia o meno quella giusta, tecnicamente il Natale dovrebbe rifarsi alle difficili vicende di una famiglia assai modesta, costretta a trovare rifugio in una stalla. Chi interpreta la festa partendo da un’ottica cristiana, ne riprenderà i valori primigeni di povertà e sacrificio, facendone il vero tema dei racconti. Dobbiamo anche pensare che un tempo la letteratura per l’infanzia aveva una funzione più educativa che ludica, e che tramite favole e storielle si tentava di far trangugiare ai fanciulli le basi di un comportamento corretto, di umiltà e obbedienza.

      Chi parla di Natale in tempi più recenti, da prospettive ben più laiche e moderne, lo fa spesso per lamentare il consumismo imperante, per indicare con sprezzo l’ipocrisia di una festa che vorrebbe fingersi sentita, ma che pare esprimersi al suo meglio nell’opposto del suo spirito primigenio. Ne hanno parlato Dino Buzzati in Cos’è il Natale oggi? e Italo Calvino in I figli di Babbo Natale, e perfino Stefano Benni in un glaciale racconto intitolato È Natale.

      E io? Io mangio il panettone – da un paio d’anni senza togliere né uvetta né canditi, evidente segnale di crescita e maturazione. Attendo il momento in cui allestirò l’albero con ansia e trepidazione. Il pensiero dei regali – quelli da fare, non quelli da scartare – mi inebria che manco il profumo dei biscotti alla cannella.

      Adoro il Natale. Per i motivi sbagliati, che tutti gli autori di cui ho chiacchierato oggi mi sputerebbero nel piatto. Ma le lucine di Natale, dai. Le lucine di Natale.

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #21: l’inverno inglese e altri animali

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 21, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Marina di Interno storie

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      Che il Natale sia argomento principe della letteratura per l’infanzia, soprattutto quella inglese, è cosa nota. E non così complicato lasciare incantare dai racconti che lo scandagliano in lungo e in largo.

      Kenneth Grahame, Beatrix Potter e Jill Barklem, autori conosciuti, con toni differenti affrontano il tema natalizio o lo sfiorano in qualche modo.

      Kenneth Grahame in Il vento nei salici dedica una storia alle festività, Giorni di Natale.

      Topo e Talpa rincasano dopo una giornata di esplorazioni attraversano un villaggio. Il timore che possano essere scoperti dagli uomini è alto, ma a quell’ora tra le strade innevate

      “non si vedeva più quasi nulla, se non i foschi riquadri arancioni delle finestre ai due lati della strada, da dove si riversava nel buio di fuori la luce dei caminetti o delle lampade.

      I due spettatori, così lontani dalla propria casa, guardavano con occhi pieni di nostalgia un gatto che veniva accarezzato, un bambino addormentato preso in braccio e messo a letto, un uomo stanco che si stiracchiava e vuotava la pipa battendola su un ceppo.”

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      Tale è la tristezza che Talpa, durante il cammino, sente il richiamo della sua vecchia dimora, che ha lasciato da molto tempo. Tenta di seguire l’istinto ma Topo continua sui suoi passi. Finché preso dallo sconforto non singhiozza, solo allora Topo acconsente di esaudire il desiderio dell’amico.

      La casa è polverosa, modesta e in batter d’occhio il calore del camino la rende accogliente.

      In cortile i topolini di campagna intonano canzoni natalizie

      “che i loro antenati avevano composto nei campi campi stretti dalla morsa del gelo o mentre la neve li costringeva a stare intorno al fuoco; canzoni tramandate per essere cantate lungo le strade fangose, alle finestre illuminate dalla lampade, nel periodo natalizio.”

      Bisogna festeggiare il ritorno a casa.

      Con Beatrix Potter (quest’anno ricorrono i 150 anni dalla nascita) invece, ci spostiamo in città e più precisamente in Westgate Street, a Gloucester. Un sarto deve terminare una giacca e un panciotto per il sindaco, in occasione dell’imminente matrimonio che si svolgerà il giorno di Natale. A corto di filo di seta color ciliegia per le asole, delega l’acquisto del materiale, insieme alla cena, al suo gatto Simpkin. Nel frattempo la neve imbianca la città.

      Mentre il gatto è in giro per le commissioni, nella stanza si solleva un tramestio via via sempre più intenso: sotto ciascuna tazza è nascosto un topolino in elegantissimi abiti. Saranno la ricompensa per Simpkin, dice il sarto.

      Al ritorno il gatto nasconde sotto una tazza la matassina perché troppo impegnato alla ricerca della sua cena. Il vecchio stanco e deluso, ignoro del dispetto, cade in uno stato di torpore. Durante la notte la febbre aumenta e in preda agli incubi riecheggia nella sua testa «Non ho più filo». Il 25 dicembre è alle porte.

      Così nel laboratorio i topolini mossi da tanta pietà si mettono al lavoro per aiutare il poveruomo.

      Qui il Natale, menzionato nella sua festività, ha una connotazione precisa come aiuto al prossimo in difficoltà, ha un suo contesto il Gloucestershire. A quanto pare storia in qualche modo vera, come afferma la Potter nella dedica iniziale all’amica Freda.

      A differenza della Potter, Jill Barklem ha una profonda devozione per i dettagli che si consumano nelle tonalità vive, negli oggetti. Tutto è ben definito. La Potter scrive e dipinge in punta di matita, il racconto e le illustrazioni si sfumano nella delicatezza.

