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  • Author Archives: ophelinhap

    • Il Calendario dell’Avvento letterario #16: un Natale da perfetta Janeite

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 16, 2018

      Questa casella è scritta e aperta da me medesima

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      È una verità universalmente riconosciuta che conoscere Jane Austen e le sue eroine equivale ad amarle. Oggi, la zia Jane che tutti amiamo avrebbe compiuto (e compie nel cuore di tutti noi suoi avidi lettori) 243 anni. Celebriamo quindi oggi la vita e le opera di una scrittrice che, quasi tre secoli fa, ha regalato alle sue eroine il ruolo di protagoniste delle loro vite e delle loro storie, regalando loro occhi penetranti e menti aguzze, spumose crinoline (a volte sporche di fango, a discapito delle convenzioni dell’epoca) e un’eloquenza ciceroniana.

      Come riportare in vita le atmosfere di Orgoglio e pregiudizio e passare un Natale degno dei Darcy di Pemberley? In una delle puntate precedenti del nostro Avvento letterario, vi ho raccontato come l’Inghilterra celebrava il Natale durante il periodo regency. Il Natale regency non è il Natale vittoriano, anche se ne anticipa alcune caratteristiche: se manca l’abete decorato e illuminato dalla luce delle candeline, gli aromi e i profumi sono già forieri di quella che diventerà l’essenza del Natale moderno. Nel camino, scoppietta lo Yule log, il ceppo di Natale; le case sono decorate di agrifoglio, alloro, edera e rosmarino e si apprestano ad ospitare feste e balli, accogliendo gli astanti col profumo di arance, mele e limoni.

      In questa puntata, vi offro degli spunti per ricreare a casa l’atmosfera dei romanzi di Jane Austen, magari per incontrare, come novelle Elizabeth Bennet/Bridget Jones, il vostro Mr Darcy, o anche semplicemente per re-innamorarvi della Austen, delle sue eroine e delle loro storie, delle sue parole eterne. Vi auguro di trascorrere un Natale alla Jane Austen, lontani dallo stress e dal tran tran quotidiano, lontani dagli schermi e da quei social media che impongono confronti con vite perfette  e patinate, standard pressoché impossibili da raggiungere. Vi auguro un Natale più semplice, vicino ai valori veramente importanti, vicino alle persone che amate per momenti di reale, significativa condivisione; per creare memorie, mentre il tacchino si arrostisce lentamente e noi ci sediamo finalmente in poltrona, in pigiama, con la copertina, davanti al focolare nelle case che ci hanno visto imparare a leggere, e ci dedichiamo ai nostri classici preferiti.

      Pronti a trascorrere un Natale da perfetta Janeite?

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      1. Mettete da parte i tradizionali addobbi natalizie; decorate la casa usando frutta e arbusti di agrifoglio, alloro, rosmarino ed edera, come Jane e sua sorella Cassandra e le altre ragazze dell’epoca. Anche la frutta fresca – specie arance, mele e limoni – veniva usata per decorare, sia per il suo profumo, sia come indicatore dello status sociale delle famiglie regency, in grado di permettersi frutta fuori stagione o addirittura in possesso di una serra riscaldata. Si inizia a decorare la casa il giorno della vigilia di Natale: farlo prima porta male.

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      2. Altro che il tradizionale cenone: quest’anno si porta in tavola un menù regency degno dei Darcy di Pemberley. Questo menù natalizio potrebbe comprendere la zuppa bianca di Elizabeth Bennet, l’arrosto di maiale di Miss Bates, il tacchino stufato di Mary Crawford, la coscia di montone arrosto ripiena di ostriche di Emma, il bread pudding della signora Bennet; il tutto generosamente annaffiato da vino all’arancia. Potete trovare le ricette che ho menzionato in Dinner with Mr Darcy, a cura di Pen Vogler. Indossate i vostri grembiuli più vezzosi e, perché no? Vestitevi a tema durante la cena, Etsy e la boutique online del Jane Austen Centre a Bath sono pieni di vestiti e accessori che potete regalarvi e regalare: che aspettate?

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      3. Organizzate una festa! Dato che vi siete già vestiti a tema per cena, perché non dedicarvi ai balli regency? I balli erano all’epoca una delle poche occasioni sociali, momento ideale per conoscere persone dell’altro sesso e riuscire ad interagire con loro, in coreografie che ricordano il corteggiamento. Se volete saperne di più, regalatevi A Dance With Jane Austen di Susannah Fullerton. Potreste anche mettere in scena piccoli pezzi di commedie e tragedie, o, perché no, leggere per gli astanti a voce alta pezzi di romanzi della Austen – ma quanto è bello leggere per qualcuno, quanto è dolce che qualcuno legga per noi i nostri passi preferiti? Un regalo di Natale che non costa niente e che significa tutto: amore per la lettura e la letteratura, voglia di stare insieme, condivisione, hygge.

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      4. Sostituite una tombolata a base di pandoro e prosecco con un afternoon tea. La madre della Austen, ospite di sua cugina a Stoneleigh Abbey nel Warwickshire, descrive una colazione che può darci un’idea dei cibi da servire: cioccolata calda, caffè, tè, pound cake, toast, pane e burro e torte di frutta secca. La Austen scrive invece alla sorella Cassandra di essersi rovinata lo stomaco a causa dei Bath buns, brioche ricche di burro e zucchero. Un altro tipo di brioche a la mode ai giorni di zia Jane è il Sally Lunn Bun, una sorta di incrocio tra panino dolce arricchito dalla panna.

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      6. Preparate un punch per i vostri ospiti. Il punch era una delle bevande più popolari del XVIII secolo, un incrocio tra occidente e oriente sviluppatosi a seguito degli scambi commerciali. Il nome deriva dal Persiano (Panj) e dall’Hindi (Panch) e si riferisce ai cinque elementi necessari per la sua preparazione. Potete trovare una ricetta tradizionale qui.

      7. Scrivete lettere di auguri, invece di mandare messaggi su whatsapp. Se Jane non fosse stata un’assidua corrispondente (specie con la sorella Cassandra), non avremmo mai conosciuto alcuni dettagli sulla sua vita. Da una delle lettere a Cassandra, datata 2 dicembre 1815, apprendiamo che Jane si sta godendo un dicembre incredibilmente mite, e si augura che il bel tempo duri almeno fino a Natale. Per carta da lettere e buste da sogno, vi consiglio di dare un’occhiata a elinor marianne (non da ultimo per la sua chiara ispirazione austeniana).

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      7. Organizzate una maratona di film e serie BBC tratte dalle opere austeniane, dalla camicia bagnata di Mr Darcy a Pemberley (e chi si scorda la celeberrima scena, interpretata dal Darcy per eccellenza, Colin Firth?) all’adorabile impertinenza di Elizabeth Bennet/Keira Knightley, dal matchmaking fallito dell’irresistibile Emma/Gwyneth Paltrow al compassato Edward Ferrars/Hugh Grant nella versione di Ragione e sentimento del 1995 (con un grandissimo cast: Emma Thompson, Kate Wislet, Alan Rickman).

