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  • Tag: Cent’anni di solitudine

    • Storie di expat

      Posted at 11:50 am04 by ophelinhap, on April 26, 2016


      Da un po’ di tempo mi interrogo sulla condizione dell’expat, per ovvie ragioni. Vivo fuori da più di sei anni, e mi ritrovo ad un punto in cui devo decidere cosa fare nel mio futuro prossimo. Nell’ambito delle mie considerazioni, mi sono resa conto, con estrema amarezza e con un certo disincantato stupore, di non avere più un posto da chiamare casa.

      Qui mi sono sentita sempre di passaggio, ho visto amici traslocare, colleghi cambiare lavoro, le vite degli altri scorrere più o meno veloci, più o meno lente, e ho messo la mia un po’ in stand by.

      Un paio di volte all’anno mi prende la voglia di tornare a casa. Coincide col Natale o con l’arrivo dell’estate, con la voglia di quel sole sulla pelle che qui è così difficile da reperire. Ogni rientro è caratterizzato da una sorta di sfasamento, dal vuoto spazio-temporale tra chiudere la porta di una casa e aprire la porta di un’altra, solo per percorrere con lo sguardo stanze straordinariamente familiari e al tempo stesso ormai così estranee da diventare quasi ostili: basta un libro spostato, un mobile nuovo, il giardino potato di recente per aumentare quel senso di malessere e di non appartenenza.

      La vita dell’expat (quantomeno la mia) è cosi: divisa tra due mondi e due realtà diverse, scissa dal disagio profondo di non appartenere poi veramente a nessuna delle due. Ogni andata, ogni ritorno diventa un po’ come dover imparare di nuovo una lingua appresa molto tempo prima e poi dimenticata: si ha la testa sott’acqua e le parole galleggiano sulla superficie, e si cerca di afferrarle, di impadronirsi di nuovo della loro essenza, di riempirsi la bocca e le orecchie del loro suono.

      Mi sono sempre detta che molto dipende dal posto, e probabilmente è così: io e Bruxelles non abbiamo mai fatto davvero amicizia, siamo rimaste due conoscenti che si guardano di sottecchi, con diffidenza. Quando torno a Londra, dove scappo appena posso, è un’altra storia: le sue strade sono piene di ricordi di una me più giovane e più leggera che vi abitava quasi danzandovi, depositaria di un futuro pieno di possibilità, succoso come le prime pesche della stagione.

      Negli ultimi mesi mi sono imbattuta in due letture che hanno accompagnato e condiviso il mio stato d’animo: due storie di expat, Brooklyn di Colm Tóibín (che ho comprato a New York in quest’edizione, ma che potete trovare nella traduzione italiana di V. Vega, pubblicato da Bompiani) e Anche noi l’America di Cristina Henríquez, edito da NN nella traduzione di R. Serrai.

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      Brooklyn (da cui è tratto l’omonimo film, con una bravissima Saoirse Ronan) racconta la storia di Eilis, giovane irlandese che non riesce a trovare lavoro (mal comune) ad Enniscorthy, sonnolenta cittadina nel sudest dell’Irlanda degli anni cinquanta; un’Irlanda cosparsa di uno spesso strato di malinconia per un benessere che non esiste più, un’età d’oro che sembra ormai lontanissima.

      Eilis, spronata dall’adorata sorella Rose, che sogna per lei una vita migliore e orizzonti più vasti, decide di partite alla volta della grande mela.

      Durante i primi mesi, la ragazza vive appunto con la testa sott’acqua: ammalata di nostalgia e di mancanza di qualcosa di indefinito e intangibile, si trascina stancamente tra giornate sempre uguali, il cuore diviso tra la Eilis di prima, la ragazza di Enniscorthy, e la nuova Eilis di Brooklyn:

      “It made her feel strangely as though she were two people, one who had battled against two cold winters and many hard days in Brooklyn and fallen in love there, and the other who was her mother’s daughter, the Eilis whom everyone knew, or thought they knew.”

