Leggetelo, e tenete bene a mente che dietro ogni Plath c’è una Sylvia e dietro ogni Hemingway c’è un Ernest e dietro ogni FW c’e’ un David e dietro ogni Sexton c’è una Anne e dietro ogni Woolf una Virginia. Storie dietro la storia. *******************************************
Sto pensando al suicidio. No, non al mio – niente del genere. Di certo sto messa maluccio. So qualcosa di quell’abisso spalancato. Parlatemene alle tre del mattino quando giro per casa, inseguita dall’insonnia. Vedo Il Grande Nulla nelle luci intermittenti della televisione; sento gli ululati dei coyote dei campi dei vicini.
Posso effettivamente avvertire un senso di morte, freddo come lo specchio del bagno, mentre la mia famiglia dorme, a pochi passi da me.
Ho sofferto di terrori mattutini dall’età di ventinove anni – problema diagnosticatomi da diversi dottori. Ne soffro se bevo e se non bevo, se rinuncio al caffè o mi faccio il bagno nella caffeina, se mi sottopongo all’agopuntura o prendo medicine. Ha nomi diversi: ansia acuta, attacchi di panico, ma il punto è questo: non riesco a dormire, dannazione.
Eppure torno in me al mattino. Se posso far scivolare le gambe sul pavimento, allora: uova. Sto parlando di routine. Morte di un amico, morte della speranza, morte, punto. Nonostante tutto, quando arriva il mattino, uova.
No, la cosa a cui sto pensando ultimamente è il suicidio di altre persone. Come saranno stati quegli ultimi momenti. Quanto coraggio ci sia voluto per tirare il grilletto o buttarsi già da un ponte. E quali saranno stati gli ultimi pensieri?
Quali ultime, delicate poesie erano nella mente di Anne Sexton quando chiudeva la porta del garage? Quali erano le incredibili farneticazioni di Virginia Woolf mentre camminava nell’acqua con quella pietra?
A volte immagino come sarebbe, arrivare lì giusto in tempo. Questa è la caratteristica dei sogni, vero? Possiamo sistemare tutto. Allora immagino di remare fino a Virginia prima che la sua testa scompaia sotto l’acqua, o di passare a trovare Anne per un drink proprio mentre sta per entrare in macchina. Hey, cosa stai…? Dai, non farlo. Andiamo a guardare un film, o qualcos’altro. O, ancora meglio, uova.
Sylvia Plath, 1932 – 1962. Genio della poesia morta con la testa nel forno. E’ lei quella a cui penso di più, se devo dire la verità. Dopotutto, insieme a migliaia di fanciulle – topi di biblioteca dalla disposizione malinconia, ho venerato ogni sua parola dopo aver trovato The Bell Jar nella biblioteca della scuola quando avevo quindici anni. Ovviamente, The Bell Jar è stato solo l’inizio, e ogni serio ammiratore della Plath lo sa bene. Si passa ad Ariel (la versione senza Ted, naturalmente), poi ci si avventura ne Il colosso; il tocco finale – se si è veramente seri – è lo studio dei diari integrali.
Sylvia! invochiamo tutte. Ci sono stati interi eserciti di noi, ragazze dai gomiti nodosi che leggevano attentamente la sua prosa intricata soffrendo silenziosamente sui nostri lettini.
Siamo così simili!
Anch’io ho perso la testa per un ragazzo
No, trenta ragazzi!!!
Anch’io idolatro chi non si accorge nemmeno che esisto.
Serata indimenticabile, in cui ho sgraffignato stuzzicadenti e noccioli d’oliva dai tavoli degli dei d’ambrosia!
scrive Sylvia nel suo diario nel 1956, dopo aver bevuto nello stesso bar di Auden .
Anch’io, Sylvia! Avrei fatto esattamente la stessa cosa!
Ma ci ha tradito. O meglio, tu ci hai tradito. Perché posso parlare con te, vero Sylvia? Parlare veramente con te? Perché no, giusto? Cosa mi dirai, no?
Hai distrutto il seguito di seguito di The Bell Jar, bruciato in un attacco di rabbia. Hai distrutto un altro libro perfetto, pieno di storie della tua vita a Cambridge: un libro che avrei adorato. Inoltre, ci hai privato di una vita di scrittura, della tua prosa. Sei morta, Sylvia. E hai scelto di farlo.