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      8. Dulcis in fundo: leggete, rileggete e riscoprite quei sei romanzi perfetti che sono patrimonio della letteratura universale e non cessano mai di stupire. Ogni rilettura regala nuovi punti di vista e regala chiavi di lettura inedite.

      Buon Natale, Janeite!

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Bridget Jones, Cassandra Austen, edward ferrars, Elizabeth Bennet, Emma, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jane Austen, Lizzie Bennet, Mr Darcy, Natale in letteratura, Natale inglese, Natale regency, orgoglio e pregiudizio, Ragione e Sentimento
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #15: il Natale è una storia

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 15, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Valentina di Signorina Lave

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      Il libro più bello che ho letto quest’anno è arrivato per caso, come tutte le cose migliori. L’avevo comprato mesi prima e lasciato su una mensola della libreria: non leggo subito un libro che ho desiderato e che so che potrebbe piacermi, ma aspetto, lo faccio diventare parte di casa mia. Poi un giorno, all’improvviso, lo pesco dal Ripiano dei Non Letti ed è come se lo vedessi per la prima volta: è arrivato il momento, sono pronta.

      Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck (traduzione di Ada Vigliani, Sellerio) è un romanzo che parte da una riflessione sul tempo ed è capitato nella mia vita proprio quando stava per cambiare tutto: erano ultimi giorni di lavoro prima della pausa maternità e mi trovavo spesso a chiedermi come sarei stata dopo e in che modo mi sarei riscoperta diversa.

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      La vita del protagonista ha cambiato ritmo: è in pensione e, dopo la morte della moglie, la sua casa sul lago è vuota e silenziosa. Le giornate sono tutte da inventare, da come vestirsi quando non hai più un ruolo pubblico e formale, alla spesa da fare, agli scatoloni da risistemare.

      Un giovedì di fine agosto Richard si trova ad assistere alla protesta di un gruppo di profughi in una piazza di Berlino: gli passa accanto andando e tornando dai suoi giri, registra meccanicamente quanti sono e i loro cartelli, ma non li mette veramente a fuoco. Quando, a casa, rivede la protesta al telegiornale, quando la vede da fuori, piano piano inizia a cambiare tutto. La nuova vita sembra procedere nella tranquillità delle piccole incombenze di tutti i giorni, ma il pensiero di quei profughi resta lì, da qualche parte in sottofondo.

      Per capire in cosa consista il passaggio da una vita quotidiana interamente occupata e prevedibile alla vita quotidiana aperta in ogni direzione, esposta per così dire alle correnti, ossia quella che conduce un profugo, Richard deve sapere come stavano le cose all’inizio, come stavano a metà e come stanno adesso. Là dove la vita di una persona confina con l’altra vita della stessa persona, deve pur rendersi visibile il passaggio che, ad un esame attento, di per sé non è nulla.

      Decide così di andare a cercare le storie degli altri e di annotarle: lo fa perché è un filologo classico ed è abituato a leggere la realtà attraverso la lente della cultura umanistica, ma lo fa anche perché quelle facce e quelle voci che gli raccontano traversate tremende e famiglie spezzate così diventano più vere, più reali.

      La guerra distrugge tutto, dice Awad: la famiglia, gli amici, il luogo in cui sei vissuto, il lavoro, la vita di tutti i giorni. Da straniero, dice Awad, non hai più scelta. Non sai dove stai andando. Non sai più nulla. Non riesco più a vedermi, non riesco a vedere il bambino che sono stato. Di me stesso non ho più alcuna immagine.

      Richard passa le giornate ad ascoltare le vite dei profughi: le accoglie nella sua, prova a dare un aiuto che non sia solo l’ascolto.

      Non aveva ancora mai considerato le cose da quel punto di vista: ciò che lì ai suoi occhi è pace, per quegli uomini è in linea di principio sempre e ancora guerra, finché essi non avranno il diritto di considerare quel mondo il loro mondo.

      C’è un motivo per cui state leggendo di questo libro in una casella del Calendario dell’Avvento: perché ci sono pagine bellissime che ci raccontano Richard che non vuole passare il Natale da solo e allora invita a casa uno dei profughi, preparando tutto, dall’albero alla cena.

      E poi l’ateo Richard, che ha avuto una madre evangelica, si mette con il suo amico musulmano davanti a quel retaggio di paganesimo che è l’albero di Natale illuminato, sul quale sono fissate solo candele di cera autentica, questa era sempre stata la regola per Richard e sua moglie.

      Una serata normale, nel calore di una casa altrimenti vuota, per mangiare insieme e per ascoltare la storia di Rashid e dei figli che non ha più.

      È probabile che il tè alla menta sia già freddo. Richard è lì seduto ad ascoltare in assoluto silenzio e, neanche lontanamente, pensa di portarsi la tazza alla bocca. Sa che questo racconto di Rashid è una specie di regalo.

      E poi forse c’è anche un altro motivo: perché mai come in questi tempi disumani è importante leggere un romanzo così, che fa venire voglia di andare a guardare le cose con i propri occhi e di provare a dare a una mano. Perché una volta finito anche tu, come Richard, ti ritrovi un po’ diverso: questo è il segreto delle storie capaci di accendere una piccola luce.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Jenny Erpenbeck, Sellerio, Signorina Lave, Valentina Aversano, Voci del verbo andare
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #14: Charlotte Brontë e il mistero di Natale

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 14, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Serena & Selene di The Sisters’ Room – a Brontë ispired blog

       

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      Esiste una storia bronteana ambientata nel periodo di Natale che forse solo in pochi hanno letto. Si tratta della vicenda di Matilda Fitzgibbon, l’ultima eroina pensata da Charlotte e protagonista del romanzo incompiuto Emma. Matilda è un personaggio femminile che Brontë non ha avuto il tempo di portare a compimento, e che nasconde un vero e proprio mistero.

      Come altre ben più celebri protagoniste di Charlotte, Matilda è ospite di un collegio femminile. Si tratta di una ragazza piuttosto impopolare tra le alunne, viziata e celebrata dalla direttrice per via delle sue origini aristocratiche. Si conosce ben poco di lei, se non quello che raccontano la regale carrozza che l’ha portata al collegio e i suoi abiti costosi. Sarà durante le feste di Natale però che questa presunta aristocraticità inizierà a destare sospetti. Quando infatti la direttrice invierà una comunicazione alle famiglie, informandosi sui piani delle alunne per il periodo festivo, tutte risponderanno tranne una: quella di Matilda. È così che entra in gioco William Ellin, rielaborazione di un personaggio precedentemente pensato per un altro romanzo, il quale investigherà sulla storia di Matilda Fitzgibbon scoprendo che la sua famiglia in realtà non esiste. Chi è allora questa ragazza? Davanti alle domande freddamente poste dalla direttrice, la giovane si accascia al suolo turbata, suscitando la tenerezza del signor Ellin, il quale invita tutti a rispettare la sua delicata natura prima ancora di interrogarsi sulle sue origini sociali.