      Nella realtà incantata di Jill Barklem si festeggia il Mezzinverno, ossia il solstizio, un brindisi alla lontana estate e alla primavera. A ridosso del Natale. E lo richiamano gli agrifogli che decorano Palazzo della Vecchia Quercia insieme all’edera e al vischio.

      Primulina e Peverino hanno in serbo per la serata un breve inframmezzo teatrale, ma è impossibile concentrarsi in mezzo al baccano per i preparativi. Così la signora Margherita de Topis, la madre di Primulina, intenta a sfornare biscotti e altre prelibatezze, gli indica la soffitta come luogo ideale, che si rivelerà una vera distrazione per giochi, lettere,vecchie memorie.

      Durante l’esplorazione, Peverino ha scoperto una porta chiusa ma solo con la chiave trovata da Primulina in un cassetto riescono ad aprirla.

      Si perdono in un cunicolo che apre su un’enorme scalinata. Timorosi e incuriositi raggiungono una sala dismessa, riccamente decorata in cui la polvere fa da padrona. Qui scoprono un luogo per i prossimi giochi e i costumi antichi per inscenare la loro sorpresa agli ospiti.

      I festeggiamenti riecheggiano nei lustrini, il calore del fuoco scalda l’ambiente e la musica allieta i partecipanti. Come nel racconto successivo, Storia d’inverno. Un’abbondante nevicata sorprende gli abitanti del bosco che si risvegliano completamente sommersi: «Ce n’è abbastanza per un Ballo della Neve, che dice?» gridò il signor Dal Pruno alla signora Pomelli.

      Solo la signora Smeraldina ha un ricordo vivo di questa tradizione interrotta. E così per riprendere la vecchia consuetudine, si allestisce una sala da ghiaccio degna delle grandi occasioni.

      “Quando la neve cade lenta lenta

      a poco a poco tutto si addormenta,

      quando si gela all’usignolo il canto

      e scende l’inverno il suo manto,

      al Ballo della Neve

      dalla sera al mattino

      danza e si diverte l’allegro topolino.”

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      È un mondo in miniatura quello portato sulle pagine dai tre scrittori – Potter, Graheme, Barklem -, gli animali sono i protagonisti assoluti e in questi casi assumono caratterizzazioni antropomorfe, espediente per analizzare la natura umana. La caratteristica più evidente è la facoltà di parola:

      “Ma la leggenda vuole che tutti gli animali possano parlare nella notte tra la vigilia e il mattino di Natale (benché siano pochi quelli che riescono a sentirli o a capire quel che dicono).

      […]

      Da tutti i tetti e gli spioventi e le vecchie case di legno di Gloucester giunse il suono di mille voci liete che intonavano gli antichi canti di Natale, quelli che tutti conosciamo, e altri mai sentiti.”

      Attraverso la piccola lente si riesce a restituire un quadro più vicino alla realtà, molto evidente in Beatrix Potter e in Grahame. Quest’ultimo sottolinea la disparità nella società inglese rurale.

      L’elemento fantastico si accompagna a una sottile vena ironica in grado di sottolineare la durezza della vita, il divario sociale, nonché pregi e difetti dell’animo umano. Insomma, una narrazione in grado di educare gli animi.

      Il più emblematico è il gatto Simpkin che dimostra di essere egoista e scaltro, qualità o meglio difetti che gli sono stati attribuiti dalla notte dei tempi e che la storia di Beatrix Potter non scalfisce.

      I topolini, la grande comunità del sottosuolo della Potter e della Barklem, sono animati da un forte spirito collaborativo, si aiutano e aiutano. Il Sarto di Gloucester è l’unico racconto in cui mondo animale e umano si incrociano: il vecchio è ignaro del soccorso che i topi daranno al suo lavoro, li nota nascosti sotto il servizio di porcellana e pensa al suo gatto. Nel Vento nei salici, Topo e Talpa contemplano di soppiatto le scene familiari intorno al fuoco mentre fuori nevica ma sollevare il morale dell’amico quando rientrerà nella vecchia tana.

      Proiettare la storia in un scenario accogliente come il Natale è motivo per enfatizzare il significato profondo. Niente è lasciato al caso.

      Nei racconti della Barklem, a Boscodirovo l’idillio è in ogni pagina, anche la neve è un’occasione per rinsaldare il legame comunitario attraversano i ricordi di un tempo. Ancor di più alcuni valori quali l’amicizia, il rispetto verso gli altri, l’amore per i doni della terra, la gentilezza e soprattutto la meraviglia. Meravigliarsi sempre e fare di un problema una virtù. Come narra Storia d’inverno.

      È stato Charles Dickens ad aprire una finestra sul Natale celebrandolo nei suoi scritti e inaugurando una fortuna tradizione di libri e raccolte sul giorno più bello dell’anno; poi la regina Vittoria e Alberto di Sassonia hanno corredato il Natale dei suoi elementi e riti caratteristici. Beatrix Potter e Kenneth Grahame scrivono nei primi anni del 900, Jill Barklem erediterà quel mondo nascosto.

      Il vento nei salici, Kenneth Grahame, PescaMela Edizioni, 2001

      Il sarto di Gloucester, Beatrix Potter, Sperling & Kupfer, 1988

      La scala segreta. I racconti di Boscodirovo, Jill Barklem, EL, 2001

      Storia d’inverno, Jill Barklem, EL, 1980

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #17:Natale con Charles Dickens

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 17, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Noemi di Tazzina di caffè

      “Di nessun altro scrittore del suo secolo si potrà dire che ha aumentato la gioia del mondo. Alla lettura dei suoi libri, milioni di occhi brillarono di lacrime: migliaia di persone, il cui riso era sfiorito e spento, lo ritrovarono in lui”

      (Stefan Zweig)

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      Mi sono fatta un’idea, dopo tanto leggere libri e storie. Idea che sicuramente potrà cambiare nel tempo, ma che ora come ora sento tanto autentica quanto semplice. Ed è questa: la scrittura può essere una grande consolazione dalle difficoltà della vita.