      (Aveva la sensazione stranissima di essere due persone diverse: la prima era la ragazza che aveva combattuto due gelidi inverni e una moltitudine di giornate difficili a Brooklyn e si era innamorata lì; l’altra era la figlia di sua madre, la Eilis che tutti conoscevano, o pensavano di conoscere).

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      L’amore ci mette lo zampino, nella persona di Tony, un ragazzo di origini italiane che intraprende l’ardua impresa di far amare Brooklyn a Eilis; quando la ragazza ritrova il sorriso e si sente tranquilla e sicura in una vita che le è diventata familiare, che le sembra ormai l’unica vita possibile, lo spettro della Eilis di prima la richiama bruscamente in Irlanda. Tornare a casa si rivela tristemente molto diverso dalle aspettative:

      “She had put no thought into what it would be like to come home because she had expected that it would be easy; she had longed so much for the familiarity of these rooms that she had presumed she would be happy and relieved to step back into them, but, instead, on this first morning, all she could do was count the days before she went back. This made her feel strange and guilty; she curled up in the bed and closed her eyes in the hope that she might sleep.”

      (Non aveva pensato a come sarebbe stato tornare a casa perché si aspettava che sarebbe stato facile; aveva desiderato così ardentemente la familiarità di quelle stanze che aveva dato per scontato che sarebbe stata contenta e sollevata di rimettervi piede; invece, nel corso della sua prima mattina a casa, non era riuscita a fare altro che contare i giorni che mancavano al suo rientro. Questo l’aveva fatta sentire strana e colpevole; si era accoccolata nel letto e aveva chiuso gli occhi, sperando di dormire).

      Tony diventa un ponte che unisce e al tempo stesso separa i due mondi di Eilis, un sentimento nascosto da uno spesso strato di sensi di colpa che la ragazza non riesce a vivere nella sua interezza. Solo quando Eilis inizierà ad accettare che ci sono incontri che cambiano le persone, insinuandosi sotto la loro pelle e modificando l’idea di casa, riuscirà ad appartenere ad un posto, a farsi abitare da un luogo, a ritrovare il suo Heimat.

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      Anche noi, l’America raccoglie le voci di quell’America che nessuno racconta: un Paese di invisibili, le cui vite apparentemente piccole e semplici nascondono un’epopea di rinunce, di speranze andate a male, di scommesse col destino, di sogni realizzati e sogni naufragati.

      Un anonimo palazzone del Delaware nasconde un cuore pulsante di messicani, panamensi, portoricani, paraguensi: in questo non luogo, in questa periferia dell’anima sbocciano storie tra le erbacce e i calcinacci. Storie come quella di Maribel, ragazza messicana che ha subito una lesione cerebrale in seguito ad una brutta caduta ed è stata portata negli USA dai genitori per frequentare una scuola adeguata alle sue nuove necessità, e Mayor, figlio dei vicini di casa, che riesce a vedere oltre la lentezza e la diversità di Maribel: ne vede tutta la bellezza di farfalla fragile e palpitante, intrappolata sotto un bicchiere di vetro.

       Maribel con gli occhi assonnati e i capelli spettinati, seduta a gambe accavallate sul sedile, che mi volta e mi guarda. Non sarebbe stato un problema, pensai, se non mi avesse trovato. Era come aveva detto lei: per trovare una cosa prima devi perderla. Da allora in poi saremmo stati lontani migliaia di chilometri e saremmo andati aventi con le nostre vite e saremmo cresciuti e cambiati e invecchiati, ma non avremmo mai dovuto cercarci. Dentro ciascuno di noi, ne ero sicuro, c’era un posto per l’altro. Niente di ciò che era successo e niente di ciò che sarebbe mai successo avrebbe reso tutto questo meno vero.

      Si cerca un posto dentro l’altro, per sentirsi più a casa, per combattere ondate di nostalgia spessa come melassa. Si mangia tamales (piatto messicano a base di pasta di mais ripiena), tacos, chicharrones (maiale o pollo fritto) finché ci sono abbastanza soldi, prima di essere costretti a passare ai discount americani e a troppi hot dog: il cibo diventa una sinfonia di appartenenza, una celebrazione della propria identità.

