Non conosce paura l’uomo che salta
e vince sui vetri e spezza bottiglie e ride e sorride,
perchè ferirsi non è impossibile,
morire meno che mai e poi mai.
Insieme visitata è la notte che dicono ha due anime
e un letto e un tetto di capanna utile e dolce
come ombrello teso tra la terra e il cielo.
Lui ti offre la sua ultima carta,
il suo ultimo prezioso tentativo di stupire,
quando dice “È quattro giorni che ti amo,
ti prego, non andare via, non lasciarmi ferito”.
E non hai capito ancora come mai,
mi hai lasciato in un minuto tutto quel che hai.
Però stai bene dove stai….però stai bene dove stai…
Quando era molto triste, o molto arrabbiata, o molto persa, o molto, molto lontana – infinitamente lontana – andava a buttare il vetro.
Niente di poetico in tutto ciò: raccoglieva bottiglie e vasetti vari e partiva alla volta del cassonetto della differenziata, solitamente di sera, solitamente in pigiama.
L’azione di suddividere i colori del vetro, di sollevare la bottiglia, di lanciarla nel cassonetto, di sentirla infrangersi aveva in sé qualcosa di rassicurante e catartico al tempo stesso. Ecco infrangersi in mille pezzi la bottiglia di Chablis della cena in cui si era bevuto qualche bicchiere di troppo, la bottiglia dello sciroppo al timo per la tosse avanzata dall’ultimo raffreddore, il vasetto di marmellata di fragole bio finita durante una puntata di House of Cards, quella sera in cui sarebbe stato meglio tacere, o forse poi sarebbe stato meglio parlarsi….
Ecco la bottiglia di latte, dopo quella notte insonne di un giugno straordinariamente freddo, dopo quella mattina in cui nemmeno un caffelatte bollente riusciva a regalare un po’ di calore. Dopo quella mattina in cui era diventato chiaro che un po’ del freddo di quel giugno straordinariamente freddo sarebbe rimasto, per sempre.
Un giugno fatto di piumoni, di collant 30 denari e di parka verde bottiglia (il vetro, ancora una volta), in cui il mare, il sole, il profumo del sale, la sabbia bianca calda tra le dita, le orecchiette delle pagine del libro bagnate da dita impazienti, tutto sembrava lontanissimo, quasi irraggiungibile, freddo fuori freddo dentro e pezzi di vetro dove fa più male, pezzi di vetro opachi, fondi di bottiglia, biglie scheggiate e bicchieri rotti.
Era il giugno della disillusione, era il giugno di quell’estate lungamente attesa che non voleva arrivare, era il giugno della rabbia e del perdono, del rancore e dell’oblio, delle bugie e delle mezze verità.
Era il giugno delle strade mai prese e dei giardini dai sentieri che si biforcano, il giugno delle insonnie e delle rinunce, il giugno degli errori e dei rumori, il giugno dei gelati troppo freddi e delle tazze di te’ caldo.
Era il giugno delle lettere di motivazione e delle lettere di rifiuto, dei raffreddori e delle felpe, delle mani gelate e delle ambizioni spezzate.
Erano i giorni sbagliati di un mese sbagliato di una stagione sbagliata, il giugno dei raffreddori e dei crepacuori, il giugno degli incubi e degli errori. Il giugno dei rimorsi e dei timori. Giugno come sigillo ai primi sei mesi dell’anno, un semestre da archiviare, in attesa di un’estate più dolce, un frutto più maturo, da mordere coi denti, assaporare, il succo che scivola dagli angoli della bocca lungo il collo.
Giugno come un cassetto chiuso a chiave, una lezione dura da imparare, un boccone amaro da mandare giù. Giugno come un messaggio in bottiglia mai mandato.