      Chi ad esempio se l’è vista brutta durante la prima parte dell’esistenza, come è il caso di Charles Dickens, può diventare un geniale consolatore, uno scrittore capace, con le sue storie e il suo stile, di restituire qualche scintilla di gioia perduta.

      Di lui si sono dette e scritte infinite cose e il suo Canto di Natale resta a mio parere il più grande e indiscusso capolavoro del genere scrittura-natalizia. Perché nessuno come lui ha saputo toccare le corde più profonde di adulti e bambini allo stesso modo, andando al cuore autentico della faccenda, ovvero quale sia il senso, oltre a quello religioso, di una festa millenaria che torna ogni anno a coinvolgerci e a porci alcune domande su chi siamo stati, siamo oggi e saremo un domani.

      Ma Dickens non ha scritto solo quel racconto sul Natale, ne compose altri tra il 1843 e il 1848 che sono confluiti in questa raccolta (che merita senz’altro di finire sotto i nostri alberi!).

      La mia copia di Racconti di Natale fa parte di una collana dell’Istituto Geografico De Agostini di tanti anni fa – nello specifico la mia è del 1981 –  che usciva in edicola: i famosi libri “grigi” che conferiscono, ritrovati oggi, una veste poeticamente vintage alle opere. Questa raccolta contiene cinque storie di Natale una più commovente dell’altra.

      C’è la Ballata di Natale, che apre le danze con le storie dei fantasmi e il temibile Mister Scrooge. Ma ci sono anche altre storie surreali in cui non mancano personaggi strani e fantastici, come un bizzarro grillo pieno di ironia o certe campane che suonano messaggi e visioni del futuro, o atmosfere che portano sempre il lettore a domandarsi come sia il proprio di Natale.

      Dickens, come è tipico di chi ha sofferto abbandono e solitudine, aveva un gran bisogno di calore umano, di famiglia e di festa e provò a trasformare questa necessità in letterature. Da vivo, sappiamo che coinvolgeva moltissimi lettori nelle sue performance e durante i suoi innumerevoli viaggi; letture che oggi chiameremmo reading. E ancora adesso, attraverso le pagine scritte, è in grado di toccare in profondità il cuore umano, la sua unicità è inconfondibile così come lo è la sua capacità di esplorare i drammi della società inglese – e per estensione la condizione umana sbilanciata di chi vive in città  – balzandovi però con la leggerezza di fate e folletti che si avvicendano insieme ai fantasmi. Mai come in Dickens la realtà e la fantasia si compenetrano in modo tanto naturale e con ampio respiro.

      Tutte e cinque queste storie ruotano attorno al “focolare” domestico e hanno un lieto fine: non vuole essere uno spoiler ma una rassicurazione. Quel che disperatamente – ma forte di un talento fuori dal comune – volle trasmetterci il nostro adorato autore inglese – alla fine – non è altro che questo: nonostante le sciagure e la cupezza della vita, per chi sa vederla, esiste sempre una scintilla, magari piccola come una lucina di Natale, eppure preziosa e calorosa come una raggio di sole. Ecco infine un esempio di semplicità e luminosità dickensiane: un incipit di un capitolo qualsiasi di uno dei racconti della raccolta:

      “Da quella notte del ritorno il mondo era di sei anni più vecchio. Era un caldo pomeriggio autunnale ed era piovuto molto. A un tratto il sole venne fuori improvvisamente tra le nubi e il vecchio campo di battaglia, nel vederlo, si trasformò brillantemente e allegramente in una distesa verde, porgendogli un’impressionante benvenuto, che si stese su tutto il paese, come se fosse stato acceso un fuoco di gioia al quale rispondessero mille stazioni”

      Ed è proprio così, la lettura di queste storie di Natale. Un accendersi di emozioni positive, simile a gioie e scintille, che si credevano dimenticate.

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #9: il valore delle piccole cose

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da Mariateresa di Casa di Ringhiera

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      Quand’ero piccola – si parla di tutta la durata degli anni Novanta –, dal primo di novembre tutti cominciavano a pensare al Natale. Che disdetta, pensavo, non sanno che questo mese si conclude ogni anno dal 1989 col mio compleanno. Allora mentre tutti fracassavano il cervello a mamma e papà su ciò che avrebbero scritto nella lettera per Babbo Natale, io cominciavo il mio conto alla rovescia per diversi rituali che dopo ventinove giorni mi conducevano al giorno del mio compleanno.

      Tra tutti, due erano quelli fondamentali: Lo Zecchino d’oro e Canto di Natale di Topolino. Entrambi avevano a che fare con la musica, una di quelle costanti fondamentali nella mia vita. Intorno alla fine del mese la Rai trasmette in Eurovisione il programma televisivo che da piccola adoravo. La leggenda narra che quando avevo circa cinque anni mi arrivò la lettera di partecipazione ai provini per lo Zecchino, ma nessuno pensò che avessi la possibilità di sfondare come cantante. Le mie performance si tenevano nel soggiorno di casa, usando come microfono la mascherina dell’aerosol tra i fumi dell’acqua fisiologica, interpretando i successi dello Zecchino d’oro a squarciagola per sovrastare il fastidioso ed assordante rumore del generatore.