      Perché un posto ti può fare molto male, ma se è casa tua o lo è stato una volta, lo ami comunque. Funziona così.

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       Si passa dalla dolcezza dello spagnolo, che si scioglie in bocca come i besitos de coco (pasticcini al cocco), all’asprezza di una lingua sconosciuta, che si attacca al palato e sembra non essere in grado di tramutare esigenze, pensieri, sentimenti in frasi di senso compiuto.

      ‘L’inglese era una lingua così densa, contratta. Non si apriva nelle vocali come lo spagnolo. La gola aperta, la bocca aperta, i cuori aperti. In inglese i suoni sono chiusi. Cadevano a terra, con un tonfo. Eppure c’era qualcosa di maestoso.’

       Ho apprezzato moltissimo la scelta di Serrai nella traduzione del titolo (quello originale è The Book of Unknown Americans): una scelta poetica, ispirata ai versi di I, Too, Sing America di Langston Hughes; una scelta che vuole incarnare il senso di possibilità che pervade l’odissea di tutti i protagonisti del romanzo.

       I, too, sing America.

      I am the darker brother.

      They send me to eat in the kitchen

      When company comes,

      But I laugh,

      And eat well,

      And grow strong.

       

      Tomorrow,

      I’ll be at the table

      When company comes.

      Nobody’ll dare

      Say to me,

      “Eat in the kitchen,”

      Then.

       

      Besides,

      They’ll see how beautiful I am

      And be ashamed—

       

      I, too, am America.

       

      Si possono avere tante case, e riuscire ad amarle tutte. Si può lasciare un pezzetto di sé, della propria storia, degli incontri che le hanno regalato sfumature nuove e impensate in tutti in posti che si visitano, che si abitano. La cosa difficile è lasciarsi abitare. Perché, come scriveva Gabo nell’indimenticabile Cent’anni di solitudine, non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra, letteralmente o allegoricamente: abitiamo un posto quando vi lasciamo scheletri di una versione di noi che non esiste più, fantasmi di amori scaduti o andati a male, briciole di progetti e di sogni.

      Soundtrack: stavolta doppia, in onore alle due storie.

      • The Hands That Built America, U2
      • Sin documentos, Los Rodriguez
      Posted in Ophelinha legge | 9 Comments | Tagged Anche noi l'America, Bompiani, Brooklyn, Cent'anni di solitudine, Colm Tóibín, Cristina Henríquez, Gabo, Gabriel García Márquez, Langston Hughes, Londra, Memorie di una precaria perbene, NN editore, R. Serrai, Saoirse Ronan, The Book of Unknown Americans, V. Vega
    • Non siamo mai veramente pronti a dire addio: New York Stories

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 8, 2016
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      Grazia a Laura per il graditissimo regalo

       

      New York è senza alcun dubbio la città più difficile da raccontare.

      Prima di esistere in quanto città, in quanto microcosmo reale e tangibile affollato da milioni di vite, incroci di strade, grattacieli e taxi gialli, esiste per ognuno di noi come mito.

      New York è una vera e propria creatura mitologica, alimentata da secoli di letteratura e da decenni di tradizione cinematografica: c’è chi ci va convinto di incontrare qualcuno nell’osservatorio dell’Empire State Building, ritrovare un numero di telefono dentro una copia di Cent’anni di solitudine in una bancarella, sentirsi spiegare il significato di Auld Lang Sine la notte di Capodanno da un Harry che è corso a piedi dalla sua Sally, perché quando capisci di amare qualcuno, eccetera.