Oppure no? Tu, amica mia, consapevole della tua disperazione, hai assunto una tata il giorno prima perché ti desse una mano coi bambini. Una donna professionale e materna, che avrebbe iniziato la mattina seguente. Secondo alcune teorie volevi essere salvata, dato che hai chiesto ai vicini di passare a controllarvi un paio d’ore prima di fare quello che hai fatto e hai lasciato un biglietto in cui chiedevi di chiamare il tuo dottore. Cosa sarebbe successo se la tata fosse arrivata prima? Anche un’ora sola avrebbe fatto la differenza, dicono alcune fonti. Così, durante le mie “ore no”, come le chiamavi tu, immagino di presentarmi a Fitzroy Street.
Prendere a calci quella porta, spalancare la finestra. Svegliati, Sylvia. Dai, respira. Intervenire nella tua vicenda personale durante una mattina grigia, undici anni prima della mia nascita.
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Ma c’è qualcosa che non ti sto dicendo, Sylvia. Veramente sarebbero un mucchio di cose, ma non voglio esagerare con la condivisione. Ti ricordi di quei critici che rifiutavano i tuoi scritti e si prendevano gioco di te? Beh, ora ti additano come una pioniera della condivisione. Che tu l’abbia voluto o meno, sei diventata il colosso. Prima la tua storia, poi la tua voce, poi il tuo ruolo nella letteruatura. Tu sei un intero genere letterario. Il primo confessore di sesso femminile.
Anche se, a dirla tutta, quel titolo non sarebbe poi valso a granché. Non sei più da queste parti, ma ultimamente ci sono donne che esagerano nel vuotare il sacco. Tuttavia, tu sei stata la prima a farlo. Ci hai insegnato a condividere senza risultare disgustose. Spero di non essere disgustosa. Sto solo parlando, con te.
Dunque, Sylvia, tutto è iniziato quando avevo ventisei anni – la stessa età che avevi tu quando hai sposato Ted.
Mi ero appena trasferita a San Francisco. Penso spesso a quello che sarebbe successo se anche tu fossi venuta qui. Se, anziché diventare tutta università e Fullbright, fossi diventata un po’ Kerouac e ti fossi messa in viaggio. Probabilmente saresti ancora viva e non saresti famosa. Forse abiteresti nella mia strada, saresti ancora viva e ti saresti rifugiata a scrivere nella stessa cittadina del North Carolina che ho scelto per me.
Ma questo non è quello che ti è successo. Questo è quello che è successo a me.
San Francisco. Non avevo nessun motivo per andare lì, a parte il boom di Internet. Tutto il Paese sembrava andare verso ovest. Allora ho pagato un biglietto aereo con la mia carta di credito. Non sapevo ancora cosa avrei fatto, e non avevo nient’altro da offrire a parte una costosa laurea. So che la Smith ti ha fatto fare strada, ti ha fatto arrivare a New York e a Cambridge e tutto il resto. Ma ora l’università ha un peso minore. I più intelligenti non ci vanno nemmeno più. A diciannove anni sono già imprenditori miliardari e si comprano raffinate piste da bowling. Non voglio generalizzare, ma a questi fanatici della tecnologia non importerebbe molto di te, a meno che tu non arrivassi sotto forma di una app.
Ma allora era il 1999, ed eravamo a metà strada tra David Foster Wallace e l’ultimo Guerre stellari. Avevo paura, Sylvia. Ero seduta vicino al finestrino e, durante l’atterraggio, premevo la fronte contro il vetro. La città era ricoperta di una glassa rosa e blu, ma mi ricordava piuttosto il colore dell’ostia che il reverendo della mia parrocchia depositava sulla mia lingua.
Nessuno scrive come te com’è sentirsi persi in città, Sylvia. Quelle scene in The Bell Jar, quando eri sola e ammalata a Manhattan e non sapevi come vestirti o come comportarti, non hanno eguali.
Quindi ti darò solo qualche assaggio.