      Riguardo questo manoscritto, il marito di Charlotte, reverendo Arthur Bell Nicholls, raccontò all’ editore George Smith che in una fredda sera del 1854: “Mentre eravamo seduti davanti al fuoco, ascoltando il vento che infuriava attorno alla casa, la mia povera moglie disse all’improvviso ‘Se non fossi stato con me, sicuramente in questo momento starei scrivendo’. Corse al piano di sopra, portò giù l’inizio del suo Nuovo Racconto e lo lesse ad alta voce. Quando finì osservai ‘I critici ti accuseranno di essere ripetitiva, hai di nuovo parlato di una scuola’. Lei rispose ‘ Oh, lo cambierò. Ricomincio sempre due o tre volte prima di essere soddisfatta’”. Ma non fu così, e Charlotte non ebbe il tempo di modificare nuovamente la storia.

      Il mistero di Natale contenuto in questo romanzo mai terminato, si accompagna dunque al mistero di come Charlotte Brontë avrebbe potuto cambiare o riscrivere la storia. Impossibile negare che è anche qui il fascino di quest’opera incompiuta, e in un periodo come questo ve la raccomandiamo accompagnata da biscotti e thè, perché è perfetta da leggere comodi, davanti al camino, abbandonandosi alle domande e alla fantasia.

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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #13: il Natale in Russia, Ded Moroz e la storia di Babushka

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 13, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Valentina di La Biblioteca di Babele

      Ad essere sincera, più che l’atmosfera del Natale e delle feste in generale, a interessarmi maggiormente sono sempre state le leggende e le tradizioni dei diversi Paesi, motivo per cui ogni tanto mi metto a fare ricerche e scopro storie affascinanti. Questa volta mi sono dedicata a un posto freddissimo!

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      Se da noi i bambini aspettano con ansia l’arrivo di Babbo Natale, nella fredda Russia chi porta i regali? Lì esiste Nonno Gelo che con l’aiuto della nipote Sneguročka, la “fanciulla di neve” che sarebbe una personificazione dell’inverno, se ne va in giro a distribuire doni a Capodanno. È un vecchietto dalla barba lunghissima che porta un abito blu (nel periodo comunista era rosso, come il colore della bandiera dell’URSS) o bianco con pelliccia e tiene in mano uno scettro. Inizialmente Ded Moroz era il demone Morozko che congelava le persone, ma poi cambiò nome e diventò Nonno Gelo, la cui unione con la primavera, Vesna, generò Sneguročka (che da figlia, fu poi convertita in nipote di Nonno Gelo).

      Ma c’è un’altra figura tipica del periodo natalizio e festivo russo, una figura che con l’avvento del comunismo fu soppressa e sulla quale, però, esiste una storia molto carina. Parliamo di Babushka (“la nonna”), che corrisponderebbe alla nostra Befana e, come Nonno Gelo, porta i regali ai bambini.

      Babushka era una signora sempre impegnata nelle faccende domestiche, aveva una casa bellissima che non faceva altro che pulire e spolverare; lucidava sempre tutto, cucinava piatti buonissimi, ordinava e teneva molto bene anche il suo giardino. Ma dato che aveva sempre da fare, non si accorse della stella splendente che illuminò il cielo notturno, del suono delle campane, delle zampogne. Però sentì il rumore dei compaesani che bussavano alla sua porta.

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      Quando andò ad aprire, dei pastori le chiesero di potersi scaldare un po’ davanti al suo fuoco e lei, nonostante pensasse alla sua bella casa pulita e in ordine, li fece entrare interrompendo la sua tranquillità. Non appena videro tutte le cose buone che Babushka aveva preparato, i pastori rimasero estasiati e lei, che era una donna buona, offrì loro quelle leccornie. Intanto chiese loro dove andassero e, quando quelli risposero che stavano seguendo una stella che indicava il luogo in cui era nato un bambino speciale, re del Cielo e della Terra, e che poteva venire anche lei, Babushka disse che avrebbe dovuto portagli un dono ai giocattoli del suo bimbo morto piccolissimo, tutti messi dentro una grande cesta. Però rispose, non troppo convinta, che sarebbe andata l’indomani. Avrebbe dovuto pulirli, lucidarli tutti e scegliere il più bello.

      L’indomani passarono altri pastori a chiederle se fosse pronta per partire, ma non lo era ancora, non aveva trovato un giocattolo degno di quel bambino così speciale. Quando però li ebbe puliti tutti le parvero bellissimi e finalmente il terzo giorno Babushka partì; chiedeva dei pastori e le persone le indicavano la strada, ma quando arrivò a Betlemme un albergatore le disse che da lui era pieno e il bambino era in una stalla su una collina. Arrivata lì, però, non trovò nessuno, erano andati tutti via. Ma lei non si è mai persa d’animo e secondo la leggenda sta ancora cercando quel piccolo re, ogni anno va di casa in casa a chiedere se ci sia Gesù Bambino e anche se non lo trova lascia uno di quei giocattoli con cui era partita per altri bambini che, pur non essendo Gesù, sono sempre un dono del Signore.

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    • Il Calendario dell’Avvento letterario #12: il pianeta degli alberi di Natale

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 12, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Irene di Librangolo acuto

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      Anche quest’anno, come tutti gli anni, non poteva mancare il mio post “natalizio ma non troppo” su questo blog.

      Giuro, quest’anno ci ho provato – e lo dico veramente – a farmi pervadere dalla gioia del Natale, dalle luci dei mercatini e dal profumo di cannella.

      Proprio ieri sono uscita a farmi un giro per negozi, per scegliere qualche regalo da acquistare e farmi, appunto, pervadere dalla gioia.

      Ho passeggiato per le strade del centro di Barcellona, ho comprato una sciarpa in puro acrilico della quale non avevo bisogno, ho bevuto un caffè bollente accompagnato da una treccina di pasta sfoglia, ho guardato le vetrine e valutato l’ipotesi di acquistare una barretta di cioccolato avvolta in una carta colorata e piena di simpatici pupazzi di neve.

      Ho fatto tutto secondo i piani, ho seguito le azioni e le regole di chi, appunto, gioisce del Natale.

      E quindi, mi chiederete, come è andata? Eh. È andata che non vedevo l’ora di tornare a casa, che ho dribblato la gente per le strade, ho ingurgitato la treccia al cioccolato senza neanche masticarla, ho bevuto il caffè rischiando un’ustione di terzo grado alla lingua, ho scelto la sciarpa meno natalizia all’interno di tutto il negozio e poi, per tornare alla normalità, sono andata al Lidl a comprare la carta igienica, preferendola alla barretta di cioccolato con pupazzetti e fiocchi di neve.

      Dove ho sbagliato? Non lo so dove ho sbagliato, forse, in verità, semplicemente non sono ancora pronta.