      C’è chi arriva convinto di trovarvi party stratosferici e la mistica luce verde di Gatsby, gli insopportabili brooklynite dell’altrettanto insopportabile Nathaniel P, Holly Golightly che cura i suoi mean reds tra vodka e colazioni da Tiffany. Ognuno di noi arriva a New York per trovare qualcosa: l’ispirazione per scrivere una storia, una mini-fuga dalla realtà, l’amore, quel senso di infinita possibilità che probabilmente esiste da nessun’altra parte – non nello stesso modo, non nella stessa misura.

      Per qualcun altro, come il capitano Paolo Cognetti, New York è una finestra senza tende: New York Stories, l’antologia di racconti che ha curato per Einaudi, è un tentativo di ripulire i vetri di questa finestra, di ricostruirne l’essenza mitologica attraverso i decenni e attraverso ventidue voci, da Fitzgerald a Yates, da Dorothy Parker a Mario Soldati, da Don DeLillo a Joan Didion.

      Questo viaggio è funzionale a uno scopo ben preciso: decostruire il mito, eliminare stucchi ed orpelli e restituire al lettore New York come città. Una città che ha significato qualcosa di diverso per ciascuno degli scrittori interpellati, a cui ha dato o ha tolto in modi e misure diverse, quasi come se New York fosse una sorta di dea bendata e agisse secondo il capriccio del momento.

      Una cosa è certa: nessuna di queste voci è uscita indenne dall’incontro con New York. La città cambia le persone, le persone cambiano la città: c’è chi si perde, chi si ritrova, chi la ripercorre palmo a palmo per ritrovare brandelli di passato, chi la seduce e chi ne è sedotto, chi scappa e chi rimane. Quasi tutti approdano a New York inseguendo un sogno: un sogno che, realizzato o meno, viene comunque modificato dall’impatto con la città. Una città che è pronta anche ad essere un’amante incostante e infedele e a dispensare cocenti delusioni.

      Una delle definizioni più belle dell’incontro con New York è quella di Pier Paolo Pasolini all’interno del racconto di Oriana Fallaci, Un marxista a New York:

       

      “Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo stare qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che lo vuole, che deve mangiarli tutti. Uno a uno. E, nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via”.

       

      New York è la giostra più grande e più bella della festa di paese, quella a cui tutti i bambini ambiscono, che abbiano la monetina per pagare il giro o no. Diventa insieme una sfida e una promessa: prima o poi ci salirò, prima o poi ci tornerò. E quel primo giro può risultare in un amore a prima vista o in una delusione completa, ma può anche far girare la testa, come nel mio caso.

      La prima volta che sono stata a New York non sapevo da che parte guardare, per paura che mi sfuggisse un angolo, una prospettiva, una storia. La mia idea di New York conviveva con così tanti miti, illusioni, fantasie, descrizioni che mi sono sentita persa dentro un cuore che pulsava troppo veloce, come se tutto fosse troppo. C’è voluta una seconda volta, libera di aspettative e con in mente Bei tempi addio di Joan Didion (contenuto nella raccolta), per smettere di cercare di trovarvi quel tutto che mi immaginavo contenesse, smettere di cercare di capirla o analizzarla e lasciarmi semplicemente penetrare dalla bellezza delle sue infinite possibilità, come suggerisce appunto la Didion:

      “…ero innamorata di New York. E non è un modo di dire: ero davvero innamorata della città, la amavo come si ama la prima persona che ti tocca e come non amerai più nessun altro. (…) Credevo ancora nelle possibilità allora, avevo la sensazione, così caratteristica di New York, che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa di straordinario, da un giorno all’altro, da un mese all’altro.”

       

      C’è poi la questione degli addii. Che sia una cosa voluta o un’imposizione del destino, dire addio a New York, come cantano anche i REM, non sembra essere cosa facile, né indolore.