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      Durante le pause tra le viarie esibizioni, gli sketch di Mago Zurlì con Topo Gigio e le votazioni, c’erano le pubblicità di giocattoli. Le ricordo natalizie, scintillanti e piene di quelle musicassette che ti mandano in visibilio. C’erano le bambole più belle, i giochi più in voga e tutti sorridevano super carichi di quell’energia che solo il Natale ti da. Strattonavo mia madre ogni anno per mostrarle il regalo che desideravo per il mio compleanno. Quando quegli spot terminavano ero così piena di aspettative che nella mia mente stilavo una lista di possibili regali da scegliere per la richiesta che mi era concessa soltanto una volta all’anno.

      Quando il Festival dello Zecchino d’oro era passato, così come lo era il mio compleanno, quel che mi gasava di più dei regali che avrei ricevuto a Natale era Canto di Natale di Topolino, il film d’animazione basato sul racconto di Charles Dickens. Sin da subito, ovvero tra i titoli di testa, passava la scritta: “tratto da Canto di Natale di Charles Dickens”. E mentre leggevo quel pezzetto mi chiedevo chi fosse tale Charles Dickens. Inutile dirvi che ne sono venuta a conoscenza anni dopo, al liceo, attraverso l’adeguata conoscenza della letteratura inglese.

      Da bambina però mi importava molto di quella storia così strappacuore e ogni volta che vedevo morire Tiny Tim piangevo a dirotto perché era così ingiusto che al mondo ci fosse gente che aveva troppo e non voleva donare nulla. L’empatia è sempre stata una parte importante del mio temperamento, ma il mio giudizio nei confronti di Scrooge, impersonato impeccabilmente da Zio Paperone, non riservava sconti. Per non parlare del terrore che provavo all’apparizione del fantasma di Jacob Marley e dello spirito del Natale futuro. Molto probabilmente è anche questa la ragione per cui quella fetta di letteratura romantica di stampo gotico non mi ha mai attirato. Tutta la costruzione del cartone animato era basata su un saliscendi di emozioni perlopiù negative. Ed era ciò che permetteva a noi bambini di godere del nostro meritato happy ending, nonostante l’angoscia per la presenza di miseria, avarizia e spettri.

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      Quando compresi chi era Dickens avevo ormai rimosso dalla memoria Canto di Natale di Topolino. Ricordo bene il giorno in cui il nostro professore d’inglese entrò in classe per cominciare a spiegare il nuovo autore di letteratura. Avevamo appena concluso col compito in classe su Emily Bronte e le sue Wuthering Heights che ad essere sincera avevo mal sopportato.

      – Cosa sapete di Charles Dickens?

      Alle sue lezioni non era necessario alzare la mano per rispondere, soprattutto perché nel 90% dei casi esigeva che si rispondesse in lingua; va da sé che la maggior parte della 5ˆG non avesse il coraggio di cominciare un dialogo, a maggior ragione su un argomento praticamente sconosciuto ai più. Mi piacevano le sue lezioni, sopratutto il modo in cui interpretava i brani selezionati dalle opere maggiori sul nostro libro di testo. Bene o male, nonostante la mia perenne timidezza e la tendenza ad arrossire molto facilmente, cercavo sempre di farmi coraggio e superare quel maledetto imbarazzo provocato dal parlare in pubblico. Quel giorno quando ci chiese se sapevamo chi fosse Dickens non solo risposi quasi immediatamente, ma trovai la forza di spiegare che da piccola guardavo spesso un cartone animato della Disney basato su Canto di Natale. Mi sbloccai a tal punto da confessare la paura per i fantasmi e i pianti disperati per la sfortuna di Timmy e la sua famiglia, strappando un sorriso a quell’insegnate spesso impassibile e pronto a storcere il naso per gli strafalcioni in lingua.

      Propose a tutti di leggere il racconto nelle vacanze di Natale, dicendoci che avrebbe leggermente smorzato la felicità natalizia perché «Dickens is a bit sad», disse annuendo incessantemente e col fare di chi sa quello che dice. Ci rassicurò però che questa lettura ci avrebbe permesso di ricacciare nei meandri della nostra stupidità adolescenziale la parte materialista insita nel Natale, rendendoci più compassionevoli.

      Mentre le mie amiche cercavano il racconto in ogni libreria nel raggio di 50 km (IBS e Amazon erano ancora poco usati), io non dovetti fare alcuno sforzo impensabile. Mia zia, laureata da circa dieci anni in Lingue straniere, aveva la sua copia di racconti in cui era inserito proprio Canto di Natale. Glielo chiesi in prestito e, nonostante avessi preso due libri dalla biblioteca scolastica, nel pomeriggio mi accomodai sul divano accanto all’albero di Natale addobbato e illuminato e cominciai a leggere.

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      La storia la conoscevo bene, avendo guardato decine di volte il film d’animazione e per questo motivo l’Ebenezer Scrooge che immaginavo parlava con la stessa voce del doppiatore italiano di Zio Paperone. La lacrimosa sensazione di cui conservavo il ricordo in qualche disperso meandro della mia mente tornava a farmi visita prepotentemente in tutta la Strofa dello Spirito dei Natali passati. Se nella parte introduttiva Scrooge appare come un uomo avido e senza scrupoli, Dickens, rivolgendosi direttamente al lettore e utilizzando l’espediente dello spettro di Jacob, cerca di portarlo ad osservare con attenzione il passato dell’uomo. Quello che lo scrittore cerca di smuovere nel lettore è la reazione che si ha ogni volta che si cerca di oltrepassare la superficie delle apparenze.