      Una cosa, però, rispetto agli anni scorsi è sicuramente cambiata: ho iniziato a considerare di leggere anche romanzi normali in questo periodo dell’anno.

      Ebbene sì, gente, forse la vecchiaia mi fa essere meno scontroso Grinch e più nostalgica Piccola fiammiferaia. Certo, pur sempre in quantità molto limitate, per non dire quasi completamente nulle, ma meglio di niente. Sono cosciente, diciamo, di avere margini di miglioramento ma che non tutto è perduto: la mia umanità è salva!

      Per questa casella, infatti, non ho scelto libri che parlano di morti sanguinolente, parchi natalizi dell’orrore ed efferati omicidi, nossignori. Per questa casella ho scelto di parlarvi di Gianni Rodari e del suo Il pianeta degli alberi di Natale.

       

      Ho conosciuto Rodari ad appena 6 anni, credo, grazie al suo romanzo C’era due volte il Barone Lamberto ovvero i misteri dell’isola di San Giulio. Lo leggevo a ripetizione, giuro, forse una volta ogni tre-quattro mesi, perché mi divertiva moltissimo, lo trovavo geniale e piacevole (la dolcissima signorina Delfina occuperà per sempre un posticino nel mio cuore).

      Per anni – e vi assicuro che non ero più una bambina ma una grande, grossa adolescente con svariati problemi ormonali e di seboregolazione –, ho cercato di diffonderne il verbo, regalandone copie a destra e a manca e costringendo mia cugina ad ascoltarmi mentre lo leggevo ad alta voce, sputacchiando parole a caso a causa dell’evidente difetto di pronuncia dovuto all’apparecchio per i denti.

      Purtroppo la mia passione è rimasta solo mia: il Barone Lamberto nessuno delle mie conoscenze se lo è cagato di striscio e io ho imparato a capire quando è bene lottare per qualcosa e quando, invece, il rischio concreto di identificarsi con il Don Quijote è dietro l’angolo.

      Così, visto che con lo sfigato Lamberto non ho ottenuto nulla di buono e visto soprattutto che un po’ di quell’animo giovane e combattivo mi è rimasto, quest’anno ho deciso di riprovare a diffondere il verbo di Rodari e ho scelto Marco invece che il Barone, sperando di trovare qualcuno, questa volta, che mi stia a sentire.

      Vi risparmierò la lettura ad alta voce, soprattutto perché negli anni ho appreso che sono brava solo a leggere gli oroscopi con lo stesso tono di voce e lo stesso irrefrenabile entusiasmo dell’ora esatta e vi risparmierò anche il regalo di una copia sgualcita trovata al mercatino dell’usato (cosa che ho fatto, credetemi, per diversi anni con il povero Lamberto).

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      Marco è un bambino romano – di Testaccio, per essere precisi – che per il giorno del suo compleanno riceve in regalo dal nonno un cavallo a dondolo, di quelli di legno, un po’ vintage, che nessuno, ormai, regala più. Triste e un po’ deluso da questo regalo insolito e anche un po’ sgradito, poco prima di mettersi a letto, decide di maledirlo un po’ e poi di montarci su.

      D’un tratto, senza che se ne renda neanche conto, Marco viene catapultato nello spazio e poi su una navicella spaziale e si trova così lontano, ma così lontano, che la Terra non è che un anonimo puntino.

      Senza che vi sveli troppo i dettagli del perché e del per come – che sì che tanto siamo tra amici e ce piace cazzarà, ma lo spoiler va accuratamente negato –, Marco raggiunge il pianeta degli alberi di Natale, dove l’aria è sempre dolce, non piove mai e se piove piovono coriandoli, le vetrine non hanno i vetri, esistono i marciapiedi mobili e, cosa più importante, ogni giorno è giorno di Natale.  Le strade sono sempre addobbate e sui davanzali delle finestre, in piccoli vasi colorati, si trovano degli alberi di Natale che nascono già decorati, con palline, nastrini, stelle comete e tutto l’armamentario.

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      Su questo pianeta, più piccolo della Terra, l’anno solare dura solo 6 mesi, ogni mese dura 15 giorni e ogni settimana dura solamente 3 giorni: un sabato e due domeniche.

      Il clima non è mai troppo caldo o troppo freddo, non esistono i soldi o le monete e gli abitanti del posto, oltre ad andare in giro sempre in pigiama – che è e rimarrà per sempre un mio sogno nel cassetto – si cibano di tristecche e zuppe di mattoni traforati ripieni.

      In un posto così, nonostante la mia avversione per il clima natalizio, ci vivrei persino io, per poter chiamare il 17 e farmi raccontare delle fiabe al telefono, quando non riesco a dormire.

      Certo, l’alimentazione a base di mattoni non è esattamente invidiabile, ma è un compromesso al quale posso scendere. Nel Pianeta degli alberi di Natale non manca nulla, sono tutti felici, l’aria profuma di mughetto, è possibile farsi intestare le strade e basta semplicemente chiedere per avere qualcosa, senza che sia necessario acquistarla, dopo aver magari fatto un giro sul cavallo a dondolo mezzo pubblico della città.

      L’unica preoccupazione degli abitanti di questo pianeta è la Terra, da loro chiamata Serena, con i suoi abitanti. Quando i sereniani scopriranno l’esistenza di questo pianeta, come si comporteranno con i suoi abitanti? Saranno ostili e cercheranno di sopraffarli? Avranno paura del diverso oppure cercheranno una soluzione per coesistere e, perché no, coabitare garantendo la pace cosmica?

      Lo scopo della visita di Marco e di tantissimi bambini come lui è proprio quello di scongiurare un possibile atteggiamento di chiusura.

      Un libro, questo, dedicato “ai bambini di oggi, astronauti di domani”, portavoce del cambiamento e del progresso tecnologico.

      È questa, in fondo, la preoccupazione di Rodari e anche un po’ la mia: gli esseri umani smetteranno mai di avere paura del diverso? Forse sì, ma solo se si lavora su di loro prima che diventino astronauti del domani.

      Il Natale, con tutto il suo carico di buoni sentimenti e altruismo, mi sembra proprio un ottimo momento per riflettere e far riflettere su questo argomento. Magari i diversi di oggi non vivono la loro giornata in pigiama e non mangiano tristecche, non usano i trinocoli per guardare in mare e non si spostano con i cavalli a dondolo, ma forse importa?

      A me piacerebbe averceli amici gli abitanti di questo pianeta, sia mai che dovessero esportare il brevetto dei marciapiedi mobili, soprattutto nei tratti in salita!