       

      Probabilmente per questo la voce che ho amato di più all’interno di quest’antologia (come mi succede ogni volta nel caso di antologie di poesie o di racconti, anche in New York stories ho ritrovato voci che amo, scoperto voci nuove che mi hanno colpito tantissimo e sono stata delusa da voci che mi hanno lasciato del tutto indifferente) è quella di Colson Whitehead nel racconto di chiusura, Limiti cittadini. Ognuno ha la sua versione di New York, necessariamente diversa da tutte le altre perché è una città che conosce un’evoluzione continua, un cambiamento così veloce che è impossibile bagnarsi due volte nelle stesse acque; le sue strade, le sue case, i suoi palazzi, i suoi esercizi commerciali sono disseminati delle versioni di noi che li hanno percorsi e abitati. Dire addio a una lavanderia, a un ristorante cinese, a un appartamento significa dire addio alla versione di noi che lì si è innamorata, ha sofferto, ha festeggiato, ha vissuto.

       

      “Non siamo mai veramente pronti a dire addio. Era il tuo ultimo viaggio su un taxi Checker e non lo sospettavi nemmeno. Era l’ultima volta che ordinavi i gamberetti del lago Tung Ting in quel ristorante cinese un po’ equivoco e non ne avevi idea. Se lo avessi saputo, forse, saresti andato dietro al banco a stringere le mani a tutti, avresti tirato fuori la macchina fotografica usa e getta e messo tutti in posa. Invece non ne avevi idea. Ci sono momenti inaspettati di ribaltamento, occasioni in cui, aprendo la porta di un appartamento, eri più vicino all’ultima volta che alla prima, e non lo sapevi nemmeno. Non sapevi che a ogni passaggio da quella soglia ti stavi congedando.”

       

      Soundtrack: Leaving New York, REM (It’s easier to leave than to be left behind
      Leaving was never my proud
      Leaving New York, never easy
      I saw the light fading out…)

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      Posted in Letteratura americana, Ophelinha legge | 10 Comments | Tagged Adelle Waldman, Amori e disamori di Nathaniel P., Bei tempi addio, Cent'anni di solitudine, Colson Whitehead, Don DeLillo, Dorothy Parker, Einaudi editore, Empire State Building, Francis Scott Fitzgerald, Goodbye to all that, Harry ti presento Sally, Holly Golightly, Joan Didion, Leaving New York, Limiti cittadini, Mario Soldati, mean reds, New York, New York Stories, non sono brava a dire addio, Oriana Fallaci, Paolo Cognetti, Pier Paolo Pasolini, REM, Richard Yates, The Great Gatsby, Truman Capote, Turismo letterario, Un marxista a New York
    • The Ophelinha Gazette#6 – articoli, segnalazioni, aneddoti e curiosità letterarie

      Posted at 11:50 am03 by ophelinhap, on March 13, 2015

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      Avete presente quando a Roma è nevicato, nel 2011? Guardavo sui social media le foto dei miei ex colleghi che, felici come bambini, dedicavano la loro pausa pranzo a battaglie con palle di neve.

      Qui a Greyville, signore e signori, c’è il sole. Avete capito bene: non il solito raggio di sole pallido dietro la nebbiolina, ma un sole arancione sullo sfondo di un cielo blu che mi fa sospirare di nostalgia per quello calabrese. Non un giorno di sole, non due, ma ben cinque.

      Ora, una settimana di sole a voi parrà niente, ma da queste parti è un evento raro e inspiegabile come, non so, non strappare i collant in giornata, non finire una bottiglia di Chablis, non guardare Anna Karenina perché il Crotone gioca contro il Trapani (Lupster, dico a te).

      Quindi, col senso di colpa tipico di chi vive su al Nord e sa che l’ebbrezza da luce solare non durerà, taglio corto e scappo al parco in maniche corte (ci sono 13 gradi, ma equivalgono a 23 in terra italica).

      La redazione augura a tutti un ottimo fine settimana assolato di camminate a piedi nudi nel parco.

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      1) Qualche notte fa ho fatto un sogno stranissimo (che s’inserisce nella mia lista di sogni deliranti). Ho sognato che Humbert Humbert mi declamava la poesia che compone per Lolita quando lei scappa con Clare Quilty (che è davvero bellissima, tra l’altro: se non la conoscete, correte ai ripari).