Lavoricchiare in una compagnia di cibo per animali. Bere tutta la notte, addormentarsi in un materasso da campo nel ripostiglio di un’amica. Sveglia alle sette, alzarsi con l’energia di una ninfa di Dioniso. Non lo sapevo, allora, ma quelle notti di sonno erano un vero miracolo.
Ho trovato un lavoro. A dire il vero, ho cambiato tre lavori nell’arco di un anno, uno più redditizio dell’altro. Era il 1999. Sapere quanto denaro girasse allora ti farebbe venire le vertigini. I posti in cui lavoravamo erano palazzi consacrati allo sperpero. Montagne di bagel al mattino, macchine per l’espresso, sale giochi, scaldapiedi ergonomici. Il posto dove sono arrivata alla fine, un’agenzia pubblicitaria, mi ha accolto nella sua “famiglia”. Non avevo esperienza nel settore della pubblicità, ma non importava. Promettevo bene, e mi pagavano 65000 dollari all’anno per scrivere di una catena di distribuzione. Ancora non so di cosa si tratti.
Sylvia, avevi solo trent’anni quando sei morta. Ma invecchiare non è poi così male. Uno dei vantaggi, ad esempio, è sviluppare la capacità di dare un senso al passato. Ora che ho quarant’anni mi rendo conto di quanto fosse facile perdersi inequivocabilmente, anche semplicemente per sentirsi bene e per guadagnare. Il mio lavoro era particolarmente astratto, dal momento che non eravamo nemmeno un’azienda che non creava qualcosa di assolutamente inutile: semplicemente, ne parlavamo. L’agenzia presso cui lavoravo mi chiedeva poco in termini lavorativi, ma mi succhiava l’anima. Ogni lunedì dovevamo condividere le “nostre speranze” in un “ambiente che ci avrebbe dovuto incoraggiare”. Gli abbracci erano incoraggiati. Quasi sempre c’era qualcuno che piangeva. Avevo ventisei anni e mi facevo il bagno nel Kool-Aid, Sylvia. Allora non avevo niente di meglio in cui credere.
Ho incontrato molte persone nel 1999. Non erano quei poeti, che ti affascinavano fino a intossicarti, di cui ti circondavi a vent’anni. Erano semplicemente uomini e donne, trapiantati dalla East Coast. Ho voglia di una birra o di un cocktail?, ponderavano.
Consideravamo San Francisco una sorta di vacanza dalla vita reale. C’era sempre una festa, qualcosa di nuovo per incontrare le stesse persone, che fosse un evento a tema su un decennio che ci eravamo persi, o una cena multiportata a casa di qualcuno, o catalettiche spedizioni verso qualche magazzino. Forse ai tuoi tempi alcune delle feste erano chiamate eventi, ma non erano così cerebrali. Ricordo che a volte ne emergevo con un forte cinismo nei confronti di tutta quella superficialità. Tuttavia, ero giovane, ed ero sicura che qualcosa sarebbe cambiato, prima o poi.
Il cambiamento c’è stato, ma non quello che pensavo. Ho trovato un amico, Sylvia. Un vero amico. Se il tempo passa tutto al setaccio, lui è il sassolino che mi rimane di quel periodo, insieme ad alcune foto e a un paio di stivali bianchi che ancora oggi non oso indossare.
Henry era piccoletto, dall’aria giovanile, dall’aspetto quasi bizzarro. Si è presentato un giorno in agenzia, con altri impiegati acquisiti da una compagnia comprata dal mio capo. Arrivava appena a un metro e cinquanta. Piccolo, ma muscoloso. Capelli gellati alla Superman. Una volta l’ho sentito descriversi come un supereroe avvolto nella pellicola per alimenti. Stava lì a gironzolare intorno alla nostra “capsula” – gergo aziendale per scrivania condivisa – e mi ha guardato.
“Ciao” mi ha detto “sarò quello che si spacca la schiena seduto vicino a te”.
Non sembra divertente, eppure lo era. Esilarante.
Ne ho prese di batoste da allora. Ho trasportato vassoi di gnocchi fumanti da quattordici chili su per imponenti scalinate newyorkesi, mentre uomini in frac mi toccavano il sedere; ho pulito il vomito dei clienti dai bagni. Mi sono spaccata la schiena per davvero; ma questo non succedeva lì dove lavoravamo. Passavamo la giornata a occuparci dei gadget che ci davano finche’ qualcuno non ci chiedeva pigramente di scrivere per dieci minuti di cooperazione simbiotica e poi ci lasciava di nuovo in pace.