      In definitiva Scrooge è l’uomo dal cuore arido a causa delle sconfitte affrontate sin da bambino, quando in collegio veniva emarginato dai suoi compagni, cercando continuo conforto nel mondo dei libri. Quando lo spirito gli mostra sua sorella Fan, venuta in suo soccorso per portarlo via da quel luogo così triste, a Scrooge torna in mente che le persone a cui teneva di più sono andate via, lasciandolo a marcire in una solitudine immensa.

      Sua sorella era morta, lasciandogli un nipote che per i suoi gusti era troppo entusiasta del Natale. Che sciocchezze, continuava ad asserire il vecchio dal cuore di pietra. Ad ogni ricordo, ogni sensazione di quei momenti che l’avevano reso l’uomo che era, Scrooge si scioglie in pianti di dispiacere per se stesso. La gente intorno non può comprendere perché lui non vuol lasciarsi attraversare dagli altri, mostrandosi così vulnerabile e umano.

      Anche osservando il Natale attraverso lo spirito del Presente si può realizzare quanto le vicende passate abbiano influito sugli atteggiamenti di Scorge, il cui modo di fare si riflette sui Cratchit. Quello che in definitiva rappresenta Canto di Natale è il viaggio di un uomo attraverso il tempo vissuto. L’occasione di sentirsi deluso dal comportamento che si manifesta con l’apparizione prima di Jacob e poi degli spiriti, equivale alla seconda chance di cui Scrooge può usufruire per riscattarsi nei confronti del mondo. È un modo per dimostrare che il Natale è solo un momento dell’anno che però ci rende meno aridi e, se siamo fortunati come Scrooge, avremo l’occasione di godere di una felicità raggiunta con poco.

      Dopo aver letto le ultime parole del racconto, ho fatto quello che faccio sempre quando termino una lettura. Ho riletto le frasi che mi conducevano alla chiusura, come se stessi temporeggiando in attesa di un’illuminazione. Poi ho poggiato il libro sul divano ed ho deciso di farmi carico dell’insegnamento di Dickens. Mi sono stesa sotto l’albero di Natale e mi sono lasciata ipnotizzare dalle luci che si accendevano in modo scoordinato. Non erano perfette, qualcuna era anche fulminata, ma l’aria sapeva di cartellate* e tutto ciò per me aveva un gran valore, quello delle piccole cose.

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      *cartellate: tipici dolci originari della Puglia preparati soprattutto a Natale. Nella tradizione cristiana rappresenterebbero l’aureola o le fasce che avvolsero il Gesù nella mangiatoia.

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    • Il Calendario dell’Avvento Letterario #1: un Natale vittoriano

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 1, 2016

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      Questa casella è scritta e aperta da me medesima

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      Istruzioni per leggere questo post:

      • tirate fuori addobbi e decorazioni natalizie;
      • indossate il il vostro maglione più kitsch, quello con le renne, le lucine e il pupazzo di neve;
      • munitevi di tazzona con cioccolata calda, eggnog o vin brulé, a seconda dell’ora;
      • accompagnate il bibitozzo con una generosa fetta di pandoro, un pezzo di torrone o una mince pie calda;
      • mettete su le vostre canzoni di Natale preferite (la mia playlist preferita è questa)

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      Pronti?

      Il calendario dell’avvento letterario torna a farvi compagnia, regalandovi venticinque giorni di storie, parole, racconti, curiosità letterarie, ricette letterarie, musica.

      Ogni giorno qui sul blog sarà un blogger diverso ad aprire una casella, svelandone il misterioso contenuto. Potere seguirci anche sui social con l’hashtag #AvventoLetterario (su Facebook, Twitter, Pinterest).

      Approfitto dell’occasione per ringraziare tutti i meravigliosi partecipanti e Claudia di A Clacca piace leggere, che ha realizzato il bellissimo banner del nostro calendario.

      Siete pronti? Siete caldi? Vi siete messi comodi?

      Come da tradizione, la prima casella la apro io, trasportandovi nell’Inghilterra del XIX secolo, per scoprire, dopo il Natale Regency, tutto ma proprio tutto sul Natale vittoriano.

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      Se i Vittoriani non hanno inventato di certo il Natale, hanno però il merito di aver contribuito all’idea del Natale che conosciamo e festeggiamo oggi, nel bene e nel male. Grazie ai Vittoriani, il Natale è infatti diventato un momento da condividere con familiari e amici; un momento di riunione, in cui mettere in pausa preoccupazioni e problemi e godere della compagnia reciproca davanti al ceppo (lo yule) acceso nel focolare, senza però dimenticarsi di coloro che non possono permettersi questo lusso o addirittura un tetto sulla testa.

      I Vittoriani hanno definito quelli che oggi sono le caratteristiche principali del Natale inglese (e non solo): il Christmas pudding (che in Regno Unito è un po’ l’equivalente del nostro panettone in quanto a simbolismo), i biglietti di auguri, le pantomime e le sciarade, i cracker (delle mega caramelle di cartone; a tavola, due commensali tirano le due estremità; all’interno sono contenuti giochi di parole e barzellette, una corona di carta e una piccola sorpresa –  tipo il nostro uovo di Pasqua, insomma), la maggior parte dei Christmas carol più famosi, lo stesso Babbo Natale, nel costume e nei colori con cui lo ritroviamo oggigiorno.

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      Albert, il teutonico consorte della regina Vittoria, ha il merito di importare in Inghilterra dalla nativa Germania l’albero di Natale, che diventa subito di moda dopo la diffusione di un ritratto raffigurante la famiglia reale radunata intorno all’albero decorato e illuminato. Il principe Albert introduce a corte anche il mitico gingerbread (pan di zenzero) e altri dolcetti tedeschi che fanno ormai parte dell’immaginario natalizio collettivo.