      Mi sono svegliata piena di parole, my Dolly, my folly. Quindi vi propongo un bellissimo articolo sulla biografia di Nabokov e sulla sua vita pre-ninfette, che poi è anche un’interessante riflessione sul concetto di autobiografia: non basta essere un ottimo scrittore, bisogna anche aver vissuto una vita straordinaria, fuori dal normale, piena di eventi interessanti.

      E un’altra lista (lo so, lo so, si era detto niente più liste. Ma è Nabokov, quindi facciamo un’eccezione) dei libri più belli del XX secolo (e di quelli più sopravvalutati).

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      2) Cosa rende un libro più o meno facile da leggere, e perché i libri che non ci piacciono ci risultano più difficili da leggere, benché siano apparentemente più “leggeri”?

      3) Il sei marzo Gabo e il suo realismo magico avrebbero compiuto 88 anni. Brain Pickings lo celebra ricordando i suoi difficili (e tardivi) inizi di scrittore, che sfatano il mito secondo il quale scrittori si nascerebbe, non si diventerebbe. Marquez voleva fare il musicista, invece ha creato l’universo di Macondo e vinto il Nobel per la letteratura. Come direbbe Svevo, la vita non è né bella né brutta, ma originale.

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      4) Janeite, vi siete mai chiesti quali biscotti Aunt Jane avrebbe scelto come accompagnamento al tè? Qui uno spunto interessante e goloso (con un intervento a sorpresa della sottoscritta, eheh).

      E, dato che siamo in tema, beccatevi quattordici consigli della Austen per dirimere i casini della vostra vita sentimentale e renderla Darcy-approved.

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      Photo courtesy Il Cavoletto di Bruxelles

      Posted in Anglophilia, Letteratura americana, Letteratura e dintorni | 2 Comments | Tagged aunt jane, Brain Pickings, Cent'anni di solitudine, Gabo, Gabriel García Márquez, Jane Austen, Janeite, Lolita, Macondo, Mr Darcy, Vladimir Nabokov
    • Sognando Macondo

      Posted at 11:50 pm05 by ophelinhap, on May 6, 2014
      Apártense vacas, que la vida es corta
      Scostatevi vacche, che la vita è breve
      Gabriel García Márquez
      Ieri notte ho fatto un sogno stranissimo, che ricominciava ogni volta che mi addormentavo.
      Ho sognato di essere a Macondo, circondata dai personaggi di Cent’anni di solitudine. Ho sognato di essere amica di Rebeca – che poi non è nemmeno uno dei personaggi che mi stanno più simpatici, vuoi per l’inspiegabile rifiuto di sposare Pietro Crespi dopo esserne stata tanto innamorata ed aver affrontato la rivalità della sorellastra Amaranta; vuoi per l’altrettanto inspiegabile omicidio del marito José Arcadio, del quale rimane l’unica, insospettabile sospettata nell’ambito di un matrimonio felice e senza nuvole.
      Mi chiedevo se Ursula avesse poi davvero perdonato Rebeca, perché dopo il matrimonio col figlio l’aveva bandita dalla famiglia (lei non era sua figlia, era un’orfanella, figlia di lontani cugini di cui nessuno si ricordava più; ma Ursula aveva vissuto lo stesso questo matrimonio come un tradimento quasi incestuoso). Volevo andare a parlare con Ursula, andarle a chiedere se davvero, nella sua lungimiranza di centenaria impegnata a non far capire a nessuno di essere diventata cieca, avesse poi capito che il cuore inaridito di Amaranta soffocava una tenerezza senza fine, che il grande Aureliano Buendia non aveva mai amato nessuno (nemmeno sua madre, nemmeno le sue sorelle, nemmeno la bellissima moglie-bambina, Remedios, nemmeno tutti i 17 Aureliano nati durante i lunghi anni di quella guerra combattuta per orgoglio e superbia, brutalmente uccisi nel corso di una settimana – tutti meno uno), e che invece la tanto disprezzata Rebeca, la bambina che non voleva parlare, la ragazza che mangiava rabbiosamente terra e calce, era in realtà la figlia che avrebbe sempre voluto avere. Rebeca, l’unica che non aveva bevuto il suo latte; Rebeca che era arrivata a casa di Ursula con un fagottino contenente le ossa dei genitori sconosciuti, Rebeca dal cuore impaziente e dal ventre ribelle, era l’unica ad aver posseduto quel coraggio sfrenato che Ursula aveva desiderato per i discendenti della sua stirpe.
      Ma poi mi ricordavo che negli ultimi anni di vita Ursula si era trasformata in una donna-neonata, in un feto mummificato, in una prugna secca persa dentro il vestito troppo largo, alimentata a cucchiaiate di acqua e zucchero, impegnata nella sua lotta contro le tenebre, e pensavo che era troppo tardi ormai per chiederle qualsiasi cosa.
      Incontravo poi Arcadio, il figlio illegittimo di José Arcadio e Pilar Ternera, l’insegnante assetato di potere che, quando il colonnello Buendia era partito da Macondo, ne aveva assunto il controllo, costituendo un esercito con i suoi allievi. Mi diceva che non era giusto che fosse stato fucilato dai Conservatori dopo la caduta dei Liberali mentre Aureliano Buendia, che davanti al plotone d’esecuzione aveva pensato al giorno in cui suo padre l’aveva portato a vedere il ghiaccio, non era poi mai stato giustiziato.
       