Ma Henry. Henry rendeva tutto diverso. Fino al suo arrivo, aspettavo semplicemente che le giornate passassero. Con lui avevo capito che il tempo è un dono. Quando non aveva niente da fare, lui non stava semplicemente a fissare la sua pagina Yahoo inebetito. Tirava fuori un librone, solitamente sul Giappone, o si dedicava alla musica. Si era rivelato una celebrità minore nel campo della musica elettronica sperimentale. Una volta ha composto una canzone fatta interamente di starnuti. Presto ho capito che era l’unico a fare qualcosa di sostanziale, lì dentro.
Ci sono volute un paio di settimane perché diventassimo amici. Ero abbastanza egocentrica, Sylvia. Avevo un ragazzo, e c’erano settimane bianche e cene da organizzare. Tuttavia, piano piano, ho iniziato ad apprezzare la natura quasi religiosamente seria dell’uomo alla mia destra.
È stata un’amicizia frivola, divampante.
Metti via quel libro! gli intimavo. Ho qualcosa da dirti. Lo buttava da qualche parte e ci chiudevamo in qualche sala conferenze a parlare di Murakami, o Zadie Smith, o degli episodi di Temptation Island, o, meglio ancora, dei nostri capi. Il nostro immediato supervisore aveva ventidue anni, un laureato di Princeton nordico e statuario come un modello che metteva tutti in riga e calcolava codici mentalmente. Il sogno di Hitler, diceva Henry.
Poi c’erano i proprietari della compagnia, hipster trentenni con due bambini ai quali piaceva andare sull’altalena e vantarsene; ci incoraggiavano a frequentare corsi di life coaching e indossavano gilet di finta pelliccia e rumorosi pantaloni di plastica.
C’era anche una “curatrice della cultura aziendale”, una donna adorabile, inspiegabilmente single, ossuta come una colomba denutrita, il cui unico lavoro era documentare quanto fossimo straordinari. C’era la mascotte, che a dire il vero ci piaceva, un Chihuahua salvato dal Messico che pensava di essere un Rottweiller. C’erano così tante cose da prendere in giro, Sylvia. Io e Henry stavamo sempre nel bagno unisex, piegati in due dalle risate.
Non importava a nessuno. “Amiamo la vostra energia!”, ci gridavano i due hipster dai loro pouf. Okay! E scappavamo di nuovo in bagno a prenderli ancora in giro.
Quando finisce quella capacità di trovare il ridicolo nei segretucci meno importanti? Mi sa che lo sto chiedendo alla persona sbagliata. Non eri una ragazza frivola. Il 10 gennaio 1953, a ventun anni, l’età più spensierata, scrivevi a proposito di una tua bellissima foto:
Guarda quell’orrida maschera morta e non dimenticartela. È una maschera di gesso che nasconde un veleno mortale ormai secco, come un angelo della morte.
Non eri spensierata, Sylvia. No.
Ma la spensieratezza non dura per sempre, S. Un giorno ti svegli e..qualcos’altro ha preso il suo posto. Chi deve portare i bambini a scuola, tassi d’interesse: non lo so. Ma io e Henry ce l’avevamo ancora, quel qualcosa. Ci lanciavamo palline di carta durante le riunioni, giocavamo all’impiccato mentre ascoltavamo il cliente parlare in quello stupido, futuristico vivavoce.
Oh, il telefono! C’era ancora un sacco di eccitazione al riguardo nel 1999. Il telefono fisso. Il mio ragazzo mi chiamava e diceva inevitabilmente la cosa sbagliata. Non era colpa sua. Il problema era che io volevo un Ted, lo sai? Come il Ted del tuo diario:
..battevamo entrambi i piedi per terra, e di colpo mi ha baciato con forza sulla bocca e mi ha sfilato la mia fascia, la mia insostituibile, adorabile fascia rossa segnata dal sole e da tanto amore e i miei orecchini d’argento preferiti: ah, li terrò, ha abbaiato. E quando mi ha baciato il collo l’ho morso forte sulla guancia, a lungo, e quando siamo usciti dalla stanza un rivolo di sangue scorreva lungo la sua guancia.