      Albert importa inoltre l’usanza di scambiarsi i regali in occasione del Natale. Vittoria ed Albert seguono la moda tedesca di aprire i rispettivi regali la sera della vigilia; tra i doni che la regina e il principe consorte si scambiano, una miniatura di Vittoria a sette anni, regalatale dal marito nel 1841, e un libro di poesie di Lord Alfred Tennyson con la seguente dedica: ‘To My beloved Albert from his ever devoted & loving wife VR, Christmas 1859.’ (al mio amato Albert da parte della sua sempre devota ed innamorata moglie VR, Natale 1859). Anche i piccoli di casa aspettano i regali di Natale con ansia, come testimonia questa lettera della regina datata 1850:

      The 7 children were then taken to their tree, jumping and shouting with joy over their toys and other presents: the boys could think of nothing but the sword we had given them and Bertie some of the armour, which however he complained, pinched him.

      (Portammo al loro albero i sette bambini, tra salti e urla di gioia per i giocattoli e gli altri regali; i maschietti non riuscivano a pensare a nient’altro che alla spada che gli avevamo regalato e Bertie all’armatura, nonostante si lamentasse del fatto che lo pizzicasse).

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      L’albero di Natale viene decorato con elaborate decorazioni, per lo più fatte a mano: soldatini di stagno, fischietti, gioiellini, guanti da regalare ai bambini; ghirlande di frutta secca, di pigne, di frutti rossi, di alloro e di edera; fiocchi, fiori di carta dipinti a mano e pigne dorate; stecchi di cannella e arance (al cui interno vengono conficcati chiodi di garofano) per regalare all’albero un profumo tipicamente natalizio; pan di zenzero, caramelle e biscottini a forma di stella, cuore o albero completano il tutto, per la gioia dei bambini. L’albero viene illuminato con delle candeline; le luci elettriche come decorazioni natalizie sarebbero poi state introdotte nel 1882 dall’assistente di Edison, Edward Johnson, a uso e consumo prevalentemente dei ceti più abbienti.

      Dickens, l’altro pilastro portante del Natale vittoriano, ci lascia una vivacissima descrizione di un albero di Natale:

      Stasera sono rimasto a lungo a contemplare l’allegria dei bambini riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l’albero di Natale. L’albero stava nel mezzo di un grande tavolo rotondo e dominava le loro teste. Era illuminato da una moltitudine di piccole candele, e sfavillava e sfolgorava di oggetti luccicanti. C’erano bambole con le guanciotte rosa seminascoste dal verde delle foglie; e orologi veri (o perlomeno, con le lancette mobili e un’infinita possibilità di carica) che pendevano dagli innumerevoli ramoscelli; c’erano tavoli laccati, e sedie, letti, armadi e orologi a pendolo in miniatura, e vari altri articoli d’arredamento in latta realizzati da mani sapienti a Wolverhampton, in bilico tra i rami, come in attesa delle pulizie di casa da parte delle fate; c’erano omarini dal faccione allegro, assai più piacevole di quella di tanti uomini reali – e non c’è da meravigliarsi, perché staccando loro la testa si rivelavano pieni di gelatine di frutta; c’erano grancasse e violini; c’erano tamburelli, libri, cestini da cucito, cassette di colori, scatole di dolciumi e contenitori di ogni genere e forma; c’era della bigiotteria per le ragazzine più grandi, ben più brillante di qualsiasi vero gioiello per adulti; c’erano canestri e puntaspilli di ogni foggia; c’erano fucili, spade e bandiere; c’erano fattucchiere pronte a predire il futuro al centro di anelli incantati di cartone; c’erano trottolini di legno e trottole sonore, astucci per aghi, nettapenne, bottigliette di profumo, supporti per bouquet; c’erano frutti veri, resi artificialmente luccicanti da una pellicola dorata; e mele, pere e noci finte zeppe di sorprese. In breve, come sussurrò un delizioso bambino all’altrettanto delizioso amichetto del cuore di fronte a me, «C’era tutto, e anche di più».

      (Charles Dickes, Un albero di Natale, dalla raccolta Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau, trad. a cura di Vincenzo Perna)

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      L’introduzione dei biglietti d’auguri natalizi spetta invece a Henry Cole, primo direttore del neonato Victoria and Albert Museum. Cole commissiona  il primo biglietto di Natale  all’artista John Horsley, che produce una sorta di trittico: la tipica famiglia vittoriana che celebra il Natale e due scenette laterali che vogliono ricordare ai più fortunati di non dimenticarsi di assistere i poveri e i bisognosi, specie durante le festività. Il biglietto, commissionato nel 1843, va in stampa nel 1846, per un totale di mille litografie, tutte colorate a mano. I biglietti vengono venduti in un negozio di Bond Street, Summerly’s Treasure House. Nel decennio successivo, i biglietti d’auguri conoscono un’enorme diffusione: è tutta una profusione di campane, cupidi, fiocchi di neve e Christmas pudding,  ma la vera protagonista è la rondine, che, col suo petto rosso, diventa il simbolo del Natale vittoriano, tanto che i postini vengono ribattezzati “robin” (rondine) o “redbreasts” (pettirossi).

      Secondo l’Oxford English Dictionary, l’espressione ‘Christmas-card’ compare per la prima volta nel 1883 in uno scritto del critico John Ruskin.