      Mi sono svegliata convinta di essere a Macondo – e delusa di non trovarmici – chiedendomi perché Rebeca e Jose’ Arcadio non avessero mai avuto figli, e perché Rebeca si fosse sepolta viva in casa dopo la morte del marito, morendo poi di solitudine in mezzo alle ragnatele e ai calcinacci.
       

      Forse questo è il realismo magico del grande Gabo (Gabriel Garcia Marquez), venuto a mancare pochissimo tempo fa (il 17 aprile scorso): in Cent’anni di solitudine inventa un microcosmo – Macondo – e attraverso sette generazioni di Buendia racconta la Storia, mescolando mito e realtà, quotidiano e straordinario, creando personaggi indimenticabili che continuano a vivere nel lettore, col lettore, nella fantasia del lettore..e a volta anche nei suoi sogni: Remedios la Bella, così bella che la sua vicinanza uccide gli uomini che le si avvicinano, che ascende al cielo in un vortice di lenzuola pulite; Amaranta, che ama alla follia i suoi due spasimanti, ma si brucia la mano pur di non sposarne uno e si chiude in camera per non vedere l’altro, soccombendo alla subdola lotta del suo cuore tra amore e vigliaccheria; e lui, il colonnello Buendia, nato con gli occhi aperti, capace di prevedere il futuro, incapace di amare, instancabile orefice di pesciolini d’oro. Fino ad arrivare all’ultima coppia di Buendia – Amaranta Ursula e suo nipote, Aureliano Babilonia, che generano un figlio con la coda di maiale, come predetto da Ursula tanti anni prima. La madre muore dissanguata, il bambino muore, dimenticato in casa dal padre impazzito di dolore, che negli ultimi istanti di vita riesce finalmente a decifrare le pergamene dello zingaro Melquiades, comprendendo prima di arrivare al verso finale che non sarebbe più uscito dalla sua stanza perché era previsto nelle profezie del gitano che la città degli specchi fosse rasa al suolo dal vento e sradicata dalla memoria degli uomini, e che tutto questo si sarebbe ripetuto in eterno, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra.

       

      Soundtrack: il bellissimo album Terra e libertà dei Modena City Ramblers, contenente quattro canzoni ispirate a Cent’anni di solitudine, tra cui la stupenda ballata Remedios la bella.

      Posted in Letteratura e dintorni, Ophelinha scrive | 4 Comments | Tagged Cent'anni di solitudine, Dreams, Gabriel García Márquez, Literature and Beyond, Si legge e si racconta di libri
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