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 3 Comments | Tagged #AvventoLetterario, Einaudi editore, Gianni Rodari, Il Calendario dell'Avvento Letterario, il pianeta degli alberi di Natale, Irene Daino, LibrAngoloAcuto
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #11: la poesia di Natale, da grande

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 11, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Laura di Il tè tostato

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      In questi giorni i bambini a scuola preparano le letterine per i genitori, così almeno succedeva a me, la mattina di Natale la mettevo al centro della tavola della colazione, tra la candela e il panettone artigianale e le tazze bianche e le pigne imbiancate di neve spray decorate quando ero all’asilo e riproposte a ogni 25 dicembre. Anche quest’anno, se tutto va bene. Insieme alla lettera si preparava la poesia, recitata in piedi vicino all’albero acceso, o nascosta tra le labbra quando mi si chiedeva di ripeterla davanti a tutta la famiglia. La poesia del Natale è qualcosa che vola nell’aria dal 1 dicembre ed è in ogni decorazione sistemata con cura, in ogni lucina accesa fin dalla mattina, in ogni sorriso allegro, negli auguri tra estranei, nella malinconia dell’anno che se ne va, nel bisogno di quiete che l’inverno regala, nella tristezza dei periodi di gioia, in ogni pensiero intimo e spesso nel torpore della calma.

      Crescendo le poesie sono diventate altre dalle Tre castagne senza magagne offerte in dono a Gesù: quando ero al liceo sono arrivata a conoscere quella che non avrei mai lasciato. Giuseppe Ungaretti il 26 dicembre del 1916, a Napoli, scrive un componimento e lo intitola proprio così, Natale, dentro non c’è luce, non c’è augurio, non c’è nulla di argentino, c’è però un abbraccio assoluto rivolto a se stesso e nel quale mi immergo anche io. Tornava a casa della Prima Guerra Mondiale, era in licenza, era stanco, era lontano dalla festa nello spirito e nella vita, aveva negli occhi le bocche digrignate dei suoi compagni, le pietraie del Carso, il dolore totale, e del Natale sceglie la quiete, non la festa, non i gomitoli di strade ma il focolare. In poche parole Ungaretti invoca solitudine e tepore, gravato dall’insopportabile orrore della guerra che è trasformata in stanchezza annientante, e desidera essere dimenticato come un oggetto, stare solo protetto dalle mura di una casa, e finché non è ora di tornare in trincea, al freddo, resta a bearsi del caldo buono per quel breve tempo che descrive così:

      Natale

      Non ho voglia

      di tuffarmi

      in un gomitolo

      di strade

       

      Ho tanta

      stanchezza

      sulle spalle

       

      Lasciatemi così

      come una

      cosa

      posata

      in un

      angolo

      e dimenticata

       

      Qui

      non si sente

      altro

      che il caldo buono

       

      Sto

      con le quattro

      capriole

      di fumo

      del focolare

       

      Bambini che non scrivono lettere e non imparano poesie, uomini al freddo con l’orrore negli occhi, pochi e incerti attimi di pace, tutto esiste ancora. La guerra c’è sempre, il Natale anche, che ci si sia del caldo buono è il mio augurio di bambina cresciuta che reciterà accanto all’albero acceso, quest’anno.

       

      Quattordici giorni a Natale.

       

       

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 1 Comment | Tagged #AvventoLetterario, Giuseppe Ungaretti, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il tè tostato, Laura Ganzetti
    • Il Calendario dell’Avvento letterario 2018 #10: decorazioni di Natale da creare con i libri

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 10, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Serena di Follow the Books – racconti di una lettrice in viaggio

      stelline

      Amo il Natale, amo i libri e amo questo mitico Calendario dell’Avvento letterario, che ormai da anni seguo e attendo con gran trepidazione, come una vera e propria tradizione natalizia.

      Mentre cercavo qualcosa di cui scrivere per la mia cartellina, rigorosamente canticchiando carole natalizie e indossando calzini con le renne ricamate sopra, mi sono detta che sarebbe stato molto carino scrivere di Natale e libri, in un modo un po’ più pratico. E cioè pensando a delle decorazioni di Natale da creare direttamente con i libri, per un Natale da vera booklover.

      decorazioni

      Iniziamo subito con un paio di dichiarazione forti: sì i libri sono preziosi, no i libri non si distruggono senza motivo. Ok. Ma parliamoci chiaro: esistono anche libri brutti. Orrende edizioni, pessime traduzioni, agghiaccianti copertine. Di alcuni libri, diciamoci la verità, non sappiamo che farcene. Regalarli? Non è proprio lo scopo principale di “fare un regalo” quello di liberarsi di qualcosa che non vogliamo noi per primi. Conservarli per poi buttarli alla prima occasione? È un peccato. Possiamo donarli in biblioteca, portarli ai mercatini, oppure… Possiamo donargli nuova vita.

      alberi

      Per esempio potremmo creare delle deliziose decorazioni di Natale con i libri! Ve lo immaginate un albero di Natale letterario? E poi segnaposti per la tavola che possono essere conservati e riutilizzati come segnalibri, decorazioni e ghirlande da appendere per rendere l’atmosfera ancora più magica.

      Alcune idee sono davvero semplici da realizzare. Per esempio: prendiamo un palloncino, della colla vinilica, ritagliamo accuratamente delle pagine dal libro che abbiamo scelto. Spennelliamo abbondante colla sulle pagine e sui ritagli, e incolliamoli al palloncino. La colla va applicata sia sotto che sopra i fogli. Ricopriamo quasi del tutto il palloncino, lasciando fuori la parte con il nodino. Lasciamo asciugare per una notte. Quando la colla si sarà indurita con uno spillo buchiamo il palloncino: quel che ci rimane è la nostra pallina di carta. Possiamo usare brillantini, nastrini colorati, fiocchetti di neve in feltro, spago grezzo… possiamo liberare la fantasia. La pallina sarà imperfetta, ma unica. Creata da noi e a partire da un oggetto che amiamo tanto: un libro.

      palline

      Allo stesso modo possiamo inventarci di tutto e di più, dipende dalla creatività che abbiamo e dal tempo a disposizione. Si possono creare con la carta addobbi per l’albero (stelline, ghirlande, fiocchi di neve); segnaposti da tavola, che possono essere poi donati agli invitati come segnalibri; decorazioni per la casa, come piccoli alberelli di carta da poggiare sui davanzali delle finestre; ghirlande letterarie per abbellire le nostre porte. Insomma, ci possiamo davvero sbizzarrire nel creare le decorazioni di Natale con i libri.

      Tra l’altro, se creiamo le nostre decorazioni con la carta evitiamo anche l’uso spropositato di plastica che si fa solitamente durante questi giorni di festa. Mi raccomando però, quando le riponiamo dobbiamo ricordarci di avene molta cura, altrimenti l’anno successivo saranno inutilizzabili: le decorazioni di carta sono davvero delicate.

      Oh, quasi dimenticavo: si potrebbe addirittura costruire un albero di Natale fatto con dei veri e propri libri. Però occhio alle lucine, eh! Che come dice la canzone “si accendono e brillano”, e vicino alla carta bisogna stare attenti e scegliere quelle giuste, altrimenti si accende qualcos’altro.