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      I regali di Natale cambiano molto a seconda della classe sociale – e delle possibilità – delle famiglie; in ogni caso, molti regali vengono fatti in casa e hanno un valore prettamente sentimentale. Intorno al 1870 si diffonde la consuetudine della calza di Natale, specie per i bambini; nelle case più povere le calze contengono frutta di stagione e frutta secca, in quelle più ricche i regali più in voga: per i maschietti, cavalli a dondolo, animali, trenini, gli antenati dei camion dei pompieri; per le bambine, secondo Harper’s  Bazaar del 1868, il regalo più ambito è un set da tè in porcellana francese, dipinto a mano, seguito da set per la toeletta o per il ricamo (per la serie, gli stereotipi di genere sono duri a morire).

      La cosa che più mi ha fatto sorridere (sempre nel filone degli stereotipi di genere) sono i consigli alle donne per i regali di Natale a mariti/fidanzati/spasimanti (Harper’s Bazaar del 1873): una vera Lady non può fare regali costosi, perché l’uomo si sentirebbe obbligato a ricambiare con un cadeau ancora più importante, quindi il dono perderebbe ogni grazia, rovinato da considerazioni commerciali e del tutto egoistiche (!)

      Le donne devono quindi preparare i regali con le loro manine sante: fazzoletti ricamati con le iniziali o braccialetti di capelli, per un regalo audace e pieno di spirito d’iniziativa; un bouquet di fiori rari, una pianta esotica, un souvenir di viaggio. Fortunatamente, Harper’s Bazaar del 1896 stila una lista per aiutare le povere lady, specie quelle impedite nel DIY come me: sigilli d’argento, portapenne, fermacarte, caraffe di cristallo pari pari a quelle della regina, per lo scapolo che non deve chiedere mai.

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      La cosa bella del Natale vittoriano è che la famiglia è il centro di tutto: ricette, bevande, canzoni, giochi e passatempi sono pensati per stare tutti insieme, al caldo, e godersi la compagnia reciproca. Quasi ogni famiglia possiede un pianoforte, che viene frequentemente usato per serate musicali e danzanti in compagnia di vicini di casa, parenti e amici. Un’altra tradizione è quella di radunarsi intorno al fuoco e raccontare storie, a volte ispirate alla religione, più spesso vicine al gusto tutto vittoriano per fantasmi e misteri, fate e goblin. La prima traduzione inglese delle fiabe dei fratelli Grimm risale infatti al 1823. Non è un caso quindi che la storia di Natale più amata dai Vittoriani sia il Canto di Natale di Dickens, che affida il sempre arduo compito di fare la morale a tre fantasmi, il Natale passato, il Natale presente, il Natale futuro.

      family

      Altri passatempi molto comuni sono pantomime, sciarade e giochi di società, come Questions and commands, una sorta di “obbligo o verità” in cui il comandante può chiedere ai suoi “sottoposti” di rispondere a ogni sorta di domande, pena l’annerimento della faccia o una multa. Tutto questo mentre si aspettano i gruppetti che vanno di casa in casa a cantare i Christmas carol, le tradizionali canzoni natalizie. Ai cantanti vengono offerte bevande calde, come il wassail, fatto di birra ale calda, zucchero, spezie e polpa di mele cotte,  il vin brulé o un bel punch con rum o brandy, al suono di God Rest Ya Merry Gentlemen, The First Noel, The Holly and The Ivy, It Came upon the Midnight Clear, Silent Night e O little Town of Betlehem.

      carolers

      punch

      Spero che quest’incursione nel Natale vittoriano vi sia piaciuta e abbia destato quello spirto natalizio ch’entro vi rugge. Vi consiglio di non perdervi Victoria, la serie di IMDb dedicata alla longeva regina britannica che ha dato il nome a un periodo ricchissimo di storia, arte, cultura, letteratura e tradizioni, e di dare un’occhiata alle letture a cui ho attinto per scrivere il mio articolo:

      The Victorian Christmas, Anne Selby

      Racconti sotto l’albero, Edizioni Lindau

      Dickens at Christmas, Vintage Books

      Vi lascio con una carrellata di calendari dell’avvento alternativi e bizzarri, dal calendario del gin al calendario degli attrezzi per il fai da te, da un calendario per lettori a uno per le barbe o per gli amanti del formaggio, augurandovi un bellissimo dicembre, pieno di gioia, di pandoro, di sorprese.

      Calendari dell’avvento alternativi:

      – Calendario del tè

      – Calendario dell’avvento paleo (?!)

      – Calendario romantico

      – Calendario del vino

      – Calendario del gin

      – Calendario del piccolo chimico

      – Calendario della gentilezza

      – Calendario dell’avvento per lettori

      – Calendario per i feticisti delle porcellane

      – Ispirazione circense

      – Per il tuttofare che c’è in voi

      – Per l’hipster barbuto che c’è in voi

      – Per la fashionista di casa

      – Qualcuno ha detto formaggio?

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      Posted in Letteratura e dintorni | 15 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Anne Selby, Charles Dickens, Edizioni Lindau, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Letteratura inglese, Racconti sotto l'albero, The Victorian Christmas, Un Canto di Natale, Victoria
    • Il Calendario dell’Avvento Letterario#23: le mince pies di Jane Eyre

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 23, 2015

      bannervale

      Questa casella è aperta da me medesima e da Sigrid de Il cavoletto di Bruxelles

      jane

      Quando ho chiesto a Sigrid se aveva voglia di preparare una ricetta letteraria natalizia per il nostro Calendario dell’Avvento, mi ha proposto una serie di elementi e di ingredienti per dare un twist à la cavoletto alle ricette più tradizionali.
      Un ingrediente in particolare mi ha immediatamente colpito; un frutto, che già racchiude in sé – come la madeleine di proustiana memoria – memorie e profumi di casa: la castagna.
      Oltre a far parte dell’immaginario personale e familiare, la castagna è un frutto carico di suggestioni e ispirazioni letterarie. Il primo riferimento letterario che mi ha fatto venire in mente è Jane Eyre, l’amatissimo romanzo di Charlotte Brontë; in particolare, ho ripensato a quel castagno che fa da sfondo all’amore tra Jane e Rochester.