Questo era quello che volevo. Sangue. Pestare i piedi. Questo mio ragazzo mi chiamava e mi diceva cose del tipo: “Diamine, sei così emotiva! Non possiamo semplicemente parlare del weekend?”. Diceva esattamente la cosa sbagliata. Io scoppiamo a piangere, Henry iniziava a fare piroette. Poi c’era la mia disastrata famiglia. Mia madre mi chiamava e mi diceva che mio padre, che adoravo, aveva distrutto la macchina quando era ubriaco. Mio padre mi chiamava, così pieno di antidolorifici da dimenticarsi il mio nome. Henry incrociava gli occhi, le labbra tremolanti. Cadeva e agitava i piedi in aria. Eravamo nelle nostra sit-com privata, Sylvia, nella nuvola rosa della nostra amicizia.
Tuttavia, la spensieratezza non può durare. Non senza sfociare in un’altra zona, dall’altra parte della quale l’amico si affaccia. Una mattina Henry è arrivato di umore tetro, con la mano fasciata.
“Che è successo?” gli ho detto. “Hai picchiato la tua signora?”
Non sapevo nemmeno se Henry avesse una ragazza. Che cosa stupida da dire.
“No” mi ha detto. “Ho colpito il cofano di una macchina col pugno”.
Non riesco a ricordarmi o immaginarmi la mia risposta.
“Una macchina è entrata in una zona pedonale, e io l’ho colpita, e mi sono rotto un dito”.
Eravamo totalmente fuori dalla fase spensierata della nostra amicizia, raggiungendo punte di disagio.
“Perché?”
“Perché sono dei bastardi, quegli autisti che tagliano la strada ai pedoni. Stavo cercando di tornare a casa. Avrei dovuto colpire la sua maledetta faccia”.
Come ti ho già detto, Sylvia, io sono figlia di un alcolizzato. Questo mi ha portato a odiare i conflitti, e a cercare di fare il possibile per risolvere i problemi delle persone che amo. Così ho parlato con quelli del design. Abbiamo fatto degli sticker per Henry, belli grandi e di un giallo fosforescente, che dicevano:
Caro autista che odia i pedoni:
forse non lo sai, ma sei un bastardo di proporzioni colossali. Ti auguro che qualche verme disgustoso mangi le tue viscere e poi le vomiti. O magari esca dal tuo ano. E poi torni di nuovo e si rifugi nel tuo naso…
Eccetera, eccetera. Ne abbiamo dato un mucchio a Henry, che ha riso. Dopo un po’ la benda è venuta via, e ci siamo dimenticati dell’incidente.
Ma c’erano anche altre cose. Ogni giorno, alle cinque in punto, il mio amico raccoglieva le sue cose senza dire una parola e scappava via.
“Eccolo che va a sniffare” diceva l’altro collega con cui dividevamo la scrivania. Ero talmente accecata dall’affetto per il mio amico, Sylvia, che non ricordo nemmeno il nome del tizio che lavorava vicino a noi.
“Che bella vita, quello scansafatiche”, diceva il nostro collega.
Ma non era questo il problema. Ho scoperto che Henry arrivava alle sei ogni mattina, per assicurarsi di finire in tempo tutto il lavoro che aveva da fare. Solo per assicurarsi che alle cinque e un quarto, ogni giorno, potesse essere a casa, da sua moglie.
“Quindi arrivi in ufficio alle sei?”
“Esatto”.
“Per lavorare?”
“Si”.
“Ma tua moglie non ti può aspettare?”
“Non voglio che debba aspettarmi”.
“Tutto questo è così….”
Ho cercato di immaginarmi di chiedere al mio ragazzo di tornare a casa prima, per non farmi aspettare. Non riuscivo nemmeno a immaginarmelo.
“E cosa fa?”
Mi ha raccontato che era una spogliarellista. Lavorava in un night club. E lui correva a casa ogni giorno, prendendo a pugni le macchine che lo intralciavano, perché lei potesse essere tutta sua per tre ore, prima che andasse al lavoro e smettesse di esserlo.