      Insomma, i libri sono un bene prezioso. Mai buttarli. Piuttosto regaliamoli, vendiamoli, riutilizziamoli. Portiamoli con noi sotto altre forme, perché sono veri e propri doni. Buon Natale letterario a tutti!

      albero di natale

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 3 Comments | Tagged #AvventoLetterario, bookblogger, Follow the Books, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Natale, Serena Di Battista
    • Il Calendario dell’avvento letterario #9: di verità perfette, crepe e comunità

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 9, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Debora di Critica letteraria

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      Quando Manuela mi ha proposto di partecipare al suo delizioso calendario dell’avvento letterario ho subito accettato con entusiasmo, felicissima di prendere parte ad un progetto che finora avevo sempre seguito da lettrice e più che lieta di avere un’ottima ragione per lanciarmi in una lunga riflessione su Natale, libri, tradizione. È quel periodo dell’anno che adoro, entro in modalità elfo con un anticipo imbarazzante e anno dopo anno mi coccolo con piccoli rituali e tradizioni che via via si arricchiscono di nuove abitudini: la maratona dei film a tema, le gite ai mercatini di Natale, la rilettura come ogni anno di A Christmas Carol di Dickens (rigorosamente sdraiata ai piedi dell’albero addobbato), le mille candele profumate che già da sole fanno atmosfera. Insomma, il più tradizionale mood natalizio ad accompagnarmi verso il 25 Dicembre. Ma se la leggerezza calviniana che mi contraddistingue non è mai venuta meno, neanche di fronte a quelle prove che certo non avrei voluto dover affrontare, non ancora, almeno, in questi ultimi anni è diventato necessario creare anche nuove tradizioni, per non perdere lo spirito del Natale e la gioia del periodo, il piacere di stare insieme alle persone che amo.

      I libri, le storie, ancora una volta sanno arrivare a noi quando più ne abbiamo bisogno, spingendoci ad osservare la realtà da un punto di vista differente, destabilizzarci, mettere in discussione le nostre certezze o scaldarci il cuore con un inaspettato messaggio di speranza. Chi mi conosce sa che ho un debole per la letteratura angloamericana e così quest’anno, sbirciando nella mia libreria per questo progetto – a rischio di non uscirne mai più, persa tra gli scaffali – e, lo ammetto, cercando tutt’altro, sono tre le storie, ognuna in qualche modo legata al Natale, che ho deciso di proporre per questo avvento letterario, un piccolissimo viaggio nella narrativa statunitense contemporanea, fra solitudini, crepe, nostalgia, senso di comunità, famiglia. E poi, come un lampo di luce abbagliante, un sentimento di speranza e possibilità, il regalo più bello di una scrittrice che amo profondamente per la grazia con cui sa guardare il mondo.

      Poche cose urlano a gran voce “Natale” come le immagini di New York innevata, le strade piene di luci, i negozi addobbati; è anche lo sguardo curioso di chi arrivato per la prima volta in città ne resta abbagliato ma ne intravede anche le crepe dietro la facciata:

      La neve avvolgeva come un drappo i cespugli, disegnando con cura tutti i rami di tutti gli alberi – una linea di bianco per ogni linea di nero. Il Madison Square Garden, enorme e fresco di inaugurazione, mi sembrava etereo e fiabesco, e la Diana di Saint Gaudens, di cui mi aveva parlato Mrs Henshawe, si stagliava libera e spavalda nell’aria grigia. Indugiai a lungo accanto alla fontana intermittente. Il suo spruzzo regolare dava voce alla piazza. Si alzava e ricadeva con un profondo, allegro sospiro, e aveva un suono musicale, che pareva uscire dalla gola della primavera. […] Mi sembrava che lì, l’inverno non portasse desolazione; era domato, come un orso polare tenuto al guinzaglio da una bella signora.

      Ogni immagine, ogni parola, nel breve romanzo “Il mio nemico mortale”, di Willa Cather, è perfettamente calibrata e lì, appena dietro l’apparenza, oltre lo scintillio delle luci di New York immersa nell’atmosfera natalizia, si avverte il peso di un matrimonio che non è all’altezza di quanto ci si aspettava. Myra, bellissima e brillante, che rinuncia all’agio e alla famiglia per fuggire con l’uomo che ama, e tutto quel che ne riceve in cambio è la realtà, soltanto questa. Non basta il Natale, l’euforia forzata, le luci, la città, a nascondere del tutto gli angoli bui di quel matrimonio, delusioni e meschinità quotidiane, le incomprensioni, le difficoltà. Quelle crepe lungo tutta la facciata, il senso di dramma imminente che pervade il romanzo-racconto in cui i silenzi, gli spazi bianchi, le porte socchiuse, pesano più delle parole sulla pagina.

      Sull’importanza delle parole e sulle barriere, linguistiche o fisiche, un paio di anni fa Cristina Henrìquez ha pubblicato un libro molto bello – da cui si è sviluppato anche un progetto Tumblr correlato – , “Anche noi l’America”: una storia di speranza, difficoltà e sogni; di barriere da abbattere appunto, di nostalgia bruciante per quello che abbiamo perso o dovuto lasciare indietro, di desiderio di appartenenza e luoghi, persone, da poter chiamare casa. Henrìquez prova a dare voce a quegli Unknown Americans, immigrati o cittadini di seconda generazione e la difficile strada verso l’integrazione. Per molti di loro, per gli adulti soprattutto, è come essere sospesi fra due vite, tra il ricordo di ciò che era prima, di casa, famiglia, tradizioni e luoghi conosciuti, e ciò che è adesso la quotidianità, un Paese che troppo spesso guarda con diffidenza e ragiona per stereotipi, la solitudine e la nostalgia che si fa ancora più lacerante nel periodo di Natale.

      Eppure, in quella desolata e fredda cittadina del Delaware, tra problemi famigliari ed economici che difficilmente potranno essere superati, lì, in quel condominio fatiscente, nel giorno di Natale si crea la comunità: si apre la porta di casa Toro, tutti i vicini chiamati a riunirsi, festeggiare, mettere da parte per un momento differenze e problemi e ritrovarsi come comunità. Come famiglia. Messico, Panama, Nicaragua, Paraguay, Venezuela, sono tutti lì, in quell’appartamento riscaldato dalle risate, dalle voci, dal desiderio di sentirsi vicini e ritrovare un pezzetto di casa:

      […] con tanta gente stipata nel nostro appartamento, cominciammo a sentire un po’ di più lo spirito del Natale. Tutti rabbrividivano e ridevano e bevevano e parlavano. Quando finimmo il caffè mia madre preparò una pentola di cacao bollente mischiando un po’ di panna intera e delle tavolette di cioccolato che aveva trovato in fondo a un pensile e aveva squagliato sui fornelli. Il señor Rivera domandò se aveva dei bastoncini di cannella da mettere nelle tazze per fare la cioccolata alla messicana e mia madre recuperò un vasetto di cannella in polvere da un altro pensile e l’aggiunse alla pentola.