      Un amore forte e resistente ma travagliato, difficile, nodoso come i rami dell’albero stesso.
      Rochester, il misterioso, cupo e inevitabilmente affascinante datore di lavoro di Jane, le dichiara il suo amore sotto questo grande castagno, che, durante la notte, viene colpito e spezzato in due da un fulmine.

      L’albero potrebbe rappresentare l’amore tra Jane e Rochester, e il fulmine la rabbia di Bertha, la moglie segreta di Rochester, segregata nell’attico a causa della sua infermità mentale (per una rilettura della storia di Bertha in chiave post-coloniale, vi suggerisco Wide Sargasso Sea  di Jean Rhys); in questo caso, Rochester sarebbe la metà che resta, legata da un vincolo coniugale da cui non si può liberare, e Jane la metà che fugge, scegliendo di spezzarsi il cuore pur di non cadere nella tentazione di diventare l’amante di Rochester, e mantenere così intatta la purezza del suo amore.
      Il castagno potrebbe anche essere Rochester: lui stesso si paragona all’albero, consumato, rovinato, spezzato, mentre Jane è una pianta giovane, in piena fioritura. Facile capire perché queste mince pies à la cavoletto siano diventate quasi immediatamente le mince pies di Jane Eyre, dedicate al suo coraggio e alla sua inflessibile determinazione che le regala quel lieto fine tanto adatto al clima natalizio che ci circonda: lettore, lo sposai.
      La seconda suggestione letteraria legata alla castagna deriva da una scena del celeberrimo Un Canto di Natale di Dickens:

      “Nel momento in cui la mano di Scrooge si posò sulla maniglia, una voce strana lo chiamò per nome e gli disse di entrare. Obbedì.
      Era proprio la sua stanza, non c’era dubbio, ma aveva subito una trasformazione sorprendente. Le pareti e il soffitto erano talmente coperti di vegetazione, da farli sembrare un vero e proprio bosco in cui da ogni punto luccicavano bacche lucenti. Le foglie dell’agrifoglio, del vischio e dell’edera riflettevano la luce come tanti piccoli specchi e nel caminetto ardeva un fuoco così potente, come quella triste pietrificazione di un focolare non aveva mai conosciuto ai tempi di Scrooge e Marley né per molti e molti inverni passati. Ammucchiati sul pavimento, in modo da formare una specie di trono, erano tacchini, oche, selvaggina, pollame, cosciotti, grandi pezzi di carne, porcellini da latte, lunghe ghirlande di salsicce, pasticci di carne, pudding, barilotti di ostriche, castagne arrosto roventi, mele rosse, arance succose, pere succulenti, torte smisurate e ciotole fumanti di punch, che annebbiavano la stanza col loro vapore delizioso”.
      (Newton Compton, trad. a cura di Emanuele Grazzi)

      Difficile immaginare una scena da cenone natalizio più evocativa di quella descritta da Dickens, vero?

      Lascio ora la parola a Sigrid, alla sua ricetta che sa tanto di Natale e alle sue foto.

      mincepies4_s.jpg_effected

      Per l’impasto:

      farina 00 170g

      burro freddo 100g

      zucchero semolato 1 cucchiaio

      tuorlo 1

      Sbriciolare il burro nella farina fino a ottenere un composto sabbioso. Aggiungere il tuorlo e lo zucchero, due cucchiai d’acqua, e impastare velocemente. Avvolgere in pellicola e lasciar riposare al fresco per 30 minuti.

       

      Per il ripieno

      uvetta 100g

      uvetta di corinto 100g

      cranberries secchi 50g

      whiskey 40ml

      limone mezzo

      arancia mezza

      castagne precotte 80g

      zucchero di canna scuro 100g

      burro 30g

      cannella mezzo cucchiaino

      mela piccola 1

      Grattugiare la buccia del limone e dell’arancia e tenere da parte. Mescolare la frutta secca con il whiskey e il succo della mezza arancia, e lasciar riposare per 20 minuti. Aggiungere poi lo zucchero, il burro fuso, la cannella, le castagne grossolanamente tritate e la mela grattugiata. Mescolare il tutto, versare il composto in un vasetto, chiudere e lasciar riposare per una notte prima di utilizzare.

      Per le mince pies:

      Stendere l’impasto, ritagliare dei dischetti leggermente più grandi dei vostri stampini, farcire con un cucchiaino di ripieno, ritagliare poi dei dischetti, stelline o fulmini di pasta e porre questi ritagli sopra il ripieno, Cuocere in forno a 180°C per 20-25 minuti finché le tortine siano dorate.

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      Posted in Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Bertha, Charles Dickens, Charlotte Brontë, cucina letteraria, Emanuele Grazzi, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il cavoletto di Bruxelles, Jane Eyre, Jean Rhys, Letteratura post-coloniale, libri in cucina, Newton Compton, ricette letterarie, Rochester, Scrooge, Sigrid Verbert, Un Canto di Natale, Wide Sargasso Sea
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