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Penso un sacco all’amore, Sylvia. E’ un requisito essenziale per il mio lavoro. Ma tu sei famosa per questo: sei una delle autorità più studiate, citate, rimuginate quando si parla di amore. Sylvia Plath e Ted Hughes. Hai scritto più e più volte della sofferenza causata dall’amore, ad esempio nella poesia The Jailer (il carceriere):
I have been drugged and raped
Seven hours knocked out of my right mind
Into a black sack
Where I relax, foetus or cat
Lever of his wet dreams.
Anch’io sono stata innamorata, quando avevo ventisei anni. Ora minimizzo il tutto, soprattutto perché il tempo ne ha offuscato il ricordo. Ma era diventato così umiliante, alla fine. Non voglio entrare nil dettagli: diciamo soltanto che è finita con me su una panchina a Central Park Promenade, che lo imploravo. Era un’impetuosa giornata di Ottobre del 2002. C’erano pattini. Sono finita ad abbracciare le sue ginocchia. Non voglio parlarne.
Ma torniamo a te. E a Henry. Vedi. il punto è che tu e Henry non siete poi così diversi. Certo, con i dovuti adattamenti. Di sicuro sulla carta sei molto più simile a Kurt Cobain che a un atletico programmatore di computer da un parcheggio per roulotte in Georgia. O forse no.
Perché tu avevi Ted, e per lui ti sei fritta il cervello. Henry aveva Lucinda. Non mo mai visto nessuno fare le cose che lui faceva per lei.
Alla fine si è deciso che io e Lucinda ci incontrassimo. Ero la tua nuova migliore amica, dopotutto. Ci siamo dati appuntamento tutti e tre per un drink dopo il lavoro. Era una cosa alla buona, ma più si avvicinava la data, più Henry diventava turbato. Fissava lo schermo, ignorandomi tutto il giorno, poi spariva alle 4:59.
“Vieni?”
“Vi raggiungo tra un quarto d’ora” gli go risposto, non volendo sollevare le ire della principessa del Nord, dato che ero arrivata in ufficio solo alle dieci.
Erano in un bar a qualche isolato di distanza. Non era un bel posto. Non aveva nemmeno finestre. Riuscivo a malapena a vedere Henry, ma Lucinda – scusatemi, ma non c’è un’altra parola per descriverla – brillava. Era letteralmente iridescente; forse era per via di qualcosa che si era messa sulla pelle. I suoi capelli scuri erano tirati all’indietro, rivelando una di quelle facce che oscillano tra banalità e squisita bellezza. I suoi tratti erano perfettamente simmetrici, i suoi occhi semplici e vuoti.
L’ho adulata, come succede a ogni amica donna che incontri la moglie, sottolineando quanto spesso Henry parlasse di lei, quante cose mi avesse raccontato. Il mio amico era silenzioso. Lucinda era piacevole, esprimeva opinioni semplici: questo bar è sporco, quella camicia è carina.
“Katie vuole sapere del tuo lavoro” ha sbottato Henry alla fine, chiaramente impaziente.
“No, io…”
“Pensavo potessi scriverci qualcosa su”, ha detto Henry. “Il suo..”
“Beh, io…”
“Non avevi detto che volevi fare la scrittrice?”
Ho bevuto il mio vino tutto d’un sorso, L’avevo detto, si, ma non sapevo di cosa stessi parlando. Non avrei mai potuto scrivere della moglie spogliarellista del mio amico.
“Okay,” I said. The wife had this tiny sparkly purse that Henry looked after as if it were a pet. I remember watching him—he held the purse so tightly his knuckles burned white⎯and thinking, I will never be loved like that.
“Ti porterò al club” mi ha detto Lucinda. “Sarà divertente”.
Henry mi ha guardato, e ho capito. Voleva che sua moglie fosse qualcosa di più di una semplice spogliarellista. Voleva che diventasse una storie. Sapeva quello che io non sapevo ancora: a parte la nascita e la morte, le storie sono tutto.
(….continua)
PS: le immagini usate in questo post sono le immagini usate nell’articolo originale di Katie Crouch su Buzzfeed.
PS2: per altre foto di Sylvia Plath consultate l’apposito
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