       Infine, c’è un libro, ma forse per meglio dire una scrittrice, che più di ogni altra riesce a colmare di grazia e speranza ogni pagina, anche le più dure, con il dono di una scrittura perfetta, ma soprattutto con quello ancora più straordinario di riuscire a vedere quegli “attimi di grazia” nel caos della vita. Ogni pagina che leggo – e rileggo, ancora e ancora – di Elizabeth Strout riesce in qualche modo a riappacificarmi con la scrittura e con il mondo: avevo amato “Olive Kitteridge” e “Mi chiamo Lucy Barton”, ma è nelle pagine finali di “Tutto è possibile” – un libro arrivato, come le cose migliori, esattamente nel momento in cui più ne avevo bisogno – che ho capito davvero a cosa Strout si riferisse, a quella verità perfetta e meravigliosa.

      In quella storia che chiude il romanzo-racconto della piccola comunità di Amgash, Illinois, quel microcosmo di umanità e imperfezioni, ci sono lampi di bellezza abbaglianti. La vigilia di Natale, la recita a cui ogni anno la famiglia di Abel non manca di assistere, i piccoli significativi dettagli rivelatori che qualcosa non va come ci si aspetterebbe nella vita ordinata dei Blaine: piccole sfumature, un sorriso tirato, un tono sbrigativo, il battito del cuore un po’ troppo accelerato, il buio che improvvisamente cala nella sala a metà spettacolo e gli istanti di panico. Lì, in quella notte di Natale, il meccanismo si inceppa, ma è anche l’occasione per riflettere davvero sul tempo, su ciò che è stato, sulle parti che recitiamo. Sulle solitudini che ci portiamo dentro. E che lì, in un teatro rimasto vuoto, creano appunto quell’attimo di grazia e di umana connessione. Perché si, non smetterò mai di credere che tutto è davvero possibile.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 2 Comments | Tagged A Christmas Carol, Anche noi l'America, Charles Dickens, Cristina Henríquez, Critica letteraria, Elizabeth Strout, Il mio nemico mortale, Lucy Barton, Olive Kitteridge, Willa Cather
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #8: #vestitiperilibri – Dickens in verde e rosso

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 8, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Marina di Interno storie

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      Se si pensa al Natale nella sua versione più culturale vengono subito in mente i classici della letteratura anglosassone moderna, il cui iniziatore è proprio Charles Dickens.

      Nell’Inghilterra vittoriana prende corpo la celebrazione del Natale, grazie soprattutto al recupero antropologico ad opera di Thomas K. Hervey nel suo The Book of Christmas  (1837), dove ha indagato il passato più lontano per riportare a galla le consuetudini medievali, periodo in cui la festività ha assunto un aspetto importante. Perché dunque questa riappropriazione? Nei secoli avvenire è caduta nell’oblio, nonostante sia stata ricordata con nostalgia da Chaucer e Shakespeare. Si parla dunque di una riscoperta.

      Dickens è il vero autore moderno del Natale, scrive Adam Gopnik nell’Invenzione dell’inverno (Guanda), ha imparato la lezione di Hervey e ha catapultato questa festività nell’atmosfera magica della fiaba, corredando la sua bibliografia di un ciclo di libri destinato al 25 dicembre.

      Nel primo romanzo, Il circolo Pickwick, il «Natale è celebrato pattinando sul ghiaccio, mangiando e festeggiando nell’allegria generale».

      Da questo momento in poi diverrà una festa secolarizzata.

      Piccola parentesi frivola.

      #Vestitiperilibri è una rubrica che curo su Instagram, dedicata agli abiti e ai libri: accosta titoli per cromie e, a volte citazioni, con il guardaroba. E in questa occasione si veste delle due fiabe dickensiane, Il Grillo del Focolare e A Christmas Carol, entrambe curate e tradotte da Enrico De Luca per Caravaggio editore, comprese di note esplicative.

      I due colori per eccellenza del Natale, rosso e verde, giocano per opposizioni e piccole suggestioni letterarie.

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      A Christmas Carol rappresenta l’idea del Natale svincolato dalla religione: il dualismo tra capitalismo e carità, ricordi e cinismo, paternalismo e individualismo. Gli ingredienti per fare di Scrooge il rappresentante del materialismo ci sono tutti, ma fortunatamente ha la possibilità di redimersi.

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      Il Grillo del Focolare è una fiaba domestica, in cui equivoci, spiriti e fate hanno un ruolo non secondario. Anche qui troviamo uno Scrooge, Tackleton, ma le atmosfere e la posta in gioco sono differenti rispetto alla sua opera più nota, nonostante ciò il calore umano ha il potere sciogliere i cuori più freddi.

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 0 Comments | Tagged #AvventoLetterario, #vestitiperilibri, A Christmas Carol, Adam Gopnik, Caravaggio editore, Charles Dickens, Guanda, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Il circolo Pickwick, Il grillo del focolare, interno storie, Invenzione dell’inverno, Marina Grillo, The Book of Christmas, Thomas K. Hervey, Un Canto di Natale, un Natale inglese
    • Il Calendario dell’Avvento letterario #7: canto della neve silenziosa

      Posted at 11:50 am12 by ophelinhap, on December 7, 2018

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      Questa casella è scritta e aperta da Alessandra di Una lettrice

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      “Molti, molti anni fa un tale mi disse che negare i propri sogni equivale a vendere la propria anima. Ero giovane allora e non sapevo che quelle parole avrebbero trovato un loro particolare posto dentro di me e che sarebbero rimaste mie per sempre, però ricordo di aver battuto le palpebre e aver scosso il capo annuendo come se quegli stessi movimenti mi spingessero ancor più dentro la verità. Ero pieno di sogni. E ancora sogno.”

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      “Canto della neve silenziosa” uscito nel 1986, è stato pubblicato in Italia nel 1989 da Feltrinelli e negli anni Novanta ottenne un ulteriore successo per la lettura che ne fece Alessandro Baricco. Per alcuni anni il libro è stato introvabile, grazie anche alle alterne fortune del suo autore, spesso messo al bando dalla critica. Il libro raccoglie quindici racconti scritti nel corso di vent’anni, tutti ambientati a New York, l’odiata-amata città natale nella quale Selby aveva ambientato il romanzo “Ultima fermata a Brooklyn“, considerato uno dei grandi romanzi americani.

      Protagonista dei racconti è Harry, un eroe dai mille volti del quale l’autore conserva solo il nome in racconti diversi per tono e taglio. Quindici racconti, forse non tutti ugualmente riusciti, nel complesso formano un insieme convincente: Selby racconta infatti la varia umanità metropolitana, quella degradata e borderline, e lo fa con una prosa folgorante che amalgama parlato e flusso di coscienza.