Questo giugno autunnale si chiude oggi, con una folata di vento fresco a far cadere le foglie, con un ultimo acquazzone a smorzare gli ardori più resistenti. Si chiude insieme con una promessa e un avvertimento: una promessa, l’estate che sicuramente arriverà, con i colori prepotenti, impertinenti del cielo blu e della terra rossa – la mia terra; un avvertimento, a scapito di aspettative troppo alte, campanelli d’allarme messi a tacere, quel termometro del cuore al quale non si presta attenzione. Proprio mai. Cose che si dimenticano.
«A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti?».
Italo Calvino, “Prima che tu dica pronto”
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Manuela, Lit-nerd, topo di biblioteca, bevitrice di Chablis. Il mio sogno è prendere un tè a casa di Jane Austen con Ofelia, Anna Karenina e Sylvia Plath e fare la groupie di Leonard Cohen. Credo fermamente negli eteronimi e in quella che Tabucchi definisce la “confederazione di anime”: per questo scrivo come Ophelinha Pequena, regina senza corona e senza regno degli amori impossibili e mai realizzati, eteronimo romantico e démodé che è stato definito, prendendo in prestito le parole di Churchill, “a riddle, wrapped in a mystery, inside an enigma” (un rebus, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma). Ophelinha è una crasi tra l'Ophelia shakesperiana, sfortunata, ineffabile ninfa lacustre, e Ofélia Queiroz, eterna fidanzata e mai moglie di Fernando Pessoa.
Il titolo del blog è il verso di una bellissima canzone di Brian Eno, By this river.
Scrivo di letteratura, di poesia, di libri e di altre cose che mi passano per la testa, non necessariamente in quest'ordine. A volte scrivo poesie e racconti che sono farina del mio sacco (ma solo nei giorni pari), come lo sono le traduzioni, se non altrimenti indicato. Insonne cronica, sognatrice di professione, precaria per necessità, sono alla costante ricerca del mio Heimat, il mio posticino del mondo. Ho pubblicato con Errant Editions La ragazza del bar di Cuba e Femminili, singolari, due raccolte di racconti.
Potete contattarmi scrivendomi un'email a ophelinha.pequenaATgmail.com, oppure inviandomi un piccione viaggiatore. Quello che preferite, insomma. Ma, prima di farlo, sappiate che per me la vita e l'amore sono un grande romanzo russo. A vostro rischio e pericolo, insomma.
Per gli anglofili, scribacchio in Inglese su https://ophelinhap.wordpress.com/
4 thoughts on “Pezzi di vetro”
Sostiene Pereira
molto bella la metafora del vetro e molto triste il resto.
In fondo di giugni ce ne saranno altri, migliori, peggiori o come questi. E forse si imparerà che le aspettative sono troppo alte solo se si fermano una spanna sotto i sogni. E i campanelli son tanti, quelli di allarme e quelli di festa. Ad ascoltarli tutti insieme si finisce per rompersi i timpani!, ma se si ascoltano uno per volta, si può comprenderne la melodia che sia di requiem per soli, coro e orchestra, o una sinfonia. E, in fondo, c'è uno sfuggente, alchemico e misterioso legame fra i colori, le note e la temperatura, anche quella del cuore. Un legame che si può cogliere solo singolarmente, ma la cosa più difficile non è ascoltare i campanelli, ma sapersi ascoltare.
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Ophelinha
gia', sapersi ascoltare…il famoso γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso, di socratica memoria…
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Valentina_Travel upside down
Siamo a luglio, quindi il vetro lo hai buttato, ora non ti rimane che prendere quei cocci e farli brillare al sole! Io al mare adoro quei vecchi pezzi di bottiglia levigati da anni dentro l'acqua di mare, che approdano sulla spiaggia e scintillano sotto la luce calda dell'estate 🙂 ecco, devi fare così! Io li suo per abbellire i miei scrigni di legno, e li trovo meravigliosi, cos' vissuti, così carichi di vita propria ad ondeggiare in mare o a rotolare sotto la sabbia. Sono belli! Anche se sono nati come cocci :*
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Ophelinha
che bellissima immagine Vale*
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