      In particolare mi ha colpito, per il suo lirismo autentico, quello che dà il nome alla raccolta e, che, più di tutti incarna lo spirito del Natale. Nella solitudine e nella disperazione che attanagliano i personaggi Selby lascia filtrare un raggio di luce: è la possibilità di ristabilire, anche nel frenetico e per certi versi feroce scenario metropolitano, un rapporto positivo tra la propria interiorità, per quanto ferita, e il mondo circostante. Lo spirito del Natale è il momento in cui il canto della neve, apre uno spiraglio di speranza nel cuore, nonostante tutto.

      Nel racconto del Canto della neve silenziosa, Selby suggerisce che anche New York può nascondere attimi di poesia.

      Harry si è trasferito in una zona residenziale del Connecticut, ha comprato una casa di proprietà, è depresso e l’angoscia non lo fa dormire la notte. Ha imboccato un’altra strada, ha provato a cambiare vita; i ragazzi hanno più spazio per giocare e sua moglie è contenta della cucina nuova. Qual è il problema, allora? «Esistevano per caso dei tipi di morte di cui lui non sapeva niente?». È una giornata di marzo Harry, dopo essere tornato dall’ospedale a causa di un esaurimento nervoso, non è in grado di lavorare. Sdraiato nel suo letto, sa che la sua famiglia è al piano inferiore, impegnata a fare quelle cose che fanno le famiglie la mattina: la moglie prepara la colazione, il figlio dimentica lo zaino. Ma la sua famiglia è diversa: tutti cercano di non fare rumore per non svegliarlo. L’unica cosa che in questo periodo di convalescenza può fare è una passeggiata. Harry si incammina per le vie di New York.

      “Quando giunse al punto stabilito si fermò. Aveva percorso un miglio. Bisognava tornare indietro. Guardò le case circostanti, quelle che da lontano sembravano quasi prive di forma, fuse com’erano nell’aria luminosa; poi guardò gli alberi e il loro grigiore innevato scomparve nella luce. Si girò e fece il primo lento passo del ritorno. Ripercorse le proprie impronte, le uniche nella neve. Sembravano piccole e anche se erano le uniche non sembravano sole, abbandonate. Sorrise all’idea delle impronte sole, come se le impronte avessero una vita propria o anche potessero riflettere quella di chi le aveva lasciate. Forse… chissà. Andava dunque, e si teneva compagnia.

      Svoltò un altro angolo e davanti gli si posò un lungo tratto bianco piatto e friabile, interrotto sempre e solo dalle sue impronte che s’allontanavano e sembravano scomparire nella distanza bianco/grigio. Non sembrava possibile, eppure ora l’aria era ancora più dolce e serena. Continuò a procedere lungo le proprie impronte con l’impressione di poter camminare in eterno, la sensazione che fin quando la neve silenziosa continuava a cadere lui avrebbe potuto camminare lasciandosi dietro tutte le preoccupazioni e le ansie, tutti gli errori del passato e del futuro. Più nulla lo avrebbe preoccupato o perseguitato o riempito di tremiti di paura: la buia notte dell’anima era ormai finita. Sarebbero rimasti solo lui e la soffice neve silenziosa, e ogni fiocco avrebbe portato, nella propria vita una particolare gioia…mentre la dolce e silenziosa neve continuava a cadere dolcissima e gioiosissima…

      Sì, e amorosissima… amorosissima… Avrebbe potuto camminare in eterno. Gli sarebbe stato facile continuare a camminare mentre tutti i pensieri di morte sarebbero svaniti, assorbiti dalla neve silenziosa.

      Ben presto pur tendendo l’orecchio non sentì più neppure lo scricchiolio dei passi nella neve e la cosa non lo sorprese, quasi che il corpo gli fosse diventato tanto leggero da non lasciare neppure un’impronta. Raggiunse la sua strada ma invece di svoltarvi continuò dritto: qualcosa lo attirava in fondo a una strada nella quale non era mai stato prima, una strada completamente sconosciuta, completamente diversa da tutte le altre nei paraggi. E mentre andava continuava a sentirsi sempre più leggero, come se la scintilla nella neve silenziosa, e quella che illuminava l’aria, gli scoccasse dentro. Sapeva di avere gli occhi in fiamme, pieni di quella luce. Sapeva d’irradiare quella luce attraverso gli abiti. E si sentiva le gambe sempre più leggere e quando abbassò lo sguardo vide che non c’erano impronte. Il soffice manto di neve steso sulla strada era ancora immacolato e fin dove vedeva lui non c’erano impronte e allora tutto il suo essere si riempì d’indicibile gioia e allora la sentì, agli inizi molto debolmente e tuttavia distintamente.

      Sentì la neve cadere lenta nell’aria, ogni fiocco con un suono proprio e distinto e non ostacolato nella caduta così che i suoni di tutti quei fiocchi non mescolavano né stridevano ma si fondevano invece in un canto, quello della neve, che pochi avevano udito.

      E, pur restando dolce, quel canto diventava sempre più forte, diventava una cosa sola con la luce… e alla fine non ci furono più piedi che lasciassero impronte né corpo né occhi che brillassero ma soltanto luce e suono e gioia. Niente passato, niente futuro, niente, neppure un presente, unicamente la nuova gioia che non conteneva ricordi di angustie e lotte e sofferenze… unicamente la nuova gioia… e capì che sarebbe potuto restare lì per sempre.

      Estratto da Canto della neve silenziosa, Hubert Selby Jr., 1986, Feltrinelli

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      Il racconto termina così, con una gioia che gli alleggerisce l’anima, finalmente sollevata dal peso del vivere, dalla miseria, dall’angoscia, dalla solitudine. Selby per tutta la vita ebbe problemi di eroina e depressione, ma non si arrese mai: voglio pensare che ciò che gli diede coraggio nelle notti dell’anima furono momenti come questo, che ricordano la gioia di essere al mondo.

      L’Autore: Hubert Selby Jr. (New York 1928-2004) è stato vicino alla beat generation e ha raggiunto la notorietà internazionale nel 1964 con Ultima fermata a Brooklyn (pubblicato da Feltrinelli nel 1966) che ha suscitato le violenze reazionarie di molti censori. Autore di culto e ispiratore di molti scrittori, ha collaborato alla sceneggiatura del film Requiem for a Dream di Darren Aronofsky, tratto da una sua opera. Anche Ultima fermata a Brooklyn è diventato nel 1989 un film di Uli Edel, lo stesso regista di Christiane F. I ragazzi dello zoo di Berlino. Delle sue opere successivamente pubblicate da Feltrinelli sono usciti il romanzo La stanza (1966) e la raccolta di racconti Canto della neve silenziosa (1989). È morto nell’aprile del 2004. Di lui ha detto Alessandro Baricco: “Selby, uno che quando lo leggi non scrivi più come prima.”

       

      Posted in Il Calendario dell'Avvento Letterario | 5 Comments | Tagged #AvventoLetterario, alessandra pagani, Canto della neve silenziosa, Feltrinelli, Hubert Selby Jr, Il Calendario dell'Avvento Letterario, Natale a New York, New York, Ultima fermata a Brooklyn, una lettrice
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